Le milizie terrestri
Le operazioni militari che precedono nel tempo la prima vera guerra terrestre, che fu la scaligera - quelle dirette contro Padova (1304) e contro Ferrara (1308) e la stessa repressione della rivolta di Zara del 1311 - si muovono ancora fondamentalmente nelle coordinate tradizionali, tipiche dell'epoca comunale (1).
Stringendo alleanza con Firenze contro Mastino della Scala, Venezia si trovò a superare i vecchi limiti delle sue azioni militari. Insieme a Firenze si apprestava a condurre una guerra terrestre con finalità offensive, mirante alla conquista di precisi obiettivi della terraferma, che dunque comportavano un impegno su scala incomparabilmente superiore a qualunque operazione terrestre che fin allora aveva svolto (2). Persino per Firenze, che pure non era nuova a guerre terrestri, questa veniva giudicata da un esperto "la più alta impresa che mai avesse fatta il comune" (3). Inadeguato il potenziale proprio, anche congiunto con quello dell'alleato, non si poté far a meno di ricorrere in modo massiccio ai professionisti della guerra, ai mercenari, rimettendo loro una parte decisiva nello svolgimento delle operazioni e affidando l'esercito al comando esperto di un efficiente capitano generale, non più necessariamente patrizio. Era la prima volta e perciò quando il parmense Pietro Rossi ricevette dal doge l'investitura, col vessillo della Repubblica e il bastone di comando, la città partecipò numerosa al memorabile evento, salutandolo festosamente (4).
Se non l'abbandono della politica di prudente vigilanza del quadro in evoluzione, sul quale influire con strumenti diplomatici e con provvedimenti economici piuttosto che con interventi militari, la guerra segnò un cambiamento dell'azione in terraferma. In passato gli occasionali interventi militari erano rimasti comunque circoscritti nelle dimensioni e nei mezzi. Nel riassumerli Marin Sanudo Torsello distingue un modo levior di combattere i nemici della vicina terraferma da uno gravior: col primo si impediva semplicemente, per mezzo del blocco navale, di far arrivare vettovaglie alle città ostili, con l'altro si faceva ricorso a navigli e alla costruzione di macchine, a quelle attrezzature belliche, insomma, che di volta in volta venivano giudicate le più idonee per attaccare i centri abitati sui fiumi e in zone paludose (5). Erano metodi ormai felicemente collaudati, che tuttavia si rivelarono insufficienti quando nel Trecento Venezia cominciò ad allargare in maniera considerevole il raggio delle operazioni terrestri, ciò che implicava una durata notevolmente maggiore delle imprese militari. Le nuove più impegnative esigenze richiedevano infatti un incremento e una diversificazione della forza d'urto. D'ora in poi la composizione degli eserciti veneziani dovrà sempre fare affidamento non solo su forze locali ma anche su quantità più o meno cospicue di mercenari. A loro s'era già fatto ricorso in precedenza, tuttavia senza mai giungere alla stipulazione di grossi contratti di condotta militare.
Se la guerra del 1336-1339 - coronata dal successo, a differenza del prologo ferrarese - è stata giustamente giudicata tra le più determinanti del secolo sia per la quantità di effettivi impiegati da una parte e dall'altra (6), sia per i suoi esiti politici diretti e indiretti, è vero però che dal punto di vista puramente militare fu "ben poco brillante" perché non sboccò mai in una vera battaglia campale. "Fu una guerra di logorio delle forze più che altro economiche" per tutte le parti coinvolte, nota Luigi Simeoni (7), in particolare per gli Scaligeri, per la loro posizione di inferiorità dovuta al fatto che si svolse sul loro territorio, mentre Venezia non ebbe praticamente nessun lembo di terra sul quale il nemico potesse rifarsi dei danni causati da saccheggi e devastazioni.
Non si può tuttavia negare che furono i frutti colti in questa guerra, se non proprio a generare, certamente ad avere una loro parte nei gravi conflitti che coinvolgeranno un paese menomato dalla peste sfociando in esperienze disastrose. La loro ripresa negli anni Settanta del secolo culminerà nelle azioni congiunte in quel conflitto totale, per mare e per terra, che fu la guerra di Chioggia, molto più temibile delle precedenti grazie alle azioni coordinate da parte dei nemici che, concentrandosi in blocco contro Venezia, finirono col minacciarne la stessa sopravvivenza.
Le azioni contro Padova e contro Ferrara erano state contrassegnate da incertezze e scarsa continuità tanto nei consigli e nelle commissioni preposte agli affari che riguardavano la guerra, quanto nei comandanti in campo, che erano veneziani (quello generale col titolo di conservatore). Le vicende della Serrata e delle cospirazioni non consigliavano deleghe troppo ampie di poteri (8), ma se questa era una buona cautela, per gli equilibri interni certamente non contribuiva all'efficienza di chi doveva condurre le operazioni. Ciò non poteva non riflettersi sulle truppe, fatte per la gran parte di volontari e di coscritti levati nell'area della laguna, a Ferrara integrate da uno o due reparti dalmati capeggiati dal conte di Veglia (9). Più efficace, e infatti coronato dall'esito positivo della spedizione, fu lo spiegamento militare contro Zara. Anche qui, come già in passato ma in misura certamente maggiore, fu messo in atto il reclutamento immediato delle risorse locali, rinforzate da un apprezzabile contingente di mercenari stranieri.
Le numerose rivolte alle quali la Repubblica dovette far fronte, due a Zara, due a Creta, una a Capodistria e a Trieste, misero indubbiamente a dura prova non tanto la facoltà di progettare e preparare un'azione militare con lungimiranza e col dovuto scrupolo, quanto la capacità di reagire prontamente, con tempestività, alle occorrenze improvvise.
La repressione della rivolta dell'aristocrazia terriera greca a Creta nel 1342 avviene senza difficoltà con l'impiego di forze tradizionali veneziane. Maggiori preoccupazioni - anche perché a dare un convinto sostegno ai ribelli è ancora una volta il re d'Ungheria - desta invece la seconda rivolta di Zara (1345). Essa tiene Venezia impegnata più a lungo. Partecipano alle operazioni mercenari padovani, lombardi, tedeschi, forze della Slavonia (10), ma il peso principale viene sostenuto anche in questo caso da truppe provenienti dai territori veneziani, comandate da un capitaneus generalis terre e da un capitano da mar, entrambi patrizi veneziani. Vengono schierati anche reparti di fanteria navale che, scesi a terra, riescono a mettere in fuga gli Ungheresi, rompendo l'accerchiamento dell'esercito veneziano, divenuto, all'interno della sua "fortissima bastita" (11), da assediante assediato. Sono contingenti che trovano impiego sia imbarcati sulle navi sia a terra.
Con minore impegno di tempo e di energie, secondo gli schemi collaudati a Zara, cioè invio tempestivo di comandanti (capitano da mar e capitano da terra) e reparti veneziani (copiosus et velox exercitus) - qui con l'appoggio di forze del paisanatico -, costringono alla resa i Capodistriani, che erano stati istigati alla ribellione, nel 1348, da Aquileia, da Gorizia e dall'Austria (12), ma soprattutto - secondo Raffaino Caresini - "vano errore dueti" che la potenza veneziana fosse fiaccata dalla peste, "cogitantes Venetorum potentiam fore ob ipsam epidemiam diminuitam" (13).
In tutte queste operazioni di difesa dell'integrità del Dominio, il ricorso a milizie d'estrazione propria, cittadini, sudditi, satelliti, piuttosto che l'appoggiarsi in prevalenza a mercenari forestieri, pur dopo la tutto sommato felice esperienza della guerra scaligera, va certo attribuito così alla necessità di agire con prontezza e in conserva con le forze marittime come alla loro sperimentata versatilità anfibia e al tipo d'addestramento richiesto in queste particolari contingenze.
Si trattava di guerra d'assedio, con la necessità di impiegare gran parte della milizia in funzione di guastatori "pro vastando", e per costruire fortificazioni, bastie, terrapieni, steccati, serragli, tutte specializzazioni per le quali - ricorda da Zara nel 1345 un capitano generale al senato (14) - occorreva gente come l'avrebbero potuta ad esempio fornire Pago ed Arbe, ma che erano del tutto estranee ai mercenari tedeschi. Era risaputo che ad esse "Teutonici [...> non sunt apti". Ma senza dubbio va anche considerato che cittadini, sudditi, amici e satelliti sarebbero stati più sensibili dei forestieri alla perdita di una parte del territorio.
Se con l'ingaggio di un forte contingente mercenario comandato dal prestigioso condottiero Luchino dal Verme, in occasione della seconda rivolta di Creta (1363), viene invece seguita una strada diversa, la ragione principale deve ricercarsi nella circostanza che i ribelli sono veneziani: i feudatari dell'isola insorti contro l'applicazione di nuovi tributi. Governatore generale dell'esercito fu però un veneziano, Pietro Morosini. Così, per sedare la ribellione di Trieste (1368-1369) si ripresero le misure osservate abitualmente nei confronti degli insorti, affidandosi soprattutto a forze proprie, questa volta rinvigorite da una decina di bandiere assoldate da Nicolò Morosini a Verona (15), da elementi istriani e persino ungheresi e dal servizio volontario del condottiero Nicolò d'Este con cento elmi. Al quale ultimo, nonostante la grande fama della quale godeva, non venne conferito il comando dell'esercito, come sempre in questi casi riservato ad un patrizio, Domenico Michiel. Le truppe del duca d'Austria, accorse in aiuto dei Triestini, che gli avevano offerto la città, furono costrette alla ritirata, e "per meglio assicurar la città" contro "la mala disposizione dei Triestini", scrive il Caroldo, furono costruite due fortezze che la dominavano, quella di mare e quella di San Giusto, sotto la supervisione di Allegrino, un esperto ingegnere presso la corte veronese di Cansignorio (16).
Il modo nel quale Venezia affrontò il problema delle ribellioni non può certamente costituire, o quanto meno costituire da solo, un buon osservatorio per cogliere lo stato della cultura militare terrestre dell'epoca. Un'attenzione maggiore dovrà essere rivolta alle ostilità che impegnarono la Repubblica più a fondo e più a lungo. Esse si articolano in interventi più complessi della riconquista di luoghi circoscritti, estendendosi alla conquista e al presidio di un certo numero di posizioni strategiche su un ampio territorio e richiedendo mezzi più rilevanti e di qualità migliore.
Va anche detto che, vista nel suo insieme, l'attività bellica terrestre svolta da Venezia nel Trecento è stata finora interpretata come un periodo di transizione, in funzione di sviluppi che vengono a maturazione in epoca successiva. In particolare si è indagato sul manifestarsi più o meno precoce, anche rispetto alle altre entità politiche della Penisola, di fenomeni che saranno caratteristici degli eserciti in età moderna, in primo luogo quelli connessi con l'organizzazione stanziale e con l'introduzione dell'uso delle armi da fuoco. Si tratta di aspetti certamente importanti, dei quali è di grande interesse cogliere la dinamica nel tempo.
Tuttavia l'angolo visuale finisce con l'essere alquanto limitativo, con poco riguardo alle realtà e ai problemi propri del periodo, condizionati da un insieme di dati originali e determinanti, come la presenza massiccia di milizie straniere in cerca di arruolamento, tedesche prima, inglesi poi. In più la sempre maggiore inclinazione degli Italiani a schivare il servizio militare, e anche le funzioni civili ad esso connesse, vedeva dilagare la pratica di farsi sostituire da altri e la frequente applicazione di multe per la mancata accettazione di incarichi militari e civili inerenti alla guerra o la disposizione che non potessero essere rifiutatili (17). A ciò si aggiunga la crisi demografica seguita alla peste del 1348, della quale si lamentano gli effetti ancora negli anni Sessanta e Settanta del secolo (18) e che da qualcuno viene presentata come causa dell'affievolirsi dell'"amor patriae". Tutto questo sullo sfondo dell'estrema mobilità dei confini delle Signorie in formazione, col venir meno dei tradizionali equilibri e con l'affermarsi di spinte egemoniche che di fatto rendono inevitabili gli scontri di maggior gravità che nel Trecento coinvolgono Venezia.
