Le lingue dai Balcani all’Asia centrale
L’edizione italiana dell’opera Ètnografiâ narodov SSSR: istoričeskie osnovy byta i kul´tury (1958), del geografo sovietico Sergej A. Tokarev, ha il titolo URSS. Popoli e costumi: la costruzione del socialismo in uno Stato plurinazionale (1969). Questa formulazione manifestava a chiare lettere l’ambizione della grande potenza di far convivere sul proprio territorio popoli e lingue assai diverse in uno spazio privo di barriere naturali che dall’Europa orientale raggiungeva le rive del Pacifico, estendendo le sue propaggini fino all’Irān e all’Afghānistān. Negli stessi anni la medesima ambizione, pur in un territorio molto più ristretto, animava la Iugoslavia di Tito, la cui federazione riuniva popoli ed etnie dei Balcani occidentali. La spinta ideale che sottendeva la loro architettura sociale proveniva dalla Rivoluzione d’ottobre, quando la nascente Unione Sovietica, sulle macerie dell’impero zarista, si era impegnata in un’articolata politica federativa in cui assumevano un ruolo importante le lingue e che prese il nome di edificazione linguistica (Le discours sur la langue, 2003). Questa politica, pur subendo gravi involuzioni in epoca staliniana, estese la propria influenza a tutta l’Europa centro-orientale, imponendo formule e modelli soprattutto nella regolamentazione delle lingue minoritarie. Nonostante si manifestassero vistose contraddizioni nell’attuazione delle politiche linguistiche del mondo socialista, fra spinte nazionali e pressioni egemoniche, il sistema è imploso solo nell’ultimo decennio del 20° sec., quando ha lasciato il posto a una molteplicità di politiche nazionali. La sua crisi ha coinvolto profondamente le istituzioni culturali che ne garantivano la sopravvivenza, dalle accademie delle scienze fino alle associazioni degli scrittori, dando vita a commissioni ministeriali o dipartimenti statali che si occupano direttamente della questione.
Dagli anni Novanta del secolo scorso queste politiche nazionali svolgono un ruolo fondamentale nelle nuove o rinnovate compagini statali, contribuendo all’ulteriore sviluppo di quel processo iniziato all’indomani della Prima guerra mondiale, quando in Europa si era affermato il principio dell’autodeterminazione dei popoli. Non c’è alcun dubbio che in questo complesso processo di transizione le nuove classi dirigenti siano guidate dal principio dello Stato-nazione-lingua, come si è venuto a formare, pur a costi assai elevati, nella storia dell’Occidente europeo.
In questa nuova fase le lingue, come le religioni, così profondamente legate al processo identitario, assumono un ruolo strategico fondamentale nelle diverse politiche delle nazioni e delle autonome amministrazioni locali. Si può trattare di lingue maggioritarie all’interno di nazioni ancora multietniche, oppure di lingue minoritarie in piccoli Stati non sempre etnicamente e linguisticamente coesi, in condizioni di contrasto, se non di aperto conflitto con i Paesi vicini. In generale, non si deve dimenticare che queste popolazioni sono state segnate negli ultimi vent’anni da significativi flussi migratori, che hanno mutato, spesso in modo sensibile, gli equilibri sociali. Vi sono state forti migrazioni verso i Paesi occidentali che hanno coinvolto soprattutto le nuove generazioni, con il rischio di depauperare le società delle forze migliori. Si sono costituite, così, forti comunità all’estero, che conservano saldi legami con la madrepatria e talvolta continuano a influire sulla sua politica interna. Altri flussi migratori sono provocati dai conflitti o da nuovi orientamenti politici delle compagini statali, che hanno trasformato il ruolo politico e il prestigio sociale della minoranza. Questi processi di ricomposizione, in cui la questione della lingua gioca un ruolo importante, hanno creato nuovi equilibri sociali in determinate aree con importanti conseguenze politiche (Conti 2004).
I cambiamenti nella politica linguistica si collocano all’interno di un più vasto progetto culturale di recupero e costruzione dell’antica (e nuova) identità etnica, che comprende un complesso processo di sostituzione e di creazione di miti fondatori e simboli, in cui la lingua svolge un ruolo fondamentale. Ne vediamo la punta dell’iceberg nei cambiamenti più o meno radicali verificatisi nella toponomastica. La nuova politica linguistica si riflette in primo luogo in ambito educativo, nel sistema della formazione ;scolastica, dalle primarie all’università, e in ambito culturale, ma generalmente i suoi orientamenti hanno un impatto fondamentale più in generale sui mezzi di comunicazione. Nella sua realizzazione l’aspetto economico non è affatto trascurabile. Qualunque cambiamento (fosse anche, come vedremo, la diffusione di un nuovo alfabeto) comporta investimenti cospicui nella formazione degli insegnanti, nella pubblicazione dei testi scolastici, nella stampa dei giornali e dei libri e nei mezzi di informazione. Se poi si tratta di adottare un nuovo standard linguistico o persino una nuova lingua, fosse anche solo per una parte della popolazione, è necessario preparare gli insegnanti, pubblicare nuovi testi scolastici, formare i giornalisti e più in generale l’intera classe dirigente. La stessa tutela delle minoranze peraltro esige investimenti, spesso rilevanti, che talvolta possono essere sostenuti solo con difficoltà, soprattutto nelle aree in cui permangono gravi condizioni economiche. Per sostenere l’insegnamento di queste lingue minoritarie sono indispensabili investimenti nella formazione degli insegnanti, nella pubblicazione dei testi scolastici, nella stampa dei giornali e dei libri, che si aggiungono alle spese generali per garantire la formazione nella lingua maggioritaria. Per realizzare questi progetti, inoltre, è necessario un forte consenso sociale, che talvolta serve a giustificare determinate scelte, con il rischio, però, non sempre ben calcolato, di creare aperti dissensi o aree di resistenza sociale, che si possono trasformare in manifestazioni di dissenso politico.
