Le letterature di lingua inglese
Perché la letteratura
L’avvento del nuovo secolo non ha prodotto un radicale cambiamento di paradigma nelle letterature di lingua inglese, ma piuttosto una sorta di consolidamento delle tendenze più importanti emerse nel corso degli ultimi decenni, a partire dalla definitiva affermazione delle letterature cosiddette postcoloniali e dalla loro nomade disseminazione ovunque nel mondo, grazie alla mobilità spaziale e culturale di autori e autrici che quanto più proiettano sul proscenio del mercato letterario ‘occidentale’ gli universi delle proprie origini tanto più rifiutano di ancorarsi ai luoghi che li hanno generati, preferendo un erratico transnazionalismo. La reciproca contaminazione tra ‘centro’ e ‘periferia’ nella società globale e globalizzata, che sembrerebbe elidere progressivamente frontiere e distanze tra culture dominanti e culture che si presume siano subalterne (e minoritarie anche quando rappresentano vaste maggioranze in termini numerici), non ha ancora cancellato, però, una fondamentale differenza di atteggiamento nei confronti della funzione stessa della letteratura.
Parlando per capi davvero sommi e quindi semplificatori, agli esponenti della letteratura britannica o statunitense la questione si pone nei termini essenzialmente individualistici del posto che chi scrive spera di ottenere nella società (o teme di non riuscire a conquistare), e del significato che la sua professione dovrebbe avere, senza che questo conduca di necessità a mettere in discussione l’assetto e la logica della società stessa. Di qui l’insistenza su temi che potremmo definire intimistici, scavati nel ristretto ambito delle relazioni interpersonali più prossime, spesso all’interno della famiglia, in cui i vari personaggi si muovono con inquietudine alla ricerca di una propria dimensione esistenziale. Ne è testimonianza una serie di romanzi di alcuni degli autori inglesi che negli ultimi decenni avevano preferito soluzioni assai più ardite e controverse, e che adesso scelgono dimensioni più modestamente (ma anche intensamente) sentimentali e nostalgiche, come On Chesil Beach (2007; trad. it. Chesil Beach, 2007) di Ian McEwan (n. 1948), Tomorrow (2007) di Graham Swift (n. 1949), The rain before it falls (2007; trad. it. La pioggia prima che cada, 2007) di Jonathan Coe (n. 1961). Anche il tema della malattia, che negli anni di massima diffusione dell’AIDS si apriva a più ampie indagini socioculturali e interrogazioni sullo statuto della sessualità, si avvita in una direzione in qualche modo egocentrica, come nel caso dell’ossessivo Pilcrow (2008; trad. it. 2009) di Adam Mars-Jones (n. 1954).
Per autori e autrici che non provengono dalle capitali della civiltà occidentale, viceversa, l’identità letteraria si costruisce ineluttabilmente a partire da un rapporto continuo e di norma critico sia con la comunità di origine sia con le – spesso numerose – altre culture che ci si trova ad attraversare e ad abitare. Ne deriva una consapevole rivendicazione della rilevanza della letteratura, della funzione sociale e culturale che la scrittura non può non avere, e che – caso esemplare – porta un’autrice quale l’indiana Arundhati Roy (n. 1961), divenuta famosa come romanziera, a scegliere la strada di una saggistica politicamente impegnata ma sempre attenta alla dimensione estetica. Del resto, alcune delle figure più rappresentative delle culture postcoloniali sono critici letterari che spesso trascendono la razionalità oggettiva dell’analisi, e depistano il lettore conducendolo in universi dove i confini tra scrittura creativa e scrittura critica diventano labili come le barriere tra le appartenenze etniche e nazionali che nei loro testi vengono divelte. Il palestinese Edward Wadie Said (1935-2003), tra i fondatori del pensiero postcoloniale, l’indiana Gayatri Chakravorty Spivak (n. 1942), che ne ha seguito le orme aggiungendo un originale mix di teoria decostruzionista e impegno femminista, e Homi K. Bhabha (n. 1949), anch’egli indiano e ancor più radicale nella scelta di modelli teorici e registri stilistici elaborati e talvolta oscuri, ma sempre affascinanti: tutti percorrono strade audaci per restituire alla pratica letteraria una rilevanza politica nel senso più nobile del termine, e per insediare la loro visione originariamente ‘marginale’ nel cuore stesso dell’impero, ovvero nelle grandi università angloamericane in cui lavorano. Ma anche studiosi che da sempre agiscono all’interno delle accademie europee e americane più autorevoli prendono derive eccentriche rispetto all’ortodossia professionale, come il fondatore del New Historicism, lo statunitense Stephen Greenblatt (n. 1943), che in Will in the world. How Shakespeare became Shakespeare (2004; trad. it. Vita, arte e passioni di William Shakespeare, capocomico. Come Shakespeare divenne Shakespeare, 2005) abbandona l’usuale e imponente armamentario teorico per costruire un’avvincente biografia assai simile a un romanzo.
Del resto, rispetto agli altri generi letterari, la fiction ha assunto un’esposizione di gran lunga maggiore (e il termine non a caso è penetrato anche oltre i confini della letteratura, fin dentro il campo del ‘grande nemico’, la televisione), come se la necessità di trovare una modalità adeguata di ‘racconto’ della realtà si traducesse naturalmente nelle forme della narrativa. Tuttavia, la poesia rivendica un’urgenza espressiva che, da un lato, richiama un’intera tradizione culturale per giustificare il proprio diritto all’esistenza e, dall’altro, si innesta con forza nelle nervose dinamiche della contemporaneità, non disdegnando contaminazioni con altre tecniche comunicative, prima di tutte quell’estetica della performance che negli ultimi anni si esalta, soprattutto nella poesia afroamericana, con la pratica dello slam, la competizione tra autori e autrici che leggono i propri componimenti davanti a un pubblico energicamente reattivo, non di rado improvvisando: si veda, a titolo esemplificativo, quanto ricade sulla pagina nell’antologia, curata da Tony Medina e Louis Reyes Rivera, Bum rush the page. A def poetry jam (2001), con un’acuta prefazione della poetessa Sonia Sanchez (n. 1934). Ma è un po’ tutta la poesia angloamericana con ascendenze africane o latine a prediligere l’avventurosità dell’impromptu influenzato dalle musiche ‘afro’ (jazz, rap, reggae; si pensi alla dub poetry dei poeti-musicisti Linton Kwesi Johnson e Benjamin Zephaniah, il primo nato in Giamaica nel 1952, il secondo nato in Inghilterra nel 1958 ma fortemente legato alle sue origini giamaicane) e la flessibile libertà del linguaggio parlato, dal nuyorican (portoricano newyorkese) Pedro Pietri (1944-2004) al caribico Edward Kamau Brathwaite (n. 1930), alla giamaicana Jean ‘Binta’ Breeze (n. 1956), per arrivare anche alla raffinatissima afroamericana Rita Dove (n. 1952), già poet laureate d’America. La consapevolezza del rischio dell’irrilevanza ha prodotto una sorta di ‘serrate i ranghi’ a difesa del rigore formale della propria professione tra poeti e poetesse dell’ultima generazione, anzi, della Next Generation, per usare la definizione coniata dalla Poetry Book Society nel 2004, che comprende voci come quelle delle inglesi Alice Oswald (n. 1966) e Sophie Hannah (n. 1971), del gallese Owen Sheers (n. 1974) e dell’irlandese Leontia Flynn (n. 1974). Un’attitudine meno ‘seriosa’, e peraltro corroborata – fatto piuttosto raro per la poesia contemporanea – da un discreto successo di pubblico, si ritrova nell’opera, pervasa da un acuto senso dell’umorismo, delle inglesi Wendy Cope (n. 1945; Two cures for love, 2008) e Carol Ann Duffy (n. 1955; Rapture, 2005), e della scozzese Liz Lochhead (n. 1947).