Il conflitto scoppiato per questioni di confine nel 1372-1373 (19) mise a nudo alcune gravi deficienze veneziane, prima tra esse la difficoltà di arruolare un numero adeguato di mercenari con la necessaria tempestività, risultando vano il tentativo di superare l'ostacolo col ricorso a forze proprie appoggiate a reparti di cavalleria assoldati frettolosamente in Romagna e capeggiati da un vicecapitano generale, Domenico Michiel. Non bastò che l'esercito fosse rafforzato da un gran numero di balestrieri veneziani sotto il comando di cento patrizi.
Venezia subì in questa circostanza la minaccia militare più pericolosa prima della guerra di Chioggia. E durante quest'ultima (1378-1381) (20), sarà sempre "el Signor de Padoa [...> cavo e vida de tute vixende che se fexe per tera contra Veniciani per nome de tuta la liga" antiveneziana (21). Così avvenne durante la guerra in Friuli (1381-1388), conclusasi con la sconfitta carrarese ad opera dell'esercito di Gian Galeazzo Visconti appoggiato dalla Repubblica (22), prima della definitiva disfatta nel 1404-1405.
Che tutti coloro che non siano iscritti nelle duodene si facciano registrare entro otto giorni, "quod omnes qui non essent scripti in duodenis debeant facere scribere se infra dies octo", delibera il senato nella seduta del 14 novembre 1345 (23), dando ordine che tale disposizione venga notificata per grida nelle singole contrade, così da raggiungere tutti coloro che erano chiamati ad osservarla. Quali fossero tali persone qui non viene esplicitamente ricordato nel ragionevole presupposto che ciò fosse ormai notorio. Si trattava infatti degli uomini atti alle armi abitanti in città e fuori, precisamente di quelli da un minimo di sedici ad un massimo di settanta anni (24). Potenziale di base della chiamata generale alle armi, essi erano tenuti a fornire i propri nominativi ai capi della contrada di appartenenza e a farsi iscrivere in uno dei due registri separati, uno destinato agli abitanti in città, l'altro a quelli di fuori, suddivisi entrambi in elenchi di dodici unità ciascuno, chiamati appunto duodene. Il criterio della contrada, introdotto nel 1328, era più efficace di quello del sestiere operante dal 1294, allo scoppio delle ostilità con Genova (25). Comunque, estesa o circoscritta, è sempre la struttura territoriale, con le solidarietà di vicinato, che costituisce la base della leva della milizia cittadina, e sotto questo aspetto si è più legati al passato di quanto non sarà nel secolo successivo quando per base si adotterà quella delle Arti.
Ciascuna duodena aveva un capo, che a sua volta dipendeva da quello della contrada, subordinato al caposestiere. In guerra, tutti i capisestiere obbedivano ad un capitano, patrizio, eletto dal senato.
Era su questa base che avveniva la chiamata per la leva della milizia cittadina e di tutto il Dogado. Le dozzine (duodene) non erano unità di formazione per il combattimento. La loro articolazione serviva per stabilire l'ordine in cui coloro che le componevano sarebbero stati chiamati in servizio. Infatti non si arruolavano i dodici coscritti insieme ma, secondo le necessità, uno, due o più uomini con l'indicazione anticipata della loro destinazione e della durata del servizio. Il turno veniva estratto a sorte (per texeras, ad bussolas et balotas) alla presenza di tutti gli interessati, espressamente convocati al Lido, a Sant'Elena oppure nella parrocchia dei Santi Giovanni e Paolo (26). Nello stesso modo era affidata al sorteggio la scelta dei sestieri cittadini che avrebbero preso le armi per primi. Poteva tuttavia accadere che in caso di emergenza si uscisse da questo schema con l'elasticità normalmente seguita in materia militare, per esempio inviando forze levate contemporaneamente in tutti i sestieri, come avvenne nell'estate 1369, quando si mandarono contro Trieste dodici patrizi, ognuno - secondo Gian Giacomo Caroldo (27) - a capo di cinquecento fanti veneziani, quasi tutti balestrieri. Nell'aprile 1380, durante la guerra di Chioggia, senza tener conto delle duodene e della posizione che vi occupavano i singoli, si decise di sorteggiare quali dovevano essere i primi due sestieri che avrebbero mandato al Lido tutti i loro uomini tra i diciotto e i cinquanta anni che non servivano già sulle galee, "omnes, tam nobiles quam populares". Con le loro armi dovevano mettersi a disposizione del capitano e dei provveditori per essere sostituiti, dopo otto giorni di permanenza ininterrotta, dai componenti dei sestieri sorteggiati in seguito (28). È vero che anche in questi frangenti numerosi Veneziani si offrirono volontari, in particolare per il servizio sulle imbarcazioni, oppure assoldarono a spese proprie dei balestrieri.
Nel 1336, per la guerra scaligera, il numero totale dei registrati nelle duodene è indicato in più di trentamila "cives et habitatores" tra i venti e i sessanta anni, quarantamila secondo un'altra fonte (29). Il sorteggio in questo caso indicò i sestieri di San Polo, Santa Croce e Dorsoduro, i cui esponenti vennero mobilitati per quindici giorni e, in tre contingenti guidati dal proprio caposestiere, inviati alla presa del castello delle Saline (30). Dopo di loro toccò ai primi estratti degli altri tre sestieri, che restarono anch'essi in servizio per quindici giorni, e così di volta in volta, fino a quelli estratti per ultimi, pure dopo la presa del castello. A costoro toccò il compito di custodire e difendere il confine. Il comando era affidato a un capitano "solemniter electus" tra il patriziato, che ebbe il cambio nel comando dopo un mese appena, un periodo certamente di breve durata, a quanto pare non più suggerita, come all'inizio del secolo, da ragioni di cautela politica, bensì da tutt'altre considerazioni, "nisi forsan infirmitate corporis gravaretur" in un ambiente poco sano (31). Sulla base dei dati disponibili si è stimato che l'insieme delle milizie veneziane allora di volta in volta in azione doveva aggirarsi sui milleduecentocinquanta uomini, cifra peraltro giudicata "proporzionata alla condizione dei luoghi, poco adatti a una massa maggiore" (32).
Poiché la guerra scaligera era molto sentita, non sorprende che il Piacentino possa non solo annotare che gli estratti "letanter iverunt", ma che si unirono a loro pure molti volontari, "etiam infiniti alii sine sortibus sequebantur" (33). Un entusiasmo, questo, paragonabile all'impegno civico mostrato da molti per la guerra di Chioggia.
Già nel 1336 s'era fissata una pratica della coscrizione "patrio more" con le modalità che "solet exercitus observari" (34), e nel 1343, all'epoca della guerra col Turco, si parla di una procedura osservata "secundum usum" (35). Ora, se nel 1345 in occasione della rivolta di Zara il senato deve ribadire l'obbligo, significa che non era rispettato da tutti, nonostante la limitata estensione della suddivisione amministrativa della contrada, che rendeva il tentativo di eludere i controlli per sottrarsi al servizio militare sicuramente più difficile di quanto non fosse possibile in passato, quando la leva aveva ancora per base la circoscrizione, più ampia e perciò meno agevolmente controllabile del sestiere.
Sempre nel 1345, per scoraggiare la renitenza si fece ricorso allo strumento della denuncia, premiata con una quota della pena pecuniaria applicata ai colpevoli (36).
C'era però la possibilità legale di farsi sostituire o di pagare un sostituto. Ne abbiamo dei casi già durante la guerra di Ferrara (37). Il costo variava in relazione all'impegno: andare a Zara era ovviamente più gravoso di quanto non lo fosse a Chioggia, perciò il sostituto pretese 10 lire al mese (38), che erano la paga corrente di un balestriere. Nel 1350 per il servizio nella flotta se ne pagarono 4, in altre occasioni 6 (39).
Per quanto il servizio militare fosse un dovere, veniva egualmente corrisposto 1 soldo, ma nel 1336 molti sarebbero andati "senza premio" (40), così nel 1380. Alle somme erogate dallo Stato agli arruolati si aggiungevano i contributi dei componenti della duodena risparmiati dal sorteggio. Costoro, infatti, erano comunque tenuti a partecipare almeno realiter all'impresa, coll'integrazione del salario dei mobilitati, per cui è stato ipotizzato che l'ampia apertura dell'iscrizione alle duodene anche a uomini che avessero superato l'età di effettiva idoneità a svolgere azioni militari fosse in realtà una misura finanziaria per far concorrere i privati non mobilitati all'assoldamento di coloro ai quali toccava l'onere di prendere le armi (41). La volontà di distribuire il peso finanziario di una guerra su tutti risulta da una pena pecuniaria trasformabile in detentiva in caso di insolvenza a carico di chi avesse contravvenuto al severo divieto. del novembre 1345 di allontanarsi da Venezia senza aver provveduto all'adempimento delle factiones comunis previste per la repressione della rivolta di Zara (42).
La chiamata generale riforniva l'esercito veneziano soprattutto di uomini a piedi, che di regola erano privi d'addestramento militare, a parte i balestrieri. Gli arruolati operavano da balestrieri o da pavesavi, e molti erano impiegati quali guastatori o per lavori di sterro, per costruzioni di serragli e di bastie, per deviazioni di corsi d'acqua. Nella guerra scaligera, per la preparazione del campo di Longare, tra i due rami del Bacchiglione, furono inviati dei "magistri fossores et alii laborantes" con legname ed altro materiale per apprestare ponti, fossati e simili opere per la fortificazione e la difesa del luogo (43). Sempre nella stessa guerra furono oltre quattrocento gli "homines rusticanos" che, movendo dal campo base della Motta, dopo aver incendiato tutti gli alloggiamenti costruiti per i soldati (domiculi et habitaculz), precedettero l'esercito veneziano muniti delle loro vanghe, zappe, badili, ronconi e altri attrezzi del genere, col compito di spianare la strada alla cavalleria e alla fanteria in marcia (44).
Soprattutto nella guerra di Chioggia e in quella carrarese del 1388 in appoggio del conte di Virtù assunsero una funzione di primo piano gli uomini che operarono sulle barche e sui ganzaroli, e con la loro grande esperienza maturata in mare seppero mantenere aperte le vie d'acqua che costituivano l'articolazione vitale del territorio e contribuire alla loro difesa, costruirono pontoni mobili per il bombardamento delle posizioni e delle città nemiche, s'infiltrarono nelle linee nemiche interrompendo le comunicazioni e appoggiarono gli assalti dell'esercito alle posizioni fortificate lungo i fiumi, portando - come sottolinea efficacemente Michael E. Mallett - "un gran numero di Veneziani, tanto patrizi che semplici marinai e balestrieri, a contatto diretto con la guerra di terra, dalla quale Venezia stessa si sentì talvolta fin troppo [...> distaccata" (45).
Per quanto si cercasse di sfruttare le loro specializzazioni, gli uomini estratti dalle duodene non erano certamente in grado di competere con i professionisti della guerra, specie nelle imprese terrestri, che peraltro non erano le più congeniali ad un veneziano. Ma giustamente si fece affidamento sui cittadini e sui sudditi anche per la possibilità di operare una mobilitazione tempestiva e con gente sicuramente fedele.
