Le migrazioni barbariche e la fine dell'impero romano d'Occidente
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le migrazioni barbariche possono essere lette come un episodio del millenario scontro tra nomadi e sedentari. L’impero si costituisce a sua volta come una reazione dei popoli mediterranei alla pressione dei popoli settentrionali e orientali. Dopo vari momenti di particolare tensione tra impero e popolazioni confinanti tra il II e il IV secolo, la grande migrazione parte nel 375 dalla regione danubiana, e nel giro di un secolo cancella in Occidente il potere unitario dell’impero romano.
Le migrazioni che tra il IV e il V secolo travolgono l’ordinamento unitario dell’area mediterranea occidentale si inscrivono nella plurimillenaria storia euro-asiatica dell’incontro-scontro tra sedentari (praticanti l’agricoltura in un’ampia fascia a clima temperato che dal Mediterraneo giunge fino al Mar Cinese Orientale) e nomadi-pastori che occupano le regioni poste a nord di quella fascia, ma che, spinti da varie ragioni di carattere climatico, demografico ecc., tendono all’espansione e sono costantemente attratti dalle terre dei sedentari.
Nella parte occidentale di questo immenso territorio, i movimenti migratori più ampi e durevoli risultano essere quelli delle popolazioni cosiddette indoeuropee che, secondo l’ipotesi attualmente più accreditata, ancorché discussa, dall’archeologa e linguista lituana Marija Gimbutas, si irradiano in fasi successive tra il V e il II millennio a.C. dalle steppe uralo-pontiche verso Europa, Transcaucasia, Anatolia, Iran, India settentrionale. Da queste migrazioni si formano le varie culture indoeuropee, tra le quali nel primo millennio emerge gradualmente, nel Mediterraneo centro-orientale, la civiltà ellenica. A partire dal II secolo a.C. l’espansione militare di Roma tende infine a creare una vasta area di stabilità politica erede della cultura ellenica e protetta da ulteriori infiltrazioni delle popolazioni centro e nord-europee. La resistenza di quest’area, gravitante sul Mediterraneo, è tuttavia più volte messa alla prova dalle aggressioni del mai quieto mondo dei nomadi, fino a cedere del tutto, nella parte occidentale, a partire dai primi anni del V secolo.
Accentuando, da una prospettiva “romanocentrica”, l’aspetto guerresco e distruttivo degli spostamenti migratori che segnano la fine dell’ordinamento imperiale in Occidente, la storiografia parla di “invasioni barbariche”, mentre, guardando a quegli eventi come un episodio storicamente creativo del lunghissimo confronto tra nomadi e sedentari, si parla (soprattutto nella storiografia di lingua tedesca dal XIX secolo a oggi) di “migrazione dei popoli” (Völkerwanderung).
I popoli aggressori, genericamente accomunati sotto il nome di Germani, hanno origine dal processo di indoeuropeizzazione che, provenendo dall’Europa centro-orientale, interessa la penisola danese e il meridione della penisola scandinava (3000-2500 a.C. ca.). Da qui i Germani ripartono già verso la fine del II millennio espandendosi verso la costa baltica e il Mare del Nord. Intorno al VI secolo a.C. essi raggiungono la Valle del Reno e vengono a contatto, anche violento, con i Celti. Più tardi, ma comunque prima dell’epoca di Cesare che ce ne dà già notizia, i Germani raggiungono, nella loro espansione verso sud, anche il Danubio. Reno e Danubio svolgono di fatto un ruolo di contenimento dell’espansione germanica, dapprima come semplici confini naturali, poi anche come confine politico, presidiato dalle legioni romane (il limes).
Già alla fine del II secolo a.C. Roma viene a contatto con tribù germaniche in movimento verso sud. Dopo una pericolosa avanzata, Cimbri e Teutoni vengono sconfitti completamente nel 102 e nel 101 a.C. dalle legioni di Gaio Mario. Il successivo scontro con i Germani si ha allorché Cesare, alla conquista della Gallia, si batte vittoriosamente (58 a.C.) con i Suebi di Ariovisto, i quali premono sulla regione e l’avrebbero probabilmente a loro volta conquistata, se non fossero stati preceduti dai Romani: tale è almeno la convinzione di Cesare.
Cinquant’anni dopo, il tentativo di Roma di inglobare nei domini dell’impero le terre abitate dai Germani fino al fiume Elba si scontra nel 9 con la sollevazione capeggiata da Arminio, che nella selva di Teutoburgo annienta le tre legioni di Quintilio Varo, finché Tiberio decide di abbandonare le incerte conquiste a est del Reno, d’ora in poi considerato confine dell’impero. Nel frattempo, la tentata conquista romana ha fatto spostare verso sud-est, in Boemia e in Moravia, due tribù suebe, i Marcomanni e i Quadi.