Sperimentazioni d’altro genere (nel doppio senso del termine) percorrono e caratterizzano la produzione di una serie di poetesse che esplicitamente si ispirano alla lezione delle avanguardie moderniste e poi la coniugano con l’iconoclastia formale del postmoderno al fine di proporre una lingua poetica più adatta a esprimere la propria differenza, dalle inglesi Elaine Feinstein (n. 1930) e Patience Agbabi (n. 1965) all’irlandese Eavan Boland (n. 1944), dalle statunitensi Kathleen Fraser (n. 1935), Susan Howe (n. 1937), Rachel Blau DuPlessis (n. 1941), Louise Glück (n. 1943) e Kay Ryan (n. 1945) alle australiane Catherine Bateson (n. 1960) e Jordie Albiston (n. 1961).
Sul versante del recupero della tradizione, con l’ambizione di voler contenere enciclopedicamente nella parola poetica, se non proprio lo scibile umano, quantomeno il senso che se ne dovrebbe estrarre, si muovono autori non più giovani ma sempre attualissimi e soprattutto attenti a cogliere il nesso che collega l’eredità nient’affatto polverosa della grande poesia del passato con i tumulti di una contemporaneità globalizzata che si può riassumere con il titolo di una recente raccolta del grande vecchio della poesia statunitense, John Ashbery (n. 1927), cioè A worldly country (2007). Oltre agli statunitensi Mark Strand (n. 1934) e Robert Pinsky (n. 1940), si possono annoverare nella schiera di questi ‘grandi saggi’ della poesia contemporanea gli inglesi James Fenton (n. 1949), Blake Morrison (n 1950) e Andrew Motion (n. 1952), attuale poet laureate del Regno Unito, fino ad arrivare al più giovane Simon Armitage (n. 1963). La rivendicazione della necessità della poesia passa anche per la sua ‘genetica’ avversione alle forme della comunicazione massificata imposte dalle nuove tecnologie, in nome di un’adesione ai valori naturali che prende toni fortemente ecologisti nell’opera degli statunitensi William S. Merwin (n. 1927), Gary Snyder (n. 1930) e Robert Hass (n. 1941).
Sebbene sembri aver perso parte della sua rilevanza, offuscato com’è dai nuovi mezzi di comunicazione multimediale, il teatro conserva tuttavia un’indispensabile funzione di ‘sintetizzatore’, e ovviamente ‘drammatizzatore’, nello spazio ristretto del palcoscenico, delle tensioni e delle tendenze che innervano le società contemporanee. In Inghilterra, Michael Frayn (n. 1933) prende alla lettera questo compito di rendere visibili le pulsioni occultate, e si dedica, in Democracy (2003) ma anche nel romanzo Spies (2002), ad anatomizzarle in ambigue figure di spie d’oltre cortina durante la Guerra fredda, più per alludere all’attuale ossessione per il controllo e ai pericoli per la privacy che non per ricostruire un passato sepolto dalle macerie del muro di Berlino. Al contrario, il prolifico Alan Ayckbourn (n. 1939) porta sulla scena la vita quotidiana della classe sociale più ‘visibile’, e al tempo stesso meno ‘spettacolare’, ossia quella classe media suburbana il cui destino, con l’infuriare della crisi economica, ha preso una direzione effettivamente ‘drammatica’. Caryl Churchill (n. 1938) fa uso di tecniche non naturalistiche per denunciare l’asimmetria dei rapporti di potere basati sulle gerarchie sessuali, come in Drunk enough to say I love you? (2006). Ancor più politicizzata è la produzione di David Hare (n. 1947) e David Edgar (n. 1948), memore di quella tradizione degli Angry Young Men il cui massimo esponente Harold Pinter, premio Nobel per la letteratura nel 2005, si è spento settantenne nel 2008. In Irlanda, Martin McDonagh (n. 1970) esplora con piglio grottescamente iconoclasta le contraddizioni della contemporaneità, come nella commedia nera Six shooter (2004; premio Oscar nel 2006 come miglior cortometraggio live-action).
Nel teatro americano è ormai un fatto compiuto la penetrazione, anche sui palcoscenici luccicanti di Broadway, delle profonde rivoluzioni che sono avvenute e stanno avvenendo nelle relazioni etniche e di genere. Ne fanno fede il teatro femminista di Tina Howe (n. 1937) e Beth Henley (propriamente Elizabeth Becker Henley, n. 1952), la satira delle rappresentazioni che i media danno delle questioni razziali in Yellow face (2007) di David Henry Hwang (n. 1957), le acri commedie gay di Tony Kushner (n. 1956).
Ma è comunque nella narrativa che la letteratura di questo primo scorcio di secolo cerca di trovare una sua identità, e di fissarne, pur con estrema difficoltà, una definizione che vorrebbe ambire a una qualche forma di ‘canonicità’.