Nelle file delle truppe nazionali era particolarmente apprezzabile l'apporto dei balestrieri, specialisti nell'uso di un'arma che restò a lungo l'unica portatile efficace in grado di colpire a distanza. La loro preparazione era soddisfacente, in particolare da quando, dopo le deliberazioni in un certo senso occasionali del 1299 e del 1304, nel 1318 il maggior consiglio disciplinò esercitazioni obbligatorie con la balestra, con una precisione e una organicità sconosciute a tutti i provvedimenti anteriori (46) e in anticipo rispetto ad analoghe misure in altri Stati (47).
S'era infatti costatato un declino della pratica dell'arma, in quanto "per inconsuetudinem illi qui erant boni balistarii [...> facti sunt minus boni", anche con la conseguenza che "iuvenes [...> nichil inde sciant" (48). Così, ritenendosi "utile ymo necessarium" (49), se ne predispose l'addestramento generale, ordinando ai capicontrada di provvedere sotto il vincolo di giuramento alla registrazione di tutti gli uomini tra i sedici e i trentacinque anni e di vigilare, con rassegne periodiche, sull'idoneità degli uomini e sulla bontà delle armi. Queste dovevano essere proprietà del singolo, mentre i guanti di ferro (le chiroteche), e le protezioni del corpo venivano distribuite (50). Separati i patrizi dai popolani e raggruppati in dexene, con un proprio capo, i balestrieri avrebbero dovuto esercitarsi settimanalmente in conformità ai capitolari emanati per i capiduodena e per i capicontrada, che ne fissavano doveri e competenze. I bersagli erano collocati in vari luoghi, in città a San Vitale, in Barbaria delle Tole, a San Geremia, a Santa Fosca, a San Polo, a San Giacomo dell'Orio, a Santa Margherita, alla Giudecca, a San Francesco della Vigna, e fuori città al Lido (San Nicolò), a Murano, Mazzorbo, Torcello e Chioggia. In giorni e ore indicati dovevano applicarsi alla balestra "continuamente e puramente senza alcuna falacia cum le balestre che sia bone et sufficiente" (51). Ha ragione il Molmenti a scrivere che la "nazione armata" erano loro. E non si esagererà a considerarli un primo nucleo di esercito stanziale.
Un anno prima della guerra scaligera si procedette ad una rielaborazione delle regole di quello che dal consiglio dei dieci venne riconfermato essere un "exercitium multum utile et fructuosum terrae nostrae" (52), per combattimenti sia marittimi sia terrestri. Nel febbraio 1380 infatti millecinquecento balestrieri veneziani "che fo tolti çoxo de le galie del doxe" formano la prima schiera del grande esercito terrestre contro i Genovesi che occupavano Brondolo. Dopo la disfatta dei nemici, esaurito questo compito a terra, "i balestrieri veniciani tornò tuti a galia" (53). Dal 1340, per un ulteriore stimolo, si organizzarono gare periodiche (ballestrerii ludi) tra le contrade con premi in palii e in balestre (54).
Così, nell'estate 1376, durante la guerra contro i duchi d'Austria, il senato può affermare con soddisfazione che "nostri balistarii sunt causa omnium bonorum que fiunt, ut notum est" (55). Nessuna meraviglia dunque che costituiscano un serbatoio quasi inesauribile al quale attingere spesso e volentieri "pro bono agendorum et securitate terrarum et locorum nostrorum", anche al di fuori della leva tramite sorteggio. Con frequenza sempre maggiore vengono chiamati alle armi con quei modi e con quei capi, dice la deliberazione, ritenuti più opportuni dal collegio e dai savi alla guerra (56); e siano capeggiati da patrizi, perché svolgano più volentieri il servizio, "vadant libentius" (57).
Le norme riguardanti i balestrieri le troviamo in vigore anche a Candia sin dal 1350, con l'elevazione dell'età massima a trentasei anni e l'aggiunta dell'arco nelle esercitazioni, "cum balista seu archu" (58). Decisione, questa, peraltro significativa. Soppiantato in Italia dalla più macchinosa e lenta balestra con la sua forza di penetrazione più micidiale e quindi particolarmente indicata contro la cavalleria corazzata, in Europa occidentale l'arco comincia ad avere un peso decisivo sui campi di battaglia durante la guerra dei Cento anni; da qui poi, per imitazione e ad opera dei mercenari, fa il suo ingresso anche negli eserciti italiani più aggiornati. Nella versione del long bow, di dimensioni ed efficacia superiori, si rivela infatti risolutivo per l'esercito inglese a cominciare dallo scontro di Crécy, appena quattro anni prima dei provvedimenti candioti del 1350. Qui tuttavia sembrerebbe più probabile una sua integrazione nel programma degli addestramenti in seguito a modelli orientali per virtù della sua efficienza contro la leggera protezione corporea del mobilissimo Turco (59), per il quale peraltro, come per gli Ungheresi, l'arco è l'arma offensiva fondamentale. Le misure prese nel 1350 ebbero in Candia un profondo effetto sulla cultura bellica di quell'isola, e saranno parecchi gli arcieri cretesi che opereranno negli eserciti veneziani (60) accanto, come vedremo, ad ungheresi e inglesi.
Allargato con la guerra scaligera il dominio in terraferma, dopo aver esteso la legislazione alle nuove terre e provveduto a presidiarle nei posti chiave con piccoli distaccamenti permanenti, la Repubblica procede anche qui, coi criteri noti, al censimento della popolazione atta alle armi. Ma, diversamente dal Dogado, questo viene eseguito mediante suddivisione del territorio in sei circoscrizioni e l'invio di sei notai per la registrazione. Essi terminano la loro missione all'inizio del febbraio 1342, comunicando a Venezia che in quella parte del Dominio la Signoria può contare su cinquemilasettecentosessantatré homines armigeri e su quattrocentoventuno famuli (61).
Così, alla prima occasione - la ribellione di Zara, che richiedeva l'invio di truppe contro gli Ungheresi che appoggiavano gli insorti - la Signoria poté attingere anche a queste nuove risorse umane. Senza ricorrere alla chiamata generale, ma valendosi del sistema della cernida, impartì l'ordine al podestà di Treviso di mobilitare due bandiere di balestrieri "de peditibus nostris Tervisane" e di inviarle a Venezia, punto di raccolta, col soldo di due mesi, dopo i quali la loro paga doveva essere regolata - dice l'ordine - come era consueto in simili casi. Egualmente, quando Trieste si ribellò, il peso della riconquista venne distribuito su tutto il Dominio. Treviso dovette fornire ottanta fanti, tra balestrieri e pavesari, "de civibus vel habitatoribus Tarvisii vel burgorum", condotti da due capi capaci (62). Al Coneglianese venne imposta la leva di un fante ben armato per ciascuna circoscrizione rurale, villa, fornendo se possibile molti balestrieri. E seguendo il criterio di base di ogni deliberazione e misura in materia bellica, di trattare tutti equaliter, in città e fuori o nel resto del Dominio, "ut equalitas observetur", si considerò che le ville, essendo di grandezza e d'importanza diseguali, non potevano gravarsi nella stessa maniera. Perciò le circoscrizioni maggiori dovevano mettere a disposizione due uomini, le medie uno, e una coppia delle più modeste uno insieme, in modo che globalmente il numero dei fanti corrispondesse a quello delle ville. Divisi in bandiere di venticinque componenti, operavano sotto il comando di buoni comestabiles (63).
Le circoscrizioni interessate mantenevano una certa libertà di scelta sugli elementi da mobilitare, come mostra la decisione del consiglio di Conegliano di inviare, accogliendo l'ordine per l'impresa di Trieste, cinquanta fanti, cioè esattamente due bandiere, e anche venticinque equites coi loro "conestabilibus sive capitaneis" (64). Del resto la richiesta esplicita sempre più ricorrente di "bonos homines", "homines quam melius fieri poterint", "banderias bonorum peditum", certe quantità "de melioribus nostris fidelibus" fa pensare che se il criterio del sorteggio del numero occorrente di uomini era tutto sommato imparziale, non sempre però riusciva a soddisfare i bisogni effettivi. Perciò anche per l'interno del Dogado si va imponendo la pratica di indicare la specializzazione richiesta, balestrieri o altro.
Ma Adria, dopo la sua sottomissione nel 1310, si obbligò, sul modello già sperimentato per Loreo e per Cavarzere, ad "ire in exercitum, in servitium communis Venetiarum, sicut et quando ibunt Lauretani et Cavarzelani", tuttavia con la clausola esplicita che gli uomini non potevano essere costretti al servizio nella flotta: "excepto quod non cogentur ire in mari, nec per mare" (65).
Il tempo a disposizione era molte volte limitato, come nel caso dell'ordine di mobilitazione emanato lunedì 9 gennaio 1369. I fanti di Treviso dovevano trovarsi a Venezia già il venerdì successivo per giungere il sabato alla bastia approntata contro Trieste. Con loro, due delle migliori bandiere di stipendiati equestri della città (66), tutti da rimpiazzare immediatamente da sei bandiere di "buoni uomini", una per sestiere, comandate da altrettanti patrizi veneziani (67).
Tra le cernide erano apprezzati in particolare i volontari perché, come mette in rilievo il senato nel maggio 1377, "hec est securi.tas status nostri" (68). Tra loro si presenta nel marzo 1378 un cittadino veneziano, il battioro Marco, con un lunghissimo e complesso servizio alle spalle, tuttavia in disgrazia per un decreto non osservato. Ciò nonostante viene accolto, rimettendogli la pena: all'estrazione dei mobilitandi, "si non veniret ei texera", sarà comunque arruolato, in qualità di assoldato ("ad soldum") (69). E vi sono, nel 1379, "molti boni homeni trivixani", come testimonia Daniele di Chinazzo, "che adeso come Veniciani perse China, i se andò a presentar ala Segnoria" (70), volontari anche loro; sono forse gli stessi "fideles Trevisane" di una deliberazione del senato del 22 luglio 1376? Il concorso di volontari, non solo della città ma anche del territorio, è uno dei motivi ricorrenti delle fasi di mobilitazione. Non è necessario ricondurlo agli schemi dell'amor di patria, che però non è neppure da escludere, insieme con una vocazione al mestiere delle armi e forse allo spirito d'avventura e al desiderio d'evasione.
Il potenziamento delle risorse alle quali poter attingere con sicurezza e tempestività è certamente una delle più importanti caratteristiche della politica militare veneziana nel periodo tra la fine del Duecento e la metà del Trecento. In questa politica rientra, seppure limitatamente all'impiego in un territorio circoscritto, la costituzione in Istria del paisanatico, nel quale può vedersi il segno di una precoce apertura alla formazione di forze territoriali permanenti (71). Alla base di questa originale istituzione è il convincimento che, in tale zona periferica del Dominio, "terre nostre [...> per se solas non possunt resistere, sed si forent unum per viam paysanatici vel alio modo" (72). Con la doppia funzione - del resto non dissimile da quella delle duodene veneziane - di tutelare l'ordine interno o di prevenire pericoli esterni, sin dal 1301 tale milizia della campagna, paesana, viene levata nell'Istria veneta tra gli uomini dai diciotto ai trentasei anni. Non obbligati ad un servizio permanente, dovevano tuttavia restare a disposizione, esercitandosi periodicamente e presentandosi ogni anno ad una mostra generale (73). Per maggiore efficienza, la formazione veniva integrata con soldati - cavalleria e fanteria - inviati da Venezia per il breve periodo di uno o pochi mesi, ma che in realtà vi restarono anche per decenni (74).