Nella regione dei Balcani, la popolazione mediterranea unificata sotto le insegne di Roma incontra invece un coacervo etnico in cui alle popolazioni locali si sovrappongono nei secoli tribù scitiche e sarmatiche (Iazigi e Rossolani) secondo una perdurante prassi migratoria che porta nomadi e seminomadi dalle steppe pontiche verso la valle del Danubio.
Non mancano comunque i contatti pacifici e gli scambi commerciali (armi, prodotti di lusso, vino, monete ecc. contro schiavi, pellicce, miele, ambra ecc.), che agiscono come fattori di reciproca conoscenza e trasformazione. Il crescente impiego di barbari nei ranghi ausiliari dell’esercito, se costituisce per costoro una scuola di guerra di cui faranno tesoro, fornisce a Roma giovamenti importanti ancorché provvisori, sia per l’alleggerimento della pressione sulle frontiere sia per il rafforzamento di un esercito che “divora” uomini e spopola campagne.
Un primo grande tentativo migratorio delle tribù stanziate lungo il limes si verifica a partire dal 166, causato anche dalla spinta dei movimenti di altre tribù, come i Goti, Germani orientali che dalla regione della Vistola si stanno dirigendo verso il Mar Nero. Ha allora inizio la penetrazione dei Quadi e dei Marcomanni sul medio corso del Danubio, mentre gli Iazigi violano il limes in Dacia. L’incursione più pericolosa si ha nel 169, quando una grande coalizione germanica sotto il comando dei Marcomanni irrompe in profondità dalla Pannonia giungendo fino ad Aquileia, prima di essere sterminata dalle truppe di Marco Aurelio.
Dopo alcuni anni di relativa quiete, nel III secolo i movimenti e le conseguenti pressioni sul limes si fanno più intensi. Negli anni Trenta sono gli Alamanni, un vasto aggregato germanico (letteralmente “tutti gli uomini”), a mettere in difficoltà le truppe romane nell’area degli Agri decumates.
Dal 248 in poi i Goti, con le loro incessanti incursioni per terra e per mare, diventano i principali nemici nell’area balcanica, fino a che Claudio, detto appunto “Gotico”, non riesce a infliggere loro una pesante sconfitta a Naisso (269), mentre nel basso corso del Reno la grande federazione dei Franchi, fermata in un primo tempo da Gallieno, nel 258 riesce a sfondare il limes e a spingersi attraverso la Gallia fino in Spagna, prima di essere ricacciata al punto di partenza. Intanto anche i Pitti passano all’attacco, e i Sassoni bersagliano con le loro incursioni dal mare le coste settentrionali della Gallia, mentre, dalla Germania nord-orientale, Burgundi e Vandali iniziano a loro volta la migrazione verso ovest e verso sud. L’impero, indebolito dall’anarchia militare che vede il frenetico succedersi di nomine imperiali e perfino la temporanea fine dell’unità politica, viene messo a durissima prova su tutti i confini, dalla Britannia all’Egitto, dal dinamismo dei popoli esterni, finché ritrova unità e solidità con gli imperatori illirici.
Sotto Diocleziano e Costantino la quiete sembra prevalere, ma intanto sono stati già abbandonati gli Agri decumates e la Dacia; inoltre la “barbarizzazione” dell’esercito continua e si accentua, mentre in numero crescente i barbari vengono insediati entro i confini imperiali in qualità di coloni (inquilini o laeti), a colmare i vuoti del declino demografico. Nel frattempo, intorno al 350, i Goti sono convertiti al cristianesimo ariano dal vescovo eretico Wulfila, e l’arianesimo si diffonde tra tutti i barbari, a eccezione dei Franchi, che si convertiranno in seguito al credo niceno.
Maggiori tensioni si registrano verso la metà del IV secolo, ma poi è la comparsa improvvisa degli Unni a trasformare profondamente la situazione, sospingendo verso occidente gli altri popoli e dando avvio alla grande migrazione (Völkervanderung in senso stretto).