Canone e canoni
La canonicità delle opere letterarie in lingua inglese, forse più di quelle prodotte in una qualsiasi altra lingua, è ormai soggetta a repentine e talvolta incomprensibili variazioni, che rigettano nell’oscurità testi una volta ineliminabili dalle reading lists universitarie e ne promuovono altri che sfuggono alle usuali valutazioni in termini di ‘qualità’. In alcuni casi si assiste anche a una reazione uguale e contraria, ovvero a una sorta di ritorno a una ‘classicità’, per quanto ridefinita e riarticolata al fine di essere in una qualche sintonia con la caoticità del presente, che chiama in appello i grandi autori, moderni e non, del ‘canone occidentale’, per dirla con Harold Bloom (The western canon, 1994; trad. it. 1996). Se nella realtà socioculturale della globalizzazione non sembra esistere altro ordine (e altra verità) oltre a quello imposto dalla legge del più forte (economicamente, politicamente, militarmente), autori e autrici sono costretti a cercare dei principi di rigore e coerenza nell’unico universo che ancora tenta di rispettarli, il mondo dell’arte, e nel loro caso più specificamente della letteratura. Così, non ci si limita a ‘ispirarsi’ a questo o quel nume tutelare, ma si arriva a pagare l’omaggio assoluto del plagio, o quantomeno della riscrittura, come nel caso della Virginia Woolf venerata nel remake di Rachel Cusk (n. 1967), canadese di nascita e inglese d’adozione, che in Arlington Park (2006; trad. it. 2007) riadatta Mrs. Dalloway – innescando con questa operazione un ulteriore debito con un ‘classico’, molto più giovane, e cioè lo statunitense Michael Cunningham (n. 1952), che nel 1998 aveva trasformato Woolf in personaggio letterario nella sua versione dello stesso romanzo, The hours (trad. it. Le ore, 1999). O si pensi a un altro grande avatar del modernismo angloamericano (non sarà casuale che si scelgano soprattutto esponenti di quel periodo: nelle risposte alle dinamiche disintegratrici della modernità di primo Novecento evidentemente si riscontrano analogie con il momento attuale) quale Henry James, di cui l’inglese David Lodge (n. 1935) e l’irlandese Colm Tóibín (n. 1955) riscrivono con amore la biografia rispettivamente in Author, author (2004; trad. it. Dura, la vita dello scrittore, 2004) e in The master (2004; trad. it. Il maestro, 2004). Più che un’‘ansia dell’influenza’ (per usare la felice espressione di H. Bloom), nei confronti dei grandi del passato molti autori contemporanei sembrano nutrire un amorevole rispetto, esemplificato dal memoir dell’inglese Julian Barnes (n. 1946) Nothing to be frightened of (2008), che a essi ricorre quando deve fare i conti con la prospettiva della morte, descrivendo gli ultimi anni di vita dei genitori. Anche la narrativa commerciale trova nel canone efficacissimi spunti, che determinano la struttura stessa dell’intreccio nei literary mysteries dello statunitense Matthew Pearl (n. 1975), The Dante Club (2003; trad. it. Il circolo Dante, 2003) e The Poe shadow (2006; trad. it. L’ombra di Edgar, 2006). E ancora più indietro si torna per riattualizzare modelli mitici che evidentemente sono ancora validi per interpretare la realtà, come nel caso del progetto Myth Series lanciato dall’editore scozzese Canongate, che coinvolge autori e autrici del calibro della canadese Margaret Atwood (n. 1939; The Penelopiad, 2005) oppure dell’olandese-scozzese Michel Faber (n. 1960; The fire gospel, 2008). La vitalità dell’eredità culturale occidentale viene riconosciuta anche dal premio Nobel per la letteratura del 1992, il poeta e drammaturgo caribico Derek Walcott (n. 1930), in Tiepolo’s hound (2000; trad. it. Il levriero di Tiepolo, 2004) e The prodigal (2004), o dall’indiano Salman Rushdie (n. 1947) in quel curioso mix di favola e romanzo storico che è The enchantress of Florence (2008; trad. it. L’incantatrice di Firenze, 2009).
Una medesima ricerca d’ordine e di senso si può ritrovare in altri testi meno palesemente debitori nei confronti della ‘Grande tradizione’, ma altrettanto impegnati a seguire i fili di quella rete di relazioni tra individuo e comunità che, per es., era il nucleo fondante del romanzo ottocentesco, e che era già stata riproposta nel secondo Novecento dalle attente anatomie dell’animo umano prodotte dalla narrativa minimalista. Se può essere naturale per un autore britannico come Philip Hensher (n. 1965) adottare il modello tra il comico e il tragico delle saghe di William Makepeace Thackeray e Thomas Hardy in The northern clemency (2008), epico affresco del ventennio thatcheriano ritratto nelle storie di alcune famiglie di Sheffield, anche autori di altri continenti nutrono l’ambizione di rinverdire i fasti del grande romanzo sociale, come l’indiano Vikram Chandra (n. 1961), che in Sacred games (2006; trad. it. Giochi sacri, 2007), per altri versi debitore della narrativa hard boiled di Dashiell Hammett e Raymond Chandler, dipinge il ribollente panorama urbano di Mumbai/Bombay con un’incandescente vena dickensiana. Un significativo updating del romanzo ‘economico’ ottocentesco viene realizzato dallo scozzese Iain Banks (n. 1954), già affermato scrittore di fantascienza, in The steep approach to Garbadale (2007), in cui si raccontano le dispute finanziarie generate da un gioco da tavolo trasformato in videogioco, Empire!, che allude, con amara ironia, alle strategie irresponsabilmente imperialistiche dell’amministrazione Bush. Al modello tardosettecentesco del Bildungsroman, debitamente aggiornato, si ispira invece il romanzo semiautobiografico Black swan green (2006; trad. it. A casa di Dio, 2007) dell’inglese David Mitchell (n. 1969).
Tra i generi classici che la narrativa contemporanea recupera e rinvigorisce, il romanzo storico ha un posto di rilievo, tanto nelle letterature del ‘centro’ quanto in quelle del ‘margine’. In Gran Bretagna, ne rinverdiscono i fasti soprattutto Barry Unsworth (n. 1930), Pat Barker (n. 1943), Alan Judd (n. 1946), Peter Ackroyd (n. 1949), Louis de Bernières (n. 1954), la scozzese A.L. (Alison Louise) Kennedy (n. 1965), la gallese Sarah Waters (n. 1966). Un interesse particolare suscita il secondo Ottocento, la fase storica in cui la Gran Bretagna ha raggiunto l’apice della sua potenza e ha mostrato i limiti intrinseci della sua civiltà, e produce il sottogenere del romanzo neovittoriano, adottato per es. da Sebastian Faulks (n. 1953) in Human traces (2005). Negli Stati Uniti, la historical fiction ha tuttora il suo massimo rappresentante in E.L. (Edgar Lawrence) Doctorow (n. 1931), ma anche Thomas Pynchon (n. 1937) continua a cimentarsi nel genere con l’avviluppato intreccio linguistico-narrativo di Against the day (2006), complesso e gigantesco affresco metastoriografico sull’America tra la fine dell’Ottocento e gli anni immediatamente successivi alla Prima guerra mondiale.
Forse più che nelle altre letterature, è in quella indiana che il romanzo storico è particolarmente diffuso, anche nella sua forma più tradizionale, come nella riscrittura in sei volumi dell’epica del Ramayana intrapresa da Ashok Kumar Banker (n. 1964) e conclusa con King of Ayodhya (2006). In questo senso, anche The tree bride (2004) di Bharati Mukherjee (n. 1940) è un ‘classico’ romanzo storico, anche se d’impianto anticoloniale. Del resto, il fatto che il premio letterario Man Asian per romanzi asiatici pubblicati in inglese, filiato nel 2007 dal Man Booker, sia stato vinto da due romanzi storici, testimonia come questa forma narrativa sia tuttora considerata strumento ideale per leggere l’evoluzione della propria società: nel 2007 il premio è andato al cinese Jiang Rong (pseud. di Lu Jiamin, n. 1946) con Wolf totem (2004; ed. orig. Lang tuteng, 2004; trad. it. Il totem del lupo, 2006), nel 2008 al filippino Miguel Syjuco (n. 1976) con Ilustrado (2008).
Nel ratificare la raggiunta ‘canonicità’ di un testo o di un autore, è essenziale l’ufficio svolto dai più importanti premi letterari per le letterature di lingua inglese, principalmente l’americano Pulitzer e, appunto, il britannico Man Booker, quest’ultimo aperto a tutto il Commonwealth. A testimonianza del graduale sopravvento assunto dalle letterature non angloamericane, tra i primi otto vincitori del premio Booker nel 21° sec., uno soltanto è di nazionalità britannica, l’inglese Alan Hollinghurst (n. 1954) di The line of beauty (2004; trad. it. La linea della bellezza, 2006), romanzo gay che sancisce la canonizzazione della narrativa omosessuale, sul fronte femminile ben rappresentata da Jeanette Winterson (n. 1959), che nel 2006 ha ricevuto l’onore di essere nominata ufficiale dell’Ordine dell’Impero britannico.