Nella fascia territoriale che dai Balcani, procedendo verso Oriente, attraverso la cosiddetta sella del Ponto e le regioni caucasiche, giunge fino all’Asia orientale, proprio per la sua complessa storia il plurilinguismo rimane ancora oggi un fenomeno importante. Non parliamo solo della conoscenza dei diversi standard della medesima lingua, ma dell’apprendimento, già fin dall’età scolare, di una o più lingue, appartenenti a ceppi spesso lontani dalla lingua madre. Queste lingue svolgono funzioni diverse dalla lingua materna, l’unica che è sentita come manifestazione della propria appartenenza a un gruppo sociale, anche se talvolta è lingua veicolare solo nell’istruzione primaria. Qualora si appartenga a una minoranza, anche consistente, può capitare di dover fin dall’infanzia apprendere un’altra lingua che, pur essendo una lingua ufficiale, tuttavia non rappresenta ancora la lingua franca della comunicazione in ambito sovraregionale. Ciascuna di queste lingue assume poi una particolare funzione sociale e gode di un proprio prestigio. Nel contesto più generale dei cambiamenti sociali e politici, le nuove politiche linguistiche hanno alterato i rapporti fra le lingue e le loro stesse funzioni, rendendo superflue determinate competenze, apprese fin dall’infanzia, ma nello stesso tempo hanno reso necessarie nuove competenze, non sempre facili da acquisire. A tutto questo si aggiunge altresì la presenza di varietà secondarie e persino di una molteplicità di parlate, mentre parallelamente si sviluppano fenomeni di pidginizzazione, quando diversi codici linguistici vengono usati contemporaneamente.
Nella porzione di Europa centro-orientale che ha condiviso più direttamente la storia dell’Occidente, con la rinnovata indipendenza delle nazioni (già nate sulle ceneri del primo conflitto mondiale), il principio dello Stato-nazione-lingua non ha avuto difficoltà a imporsi, anche quando la sua realizzazione ha contribuito a incrinare l’unità dello Stato o a creare scomode minoranze. La Cecoslovacchia si è pacificamente divisa in due Stati separati, dotati ciascuno della propria lingua nazionale. Più delicata appare la situazione del Baltico, soprattutto in Estonia dove vive una cospicua minoranza di parlanti la lingua russa costretta a confrontarsi con una politica educativa e linguistica che privilegia l’estone. Il flusso migratorio dai Paesi baltici verso la Russia, ma anche quello verso l’Occidente, non è estraneo alla situazione politica e sociale che si è determinata dopo l’indipendenza. Per l’Europa settentrionale è interessante menzionare il caso del careliano, che dal 1996 è lingua ufficiale della Repubblica autonoma della Carelia (Russia). A partire dagli anni della rivoluzione russa il careliano ha vissuto le alterne vicende di un rapporto di parità o di subordinazione rispetto al finlandese, rapporto che rispecchia i cambiamenti della situazione politica, senza però provocare forti problemi sociali.
Le trasformazioni più profonde e le situazioni di maggiore conflittualità si incontrano, invece, nella fascia geografica che dai Balcani attraverso il Caucaso giunge fino all’Asia centrale. In quest’area incastonata fra l’Occidente europeo, l’Asia orientale e il Medio Oriente, di grande rilevanza strategica, si sono insediate, stratificandosi nel corso dei secoli, numerose popolazioni e hanno esercitato la loro egemonia diverse civiltà. Le loro lingue, fondamentale manifestazione di una specifica appartenenza etnica, hanno giocato e continueranno a giocare un ruolo fondamentale nell’aspirazione all’autonomia e all’indipendenza, diventando spesso lo strumento di un disegno politico che, pur avendo una portata locale, finisce spesso per acquisire un rilievo internazionale.