Partiti dalle steppe centro-asiatiche, con il loro ingresso violento nella regione a nord del Mar Nero questi nomadi turcomanni sconfiggono prima gli Alani, e poi cancellano il dominio degli Ostrogoti che si assoggettano o fuggono insieme a gruppi di Alani e ai Visigoti verso la regione della Mesia, chiedendo ospitalità nel 375 all’imperatore Valente. La gestione di una così complessa ospitalità si dimostra subito problematica e il tentativo di Valente di domare con la forza l’irrequietezza dei Goti si trasforma nella durissima sconfitta di Adrianopoli (378), dove anche l’imperatore trova la morte. La pace che Teodosio si affretta a trattare comporta un ben più ampio e favorevole programma di insediamento dei Visigoti, che vanno a occupare da foederati Tracia e Mesia. La debolezza dello stato induce comunque i Visigoti a non placarsi: dopo anni di scorrerie nella penisola balcanica, nel 401 giungono in Italia al comando di Alarico. Sconfitto dal generale romano di origine vandala Stilicone, Alarico resta comunque pericoloso, tanto da tornare all’assalto dell’Italia nel 408, per giungere a Roma, e farne il famoso sacco, nell’agosto del 410. Da qui, sotto il comando di Ataulfo, i Goti si dirigono in Gallia e occupano l’Aquitania (413) per poi sconfinare in Spagna dove, tra il 416 e il 418, il nuovo re visigoto Vallia sconfigge in nome di Roma Vandali e Alani. Tornati in Aquitania, i Visigoti consolidano il loro dominio e lo estendono poi nuovamente – a partire dal regno di Eurico – a buona parte della Spagna.
Ma l’inizio della fine, per la pars occidentale dell’impero, si può datare al 31 dicembre 406, quando orde di Alani, Vandali e Suebi – a cui si uniscono, ribelli e invasori del loro stesso stato, un folto gruppo di contadini della Pannonia – attraversano il Reno gelato nei pressi di Magonza, e dilagano poi indisturbati in Gallia: unici a difendere il limes sono altri barbari foederati, i Franchi, perché Stilicone non può sguarnire di truppe l’Italia con Alarico alle porte.
Dopo aver saccheggiato la Gallia, nel 409 gli invasori scendono in Spagna dove si stanziano ripartendosi il territorio: Vandali Asdingi e Suebi occupano la parte nord-occidentale, Vandali Silingi il sud, Alani il centro. Queste ultime due popolazioni vengono, come sappiamo, sterminate dai Visigoti di Vallia, mentre nel 429 i Vandali Asdingi guidati da Genserico passano in Africa, e ne fanno il loro temuto regno infliggendo una grave mutilazione all’impero. Dotatosi di una flotta, Genserico persegue con successo una politica di alleanze e di espansione nel Mediterraneo controllando Sardegna e Corsica, conquistando la Sicilia, saccheggiando terribilmente la stessa Roma (455).
Dal 443 i Burgundi, che gli Unni sette anni prima avevano cacciato dal loro territorio renano (con la distruzione di Worms), ottengono dall’impero di potersi insediare nella regione di Lione, dove danno vita a un regno di peso crescente, confinante a ovest con il regno visigoto. Nel nord, la Gallia presenta il regno gallo-romano di Siagrio, che confina a est con i domini dei Franchi. La Britannia, già da tempo sgombrata dalle truppe romane, viene occupata da Angli, Sassoni e Juti: la popolazione celtica e i romani residui arretrano cercando rifugio nelle regioni occidentali e al di là della Manica, in Armorica (l’odierna Bretagna).
Dal 430, intanto, gli Unni minacciano direttamente l’Europa e ottengono dall’impero, nella persona del generale Ezio, uno stanziamento in Pannonia. Da qui, formata una grande coalizione guidata da Attila, si volgono nel 451 verso la Gallia, ma Ezio, con una sua coalizione germanica, riesce a sconfiggerli. L’anno dopo Attila minaccia direttamente l’Italia, ma poi rinuncia alla conquista tornando nei suoi accampamenti in Pannonia, dove muore di lì a poco. Il suo impero non gli sopravvive a lungo.
In Italia, dopo il passaggio di Alarico, il potere imperiale cerca di riorganizzarsi trattando alleanze con i sovrani barbari. Valentiniano III riesce a disfarsi del generale Ezio che, come già un tempo Stilicone, sembrava troppo potente. Ma dopo Valentiniano, il potere è sempre più instabile: generali di origine barbarica, comandanti di un esercito ormai interamente barbarizzato, nominano ed eliminano imperatori a loro piacimento, e la sedes orientale influenza a sua volta la politica occidentale. Nel 475 il generale Oreste nomina infine imperatore il suo giovane figlio, Romolo, soprannominato Augustolo, ma le truppe si ribellano al proprio generale, acclamando re, il 23 agosto 476, Odoacre. Oreste viene eliminato e Romolo Augustolo deposto, né Odoacre ritiene di dovere a sua volta nominare un imperatore. La sedes occidentale non esiste più.