Alla ricerca del pubblico perduto
Nella dura lotta per la conquista del pubblico contro forme di comunicazione più o meno nuove – come il cinema e la televisione nelle loro infinite mutazioni (l’ultima è quella via cellulare), e ovviamente Internet – le strategie seguite dagli operatori delle case editrici consistono sostanzialmente nell’individuazione di una molteplicità di pubblici potenziali, da quello di massa a quello accademico (tutt’altro che poco numeroso basti pensare a che cosa significa essere inseriti nelle reading lists dei corsi di English literature) ai vari pubblici ‘di nicchia’ (quelle d’élite ma anche le più consistenti nicchie degli amanti di un singolo genere). Autori e autrici non possono fare a meno di tenere in considerazione queste strategie quando si accingono a produrre letteratura, con la conseguenza che – almeno in misura maggiore che non nel passato – il proprio pubblico è spesso già ‘iscritto’ nel testo, se non come presenza materiale o virtuale come predefinito decrittatore dei codici in esso impiegati. Se questo dialogo con lettori e lettrici giunge ad assumere dimensioni sufficientemente ampie, finisce con l’erompere al di fuori della pagina, creando fenomeni di stardom letterario che rimbalzano negli altri media, in primis la televisione, anche grazie a trasmissioni condotte da personaggi la cui fama fatalmente si riversa sugli ospiti che invitano a parlare dai loro divani, come la potentissima Oprah Winfrey negli Stati Uniti. Un caso esemplare di ‘stella letteraria’ è quello di Jamaica Kincaid (propr. Elaine Cynthia Potter Richardson, nata nel 1949 ad Antigua, ma residente negli Stati Uniti), che negli ultimi anni ha quasi abbandonato la narrativa, grazie alla quale si è conquistata una vasta notorietà internazionale, per dedicarsi all’orticoltura e a frequenti apparizioni televisive durante le quali cesella abilmente la sua immagine di icona della letteratura postcoloniale e femminista.
Un’altra strategia commerciale si basa su quelle potenzialità di transcodificazione (innanzitutto cinematografica) che possono garantire il successo di un’opera letteraria anche in seconda battuta, per effetto della notorietà conquistata da una riduzione filmica particolarmente fortunata (e molti scrittori inglesi e statunitensi sono anche sceneggiatori per il cinema o per la televisione). Tra gli esempi più notevoli d’oltreoceano, oltre al veterano David Mamet (n. 1947), si possono indicare l’afroamericana Suzan-Lori Parks (n. 1963) che, come Mamet, si alterna con disinvoltura tra i teatri di Broadway e gli studi di Hollywood, e Richard Price (n. 1949), fortunato autore di sceneggiature cinematografiche e televisive e di romanzi brutalmente realistici ambientati nei quartieri popolari di New York o di cittadine del New Jersey. In Gran Bretagna, David Nicholls (n. 1966) ha trasferito l’abilità di dialoghista per la televisione nella scoppiettante comicità di un romanzo come The understudy (2005; trad. it. Una botta di fortuna, 2007). Può anche succedere che la filiazione proceda per via opposta, e che da un film scaturisca un libro, secondo la tecnica della novelization, che raramente tuttavia produce testi di un qualche interesse: un’eccezione può essere rappresentata da un film tutt’altro che commerciale come Water, diretto nel 2005 dalla regista indiana Deepa Mehta (n. 1950), che ha ottenuto però un inatteso successo mondiale ed è stato quindi trasformato, l’anno seguente, nell’omonimo romanzo (trad. it. Acqua, 2006) dalla sua collaboratrice pakistana Bapsi Sidhwa (n. 1938).
L’intricata e inquietante rete di relazioni che collega chi scrive e chi legge nell’era del trionfo del Panopticon elettronico si metaforizza nell’immagine kafkiana dell’artista che vive senza mangiare per settimane in una scatola trasparente sulla riva del Tamigi, e che la britannica Nicola Barker (n. 1966) usa in Clear (2004; trad. it. L’evidenza dei fatti, 2008) per investigare le reazioni del pubblico di fronte a un’impresa apparentemente così assurda e inutile (come forse si vorrebbe fosse la letteratura oggi). Ma è ovviamente ai generi della letteratura commerciale che scrittori e scrittrici si rivolgono per assicurarsi un pubblico più vasto. Dalla speculazione fantatecnologica di Michael Crichton (1942-2008) alla metafantascienza di Samuel R. Delany (n. 1942), dal delirante cyberpunk di William Gibson (n. 1948) alle ironiche riscritture dei fumetti supereroistici di Michael Chabon (n. 1963), dal fantasy femminista di Ursula K. Le Guin (n. 1929) all’horror multiforme di Stephen King (n. 1947), la narrativa statunitense dimostra tutto il fascino che il fantastico esercita anche sui lettori più smaliziati, forse perché è proprio la sfida al realismo la chiave di lettura più adeguata in un mondo in cui la realtà sovente supera l’immaginazione. Ma anche in altre letterature la cifra fantastica viene adottata per codificare una visione del mondo che non sia schiava dei protocolli d’interpretazione diffusi dai mezzi di comunicazione di massa, benché sia proprio grazie a essi che il suo messaggio viene diffuso e raccolto: nell’anno in cui ha ricevuto il premio Nobel per la letteratura, l’inglese Doris Lessing (n. 1919) è tornata alla fantascienza femminista con The cleft (2007; trad. it. Una comunità perduta, 2008), in cui una Terra preistorica è abitata solo da donne, mentre una scrittrice che con lei ha molte analogie, Fay Weldon (propr. Fay Franklin Birkinshaw, n. 1931), immagina un radicale rovesciamento dei ruoli di genere, quando la protagonista di Mantrapped (2004) si sveglia e scopre di essere diventata un uomo. Tra gli autori britannici, più versati verso la fantasy magico-misterica e spesso impegnati come sceneggiatori anche nei campi ormai contigui del cinema e del fumetto, si distinguono in particolare Philip Pullman (n. 1946), Alan Moore (n. 1953) e Neil Gaiman (n. 1960).
I maggiori best seller mondiali degli ultimi anni – eccezion fatta per il thriller artistico-religioso The da Vinci code (2003; trad. it. Il codice da Vinci, 2003) dello statunitense Dan Brown (n. 1964) – sono del resto i romanzi dell’apprendista stregone Harry Potter, creato dalla britannica Joanne K. Rowling (n. 1965). Né si può sottovalutare la diffusione, in quel pubblico di bambini e adolescenti che ormai costituisce assai più di una nicchia del mercato, della letteratura fantastica e horror, con i ‘piccoli brividi’ (la serie Goosebumps) di R.L. (Robert Lawrence) Stine (n. 1943) e i romantici vampiri teenager di Stephenie Meyer (n. 1973), e della fantasy, con le saghe del giovanissimo Christopher Paolini (n. 1983).
Più ‘adulti’ nello stile, nei temi e negli obiettivi sono gli allarmati romanzi di autori britannici che optano per una visione tra l’apocalittico e il distopico come il J.G. (James Graham) Ballard (n. 1930) di Millennium people (2003; trad. it. 2004) e Kingdom come (2006; trad. it. Regno a venire, 2006), la Maggie Gee (n. 1948) di The flood (2004; trad. it. Il diluvio, 2005), il Kazuo Ishiguro (n. 1954) dell’angoscioso Never let me go (2005; trad. it. Non lasciarmi, 2006), il Jim Crace (n. 1946) di The pesthouse (2007), il Will Self (n. 1961) del parodisticamente fantareligioso The book of Dave (2006). È, questo, un orizzonte ammonitore condiviso anche da molti romanzieri statunitensi, tra i quali va citato Paul Auster (n. 1947) con il suo Man in the dark (2008; trad. it. Uomo nel buio, 2008).