I Balcani
Uno dei casi più emblematici di cambiamento delle politiche linguistiche in epoca più recente è rappresentato dall’ex Iugoslavia e, in particolare, dalla mutata situazione del serbo-croato. Con la formazione dei nuovi Stati nazionali, dalla Slovenia alla Macedonia, sono state elevate al rango di lingua nazionale di uno Stato indipendente, non solo lo sloveno e il macedone, ma anche il croato, il bosniaco e il serbo, che costituiscono oggi standard diversi delle parlate štokave. Soprattutto in Croazia, fin dagli anni Novanta si è cercato di differenziare al massimo il croato dagli altri standard in uno sforzo che ha visto impegnati non solo i linguisti, ma anche i responsabili dei mezzi di comunicazione, con l’esercizio di un potere che sembra sconfinare nella censura (o nell’autocensura). Allo stesso modo si procede in Bosnia, nella parte a maggioranza musulmana, recuperando soprattutto l’elemento lessicale turco o arabo presente nelle parlate locali. A seguito dell’indipendenza del Montenegro si è imposta la questione della lingua montenegrina, legittimando i processi di differenziazione dal serbo, in presenza comunque di una popolazione che in maggioranza dichiara ancora (2003) di parlare serbo. Alcuni linguisti sono impegnati nella definizione di una grammatica montenegrina. In questo processo acquisisce una straordinaria forza simbolica l’alfabeto. Nonostante si riconosca teoricamente da entrambe le parti la legittimità dei diversi alfabeti, è inevitabile la tendenza a riconoscere nell’alfabeto latino la scrittura del croato e in quello cirillico la scrittura del serbo, ricalcando le antiche sfere di influenza romana e greca, che risalgono al Medioevo.
Per comprendere questa situazione si deve andare ben al di là della semplificazione avanzata da Max Weinreich (1894-1969), secondo cui «una lingua è un dialetto che dispone di un esercito e di una flotta». Con la dissoluzione della Iugoslavia ci troviamo di fronte a diverse e contrastanti politiche nazionali, che stanno producendo effetti duraturi per quanto riguarda la lingua, a cominciare dall’ambito dell’istruzione e dei mezzi di comunicazione di massa, in una direzione ben diversa dalla precedente politica iugoslava, che comunque mostrava segni di crisi già da decenni. Al momento attuale i linguisti continuano in generale a parlare di un’unica lingua, chiamata croata e serba o ancora serbo-croata (entrambe le dizioni erano in uso nell’ex Iugoslavia; La situazione linguistica attuale nell’area a standard neoštokavi, 2006), ma con l’andare del tempo, permanendo queste politiche linguistiche, le differenze fra i diversi standard della medesima lingua (bosniaco, croato, montenegrino e serbo) diventeranno inevitabilmente sempre più visibili, fino a sancire l’esistenza di diverse lingue.
Sotto certi aspetti si deve ammettere per questa lingua una sorta di nemesi storica nei confronti della politica di Tito quando la Costituzione federale iugoslava proclamò la nascita della Repubblica di Macedonia (1946) e sancì ufficialmente l’esistenza del macedone. Nel dopoguerra, infatti, le parlate dell’area vennero definitivamente separate dal bulgaro (ma anche dal serbo), segnando la nascita della nuova lingua. All’epoca della rottura fra Tito e Stalin, che paventava la nascita di una potente federazione capace di unificare gli slavi balcanici, questa politica linguistica venne apertamente sostenuta dagli Stati Uniti. Fu proprio uno slavista americano, Horace Lunt, a pubblicare (1952) la prima grammatica della lingua macedone in una lingua occidentale. Per lunghi decenni e ancora oggi la Bulgaria non ha riconosciuto ufficialmente questa lingua, che considera una semplice variante del bulgaro. Nonostante ciò, a differenza della Grecia, la Bulgaria ha riconosciuto lo Stato macedone, con il quale i rapporti si stanno velocemente evolvendo. Proprio per il veto della Grecia lo Stato viene denominato ancora oggi a livello internazionale con l’acronimo FYROM (Former Yugoslav Republic of Macedonia) e viene accusato dallo Stato ellenico di appropriarsi degli antichi simboli allo scopo di rivendicare i territori della Macedonia greca. In questo contesto tendono a scomparire gli idiomi misti greco-slavo nelle zone di confine per adeguarsi agli standard delle rispettive lingue (Ch. Voss, in Marginal linguistic identities, 2006). Si conserva, invece, il macedone nel distretto di Coriza in Albania, in cui è riconosciuto come lingua ufficiale.
Nonostante la frammentazione dell’ex Iugoslavia, il crollo dell’Unione Sovietica e in generale il tramonto dei regimi socialisti, la formazione di Stati nazionali con una forte maggioranza linguistica e un’ampia tutela dei diritti delle minoranze è ancora lontana dal realizzarsi. Nei Balcani la presenza di una popolazione albanese maggioritaria nel Kossovo ha avuto un effetto fortemente destabilizzante. Furono proprio la revoca promossa nel 1989 da Slobodan Milošević dello status paritario della lingua albanese e la chiusura delle scuole autonome a suscitare le reazioni che in seguito sfociarono nella guerriglia armata. La popolazione albanese è presente con forti minoranze sia in Macedonia sia in Montenegro. In entrambi i casi l’albanese standard tende a dominare a scapito delle parlate locali, favorendo la coesione di queste popolazioni che aspirano a una maggiore tutela della propria lingua e della propria cultura, soprattutto nella formazione scolastica, giocando un ruolo molto importante nei delicati equilibri politici della zona.