Organo di propulsione della graduale influenza veneziana sulla Penisola, che come sappiamo si concluse di fatto con la sottomissione di Valle (1332) (75), le spese per il mantenimento della componente esterna di tale corpo dalla doppia radice erano a carico delle singole terre, che vi contribuivano in proporzione alle loro capacità, trasferendone, anche qui, l'onere soprattutto sui non chiamati alle armi. Eloquente il prelievo finanziario descritto quale "impositio unius pedis equi" (76).
Aveva la funzione di capitaneus societatis paysanatici un patrizio veneziano eletto per un anno coll'incarico di procurare "salvationem, statum pacificum et conservationem ipsorum locorum". Creato nel 1304, aggiungeva all'ufficio di podestà del luogo di residenza il comando militare su tutte le città e terre dell'Istria, con poteri giurisdizionali di seconda istanza.
Anche il paisanatico, senza perdere il suo carattere, subì nel tempo modifiche e adattamenti che, suggeriti dalle esperienze locali trasmesse a Venezia, con l'approvazione del senato (77) assunsero valore normativo, abbracciando vari problemi, quali l'estensione delle competenze del capitano e la creazione di un secondo capitano con residenza a Grisignana per la parte settentrionale dell'Istria ("de citra aquam Quieti"), mentre quello di San Lorenzo al Leme conservava le funzioni per la parte meridionale ("de ultra aquam Quieti"). Nel 1394 verranno soppressi tutti e due, con l'istituzione di un nuovo capitano, il capitano di Raspo, in seguito alla conquista dell'omonimo castello, considerato "clavis totius custodiae Istriae" (78).
Alla stessa procedura sono legate anche le deliberazioni sul soldo differenziato per i militi stanziati all'interno o inviati fuori del territorio, gli approvvigionamenti, la fornitura di materiale bellico. La formazione dell'unità di combattimento della cavalleria del paisanatico viene riconfermata nel marzo 1332. Di essa era a capo un conestabile al comando di venti cavalieri assoldati, ordinati in quattro poste di cinque uomini d'arme (79), e tutte le unità erano sotto il comando del capitano di paisanatico (80). Una condotta stipulata tre anni dopo per l'Istria, conforme in linea di massima ai regolamenti generali che verranno formulati nel 1336 per la guerra scaligera, prevede invece per ogni bandiera, oltre al conestabile, ventiquattro uomini d'arme, un portabandiera, un trombettiere e almeno dodici ragazzi su ronzini da assegnare ai soldati a scelta del conestabile (8').
Chiesto da Traù e da Sebenico con l'opposizione di Spalato, nell'estate 1349, dopo la vicenda di Zara, sul modello di quello istriano viene istituito un paisanatico pure in Dalmazia, "alla sua difesa" (82), considerate anche le difficoltà, lamentate ad esempio a Zara nel gennaio 1348, di trovare "aliquis bonus homo qui velit ad nostrum stipendium remanere " (83).
Forse per la sua resistenza, il comune di Spalato doveva contribuire "omnibus suis expensis" soltanto con nove cavalieri da assoldare tra i forenses, mentre a Traù ne toccavano diciotto e a Sebenico ventitré. Oltre a questo, come nel paisanatico dell'Istria, a richiesta dovevano mettere a disposizione tanti uomini del loro territorio quanti ne fossero richiesti dal capitano (84).
Risorse militari di una certa consistenza derivano pure da chi, senza una formale dedizione, ma solo in cerca di protezione, entra nell'orbita veneziana quasi da vassallo, come nel giugno 1335 i fratelli da Camino, conti di Ceneda, che infatti si offrono di militare in persona ad ogni richiesta con un certo numero di cavalieri (cinquanta elmi o barbute) (85) e con duecento fanti, e inoltre di arruolare al servizio di Venezia altri militi a cavallo (cento elmi, ogni elmo composto da un cavallo e da un ronzino) (86).
Certo, l'accettazione di tale offerta comporta per Venezia anche oneri non indifferenti, come testimonia una serie di deliberazioni del senato riguardanti le misure prese per garantire la sicurezza delle terre interessate, con l'assoldamento di balestrieri, di qualche bandiera di buoni fanti (87) e la messa a disposizione di apprestamenti "pro custodia et defensione nostrorum castrorum [...> que tenent domini [...> de Camino", l'invio di ufficiali veneziani, ingegneri per valutare e sovrintendere a lavori e riparazioni che toccano ai Caminesi (88). Ma ad uno Stato, come Venezia, con disponibilità limitate di cavalleria, si garantiva l'apporto sicuro di un contingente dell'arma che lungo tutto il Trecento e oltre costituiva il nucleo centrale di un esercito terrestre, con un'efficienza tanto più apprezzabile qualora, come nel caso presente, fosse guidato dal proprio signore.
In situazioni di estrema necessità Venezia non esita a ricorrere anche a metodi straordinari, come quello del condono penale, applicato con successo durante la guerra dei confini contro Padova, quando furono adottate "certe provisiones et declarationes super facto bannitorum" del Trevisano e Cenedese. E tra le prime decisioni prese nel 1376, alla notizia dell'invasione austriaca, ci fu proprio quella di riattivare tale vecchia misura. Parve infatti "non solum utile ymo necessarium" recuperare tutti coloro che per debiti pubblici o privati o per pene detentive pendenti erano contumaci o banditi dal Dominio. Si trattava di un gesto di clemenza del quale non va trascurato il significato, a parte l'utilità pratica immediata. Ai debitori pubblici, eccettuati quelli per dazi, fu condonata una certa somma per ogni mese di servizio militare prestato, e se la durata del servizio era inferiore alla completa estinzione del debito, la rimanenza poteva essere saldata con pagamenti dilazionati "usque complementum solutionis". Ai debitori verso privati veniva applicata una sospensione per quattro anni. Analoghi benefici erano previsti per i colpevoli di infrazioni della legge penale, "exceptis principalibus homicidis, asasinis, proditoribus et latronibus" (89). Paradossalmente, nei numerosi processi pendenti nei quali non si riuscisse a trovare chi aveva commesso il reato, agli imputati che erano da considerarsi tra i "principalibus percusoribus" si concedeva la grazia (90) arruolandoli tutti.
Godevano infine della sospensione del processo tutti i cittadini ed abitanti che erano disposti ad arruolarsi. E furono "multi", dei quali fu "opus magne pietatis providere " (91).
All'inizio del novembre 1345 il senato dà inizio ai preparativi per l'arruolamento (facere solidarizari) di mercenari, "cum provisio semper utilissima sit et fama multocies maxime in agendis guerre plurimum operetur". Intanto, per notificare che Venezia è in cerca di quantità considerevoli di buoni soldati di mestiere, sia di cavalleria sia di fanteria, da impiegare a Zara in rivolta e in Istria, verso la quale è in movimento certa gens armigera, decide di inviare qualcuno in Lombardia e "in altre parti" per studiare le possibilità di reclutamento - quali, quanti e per quanto tempo - ma restando in attesa di disposizioni precise, senza impegnarsi con nessuno (92).
Gli arruolati avrebbero dovuto affiancare e integrare i reparti veneziani e quelli mandati da Arbe, da Pago, da Nona e dal re di Serbia, sostituendo in parte i mercenari, soprattutto tedeschi e padovani, molti dei quali vi operavano già dall'estate, ma che non sarebbero stati riconfermati tutti a causa della loro disobbedienza nei confronti del capitano generale dell'esercito. Per questo, infatti, il senato era del parere che non fossero adatti a far parte dell'esercito veneziano ("non videtur nobis quod bene stent in exercitu nostro ") (93).
In questa specie di mercato che si svolgeva per la maggior parte "in Lombardia" e "in Romagna" Venezia non poteva dettare le sue condizioni ma doveva trattare al meglio in base alle offerte. Quella che a offrirsi fosse il mercenario era la regola. Una volta vagliate dal senato e dal collegio le offerte (94), l'inviato veneziano nel 1 345 poté procedere alla stipulazione dei contratti, firmare eos. Secondo le scelte, si potevano stabilire patti individuali o con piccoli gruppi oppure, come in questo caso, accordarsi con contingenti più numerosi per condotte (95), valide per un certo periodo ( ferma) prorogabile a discrezione di Venezia per un tempo (di rispetto) di norma più breve.
È a tali contingenti più cospicui, soprattutto se organizzati in compagnie di ventura, che va riconosciuta la capacità di condurre le trattative, assumendo posizioni autonome da ogni vincolo politico, e di imporre il proprio peso nei confronti di chi avesse l'intenzione di assoldarli. Il nucleo centrale di queste formazioni, sia dal punto di vista dell'importanza sia da quello numerico, è costituito dalla cavalleria. Infatti, nelle condotte dell'epoca la cavalleria è sempre la prima ad essere nominata, ed è quella che percepisce l'ingaggio maggiore e che, per la sua complessità, richiede accordi molto particolareggiati. Ma va sottolineato che accanto agli uomini a cavallo non manca mai la fanteria. Ben più compatte degli altri gruppi grazie all'unitarietà di comando e alla stretta subordinazione al condottiero-imprenditore, le compagnie sono abituate a trattare da pari a pari, quasi fossero una potenza sovrana.
Con maggiore frequenza si assoldano uomini a cavallo a poche lance per volta e fanti in bandiere incomplete, così come si offrono, ma, per il numero limitato che si riesce a mettere insieme, in caso di bisogno si deve far ricorso anche all'ingaggio di compagnie, specie nei conflitti che richiedono grossi contingenti prontamente disponibili. Così, oltre ad impegnare "brigate" tedesche come, tra le prime, quella della Colomba, costituitasi nel Piacentino (96), Venezia ingaggia la celebre compagnia della Stella, si vale di formazioni del tipo di quelle di Giovanni da Barbiano, di Francesco Ordelaffi e conduce con insistenza ma senza profitto ripetute trattative con uno dei più famosi condottieri dell'epoca, Giovanni Acuto (97). L'Acuto che pure, nella prima presa di contatto, è lui ad offrirsi tramite i suoi ambasciatori, doveva far conoscere "quibus pretio modis et conditionibus [...> quam citio [...> sed specialiter pro quanto tempore posset [...> servire et cum quanta gente" (98).
Il vantaggio di poter disporre rapidamente di gente già militarmente organizzata e inquadrata non sfugge al senato, che nel giugno 1376, al momento della guerra con i duchi d'Austria, raccomanda espressamente agli ambasciatori inviati nel Faentino presso l'Acuto di arruolare lui e la sua gente possibilmente quale compagnia e non in forma di lance: "intentio nostra non est firmare eos ad modum lancearum propter magnum tempus quod perderetur cum notabili damno agendorum nostrorum, sed est nostra intentio firmare compagnam ad modum compagne" (99).
Va anche detto che ingaggiare dei soldati "ad modum lancearum", con i criteri che, come vedremo, erano stati stabiliti tre anni prima (100), avrebbe costretto un condottiero di tale fama entro schemi che certamente erano troppo limitativi. Senza dubbio il beneficio di trattare con un capo con pienezza di poteri aveva una sua rischiosa contro partita proprio in un'autonomia decisionale troppo spiccata, difficilmente controllabile (101). Per questo, nella seconda parte del secolo, Venezia tentò di limitare gli arruolamenti a una parte soltanto delle grandi compagnie. Cercò di farlo con quella di Giovanni Acuto e, bilanciando il loro peso all'interno dell'esercito, con la contrapposizione di numerose piccole squadre non organizzate in condotte, assunte direttamente. Se i condottieri avessero potuto esercitare la piena responsabilità delle loro compagnie, che invece Venezia aveva preferito riservarsi - sosterrà il Carmagnola -, essendo in gioco la loro reputazione, sarebbero stati in grado di far funzionare le loro truppe con maggiore efficienza di quanto non fosse riuscito allo Stato (102). Dobbiamo credergli?