La tradizione del detective novel e del thriller viene onorata e al tempo stesso ribaltata dalle sperimentazioni dell’inglese David Peace (n. 1967), degli scozzesi Gilbert Adair (n. 1944) e Philip Kerr (n. 1956), degli statunitensi Elmore Leonard (n. 1925), James Ellroy (n. 1948) e Joe R. Lansdale (n. 1951), oltre che da ormai consolidati esperti del sottogenere tutto americano del legal thriller, Richard N. Patterson (n. 1947), Scott Turow (n. 1949) e John Grisham (n. 1955). Tra le scrittrici che hanno saputo adeguare al nuovo secolo i modelli di Agatha Christie e di più recenti antesignane come Ruth Rendell, si segnalano i nomi delle inglesi Susan Hill (n. 1942) e Kate Atkinson (n. 1951), e dalla statunitense Kathy Reichs (n. 1950).
La contaminazione con altre forme di cultura popolare innerva la scrittura ibrida dello statunitense Jonathan Lethem (n. 1964), che attinge alla musica pop e ai comics in The fortress of solitude (2003; trad. it. La fortezza della solitudine, 2004) e You don’t love me yet (2007; trad. it. Non mi ami ancora, 2007), mentre una vera e propria estetica dell’eccesso viene messa in pratica nei romanzi pulp di altri autori statunitensi, quali il Chuck Palahniuk (n. 1962) di Rant (2007; trad. it. Rabbia, 2007) e Snuff (2007; trad. it. Gang bang, 2008) e il Bret Easton Ellis (n. 1964) di Lunar Park (2005; trad. it. 2005), per non parlare di J.T. (Jeremiah ‘Terminator’) Leroy, fittizio autore transgender di sensazionalistici romanzi ‘autobiografici’ dietro cui si nasconde Laura Albert (n. 1965), venuta alla scoperto tra il 2005 e il 2006 nel più clamoroso caso di ‘truffa’ letteraria degli ultimi decenni – ma il motivo del falso e della truffa identitaria compare spesso nella letteratura contemporanea, tant’è che l’australiano Peter Carey (n. 1943) basa il suo My life as a fake (2003; trad. it. Falso d’autore, 2005) sul caso di un poeta modernista ‘inventato’ negli anni Quaranta.
Benché la letteratura di grande diffusione sia quasi per definizione una letteratura destinata a favorire l’‘evasione’ dai problemi della società contemporanea, alcuni dei suoi sottogeneri seguono, soprattutto nei primi anni di questo nuovo secolo, una strada opposta, che conduce il pubblico a immergersi in alcune delle questioni più pressanti dei nostri giorni. Il thriller spionistico, un tempo strutturato secondo la formula canonica dell’eroe solitario in lotta contro forze soverchianti e misteriose il cui profilo politico era tratteggiato con estrema sommarietà, affronta oggi, e sovente con atteggiamento critico, i temi della guerra al terrorismo e dello ‘scontro di civiltà’ (per usare l’espressione sventuratamente fortunata di Samuel Huntington) che l’ha generata, della degenerazione del sistema capitalistico nell’era della globalizzazione, delle logiche di potere internazionale che determinano i sanguinosi conflitti nel cosiddetto Terzo mondo. John Le Carré (pseud. di David John Moore, n. 1931) prosegue in quest’opera di revisione ‘impegnata’ del genere di cui è stato antesignano già decenni fa, e che ora adotta anche lo scozzese William Boyd (n. 1952), più conosciuto per romanzi che sono stati paragonati a quelli di Martin Amis e McEwan, con Restless (2006; trad. it. Inquietudine, 2006).
Se i generi più tipicamente formulaici della narrativa popolare sono indirizzati a un pubblico per gran parte maschile, la tradizione dei grandi best seller scritti da donne per le donne – che in fondo è all’origine, nel Settecento, della forma-romanzo – si perpetua nella versione, consapevolmente ironica e talvolta destrutturata, che del romance sentimentale danno autrici come le inglesi Helen Fielding (n. 1958) e Sophie Kinsella (pseud. di Madeleine Wickham, n. 1969) e la statunitense Anne Tyler (n. 1941).
Geografie letterarie
Nell’era della globalizzazione, parlare di letterature nazionali può sembrare un nostalgico tentativo di ignorare l’interconnessione e la nomadicità che governano i flussi letterari. La letteratura della Gran Bretagna è del resto ormai da tempo inerentemente multiculturale. I processi della decolonizzazione dell’impero britannico hanno condotto non soltanto alla fioritura delle letterature nazionali nelle ex colonie (in lingua inglese o nelle lingue locali) ma anche al radicamento nella realtà socioculturale inglese di soggetti i quali, nati in altri continenti o comunque figli di immigrati, hanno deciso di affermare una propria Englishness, confrontandosi con quello che Salman Rushdie ha definito «l’impero all’interno della Gran Bretagna», ma senza rinunciare a radici più o meno remote che di volta in volta ricordano con nostalgia o con disgusto, rivendicandole o rifiutandole, idealizzandone la purezza o denigrandone la chiusura, o tutte queste cose insieme. Le polemiche suscitate dal brillante e autoironico Brick lane (2003; trad. it. Sette mari e tredici fiumi, 2003) di Monica Ali (n. 1967) testimoniano le difficoltà di rappresentare questa complessità identitaria, come risulta dalla paradossale situazione per cui l’autrice, nata in Bangladesh ed emigrata in Gran Bretagna con la famiglia all’età di tre anni, viene accusata da una scrittrice bianca come l’australiana Germaine Greer (n. 1939) di dare un’immagine parodisticamente negativa della comunità anglobengalese. Si tratta di una condizione di confine, foriera di risultanti brillantemente creativi e al tempo stesso di irrequiete oscillazioni, esemplificata dallo scrittore inglese di origini pakistane Hanif Kureishi (n. 1954) e incarnata nel protagonista del suo Something to tell you (2008; trad. it. Ho qualcosa da dirti, 2008), uno psicoanalista freudiano di origini pakistane in conflitto generazionale con il figlio, ancor più completamente assimilato alla civiltà tecnologica occidentale. In The match (2006) Romesh Gunesekera (n. 1954), nativo dello Sri Lanka, perlustra gli spazi interstiziali, non ancora britannici e non più cingalesi, che si vengono a creare nella società inglese quando chi emigra inizia a fare i suoi primi passi in un mondo a lui completamente ignoto.