Il permanere di un contesto multietnico e multiculturale dei Balcani, nonostante gli spostamenti più o meno forzati di popolazioni nel corso del 20° sec., rende difficile applicare il modello statale occidentale, in cui Stato, nazione e lingua tendono a identificarsi, mostrando quanto sia contraddittoria la sua realizzazione. Numerose sono le minoranze linguistiche dell’area che giocano un ruolo importante anche a livello politico. Si pensi, per es., alla minoranza turca in Bulgaria, a quella ungherese in Serbia e soprattutto in Romania. Per non parlare dell’etnia Rom (presente in tutta l’area), componente che ha conservato le proprie tradizioni anche sotto i regimi socialisti. Importanti flussi migratori verso i Paesi più ricchi della Comunità europea hanno contribuito a compromettere ulteriormente gli antichi equilibri sociali.
L’Europa orientale
Procedendo a Oriente verso i Carpazi e la Moldavia si incontrano popolazioni e lingue la cui realtà difficilmente può essere compresa al di fuori della complessa storia dell’area geografica. Le minoranze slave di origine ucraina, presenti in Serbia e nella Slovacchia orientale, in un processo di frammentazione, accelerato dalla situazione politica, si sono identificate in gruppi etnici ben distinti dalle popolazioni locali e hanno ottenuto in tempi più o meno recenti il riconoscimento di minoranza linguistica. La loro lingua, chiamata rutena o rusina (russina), è oggetto di studio nelle sue diverse varianti. All’interno dell’Ucraina, tuttavia, essa è considerata un dialetto dell’ucraino.
La Moldavia, regione della Romania, condivide le medesime parlate con la cosiddetta Repubblica Moldova, dal 1992 in tregua armata con la Transnistria, difesa dall’esercito russo. In epoca sovietica queste ultime costituivano insieme l’ex Repubblica socialista della Moldavia, per la quale era stato codificato il moldavo, unica lingua romanza ad adottare l’alfabeto cirillico nel 20° sec., proprio come era avvenuto nel 16° sec. per i primi testi in romeno. Nonostante la sostanziale identità fra queste lingue, si insiste ancora oggi sulla necessità di distinguerle. Nel 2003 è stato pubblicato un dizionario moldavo-romeno. La nuova costituzione della Moldova ha sancito, però, l’uso dell’alfabeto latino, mentre il cirillico si conserva nella Transnistria, in cui vivono forti minoranze russe e ucraine. Dunque, anche qui, l’uso dell’alfabeto gioca un ruolo simbolico assai importante, proprio come avviene nei Balcani. Nella Moldova si trova la regione autonoma (dal 1994) della Gagausia, un’area abitata da una popolazione turca, ma di fede cristiano-ortodossa come la maggioranza della popolazione della Moldova, che scrive la propria lingua, il gagauso (o gagauzo) in alfabeto latino. Oltre ai Gagausi nella regione vive fra l’altro anche una consistente minoranza bulgara (Ciscel 2007).
La situazione linguistica dell’Ucraina rimane emblematica dei tempi che cambiano e del ruolo fondamentale di una politica linguistica, che deve fare i conti sia con gli equilibri internazionali, sia con la storia delle popolazioni. Nel momento in cui l’Ucraina si è resa per la prima volta indipendente (dotata quindi di «una sua flotta e un suo esercito») sarebbe stato plausibile che l’ucraino, una volta riconosciuto lingua ufficiale dello Stato, fosse diventato senza difficoltà lingua dominante. Nonostante gli sforzi di una politica che ha investito molto nella promozione della lingua ucraina, si è dovuto fare i conti con una forte resistenza in Ucraina centrale e orientale. Il processo di russificazione, iniziato in epoca zarista e proseguito in epoca sovietica, ha prodotto un processo di osmosi fra le due culture che peraltro hanno una comune origine storica. Solo l’Ucraina occidentale, che in passato ha fatto parte prima del Regno polacco e poi dell’impero asburgico, ha subito un profondo influsso dell’Occidente. Non a caso si fanno sempre più forti le voci a favore dell’uso anche del russo quale lingua ufficiale dello Stato, dal momento che continua a essere usato da molti ucraini. Rimane, tuttavia, la complessa realtà di un Paese sostanzialmente diviso dal punto di vista linguistico, oltre che culturale, e che fatica a costruire la propria identità all’interno di equilibri politici più generali che riguardano non soltanto l’Ucraina, ma in fin dei conti i rapporti fra la Russia e l’Occidente. In Ucraina appare largamente diffuso un fenomeno di ibridazione, denominato suržik, che fonde gli elementi delle due diverse lingue.
In Bielorussia la lingua dominante continua a essere il russo, ma dagli anni Novanta si è sviluppata una politica di promozione del bielorusso, sancita in particolare dal referendum del 1995 che ha stabilito il bilinguismo. Il processo di ‘bielorussizzazione’, tuttavia, non ha avuto il successo sperato. Anche in Bielorussia è diffuso un fenomeno di ibridazione, la trasjanka (detta anche mešanka), che fonde gli elementi (soprattutto fonetici) del bielorusso con il russo.