Quello su cui Venezia puntava, senza farne mistero, era il vantaggio di potersi valere di condottieri di prestigio, di chi godeva della reputazione di "famosa et notabilis persona" (103), del tipo appunto di quel "gran maistro de guera" (104) che era Giovanni Acuto. Ciò anche per l'impatto psicologico sul nemico, considerato che opinione del senato era che "soprattutto nelle vicende della guerra agiva molte volte la fama".
I primi regolamenti veneziani che ci siano pervenuti sull'ingaggio di mercenari a cavallo hanno la data del 1336 (105) e furono emanati in funzione dei grandi contingenti di soldati che dovevano operare durante la guerra scaligera. Quindi non sorprende, come sottolinea Mallett (106), che siano improntati ad analoghi contratti dell'alleato fiorentino, ma va anche osservato che gli anni Trenta del secolo vedevano una codificazione di simili regole in varie parti d'Italia (107). Deliberati in un'occasione precisa, dovevano tuttavia costituire da base e da modello anche per i futuri contratti. Riguardavano diritti e doveri dei mercenari a cavallo, in grandissima parte tedeschi, fatti assoldare da Venezia, da "persone discrete ad partes diversas", e dai Rossi, tramite lettere mandate a persone che erano state al loro servizio quando reggevano Parma (108). Innegabile era la preferenza per uomini con certi requisiti, ciò soprattutto per la custodia delle fortezze particolarmente delicate. Per i balestrieri e i pavesari da inviare ai castelli di Trieste si prescrisse tassativamente che fossero veneti o almeno avessero risieduto "per longum tempus" a Venezia, o avessero per molto tempo servito fedelmente la Repubblica da mercenari (109).
La forma pactorum del 1336 non stabilisce termini di durata. Trattando con gruppi esigui poteva essere definita anche in maniera assai vaga, con una certa elasticità secondo le esigenze, come avviene ad esempio per l'ingaggio del figlio di uno degli ambasciatori dei duchi di Baviera, che si offre di servire Venezia nella guerra contro i duchi d'Austria con la sua piccola "brigata" di altri nove equites e di due ragacii (110), quindi con dieci cavalli da battaglia e due ronzini. Ma nei contratti di maggiore impegno la durata è ben determinata, come nella condotta stipulata il i o ottobre 1356 con due nobili tedeschi, il conte Artmanno di Wartstein e Arnoldo di Krickenbach a capo di una compagnia di ottocento barbute equitum (cavalieri corazzati pesantemente) e di trecento fanti, arruolati per la guerra contro i Carraresi (111). Questa particolare condotta prevede una ferma per la durata di cinque mesi.
Le clausole del Pactum soldatorum ad modum lancearum, probabilmente emanato in occasione della guerra carrarese del 1372-1373, fissano quattro mesi di servizio più altri due di rispetto, e nei contatti presi nel 1376 con l'Acuto il senato incarica i propri inviati di negoziare, anche in questo caso, per quattro mesi e solo subordinatamente per tre di ferma (112). Questa preferenza per un periodo d'ingaggio più lungo è confermata dal mandato all'inviato del 1345 in Lombardia di appurare "usque ad quod tempus esse possent ad nostrum servitium ", e ciò appare in contrasto con l'opinione più volte sostenuta che in quest'epoca i relativamente brevi periodi di ingaggio dei mercenari fossero dovuti alla riluttanza degli Stati a stabilire legami troppo duraturi. Una preferenza per legami di periodo piuttosto breve deve molte volte attribuirsi invece alle compagnie.
Comunque, da parte veneziana si afferma in questi anni la tendenza all'estensione delle condotte a sei mesi (quattro di ferma e due di rispetto), senza arrivare ancora a periodi annuali, sei mesi di ferma e sei di rispetto, come diverrà pratica corrente nei primi decenni del secolo successivo (113). Ma di regola gli ingaggi non superavano la durata della fase d'emergenza, breve o lunga che fosse. Così, nel 1338, alla fine delle operazioni militari, i cronisti annotano una presenza massiccia sul suolo italiano di soldati senza impiego, "puoi che Veneziani àbbero ottenuta la vittoria sopra missore Mastino della Scala de Verona e àbbero Trevisi e sì cassaro tutti li sollati da pede e da cavallo, questi sollati, partennose e non avenno suollo [...>" (114), cioè restarono senza soldo.
Forse poteva essere buona norma non prolungare troppo la durata degli ingaggi, nell'eventualità di scarsa resa, di insubordinazione, della necessità di rinnovare il proprio potenziale provato dopo alcuni mesi di attività con forze nuove - "instaurare vires suas cum gente recenti", come dice il Caresini (115), di tregue impreviste: tutto questo consigliava di tenersi libere le mani per poterne uscire col minor danno possibile. Ecco così due bandiere equestri tedesche che per non essere state ai patti vengono senz'altro licenziate nel settembre 1343, non senza aver ricevuto da Venezia 400 ducati d'oro a titolo di grazioso compenso e aver dichiarato di abbandonare ulteriori pretese nei confronti della Repubblica (116). I mercenari, come si legge in una disposizione del senato al podestà di Treviso del dicembre 1339, possono essere licenziati prima del tempo "propter insufficientiam", col preavviso di un mese, oppure "ob defectum vel fallum ", e in tal caso vanno privati immediatamente dello stipendio (117). Ma fuori di questi casi non è possibile un congedo prima della scadenza della ferma, come invece vorrebbe fare Venezia nel 1376 con quelle lance che al sopraggiungere della tregua sono divenute inutili (118).
Dal lato opposto, con la prospettiva di maggiori guadagni o di prede più lucrose i mercenari non solo disertano, violando il giuramento prestato, ma, ciò che è più grave, passano armi e bagagli al nemico. Episodi di questo genere non sono infrequenti e a Venezia capitò che, a Longare, Mastino della Scala riuscì a tirare dalla propria parte tra i quattrocento e i cinquecento uomini a cavallo con "largis promissionibus" e col pagamento di due mesi di stipendio, ciò che destò nell'esercito "non modica turbatio, murmur et suspectio" e procurò ai capi grande difficoltà nel mantenere la disciplina (119). Similmente avvenne nell'estate 1373 con le cinquecento lance guidate da Ludovico de Exen, che il signore di Padova "contaminavit [...> cum pecunia" e che, "asserentes complevisse firmam suam" (120), ricchi di informazioni utili, contribuirono con consigli e fatti all'espugnazione di un'importante bastia veneziana.
Ma poteva anche accadere che la Repubblica si trovasse nell'impossibilità di onorare i suoi obblighi verso i mercenari, come capitò nell'ultima fase della guerra di Chioggia, quando i soldati restarono senza paga per mesi perché "el Commun de Veniexia in quel tempo, per la superchia spexa ch'i aveva sostegnù in la prexente guera, jera molto senestro de denari" (121). Avendo servito bene e lealmente la Signoria fino alla ferma pattuita e anche oltre, i soldati di Mestre, tutti lombardi e inglesi, diedero un termine di tre giorni, riservandosi, in difetto, di fare "chome meglio a lor paresse". Intanto il Carrara li forniva di viveri e di salvacondotti, così che molti della "brigata" sarebbero passati immediatamente a lui se i capi, fedeli alla parola, non li avessero spogliati di armi e di cavalli (122).
Dopo l'accordo, i compensi venivano corrisposti a rate, la prima subito dopo l'approvazione dei componenti della formazione mercenaria durante una rassegna davanti agli ufficiali veneziani a ciò deputati o il giorno stesso nel quale prendevano parte alle operazioni ("die qua incipient equitare"). Questa prima rata era di norma la paga dei primi due mesi, detratta la consueta somma (prestanza) anticipata ai mercenari perché si potessero mettere a punto (123) e sostenere le spese del viaggio terrestre (124). I pagamenti seguivano di mese in mese, ma questa cadenza poteva talvolta subire delle variazioni.
Il regolamento per i mercenari assoldati ad modum lancearum del 1373 prevede infatti il pagamento del primo mese dopo la rivista armata e un prestito di 40 ducati per lancia, da sottrarre dallo stipendio del trimestre successivo, da versarsi ogni mese. Siccome Venezia segue il principio che la paga liquidata non deve superare la metà di quella dovuta, è sicuramente mal informato Matteo Villani quando scrive che nel 1356 la compagnia tedesca caduta in un agguato degli Ungheresi, messa in rotta e spogliata, sarebbe stata in possesso della paga dei primi quattro mesi della sua ferma (125), che era di cinque.
Volendosi valere del diritto di proroga, la Repubblica era tenuta ad avvertire i mercenari quindici giorni (nel 1373 un mese) prima della scadenza della ferma, concedendo per questo periodo supplementare lo stesso stipendio di un'eventuale offerta migliore (126).
Nei contratti di condotta si insisteva su due punti principali: l'obbligo di capitani, conestabili e caporali, anche in qualità di fideiussores per gli altri componenti della bandiera, di giurare fedeltà e obbedienza fino al termine della ferma, e quello di presentarsi ad ogni richiesta alla rassegna (monstra). Il giuramento era fatto idealmente al doge, "domino duci", di fatto a un ufficiale o nuncio del doge e del comune deputato a riceverlo. Nelle deliberazioni del senato per la guerra contro i duchi d'Austria - che non solo appartengono ad un periodo abbastanza avanzato perché le esperienze amministrative in materia militare abbiano già potuto raggiungere una certa maturazione, ma costituiscono inoltre una delle documentazioni più organiche del secolo per le procedure seguite per l'allestimento prima e per il disarmo dopo - non si accenna a nessuna carica specifica, certamente perché era pacifico che chi assoldava i mercenari ne ricevesse anche il giuramento, come risulta del resto dagli stessi contratti di condotta. Così, nella condotta del 1 356 con la compagnia del conte di Wartstein, Ermolao Venier e Giovanni Zeno, che fungono da "ambaxatores et nuntii speciales", ricevono tale giuramento, non senza giurare a loro volta l'osservanza del contratto a nome del doge e del comune. Può essere di qualche interesse, seppure marginale, l'annotazione del modo diverso di giurare tra gli Italiani e i Tedeschi, i quali ultimi infatti giurano con le dita alzate, "more solito Teuthonicorum digitis erectis" (127).
Nelle condotte non viene fatta parola di ulteriori richieste di garanzie, ma sappiamo che nel 1376 Venezia si era anche fatta consegnare degli ostaggi(128).
Tra le mansioni dei reclutatori era anche quella di curare la concessione di salvacondotti ("litere securi conductus") e di scorte per il transito delle compagnie arruolate, che di norma dovevano seguire un ordine e un itinerario prestabiliti, come del resto si faceva con i mercenari di altri paesi di passaggio attraverso il territorio veneziano (129).
L'accettazione e il pagamento dei mercenari erano subordinati al superamento della rivista. Per quanto nel 1376, in occasione dell'elezione di cinque patrizi incaricati "ad videndum monstras soldatorum equitum et peditum", si parli di una procedura abituale - "sicut est solitum fieri" (130) - non sembra che l'operazione, per quanto frequente, fosse demandata ad un'autorità specifica. Non parrebbe che tra i compiti dei reclutatori vi fosse anche quello di passare in rassegna i mercenari, anche se talvolta le due funzioni si potevano trovare ad essere esercitate da una medesima persona, come nel caso di Nicolò Morosini, uno degli ambasciatori per l'ingaggio di Giovanni Acuto e di altri mercenari, e nello stesso anno anche uno dei cinque incaricati di una monstra. Né esisteva un luogo regolarmente deputato alla sua esecuzione, per quanto il Lido e Mestre fossero i preferiti. Il regolamento del 1336 menziona genericamente la Motta e Venezia.