Se dalle ex colonie giungono voci e visioni che modificano in profondità la conformazione di temi e stili della letteratura britannica, secondo un movimento uguale e contrario anche gli ex colonizzatori offrono una diversa prospettiva della realtà, e delle modalità di rappresentarla, che hanno potuto osservare da una posizione privilegiata ma anche scomoda e sovente non desiderata. Giles Foden (n. 1967), nato in Inghilterra ma vissuto a lungo in Malawi, in Mimi and Toutou go forth. The bizarre battle for Lake Tanganyika (2004) rilegge – con distacco documentaristico ma anche, inevitabilmente, ironico – un episodio del conflitto tra Germania e Inghilterra, durante la Prima guerra mondiale, per il controllo dell’Africa centrale. John Lanchester (n. 1962) preferisce invece invertire l’usuale traiettoria dei flussi migratori, e in Fragrant harbor (2002; trad. it. Il porto degli aromi, 2004) la ridireziona da Occidente a Oriente, facendo spostare due inglesi a Hong Kong, dove assistono al passaggio della colonia inglese alla Cina popolare. Lo statunitense Dave Eggers (n. 1970), famoso come acuto umorista, riporta in auge un genere tipicamente americano, le as-told-to autobiographies (le autobiografie narrate oralmente da nativi americani o ex schiavi a un trascrittore bianco che le riportava sulla pagina), in What is the what. The autobiography of Valentino Achak Deng (2006; trad. it. Erano solo ragazzi in cammino. Autobiografia di Valentino Achak Deng, 2007), dove rielabora con una certa libertà il racconto (autentico) di un bambino-soldato sudanese. Oppure, si può cercare di osservare la propria realtà con gli occhi dell’estraneo, dell’alieno, come l’immigrato da un non meglio precisato Paese dell’Europa dell’Est che lava i piatti in un rinomato ristorante londinese, in The road home (2008) di Rose Tremain (n. 1943), e può così scrutare da una posizione privilegiata, proprio perché subalterna e ‘invisibile’, i molti vizi e le poche virtù delle classi alte britanniche.
La ricerca di un’identità in qualche modo ancorata alla nozione di Englishness conduce alcuni scrittori a esplorare territori sociali poco consueti, popolati di tipi umani per certi versi poco accattivanti (e ancor meno proponibili quali modelli) come i tifosi di calcio di Nick Hornby (n. 1957), le gang proletarie di John King (n. 1960), gli adolescenti problematici e quasi amorali di Esther Freud (n. 1963) e Niall Griffiths (n. 1966). Per molte autrici – valga per tutte Margaret Drabble (n. 1939) – è invece l’universo domestico il vero centro d’interesse, uno spazio fisicamente ristretto ma emotivamente ricco di dinamiche e tensioni dialettiche che sembrano molto più autentiche di quelle che gremiscono la sfera pubblica dell’artificiale Inghilterra blairiana.
Nella Scozia animata da fervori indipendentisti la vena sardonicamente proletaria di Irvine Welsh (n. 1958) e quella più critica (ma talvolta edonisticamente estetizzante) di Alasdair Gray (n. 1934) si radicalizzano nell’accusa esplicita ai centri di potere nazionali e internazionali, come gli Stati Uniti satireggiati da James Kelman (n. 1946) in You have to be careful in the land of the free (2004). Ma anche della cultura più ‘localmente’ scozzese vengono investigate complessità e contraddizioni, come fanno Alan Warner (n. 1964) nella sua effervescente prosa influenzata dal vernacolo e Andrew O’Hagan (n. 1968) che adotta un taglio quasi documentaristico.
L’Irlanda resta terra feconda di grandi stilisti di una lingua che pure non sarebbe l’idioma ufficiale della nazione. Ne guida le fila il raffinatissimo John Banville (n. 1945) di The sea (2005; trad. it. Il mare, 2006), ma anche i più proletari Patrick McCabe (n. 1955) e Roddy Doyle (n. 1958) mostrano grande abilità tecnica nel riprodurre le volute incontrollate del linguaggio parlato, quello rurale per McCabe in Winterwood (2006) e quello urbano per Doyle in Paula Spencer (2006; trad. it. 2007). Sia William Trevor (n. 1928) nei racconti di Cheating at Canasta (2007; trad. it. Uomini d’Irlanda, 2009) sia Anne Enright (n. 1962) nel romanzo The gathering (2007; trad. it. La veglia, 2008) preferiscono invece una tonalità più sommessa, attenta alle sfumature e ai silenzi che riecheggiano negli ambienti spesso umanamente desertificati in cui vivono i loro personaggi.
La letteratura statunitense è quella che ovviamente ha reagito in modo più vistoso all’evento con cui siamo abituati a contrassegnare l’inizio del 21° sec., ossia l’attacco alle Twin Towers e al Pentagono dell’11 settembre 2001. Più di un autore si è cimentato con l’ardua impresa di restituire il senso (o la sua assenza) di quel che è accaduto quel giorno e delle sue conseguenze. Storie di dolore privato si proiettano sullo sfondo delle fiamme e del fumo del World Trade Center in The days of awe (2005) di Hugh Nissenson (n. 1933), Extremely loud and incredibly close (2005; trad. it. Molto forte, incredibilmente vicino, 2005) di Jonathan Safran Foer (n. 1977), Falling man (2007; trad. it. L’uomo che cade, 2008) di Don DeLillo (n. 1936). John Updike (1932-2009) compie un’operazione ancora più ambiziosa, e in Terrorist (2006; trad. it. Terrorista, 2007) tenta di entrare nella mentalità e nelle motivazioni di un teenager musulmano nato in America che sta decidendo di diventare un terrorista. Una riflessione indiretta sull’evoluzione degli Stati Uniti nell’era della restrizione dei diritti civili in nome della guerra al terrorismo si narrativizza nel romanzo di fantascienza retrospettiva, o storia alternativa, di Philip Roth (n. 1933), The plot against America (2004; trad. it. Il complotto contro l’America, 2005), in cui si immagina un Paese post Grande depressione in mano a un governo fascista e razzista. Un panorama non meno desolato e desolante è quello che si staglia all’orizzonte di altri romanzi che apparentemente ‘non parlano’ degli Stati Uniti infidi e avvelenati dell’era Bush (ma si noti nei titoli l’insistenza sull’immagine della ‘Terra’, del ‘Paese’, come inevitabile spazio di riferimento), da No country for old men (2005; trad. it. Non è un paese per vecchi, 2006) di Cormac McCarthy (n. 1933) a The lay of the land (2006; trad. it. Lo stato delle cose, 2008) di Richard Ford (n. 1944). Anche nella poesia si avverte l’eco del crollo delle Twin Towers, come nel virulento Somebody blew up America and other poems (2003) del maggiore (e spesso controverso) poeta afroamericano contemporaneo, Imamu Amiri Baraka (n. 1934), mentre la paranoia che ne è scaturita invade la scena teatrale in The god of hell (2004) di Sam Shepard (n. 1943).