Ancora più complessa è la situazione della Russia che, nonostante la riduzione del suo territorio con la frammentazione dell’Unione Sovietica, continua a rimanere uno Stato plurinazionale. La politica linguistica dell’Unione Sovietica si collocava all’interno di una politica più ampia che mirava al controllo dei diversi popoli, da un lato mediante l’uso di strumenti repressivi di ogni forma di autonomia nei confronti dell’autorità del partito, dall’altro tutelando almeno formalmente le diverse culture e lingue all’interno della pianificazione imposta dal Cremlino. Il russo conservava la sua posizione di lingua dominante a scapito delle lingue locali, e nelle singole repubbliche la sua conoscenza offriva il massimo prestigio sociale. Aspetti sia pur contraddittori convivono nella sua storia. In epoca sovietica si è assistito alla creazione di alfabeti, alla nascita di nuove lingue letterarie, allo sviluppo di un’etnografia che ha dato un importante contributo alla conoscenza dei popoli del Caucaso e dell’Asia centrale, ma anche dell’area del Volga e della Siberia fino all’Oceano Pacifico. Allo stesso tempo si deve rimarcare l’opera di russificazione, manifestatasi in epoca staliniana in modo eclatante con l’imposizione pressoché generalizzata dell’alfabeto cirillico alle lingue della Federazione, né si debbono dimenticare le pagine tragiche della deportazione di diversi popoli, legata alle drammatiche vicende della Seconda guerra mondiale. Il caso più famoso riguarda i tatari della Crimea, che solo nel 1989 ottennero il permesso di rientrare nella loro patria.
Per certi aspetti la politica linguistica di Stalin rinnovava così la politica dell’impero zarista, che aveva fatto del russo la lingua dominante dell’impero. Questo processo involutivo, comunque, non poté cancellare del tutto le tendenze autonomistiche presenti all’interno di uno Stato costituzionalmente federale. Non si deve peraltro dimenticare che il russo convive storicamente ancora oggi con lo slavo ecclesiastico, lingua di culto della Chiesa ortodossa russa, che ha manifestamente un’origine slavo-meridionale e che contribuisce significativamente a conservare i legami storici, culturali e religiosi che la Russia continua a intrattenere con il mondo balcanico.
Con il crollo dell’Unione Sovietica è andata in frantumi una complessa politica delle nazioni e delle lingue, costruita nel corso di diversi decenni e che ha avuto uno dei suoi manifesti più significativi nella Bol´šaja sovetskaja Enciklopedija (Grande enciclopedia sovietica, 1926-1947). Sul piano linguistico il russo non solo ha perso nel giro di pochi anni il ruolo internazionale che aveva solidamente creato con il sostegno ai diversi movimenti di liberazione in Asia, in Africa e in America Latina, ma ha visto progressivamente ridurre il peso della sua lingua e della sua cultura in Europa, persino in quelli che ora sono diventati i nuovi Paesi confinanti. Nonostante vi siano minoranze cospicue in questi Paesi, non sempre esse hanno potuto conservare un ruolo primario all’interno dei diversi Stati. Al contrario, spesso sono state emarginate, pagando lo scotto per l’egemonia di cui godevano in passato. Di conseguenza si è creato un forte movimento migratorio verso la Russia, che è venuto a compensare almeno in parte la bassa natalità del Paese, creando però ulteriori problemi sociali che hanno aggravato la situazione economica. Solo con la ripresa della sua economia la Russia ha cominciato ad attrarre dai Paesi confinanti una nuova immigrazione non caratterizzata dalla base etnica.
Anche al suo interno, con la crisi del sistema educativo sovietico, il russo è entrato in crisi, come dimostrano diversi appelli, da parte di linguisti e intellettuali, preoccupati per l’analfabetismo di ritorno, cui solo ora si sta cercando di porre rimedio con programmi che favoriscono l’apprendimento della lingua russa. Questi programmi di promozione e sostegno della lingua russa si rivolgono contemporaneamente anche ai Paesi confinanti e a quelli in cui sono presenti minoranze che parlano la lingua russa, finora del tutto trascurate. Si potrebbe pensare, però, che questa promozione all’estero, come pure il sostegno alle scuole russe, possano essere considerate anche lo strumento di una nuova politica egemonica, rinnovando i fasti di un passato non troppo lontano.
In Europa si è creata un’isola linguistica russa nella vecchia Prussia orientale, incuneata all’interno del territorio della Comunità europea, mentre una vasta comunità di parlanti russo si è stabilita negli ultimi decenni in Germania. Si tratta soprattutto dei discendenti delle antiche comunità tedesche, giunte nell’impero russo fin dai tempi di Caterina II e stabilitesi nella regione del Volga. Per loro era stata eretta la Repubblica socialista sovietica dei tedeschi del Volga, che ebbe fine con le deportazioni staliniane. Questi nuovi immigrati, provenienti soprattutto dalle repubbliche dell’Asia centrale, spesso parlano con difficoltà la loro antica lingua e si sentono più vicini alla cultura russa. Profondamente legata al Paese d’origine rimane la comunità russa presente, con i suoi giornali e la sua letteratura in lingua, in Israele, dove il russo è secondo soltanto all’ebraico.
Il Caucaso e le aree limitrofe
Rimane complessa la situazione anche all’interno della Federazione russa, che, come dicevamo, rimane uno Stato plurinazionale che si estende fino al Mar Nero e al Caucaso e in Asia fino all’Estremo Oriente. Le attuali repubbliche autonome corrispondono in gran parte alle vecchie repubbliche autonome socialiste sovietiche e riflettono spesso l’ingegneria politica dell’epoca sovietica. Non ci occuperemo delle province e dei popoli dell’area del Volga e della Kama, di prevalente origine finnica o turca, e nemmeno delle popolazioni siberiane, le cui problematiche nell’ambito della geopolitica delle lingue le distinguono chiaramente dai popoli del Caucaso e dell’Asia centrale.