I mercenari che nel 1336 affluirono a Venezia per la guerra scaligera - come già i crociati del 1204 - furono acquartierati al Lido di San Nicolò, molto adatto, come afferma il Piacentino, "pro stabulandis equis, pro locandis hominibus et pro omnibus ad ista negocia pertinentibus" (131). I contingenti che si portavano direttamente nelle zone d'impiego, senza passare per Venezia, come la compagnia tedesca del 1356, venivano egualmente sottoposti alla rassegna. Per loro si dispose che immediatamente dopo il loro arrivo nel Trevigiano, dove dovevano affrontare gli Ungheresi, fossero tenuti a presentarsi a due ispezioni successive, una senza armi per controllare la condizione fisica loro e dei cavalli, l'altra armati di tutto punto (132).
Così per gli uomini a cavallo come per i fanti, si parla genericamente del dovere di essere provvisti delle armi necessarie, "arma necessaria sicut boni et consueti stipendiarii tenentur habere"; in caso contrario, è prevista una sanzione "secundum antiquam consuetudinem Venetorum" (133). Quale fosse la dotazione prescritta per la cavalleria risulta da qualche contratto particolare, ma soprattutto dai due regolamenti generali del 1336 e 1373, che permettono di seguire gli sviluppi del suo armamento al servizio di Venezia. Così, nei pacta della fine del Duecento, con poche bandiere capeggiate da conestabili parmigiani e lucchesi, si distinguono tre livelli di funzioni che comportano armamenti più o meno completi. Mentre il conestabile e altri tre uomini d'arme della bandiera, che avevano al seguito anche un ronzino cavalcato da un aiutante chiamato subtus soldaderius - praticamente il "ragazzo" del Trecento -, dovevano possedere un armamento composto da bacinetto o cappello, panciera, collare, lorica di ferro squamato, usbergo foderato e protezioni per le gambe (schincherii vel gamberii), gli altri componenti potevano fare a meno della lorica e dell'usbergo. Comunemente tutti si presentavano dotati di scudo, lancia, spada e coltello (134).
Nella parte centrale del Trecento l'armamento difensivo e offensivo, uguale per tutti i combattenti della bandiera, prevedeva lo slapum (135), il cinto, le maniche, la corazza, la gorgiera e gli schinieri, la spada e il pugnale, coll'avvertimento che almeno uno ogni due cavalieri doveva portare un cimiero (136). Nel regolamento del 1373, essendo ormai la lancia costituita da tre elementi, si fa una distinzione nell'armamento fra il capolancia e il cavalcatore, l'equitator. Mentre il primo è tenuto a presentarsi fornito di corazza (da sostituire eventualmente con un giaco o una panciera di petto), gambiere, cosciali, bracciali e barbuta, il cavalcatore si può accontentare di una panciera, di guanti, spada, cappello o cappellina inglese (capelina englexia), che, a testimonianza del prevalere ormai dell'elemento d'oltre Manica, ha soppiantato il tedesco slapum.
Sorprendentemente non si menziona più la lancia, arma offensiva per eccellenza, che ha dato il nome al nucleo più ristretto della formazione a cavallo. Eppure, con le balestre dei Veneziani, furono le lance dei Lombardi a decidere una battaglia importante come quella di Buonconforto. Forse non se ne parla perché non fa più parte dell'attrezzatura personale, ma viene fornita dallo Stato. Anch'essa, comunque, con l'affermarsi dei mercenari e delle tattiche inglesi, ha subito un'evoluzione, specie se usata per il combattimento appiedato degli uomini a cavallo: è diventata più lunga, più grossa e fornita di una punta di ferro acuminata (137).
Poco risulta invece sui criteri che operavano nell'accettazione dei cavalli e le notizie risalgono soprattutto alla fine del Duecento, quando si stabilisce che il conestabile deve cavalcare un destrarius o un equus magnus e che i cavalli da presentarsi alla rivista devono aver compiuto almeno quattro anni (138). Più tardi si parla genericamente di equi ab armis, nel 1373 di equi plati che devono essere buoni e sufficienti, così i ronzini, sui quali non siamo bene informati, ma che per quanto di struttura inferiore a quella del più nobile cavallo, dovevano essere anch'essi di una certa robustezza e adatti almeno al carico di un uomo appesantito dalle armi.
Scarse sono anche le notizie sull'armamento con cui dovevano esibirsi alla rassegna i fanti, soprattutto sull'attrezzatura difensiva del corpo, perché non ci sono regolamentazioni paragonabili a quelle per la cavalleria. Tuttavia per qualche bandiera di fanti triestini da mandare nel 1377 a Negroponte è prescritto che devono essere forniti "de arme de testa, de curacina vel panzirono cum anima" (139). Sono piuttosto le licenze d'esportazione d'armi approvate dal maggior consiglio e il loro invio in varie parti del Dominio ad elencare una serie di oggetti al servizio anche della fanteria: pavesi e balestre di vario tipo con le relative munizioni, giubboni con insegne (cum supraensegnis), cappelli, pugnali, falcioni (falsatores), ronconi, lance, giavellotti.
La monstra serviva pure alla registrazione particolareggiata degli uomini, degli equipaggiamenti, dei cavalli e ronzini e all'inquadramento dei mercenari nelle bandiere e nei ruoli (140). Perciò intervenivano anche uno degli scribi e almeno uno dei pagatores exercitus o solutores ad campum che, eletti in due, avevano l'incarico di rimanere nel campo per due mesi, insieme ad un notaio della curia, per eseguire i pagamenti dei soldati e per tenere la contabilità ("pro tenendo quaternos in ordine totius soldate nostre et pro pagas fiendas") (141). Per evitare frodi (142), evidentemente non rare dato che nelle condotte se ne parla sempre, ogni uomo e ogni animale andavano presentati sotto una sola bandiera, con la minaccia di venir cassati, privati dello stipendio e di non essere mai più assoldati da Venezia. Per la stessa ragione i cavalli e i ronzini andavano marchiati e se ne stimava il valore venale ad opera degli extimatores (143) per eventuali risarcimenti nei casi previsti dal regolamento. Il metodo più efficace per evitare frodi era la rassegna in massa, la monstra generalis, perché impediva l'artificio dei capitani di prestarsi a vicenda truppe e cavalli per ingannare gli ispettori sull'effettiva consistenza dell'esercito.
La rassegna iniziale, bandiera per bandiera, era certamente quella di più ampio rilievo per i soldati, perché decideva sul loro ingaggio. Ma non era l'unica. Le truppe che erano già in servizio subivano delle rassegne generali periodiche, di mese in mese (144), per accertare che fossero sempre in efficienza e per avere una misura precisa della loro forza numerica, ai fini del pagamento. Alle quali mostre generali solevano talvolta presiedere, col capitano generale e i provveditori, altri ispettori inviati espressamente da Venezia (145), ciò in particolare quando si rendevano necessari riordinamenti delle forze con spostamenti di qualche reparto. Diciamo con Mallett che per i condottieri queste riviste mensili durante le campagne costituivano un grave problema perché era arduo mantenere sul campo gli effettivi e presentarli di tutto punto nelle parate (146).
Alla fine della guerra, assolti dal loro giuramento, i mercenari dovevano abbandonare immediatamente il territorio veneziano. Essi costituivano infatti un pericolo tanto per il paese che stavano per lasciare quanto per quelli circonvicini, che spesso negavano il transito. Era cura dei provveditori in campo il compito di questo "factum arduum" (147), tipico del Trecento, prima che gli eserciti diventassero permanenti.
4. I profitti della guerra
Nel Trecento a Venezia regna una sostanziale stabilità delle paghe mercenarie, sulle quali non sembrano incidere in misura apprezzabile nemmeno i tempi difficili che seguono alla peste, né c'erano differenze di livello con quelle degli altri Stati. La tariffa mensile per un cavaliere con cavallo da battaglia e ronzino al seguito è indicata nei regolamenti del 1336 in 9 ducati e senza ronzino in 7; essa resta immutata nella condotta del 1356, che recita infatti "quilibet eques cum uno bono et sufficienti equo ab armis et cum uno ronzino habere debeat a dicto comuni Venetiarum ducatos novem in monetis pro quolibet mense dicte firme; si vero non haberet ronzinum, habere debeat septem ducatos in monetis pro se et dicto equo bono et sufficienti ab armis" (148). In questi venti anni non solo la paga non ha subito variazioni, ma il riferimento, nel 1356, allo "stipendium consuetum comunis Venetiarum" farebbe pensare ad un valore fisso, escludendo in questo periodo ogni possibilità di contrattazione su questo argomento.
Le cose cambiano all'epoca della guerra con i duchi d'Austria, nel 1376, quando le trattative sono concentrate su Giovanni Acuto e la sua compagnia, o anche già nel regolamento del 1373. Qui il confronto si complica perché l'unità di base presa in considerazione non è più incondizionatamente l'uomo d'arme con il suo cavallo e il suo ragazzo col ronzino, la barbuta, insomma. Ora si comincia a ragionare in unità maggiorate che le fonti definiscono lancee e la storiografia lancia da tre uomini o lancia tradizionale italiana, per distinguerla dal nucleo primitivo e più ridotto della barbuta o lancia da due uomini. Mentre la formazione dell'eques con servitore e ronzino, se consideriamo la richiesta di potersene valere genericamente formulata nel 1332 dagli stipendiarii attivi in Istria, dovrebbe aver preso piede nell'esercito veneziano nel primo terzo del Trecento (149), questa nuova unità di combattimento si diffonde in Italia, secondo Ercole Ricotti, solo con l'arrivo delle compagnie inglesi (150), dunque dopo la pace di Brétigny del 1360. E negli anni Settanta non doveva ancora costituire un fenomeno largamente diffuso se in un trattato del 1379 tra varie comunità dell'Italia centrale e la Societas Theotonicorum et Anglorum parve necessario specificare la sua caratteristica: "intelligendo lanceam quamlibet de uno bono caporale, de uno equitatore sive saccardo et uno paggio bene et sufficienter armatis, de duobus bonis equis et uno ronçino" (151).
Tuttavia in questo periodo di trapasso le fonti non sono sempre molto esplicite e univoche, tanto nell'uso della parola barbuta quanto in quella di lancea e nel significato da attribuire loro. Così, se la condotta del 1356 contrappone ad esempio le barbute equitum ai pedites e chiama in seguito promiscuamente eques tanto chi possiede solo un cavallo da battaglia quanto chi capeggia la formazione ampliata al ronzino, come dobbiamo interpretare la notizia data dal senato nel 1376 sul transito di quattrocento barbute in direzione di Feltre e di Cividale? "Dictum et habitum fuit quod per viam Scale transiverant barbute IIIIc pro veniendi Feltrum et Cividalum, nunc habuimus Ilare quod fuerunt solum equites CXV in centum XX et non ultra" (152): si vuole correggere solo la quantità degli uomini a cavallo o anche la loro qualità, come parrebbe dall'impiego di due termini diversi? E come mai il senato non si vale qui, come fa correntemente in altri casi, della parola lancia (153)?