Le espressioni letterarie delle culture americane non ‘maggioritarie’ sono però attraversate da altre questioni più urgenti e al tempo stesso più sedimentate, e che ineriscono soprattutto al luogo e al ruolo che queste culture vogliono occupare e vedersi riconoscere. La civiltà nativa si è trovata nella condizione di dover lottare per secoli con un obiettivo molto meno ambizioso, quello della mera sopravvivenza, ma negli ultimi decenni ha saputo ridefinirsi senza trincerarsi nella difesa delle tradizioni ancestrali, che si sono anzi riversate nel mondo della (post)modernità con notevolissima vivacità e duttilità, come nel collage di componimenti poetici originali, note diaristiche e traduzione di testi nativi che Simon J. Ortiz (n. 1941) architetta in Out there somewhere (2002). Sherman Alexie (n. 1966) proietta questa complessa dialettica addirittura nel futuro, con l’escamotage fantascientifico del viaggio nel tempo in Flight (2007). Viceversa, nella letteratura afroamericana, espressione di una comunità che con le elezioni presidenziali del 2008 si è improvvisamente innalzata ai vertici della gerarchia del potere politico dopo secoli di oppressione e discriminazione, l’attenzione verso il passato – che un presente e un futuro mai così promettenti, se non fosse per la crisi economica, non possono ridurre all’oblio – si traduce nelle forme del romanzo storico. In A mercy (2008) il premio Nobel 1993 per la letteratura Toni Morrison (pseud. di Chloe Anthony Wofford, n. 1931) ricostruisce le origini stesse della storia angloamericana, mettendo in primo piano la violenza e l’orrore della colonizzazione, della schiavitù, del controllo repressivo esercitato sulle donne. Qualche anno prima, Ishmael Reed (n. 1938) aveva curato From totems to hip-hop. A multicultural anthology of poetry across the Americas 1900-2000 (2003), in cui la ricognizione dello sviluppo della poesia americana è oggetto di una lettura che rivaluta il contributo di tante voci fino ad allora ridotte al margine se non al silenzio.
Sulla frontiera messico-americana (e più in generale tra Stati Uniti e America Latina) si localizzano, culturalmente se non geograficamente, alcune delle proposte stilisticamente più innovative, anche perché rendono conto di una mutazione sociolinguistica che sta producendo non uno, ma molteplici ibridi tra inglese e spagnolo di grande potenzialità espressiva. Un code-switching (alternanza tra più lingue), che è anche e soprattutto un cultural switching, permea le opere di autori e autrici della comunità chicana come Pat Mora (n. 1942), Cherrie L. Moraga (n. 1952) e Sandra Cisneros (n. 1954).
In molta letteratura prodotta nelle ex colonie britanniche, con il volgere del secolo si registra un progressivo spostamento tematico dalla denuncia dell’oppressione imperialista e dalla rivendicazione di un’autonoma soggettività culturale – i temi portanti del postcolonialismo ‘classico’, comunque tuttora diffusamente presenti – a una riflessione autocritica sulle dinamiche regressive che hanno condotto le nazioni ‘liberate’ verso logiche di dominio e sfruttamento non meno spietate di quelle delle potenze europee. Sebbene siano ancora rilevabili elementi di ‘indonostalgia’ in autori come Amitav Ghosh (n. 1956), la visione critica dell’India contemporanea che traspare in molta della letteratura del subcontinente è più spesso generata dall’insofferenza per la contraddittoria commistione tra la drammatica accelerazione dei processi di modernizzazione e la permanenza di elementi culturali a volte ferocemente arcaici. Si pensi all’esempio del premio Nobel per la letteratura del 2001, V.S. (Vidiadhar Surajprasad) Naipaul (n. 1932), nativo di Trinidad e di origini indiane, che in Magic seeds (2004; trad. it. Semi magici, 2007) traduce in rabbia ardente la sua delusione per l’incapacità della società indiana di liberarsi dalla schiavitù di un malinteso senso della spiritualità, che in realtà serve gli interessi delle classi al potere. O a quello di Kiran Desai (n. 1971), figlia della scrittrice Anita Desai e autrice, con The inheritance of loss (2006; trad. it. Eredi della sconfitta, 2007), di un’accorata esplorazione dei conflitti interetnici che dilaniano il Nepal indiano.
Una strategia rappresentativa tipica di molta letteratura postcoloniale ‘classica’ – la consapevole erosione del confine tra storia e leggenda, realtà e mito, quotidianità ordinaria e immaginazione onirica – continua a essere posta in atto anche nel nuovo secolo, che del resto vede la sua nascita contrassegnata in modo indelebile dal trauma incredibile, ‘irreale’ eppure visibilmente concretissimo, dell’11 settembre, che ha cambiato in modo radicale il rapporto di tutta l’umanità con la storia e con la memoria. L’uso della metafora del fantasma per raccontare la materialità irraggiungibile anche del passato più prossimo si manifesta fin dal titolo di The ghost of memory (2006), in cui uno dei veterani della letteratura caribica, Wilson Harris (n. 1921), impiega miti africani e amerindi non per ‘dare ordine’ alla realtà, come voleva l’imperativo eliotiano, ma per renderne nel modo più mimetico (e quindi anche più difficilmente comprensibile) tutta la complessità. Lungo una linea non dissimile si muovono due altri autori guyanesi: David Dabydeen (n. 1955), nel romanzo magico-storico Molly and the muslim stick (2008), e Fred D’Aguiar (n. 1960), nato però in Inghilterra, il quale trascrive questo difficile rapporto con la memoria, individuale e collettiva, nel deficit linguistico della protagonista di Bethany Bettany (2003), che recupera la voce quando riesce finalmente a superare l’ossessivo ricordo della violenza familiare e a iniziare a costruirsi un nuovo futuro con «radici ovunque». E il multietnico scrittore canadese Michael Ondaatje (n. 1943) rinchiude tra le pareti domestiche di Divisadero (2007; trad. it. 2008) il senso della violenza che irrompe improvvisamente nella tranquillità quotidiana, per poi diramarlo in una molteplicità di linee spaziotemporali.
La letteratura caribica ha peraltro una dimensione inerentemente transnazionale, perché di identità nazionali vere e proprie è difficile parlare riferendosi a entità geodemografiche così relativamente piccole e giovani. Nel delineare l’emersione del protagonismo culturale dei neri, per es., Caryl Phillips (n. 1958), originario dell’isola di St. Kitts, traccia in Dancing in the dark (2005) e Foreigners. Three English lives (2007) le biografie romanzate di personaggi storici di diversa provenienza (antillana, africana, britannica) che sono vissuti sia in Europa sia in America.
Nella letteratura africana contemporanea, o che nell’Africa trova il suo primo punto di riferimento anche quando viene prodotta altrove, l’impatto dell’11 settembre in qualche modo impallidisce di fronte all’entità delle tragedie di cui negli ultimi anni il continente nero è stato testimone. Ma poiché il presente è il risultato delle catene di eventi che si sono intrecciate durante il processo che dallo zenith dell’imperialismo europeo ha condotto in pochi decenni alla decolonizzazione, molti autori africani scelgono la forma del romanzo storico per dare un senso alla condizione africana di oggi, come il tanzaniano Abdulrazak Gurnah (n. 1948) in Desertion (2005; trad. it. Il disertore, 2006). Una soluzione estrema al problema della rappresentabilità della realtà africana odierna giunge dal nigeriano Ben Okri (n. 1959), che in Starbook. A magical tale of love and regeneration (2007) tratteggia un paesaggio fantastico la cui ‘africanità’ (sebbene saldamente radicata in leggende locali) appare quasi irriconoscibile. Nel quadro di una letteratura globale che riflette in modo quasi ossessivo sulle mutevoli frontiere che separano e connettono individui e comunità, anche altre declinazioni identitarie sono sottoposte al vaglio irrequieto di una scrittura che si rifiuta di riposare su luoghi fin troppo comuni. Il processo di transizione che ha portato la Rhodesia coloniale a diventare l’indipendente Zimbabwe fa da sfondo a un’analoga ricerca di liberazione della donna dai vincoli della cultura patriarcale in The book of not (2006) di Tsitsi Dangarembga (n. 1959).