Tra i popoli dell’area del Volga e della Kama consideriamo solo i calmucchi, la cui repubblica autonoma fu restaurata soltanto nel 1958, dopo le deportazioni staliniane. Questa popolazione di stirpe mongola cerca di recuperare la propria lingua, il calmucco, a cominciare dall’insegnamento scolastico nella scuola primaria. In particolare si vorrebbe abbandonare il cirillico per riutilizzare l’alfabeto inventato nel 1648 dal monaco buddista Zaya Pandita, chiamato scrittura chiara (todo bichig) sulla base dell’alfabeto classico mongolo, che fu usato fino al 1924, ma il progetto incontra grandi difficoltà. Di fede religiosa buddista, i calmucchi hanno per lingua religiosa il tibetano.
Nel Caucaso russo lo status delle diverse lingue riflette l’autonomia, più o meno ampia, delle numerose etnie, manifestando i difficili equilibri dell’area, soprattutto quando l’autonomia vuole trasformarsi in indipendenza, come nel caso drammatico della Cecenia. Nella Costituzione del 2003 è scritto a chiare lettere che in Cecenia le lingue ufficiali sono il ceceno e il russo, ma che la lingua del dialogo interetnico e dei documenti ufficiali è il russo. Il primo presidente della repubblica cecena, Djokar Dudaev, che nel 1991 proclamò unilateralmente l’indipendenza, nel 1992 aveva proposto di introdurre nuovamente l’alfabeto latino, che era stato abbandonato nel 1938. In questi primi anni del 21° secolo si sta cercando ancora una volta di reintrodurre in maniera progressiva l’alfabeto latino, seguendo una tendenza che investe l’intera area turcofona del Caucaso e dell’Asia centrale.
Particolare è il caso dell’Ossezia. Mentre la Repubblica dell’Ossezia settentrionale-Alania appartiene alla Federazione russa, l’Ossezia meridionale (come l’Abkhasia) appartiene territorialmente alla Georgia, costituendone una provincia autonoma, ma ha proclamato unilateralmente la propria indipendenza. Vi si parlano due standard diversi, entrambi con pari dignità letteraria: il loro uso ufficiale è limitato rispettivamente dal russo e dal georgiano i cui relativi alfabeti ne hanno a lungo distinto le corrispondenti scritture, anche se ai tempi di Stalin fu imposto per entrambi il cirillico. I conflitti che hanno segnato questi ultimi decenni hanno determinato profonde ricomposizioni delle popolazioni, con gravi ripercussioni sul piano sociale e su quello culturale.
Le due repubbliche autonome del Caucaso settentrionale, quella dei Caraciai e Circassi e quella dei Cabardini e Balcari, dividono popolazioni caucasiche della medesima etnia: i circassi e i cabardini parlano la lingua cabardino-circassa e appartengono all’etnia circassa; i caraciai e i balcari sono di etnia turca e parlano la lingua caraciaia-balcara. Quest’ultima denominazione è stata adottata soltanto negli anni Cinquanta. Prima gli studiosi utilizzavano vari altri nomi come ‘tatara montanara’, ‘tatara giagataj’ o ‘turca montanara’. Sulla spinta delle etnie turche esiste il progetto di ricostituire una repubblica cabardino-circassa a Settentrione e una caraciaia-balcara nel Meridione montuoso, che ricomporrebbe in modo più coerente l’intera area, a maggioranza musulmana, in cui è presente anche una significativa comunità cosacca.
La repubblica del Daghestan è quella che mostra la massima frammentazione etnica all’interno della Repubblica federale russa. Con una popolazione di oltre 2,5 milioni di abitanti, in cui i russi non superano il 5%, l’esteso territorio montuoso è abitato da diverse etnie caucasiche e turche, le cui lingue sono riconosciute come lingue ufficiali, ma vengono usate per l’insegnamento solo nelle scuole primarie per poi diventare materia di insegnamento. Con la conquista del Caucaso nel 19° sec. il russo si è imposto come lingua della comunicazione a scapito della lingua nogai. Proprio a quell’epoca risalgono una serie di migrazioni di diverse popolazioni caucasiche nell’impero ottomano e, in seguito a ciò, in Paesi come Turchia, Siria, Giordania, Irān e ῾Irāq vivono ancora alcune minoranze. Il processo di russificazione si è intensificato in epoca sovietica, anche mediante l’imposizione dell’alfabeto cirillico (1938).