Con qualche riserva si può sostenere che ha ragione Mallett quando, confrontando l'ingaggio del regolamento del 1336 con quello analogo del 1373 e costatando che la paga risulta ora raddoppiata (18 ducati al mese anziché 9), ne deduce che essa sia da spartire non più tra due ma tra tre uomini (154). Se possiamo fidarci del Caroldo, lance a tre componenti avrebbero operato al servizio di Venezia già nel 1356 nella stessa guerra contro Carraresi e Ungheresi per la quale vennero arruolati il conte di Wartstein e Arnoldo di Krickenbach con la loro compagnia costituita, come si è visto, ancora da unità minori e addirittura composte di un solo eques senza ragazzo e ronzino. Per la condotta di Ulrico di Reifenberg - tedesco anch'egli e corregionale di Arnoldo -, a capo di sessanta barbute, sarebbero stati infatti promessi, secondo il Caroldo, "24 ducati al mese per doi cavalli et un roncin" (155), una Paga dunque superiore di 8 ducati per unità rispetto a quella del 1373, nello stesso periodo in cui si insiste sul principio di uno stipendio "consueto" per il comune di Venezia. Insomma, tanto la composizione della lancia da tre elementi quanto la paga maggiorata rispetto alla norma non sembrerebbero addirsi al periodo indicato. E quando osserviamo la testimonianza di Daniele di Chinazzo, della partenza dal campo di Mestre nel dicembre 1380 di una cinquantina di lance a cavallo che "fo in tuto da chavagli .LXX. e da pedoni .L." (156), dobbiamo dedurne che probabilmente in questo periodo si andavano in vario modo sperimentando i nuclei che erano alla base dell'unità di combattimento più grande, la bandiera.
Nemmeno parlando di bandiera, del resto, si ha la certezza di riferirsi ad un'unità di composizione numerica sempre uguale. La regola era che la bandiera fosse costituita da venticinque componenti, tuttavia c'era la tendenza ad un numero minore, ma in qualche caso se ne aveva invece uno maggiore, in particolare a partire dall'introduzione della lancia a tre. Così, in condotte come quella del 1356, Venezia insiste su un minimo di venti uomini d'arme con i relativi ronzini per ogni bandiera. Il regolamento per gli assoldati ad modum lancearum del 1373 prevede la figura di un capo per ogni dieci lance ("caput X lancearum", "conductor ipsarum lancearum") che sono quindi l'equivalente di una bandiera col proprio conestabile. Nel novero sono abitualmente inclusi il conestabile, quale comandante della bandiera, e inoltre, a metà del Trecento, almeno quattro caporali, uno per ogni posta, e un portabandiera. Il trombettiere, "vel alius instrumentarius", immancabile in ogni bandiera, cavalca invece uno dei ronzini.
Il conestabile percepisce una paga superiore, fissata nel regolamento del 1373 a 10 ducati più i ducato per ogni lancia. Nel 1336 gli venivano concessi per lui, per il portabandiera e il trombettiere 36 ducati d'oro al mese.
La commissione per gli ambasciatori presso Giovanni Acuto prevede l'ingaggio della maggior quantità di lance possibile, fino ad un totale massimo di cinquecento, con il soldo di 20 ducati mensili per lancia - dunque superiore di 2 ducati pro lancea rispetto al 1373 -, con l'aggiunta significativa "sicut damus aliis" (157). Ciò per evitare gelosie e rivalità tra i vari reparti dell'esercito, ma ci accorgeremo presto che si tratta di una parità di trattamento solo nominale.
L'arruolamento di vari gruppi minori di mercenari nello stesso anno conferma questo principio della paga eguale per tutti, quale che sia la loro nazionalità. Così ad esempio Jacopo Gonzaga, che nel maggio 1376 viene assoldato con altri nove buoni cavalieri, con dieci buoni cavalli da battaglia e con tre ronzini e tre ragazzi, dunque con cinque lance, riceve giustamente 100 ducati al mese. E la stessa paga va al figlio dell'ambasciatore dei duchi di Baviera, "qui est valens homo", accettato nel settembre dello stesso anno anch'egli con dieci cavalli, ma con due ronzini e due ragazzi soltanto. Nell'accordo stipulato nel maggio 1376 con Francesco della Parte e altri quattro uomini a cavallo si specifica l'importo per ogni cavallo: "cum soldo ducatorum X pro quolibet equo in mense, silicet cum ducatis L in mense" (158). Quindi la paga mensile per ciascun eques è di 10 ducati, se organizzato in lancia o meno, di 20 per ciascuna lancia formata da due equites. Colpisce che il numero di ronzini e ragazzi sia sempre inferiore rispetto a quello che sarebbe necessario per la formazione delle lance a tre componenti e che, a differenza dal 1336 e dal 1356, la presenza o meno di questi elementi ausiliari non venga più messa in conto.
Come si può costatare, nell'arruolare questi gruppi minori così come per le lance acutiane, tra i componenti a cavallo della lancia non viene fatta alcuna distinzione tale che si possa dedurre dall'ammontare della paga. Perciò è difficile cogliere una subordinazione all'interno della lancia di uno dei due elementi a cavallo, dell'equitator sire saccardus rispetto al caporalis, che si ripercuota sullo stipendio, ciò per quanto nel regolamento del 1373 ricorra nell'armamento un'importante differenziazione tra il capud lancee e l'equitator, che evidentemente comporta impegni finanziari superiori.
Chi riceve una paga inferiore a quella dei componenti delle lance, assimilabile al trattamento dei fanti (nel 1376-1377 14 lire di piccoli), sono coloro che le fonti veneziane chiamano correntemente caballarii. Non fanno parte della lancia al servizio dell'eques, anche se una delle accezioni di questa parola è quella di eques satelles. I caballarii li troviamo nei presidi di Castelfranco, di Conegliano, di Oderzo, di Treviso, dove all'inizio del 1377 vengono ridotti da quarantuno a ventiquattro, organizzati in due bandiere da dodici, agli ordini di due conestabili, che inoltre hanno a disposizione due equitatores ciascuno (159).
La forma della "lancia italiana tradizionale" (160), cioè quella del Quattrocento, costituita dall'uomo d'arme a cavallo, armato pesantemente, dall'equitatore o saccardo, chiamato anche sergente, armato in modo più leggero, e dal ragazzo, a Venezia comincia dunque a cristallizzarsi negli anni Settanta del Trecento. Più tardi si farà sempre più complessa con l'inserimento di un numero crescente di uomini, tuttavia senza subire modifiche sostanziali, a parte la tendenza di aggiungervi un balestriere a cavallo. L'impiego di balestrieri montati che, come osserva Mallett, non erano in fondo che una fanteria messa a cavallo per renderla più mobile ma che finiranno col costituire il nucleo dal quale si svilupperà la cavalleria leggera (161), dopo isolati casi di ricorso a pochissimi elementi alla fine del Duecento (162) viene ripreso con convinzione negli ultimi decenni del Trecento. Se ne avvalgono tanto Venezia - secondo Caroldo già coi "trecento balestrieri eletti a cavallo" della repressione della rivolta di Trieste (163) - quanto altri eserciti importanti ed aperti ad innovazioni, come quello del conte di Virtù. Questi infatti, a richiesta esplicita di Venezia, nella guerra contro i Carrara del 1388 di balestrieri montati ne deve impiegare cento, con due cavalli per uomo, "balistarii equites ad duos equos pro quolibet" (164). Se consideriamo che ad un organico di millecinquecento lance corrispondono appena cento balestrieri a cavallo, la loro funzione tattica non sembrerebbe ancora quella di rinforzo di quarto elemento costitutivo della lancia o almeno di tutte le lance.
Nella compagnia di Giovanni Acuto e sicuramente nella compagnia dei Tedeschi e Inglesi, arruolata nel 1379 col trattato di Torrita da Firenze e collegati, si specifica che per lancia vanno intese due formazioni diverse, quella cioè composta da un caporale, un equitatore e un ragazzo, ma "etiam intelligatur lancea completa unius arcerius cum uno paggio cum duobus equis et uno ronçino" (165). Comunque, la necessità di tali precisazioni e l'uso della stessa denominazione per due entità diverse testimoniano con chiarezza che questo degli anni Settanta e Ottanta del secolo è un periodo di innovazioni per accrescere la potenza offensiva degli eserciti. Ne avverte lo spirito Andrea Gatari, quando afferma che allora "si faceva tutte le provisioni possibili alla guerra, affine di essere superiore al nemico" (166). Molte innovazioni avvengono sulla scia della penetrazione negli eserciti italiani di compagnie inglesi, che portano il segno della cosiddetta "rivoluzione militare" verificatasi in Inghilterra durante il regno di Edoardo III. Si sperimentano armi nuove e si impiegano le vecchie in modo nuovo. In questo quadro va visto l'inserimento di arcieri nell'esercito veneziano, già largamente praticato dagli Inglesi (167).
L'interesse del senato per reparti di arcieri si rivela chiaramente nella commissione degli ambasciatori presso Giovanni Acuto, che spiega l'insistenza con la quale si guarda all'ingaggio soprattutto di Inglesi e molto meno a quello di Tedeschi o di Italiani che non avevano familiarità con quest'arma: "procuret quod habemus quam plures Anglicos poterit et quam pauciores Teutonicos et Italianos poterit" (168). L'ordine era di assoldare, con le cinquecento lance di equites, anche trecento arcieri o quanti più si riuscisse ad averne. A loro sarebbero stati corrisposti 8 ducati a testa, "sicut damus Hungaris" (169).
Venezia aveva già sperimentato con successo gli arcieri, coi Turchi e coi Morlacchi, avendone assoldato qualche migliaio per la guerra dei confini. Nel 1373 saranno loro a far strage nell'esercito nemico "con sue sagite" che "feriano intro i cavagli e omini con tanta quantità di frezze per entro fianchi e le teste de' cavagli, che per forza cascavano i cavalli a terra" (170). Ora, per ripetere contro i duchi d'Austria tale esperienza, nel giugno 1376 assolda tra i cento e i centoventi Ungheresi, i quali - a differenza dei Turchi "arcieri a piè" - erano a cavallo, "Hungari ad equum" (171). L'esercito veneziano aveva conosciuto bene la veemenza dei loro archi vent'anni prima, nelle guerre disastrose del Trevigiano. Con la loro "moltitudine che copriva la terra intorno intorno parecchie miglia, tutti con gli archi e le saette", la spada lunga, le armature leggere, "farsetti di cordovano" per le persone e "selle lunghe a modo di barde" per i cavalli, la testa raramente protetta "per non perdere la destrezza del reggere l'arco, ov'è tutta la loro speranza" (172) - Matteo Villani lo ripete con insistenza, allora gli Ungheresi avevano suscitato grande impressione in Italia sia per la loro quantità - si parlava di trecentomila cavalli - sia per l'armamento e per il modo di combattere. I Coneglianesi ne ebbero tanta paura che capitolarono prima ancora di essersi misurati con loro, e nell'agosto 1356 era toccato ai Trevigiani d'essere stati spinti verso un agguato dove erano appostati altri Ungheresi e quindi sopraffatti con gravi perdite (173).
Chi pensava di arruolarli doveva fare i conti con la loro indisciplina. "La disordinata moltitudine de' cavalieri ungheresi, che, a modo di gente barbara non sanno osservare la disciplina militare né essere ubbedienti a' loro conductori" era un problema gravissimo. "La moltitudine de' [...> Ungheresi bestiali e baldanzosi generava confusione, che non si potean reggere né tenere ordine" (174). Essi non si schieravano di fronte al nemico, avanzando compatti e ordinati come facevano gli eserciti occidentali, ma con la loro tattica di non "potere mantenere il campo, ma di correre e fuggire e cacciare, saettando le loro saette, di rivolgersi e di ritornare alla battaglia", disorientavano col movimento continuo la cavalleria nemica incalzante, costringendola a seguirli dove volevano (175). Mettere in campo qualche contingente ungherese significava disporre di un'arma particolarmente idonea per disordinare lo schieramento nemico.