Nelle letterature dell’Oceania si assiste invece a un ritorno all’epopea nazionale che, in parte surrettiziamente sollecitato dall’atmosfera celebrativa dei Giochi olimpici che hanno avuto luogo a Sydney nel 2000, mira a integrare nel mito identitario australiano e neozelandese le civiltà indigene, finora escluse. Di qui il respiro epico di The widow and her hero (2007), ambientato da Thomas Keneally (n. 1935) nell’Australia della Seconda guerra mondiale. Una voce dissonante, che si rifiuta di aderire al neonazionalismo australiano o neozelandese, continua a essere quella dell’inquieta Janet Frame (1924-2004) che nel postumo Towards another summer (2007) opta per riflessioni metafisiche sul significato dell’esistenza, che confondono e infine ignorano le determinazioni spaziotemporali e le appartenenze etniche e culturali, come a voler predire un tempo in cui la letteratura sarà finalmente e per sempre di nessuna nazione e di tutte.
Una letteratura per tutte le nazioni
Nell’orizzonte della cosiddetta civiltà globalizzata – dove per globalizzato si intende sottoposto al dominio non solo economico, politico e culturale ma anche linguistico dell’impero angloamericano – la dimensione nazionale dell’opera letteraria si disperde, oltre che all’origine, per via delle ascendenze spesso plurinazionali di chi scrive, anche alla foce, quando i testi iniziano a circolare in un mercato mondiale, sia nella lingua inglese sia nelle varie traduzioni. Di questa implicita transnazionalità (una volta si diceva ‘universalità’) della letteratura sono consapevoli in primo luogo autori e autrici, protagonisti e protagoniste di un complesso gioco di mediazione interculturale tra la/le propria/e cultura/e e quelle di chi si troverà a leggere le loro opere. Di qui l’ambizione di produrre nuove generazioni di ‘opere-mondo’, che anziché imporre la visione autocentrica di questa o quella cultura egemone (comunque, sempre di lingua inglese) mirano a rendersi specchio cangiante delle infinite realtà di cui si compone l’universo odierno.
Nel memoir familiare dell’indiano Vikram Seth (n. 1952), Two lives (2005; trad. it. Due vite, 2006), le distanze etniche e religiose vengono colmate dalla storia d’amore dello zio indiano e della zia ebrea tedesca di suo padre, una storia che percorre buona parte del Novecento e sembra voler costituire un modello per le relazioni interculturali degli anni a venire, così come l’altrettanto ‘migrante’ romanzo della statunitense di origini bengalesi Jhumpa Lahiri (n. 1967), The namesake (2003; trad. it. L’omonimo, 2003). Secondo linee geograficamente altrettanto mobili si muove il più famoso autore dell’Africa australe, e premio Nobel per la letteratura nel 2003, ossia J.M. (John Maxwell) Coetzee (n. 1940), che in Diary of a bad year (2007; trad. it. Diario di un anno difficile, 2008), romanzo pubblicato in Australia, costruisce un complesso montaggio di saggi fittizi nei quali filtrano preoccupate riflessioni sulle questioni globali che interessano, e affliggono, il mondo post 11 settembre, e che in parte riecheggiano nel romanzo ecologista di Nadine Gordimer (n. 1923), Get a life (2005; trad. it. Sveglia!, 2006). L’incertezza della collocazione geoculturale domina altri testi della letteratura sudafricana ‘bianca’, come per es. The rowing lesson (2007) di Anne Landsman (n. 1959), i cui protagonisti – un medico e sua figlia che gli parla mentre lui giace, morente e privo di coscienza, in un letto d’ospedale – sono entrambi ebrei, e di conseguenza non appartengono pienamente né alla società afrikaaner né tantomeno a quella nera.
Nel quadro della ridefinizione dei rapporti tra centro e periferia e tra passato e presente (e futuro), un esempio particolarmente rappresentativo delle possibili evoluzioni della letteratura contemporanea di lingua inglese in una direzione transnazionale e transtemporale può essere quello del più recente romanzo di un altro sudafricano (ma nero), Zakes Mda (n. 1948), Cion (2007), in cui il protagonista del precedente e fortunatissimo Ways of dying (1995; trad. it. Si può morire in tanti modi, 2008) si reca negli Stati Uniti e intreccia il suo destino con la ricostruzione delle peripezie vissute dagli antenati della famiglia che lo ospita durante il periodo schiavista precedente la Guerra civile americana. Ancora più complessa è la triangolazione tra India, Africa orientale e America Settentrionale che viene a istituirsi in The assassin’s song (2007) di M.G. (Moyez Gulamhussein) Vassanji (n. 1950), autore nato in Kenya da genitori indiani, cresciuto in Tanzania e poi emigrato in Canada, e già famoso per romanzi dai titoli esemplarmente transculturali come Amriika (1999) e The in-between world of Vikram Lall (2003; trad. it. Il mondo sospeso di Vikram Lall, 2005). L’inglese di origine giamaicana Zadie Smith (n. 1975) ha costruito il suo successo editoriale proprio sulla esaltazione delle istanze multietniche, che si diramano e si intersecano con volute complesse nelle esistenze dei personaggi dei suoi romanzi, l’ultimo dei quali, On beauty (2005; trad. it. Della bellezza, 2006), ambienta in una fittizia università nordamericana dialoghi e conflitti che si instaurano tra diverse appartenenze.
La mobile (e preoccupata) geografia del nuovo secolo si riflette nell’erraticità spaziale (reale o metaforica) di altri esponenti della letteratura più recente non provenienti da culture ‘minoritarie’ o ‘decolonizzate’, che oltre a viaggiare in lungo e in largo per il mondo dislocano i propri universi nei luoghi più distanti e talvolta desolati. Valga per tutti l’esempio estremo di uno dei più noti romanzieri inglesi contemporanei, Martin Amis (n. 1949), che sceglie di ambientare House of meetings (2006; trad. it. La casa degli incontri, 2008) in un gulag sovietico nell’Artide. La sua connazionale Susan Elderkin (n. 1968) si sposta invece dal deserto dell’Arizona di Sunset over Chocolate Mountains (2000; trad. it. Tramonto sulle Chocolate Mountains, 2001) al deserto dell’Australia aborigena di The voices (2003), così come Nicholas Shakespeare (n. 1957) in Secrets of the sea (2007), che dipana lentamente il suo intreccio nell’isolamento della Tasmania. Viaggi assai più movimentati portano il protagonista di Voyage to the end of the room (2003; trad. it. Viaggio al termine di una stanza, 2006) di Tibor Fischer (n. 1959), scrittore inglese di origini ungheresi, in luoghi estremi come i sex clubs di Barcellona o i campi di battaglia dell’ex Iugoslavia, o alcuni sprovveduti turisti americani tra la Cina e il Myanmar, in Saving fish from drowning (2005; trad. it. Perché i pesci non affoghino, 2006) di Amy Tan (nata nel 1952 in California da genitori cinesi).
È nell’imprevedibile configurazione dello statuto di genere di questi testi, nei continui slittamenti che subiscono i tentativi di collocarli in un determinato spazio geoculturale, nelle interrogazioni che essi pongono a ogni pretesa di definire una volta per tutte in che cosa consista l’identità di un singolo o di una comunità, che le letterature contemporanee di lingua inglese offrono ai lettori e alle lettrici di tutto il mondo quell’affascinante specchio della vita che l’Amleto shakespeariano voleva fosse l’arte.
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