L’intera area caucasica, con la sua miriade di etnie e di lingue, mostra tutte le difficoltà connesse all’applicazione del principio di autodeterminazione dei popoli e soprattutto la rischiosa scommessa di realizzare il modello occidentale dello Stato-nazione-lingua. L’Armenia e l’Azerbaigian si sono fronteggiati in un pericoloso conflitto per la regione del Nagorno-Karabah, in cui risiede la minoranza linguistica armena del Paese azero, che ha provocato significativi flussi migratori. I nuovi delicati equilibri politici si riflettono chiaramente anche sul piano delle lingue e delle loro scritture. All’indomani della dissoluzione dell’Unione Sovietica il nuovo orientamento geopolitico dell’Azerbaigian si è manifestato chiaramente nel cambio dell’alfabeto nella scrittura dell’azero. Proprio come aveva fatto la Turchia ai tempi di Kemal Atatürk, è stato progressivamente abbandonato l’alfabeto cirillico a favore dell’alfabeto latino, la cui adozione è stata decretata ufficialmente nel 2001. In Georgia la repubblica autonoma dell’Abkhasia, proclamatasi unilateralmente autonoma, ha suscitato un conflitto che ha prodotto flussi migratori, provocando una forte ricomposizione etnica della regione. La lingua abcasa è lingua di istruzione solo nelle scuole primarie, mentre rimane dominante la lingua russa. Unica lingua ad aver adottato l’alfabeto georgiano in epoca staliniana, è ritornata al cirillico modificato ancora in epoca sovietica.
Per il georgiano, come del resto per l’armeno, lingue di antica tradizione e scrittura, la raggiunta indipendenza è stata accompagnata da una grave crisi economica e da una serie di tragici conflitti, mettendo a dura prova ogni politica linguistica che, comunque, ha visto ridurre, talvolta anche in modo rilevante, il ruolo del russo e della cultura russa.
L’Asia centrale
In Asia centrale le lingue difficilmente ricalcano i confini delle nazioni e sono diffuse, anche in modo consistente, nei Paesi confinanti: il tagico ha un numero maggiore di parlanti in Afghānistān, rispetto allo stesso Tagikistan, anche se la lingua scritta si distingue per la diversa standardizzazione, sviluppatasi in epoca sovietica. Vi sono significative minoranze che parlano uzbeko anche in Tagikistan e Afghānistān. Il turk;meno a sua volta è presente ben oltre i confini in Irān e Afghānistān. Il kazaco è parlato anche da una consistente minoranza in Cina. All’interno dell’Uzbekistan, nella repubblica autonoma del Karakalpakstan ha dignità di lingua ufficiale il karakalpaco.
Alla ricerca di nuovi orientamenti geopolitici alcune di queste nazioni, all’indomani dell’indipendenza dall’URSS, si sono proposte di abbandonare l’alfabeto cirillico a favore dell’alfabeto latino. Nel 1989 in Tagikistan il governo propose persino di reintrodurre l’alfabeto arabo. Il cambio dell’alfabeto è un passo dalle conseguenze importanti che mira ad affievolire i legami con la Russia, mentre l’adozione dell’alfabeto latino apre all’influenza del mondo occidentale e soprattutto alla Turchia, la cui lingua è affine alla maggioranza delle parlate dell’Asia centrale. Al momento hanno iniziato ad adottare l’alfabeto latino solo il Turkmenistan, l’Uzbekistan e, a ruota, il Karakalpakstan.
In Asia centrale, con più o meno successo, si promuove la rinascita delle singole lingue nazionali, che con l’indipendenza hanno acquisito un nuovo prestigio sociale. In questo revival della lingua e della cultura nazionali si comprende il processo di cambiamento della toponomastica, che in Asia centrale ha toccato persino i nomi delle capitali. Per la capitale del Kirghizistan è stato abbandonato il nome del rivoluzionario Frunze per tornare al nome antico nella variante Bishkek (che significa «zangola» in kirghiso). Naturalmente la promozione delle lingue si è realizzata soprattutto attraverso mirate politiche scolastiche, le quali cercano di estendere l’uso delle lingue nazionali all’istruzione superiore e universitaria. Questo processo, insieme alla consistente emigrazione delle comunità russe, ha finito per promuovere un processo di ‘derussificazione’ dell’Asia centrale (Landau, Kellner-Heinkele 2001).
In alcuni Paesi dell’Asia centrale il russo e la minoranza russa, nonostante la forte emigrazione verso la Russia, continuano comunque a giocare un ruolo di grande rilievo, pur subendo le alterne vicende dei delicati equilibri internazionali dell’area, soprattutto in connessione con il conflitto in Afghānistān. Nella politica linguistica dei Paesi dell’Asia centrale, tuttavia, hanno assunto un ruolo fondamentale le diverse lingue dominanti, il tagico, l’uzbeko, il turkmeno, il kazaco, il kirghiso. Soltanto nel Kirghizistan il russo ha conservato lo status di lingua ufficiale. Ne consegue il progressivo depauperamento della conoscenza della lingua russa che rappresentava l’idioma della classe dirigente e della comunicazione internazionale, non sempre adeguatamente sostituito da un’altra lingua (in primo luogo l’inglese), con il rischio di provocare l’isolamento delle nuove generazioni.
Conclusioni
Nella fascia geografica che dai Balcani si sviluppa fino all’Asia centrale possiamo identificare nelle politiche linguistiche dei diversi Paesi una serie di questioni comuni, dall’alfabeto al multilinguismo, dalla rinascita della lingua materna all’adozione di nuove politiche per il suo sviluppo e la sua salvaguardia. Soprattutto, però, si può constatare una dinamica simile che tende alla realizzazione anche in queste aree del principio Stato-nazione-lingua.
Le lingue di quest’ampia fascia territoriale con il loro potenziale di identificazione sociale giocano e giocheranno un ruolo fondamentale nella geopolitica delle diverse aree. I partiti e gli uomini politici al potere cercano in tutti i modi di intercettare le spinte sociali espresse dalla ‘lingua materna’, ma inevitabilmente, al di là di ogni dirigismo, debbono alla fine tener conto della situazione reale, sia delle comunità dei parlanti, sia degli equilibri regionali e internazionali. In particolare, il rinnovato peso internazionale della Russia giocherà inevitabilmente un ruolo importante.
Nell’elaborazione delle politiche linguistiche svolgono comunque un ruolo fondamentale i linguisti, spesso ancora molto legati ai canoni ottocenteschi occidentali e comunque pressati dalla necessità di costruire uno spazio comune della comunicazione e dell’educazione. Nel desiderio di liberarsi delle vecchie egemonie, di fronte ai timori della globalizzazione e dell’intercultura, il rischio è di chiudersi, promuovendo tout-court politiche di purismo e di difesa a oltranza del proprio patrimonio, o peggio ancora di giustificare, sia pure indirettamente, conflitti e pulizie etniche. A loro spetta la grave responsabilità di aiutare a traghettare le lingue, vecchie e nuove, fuori dai nazionalismi o dalle aspirazioni egemoniche, anch’esse vecchie e nuove, cercando soluzioni che siano in grado di salvaguardare le lingue minoritarie e più in generale le lingue minori nel nuovo fluido contesto internazionale, sfruttando a tal fine soprattutto le straordinarie opportunità offerte dai nuovi mezzi di comunicazione.
Bibliografia
Sulle singole lingue o aree geografiche non è possibile offrire una bibliografia mirata e si può rimandare solo ad alcune ricerche, utili soprattutto sul piano metodologico o per l’esame di esempi fondamentali. Alcuni dei seguenti saggi tengono conto anche dello sviluppo storico delle diverse aree:
M. Perotto, Lingua e nazionalità nelle repubbliche postsovietiche, Santarcangelo di Romagna 1996.
P. Sériot, Faut-il que les langues aient un nom? Le cas du macédonien, in Le nom des langues, éd. A. Tabouret-Keller, 1° vol., Les enjeux de la nomination des langues, Louvain 1997, pp. 167-90.
J.M. Landau, B. Kellner-Heinkele, Politics of language in the ex-Soviet Muslim states, Ann Arbor-London 2001.
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Le discours sur la langue en URSS à l’époque stalinienne (épistémologie, philosophie, idéologie), éd. P. Sériot, Lausanne 2003.
C. Conti, Migrazioni postmoderne: il Caucaso e l’Asia centrale dopo la dissoluzione dell’Urss, in La grande regione del Caspio. Percorsi storici e prospettive geopolitiche, a cura di L. Zarrilli, Milano 2004, pp.134-64.
La situazione linguistica attuale nell’area a standard neoštokavi (ex-serbo-croato), a cura di R. Morabito, «Studi slavistici», 2006, 3, pp. 299-352.
Marginal linguistic identities. Studies in Slavic contact and borderland varieties, ed. D. Stern, Ch. Voss, Wiesbaden 2006.
M.H. Ciscel, The language of the Moldovans: Romania, Russia, and identity in an ex-Soviet republic, Lanham 2007.
B. Dave, Kazakhstan: ethnicity, language and power, London-New York 2007.
Le tabelle, curate da Svetlana Fedotova, sono state elaborate in base a fonti a stampa, come Jazyki Rossijskoj Federacii i sosednich gosudarstv. Enciklopedija (Le lingue della Federazione Russa e degli Stati confinanti. Enciclopedia), a cura di V.N. Jarceva, V.A. Vinogradov, K.A. Poceluevskij, 3 voll., Moskva 1997-2005, e a siti web ritenuti più affidabili e aggiornati, come:
Nation master, www.nationmaster.com (5 maggio 2009).
U.S. Census Bureau, www.census.gov (5 maggio 2009).
Gosudarstvennoj Statistiki, http://www.gks.ru (5 maggio 2009).
Elektronnaja versija bulletenja Naselenije i obščestvo, http:// demoscope.ru (5 maggio 2009).
United Nations population fund, http://www.unfpa.org (5 maggio 2009).
Evertype, http://www.evertype.com (5 maggio 2009).
Writing systems & languages of the world, http:// www.omniglot.com (5 maggio 2009).
Rimane difficile offrire dati sicuri, a causa della mancata omogeneità o per la discrepanza fra le fonti. Nella compilazione delle tabelle si è voluto privilegiare il processo di formazione dei nuovi Stati indipendenti, partendo dallo Stato e dalla lingua ufficiale. Non ci si limita a dare il numero degli abitanti, ma se possibile vengono offerte le percentuali delle varie etnie che compongono la popolazione. Particolare rilievo viene dato all’alfabeto in uso, segnalando anche gli alfabeti usati prima del 20° sec. e i cambiamenti avvenuti nel secolo scorso.