Con lo stesso ingaggio degli Ungheresi, gli arcieri inglesi occupano insieme a costoro una posizione immediatamente al di sotto della cavalleria pesante e considerevolmente superiore a quella della fanteria. Insistiamo sulla misura del trattamento economico perché fornisce preziose indicazioni sulla valutazione militare delle diverse specializzazioni e sulla composizione delle varie formazioni.
Per la fanteria l'ingaggio prendeva in considerazione due categorie di arma complementari tra loro, i balestrieri e i pavesari, talvolta chiamati semplicemente pedites. Raramente e solo all'inizio del secolo si parla di lancieri, come nel 1322 quando, insieme a duecento balestrieri, vengono mandati a Sebenico cento fanti "ad lanceas longas" (176). Ora sembra che i vecchi lancieri siano del tutto soppiantati dagli uomini che portavano grandi scudi ed operavano in coppia con altri armati di sole balestre grosse, a Venezia ignoti nel Duecento quando in Italia centrale erano già in uso durante la battaglia di Montaperti (177).
Come la cavalleria, anche la fanteria è organizzata in bandiere, variabili anch'esse nel numero dei componenti, comunque sempre dai venti ai trenta con una prevalenza numerica dei balestrieri. Esse sono comandate da ufficiali chiamati, sull'esempio di quelli della cavalleria, comestabiles, con altri di grado inferiore, chiamati anche loro caporali (178). Tipica la costituzione del presidio nelle fortificazioni di Trieste del 1377. Nel castello di mare vengono collocati quaranta balestrieri e venti pedites organizzati in tre bandiere sotto tre capi e con un tamburo. Più forte il presidio del castello di San Giusto, con cento balestrieri (compresi i capi) e sessanta fanti sotto sei conestabili e con due tamburi (179).
La paga della fanteria, a differenza di quella della cavalleria pesante e leggera, che, come si è visto, è misurata in ducati, viene abitualmente calcolata in lire di piccoli e quindi viene con ogni probabilità liquidata in moneta inferiore. La retribuzione dei balestrieri supera sempre, seppure di poco, quella dei pavesari e oscilla tra le 9 e le 20 lire al mese, quella dei pavesari tra le 8 e le 14, subendo quindi variazioni molto maggiori di quanto non accada per il soldo percepito dai cavalieri. La documentazione, scarsa per la prima metà del secolo, diventa più ricca nella seconda, ma non fino al punto che si possa stabilire una dinamica delle variazioni.
Nel 1356 i fanti della compagnia tedesca vengono assoldati per lo lire i balestrieri (la stessa paga di uno stipendiarius pedestris a Capodistria nel 1327 (180)) e 8 lire i pavesari; ai fanti inviati nel 1369 alla repressione della rivolta di Trieste vanno 9 lire per i balestrieri e 8 per i pavesari; nel 1377 fino a 18 lire per i balestrieri e 14 per i pavesari triestini e capodistriani da impiegare oltremare, salvo però che non si riesca ad arruolarli per meno. Invece nello stesso anno i fanti della guarnigione del castello marino e del castello di San Giusto di Trieste percepiscono 14 lire per i balestrieri e 10 per i pavesari (181).
Dopo la repressione della rivolta, nel gennaio 1348, il conte e il capitano di Zara fanno presente la difficoltà di convincere gente idonea, in particolare fanti, a restare al servizio di Venezia "propter immensam caritudinem et parvum stipendium". E problemi analoghi si hanno anche a Nona, "propter paucitatem hominum qui ibi remanserunt" (182) in seguito all'esodo di un buon quarto della popolazione impoverita dal "gran caro di grano", per le difficoltà d'approvvigionamento in Puglia e in Sicilia, sia "per la generale mortalità e infermità delle terre marine", sia per l'arrivo in Puglia del re d'Ungheria, con gran seguito di gente (183). Per porre riparo alla situazione, il senato ordina di assoldare otto bandiere efficienti di fanti, offrendo fino ad 8 lire mensili a testa (184).
Un aumento del costo della vita, anche eccezionale, non comporta necessariamente aumenti dello stipendio, come vedremo invece nel Quattrocento quando i livelli delle paghe verranno stabiliti di anno in anno, secondo il prezzo dei generi alimentari e delle forniture (185). Nella primavera 1375 agli uomini di stanza in terraferma, a Serravalle, Castelfranco e Treviso, che lamentano l'aumento dei prezzi, viene concessa semplicemente una "subventio vel prestantia [...> propter conditiones temporis moderni", un prestito che verrà saldato a rate nelle paghe successive (186).
E nel luglio 1388, quando erano in corso le trattative con Gian Galeazzo Visconti, considerando che a Venezia e negli altri luoghi del Dominio si trovavano molti pedites senza impiego, ben disposti e in passato sempre fedeli, il senato ne autorizzava l'ingaggio per inviarli dove occorrevano con la paga di 1 ducato al mese (187). In qualunque luogo del Dominio venissero inviati, "ipsi esse et ire teneantur cum soldo et pactis aliorum stipendiariorum". Non solo, dunque, equiparazione alla paga degli altri assoldati, ma una tra le più basse. Tenendo infatti conto che nel 1388 il valore del ducato oscillava intorno a 81 soldi (188), la loro paga mensile arrivava a poco più di 4 lire.
I mercenari dovevano provvedere coi loro mezzi al mantenimento proprio e a quello dei cavalli. Acquistavano dove volevano, ma quando ce n'era disponibilità lo Stato cedeva loro vettovaglie e altri beni di prima necessità al prezzo di costo (189). Nel Quattrocento le paghe per chi fosse acquartierato nelle città erano più alte nella considerazione che i generi alimentari erano gravati dalle gabelle (190). E infatti già nel 1332 Si avverte la necessità di concedere paghe differenziate agli assoldati attivi in Istria a seconda che fossero stanziati in terre del Dominio (11 lire al mese) oppure fuori (14 lire) (191).
Le abitazioni per i mercenari venivano messe a disposizione ad affitti stabiliti, facendo ricorso a case di privati, in particolare se non occupate (192). Durante le campagne militari, la Repubblica curava l'invio di legname, pietre, calcina ed altro materiale edilizio con le relative maestranze per la costruzione delle bastie e di altri allestimenti, come case di guardia e forni, ma dovevano essere i soldati a fornirsi personalmente del necessario per l'alloggio, "stipendiarii nostri stantes in campo domibus indigerent, volumus quod se fulciant de necessariis sibi prout semper in exercitus est consuetum" (193). Chi militava nei reparti montati doveva provvedere anche al sostentamento di garzoni e famigli, al foraggio e allo stallaggio dei cavalli e dei ronzini. È questa una delle clausole fondamentali contenute nel regolamento del 1336 (194), quindi alla base dei contratti stipulati da allora in poi a Venezia, mentre il regolamento del 1373 non si occupa più di questo problema. È un principio certamente valido già prima, anche se non formalizzato, come si può dedurre dalla richiesta del marzo 1332 rivolta al senato dagli stipendiari di San Lorenzo in Istria per una rifusione di spese supplementari per loro insostenibili, quelle del trasporto marittimo delle vettovaglie da Pola a Fianona e quindi a Cressano. Benché abbiano già beneficiato di un aumento della paga siccome operanti oltre confine, il senato accoglie le loro ragioni e trasferisce le spese di trasporto sulla comunità di Pola (195).
Nei confronti degli iniziali 7 poi 10 ducati mensili dei cavalieri pesanti e degli 8 ducati degli arcieri montati ungheresi ed inglesi negli anni Settanta del secolo, lo stipendio della fanteria, anche di quella meglio pagata, è notevolmente inferiore. Infatti, persino le 20 lire dei balestrieri della Rocchetta di San Vittore (196) non arrivano ai corrispondenti 5 ducati e mezzo. Non partecipando della seppur lenta e moderata tendenza al rialzo della paga degli equites, i pedites subiscono anzi una diminuzione reale della paga per la svalutazione progressiva della lira sul ducato (da una sessantina di soldi fino alla metà degli anni Cinquanta ad intorno agli 80 soldi nell'ultimo ventennio del secolo) (197). È vero che bisogna tener conto delle spese e che quelle della cavalleria non solo erano di gran lunga superiori ma tendevano ad aumentare per la crescente complessità dell'armamento; superiore era anche il tenore di vita, ma il soldo più alto era riconoscimento dell'alta professionalità dei cavalieri, professionisti a tempo pieno quali erano, espressione della considerazione sociale della quale godevano e dell'importanza che era loro comunemente attribuita come fattore essenziale di un esercito.
Lo spiccato senso di solidarietà che legava i cavalieri mercenari anche se combattevano su fronti opposti non ispirava i rapporti tra loro e la fanteria, pur dello stesso esercito o della stessa compagnia. Ed anche se il senato non si stanca di raccomandare di tenere separati nei reparti gli equites ultramontani, tedeschi, italiani (198), conoscendo bene la facilità con la quale scoppiavano risse tra mercenari di nazionalità diversa che mettevano in grave pericolo l'unità dell'esercito, si tratta pur sempre di contese tra pari. L'episodio più clamoroso è quella "more civilis belli" scoppiata la notte del 3 febbraio 1380 a Pellestrina tra i mercenari inglesi e italiani di Venezia (199). Solidarietà anche tra i gentiluomini veneziani e genovesi persino durante la guerra di Chioggia, quando quelli genovesi mettono al sicuro presso i gentiluomini veneziani i loro "drapi, arçenterie edanari" per salvarli dal saccheggio dei mercenari di parte veneziana (200).
Nella più volte citata commissione agli ambasciatori all'Acuto, dopo aver stabilito che si paghino 20 ducati per lancia e 8 per arciere, in modo che salgano da 27 a 28 ducati pro lancea et arceriis, il senato li autorizza ad assoldare gli uomini "ultra predictum precium", senza distinzione d'arma, facendo concessioni a vario titolo ("vel provisionis vel doni vel alio ulteriori modo"), in maniera che a ciascuno vadano dai 10 ai 12 ducati, "ita quod veniant ducati X usque XII pro quolibet" (201). Un particolare tutt'altro che insignificante, non solo perché almeno una parte della cavalleria formava unità tattiche insieme con gli arcieri, secondo la pratica introdotta in Italia dalla compagnia Bianca inglese negli anni Sessanta del secolo, ma anche perché mostra che in questo modo ognuno, cavaliere o arciere, poteva in realtà percepire una paga superiore allo stipendio fissato nel contratto di condotta. Pare dubbio infatti che i contratti definissero sempre la paga effettiva. Secondo Mallett, nel Quattrocento questo era ormai raro (202).
Sin dalla guerra scaligera si parla genericamente di "prerogativas et dona" ai "melioribus" (203). Sono agevolazioni e supplementi dei quali beneficiano tutti i componenti di una compagnia particolarmente apprezzata. Molto spesso sono a vantaggio dei quadri alti, intermedi e minori, dai capitani ai conestabili. Condotte con validità retroattiva, come quella stipulata il 10 ottobre 1356 con la compagnia tedesca, ma decorrente una settimana prima, dal 4 ottobre; paghe liquidate in ducati "boni auri et iusti ponderis", come è previsto dai regolamenti del 1336 e 1373; esenzione dal servizio di custodia (204), evidentemente poco ambito; somme donate ai capi "sicut erunt plus contenti", ma anche perché potessero premiare i meritevoli (infatti per Giovanni Acuto "et sociis suis magnis" c'era la promessa di donare 5.000 ducati, oltre all'ingaggio complessivo di 50.000 ducati (205)); infine l'espediente delle paghe morte, cioè la concessione di non completare l'organico pattuito, lasciando vuoto un certo numero di posti nelle bandiere equestri e pedestri che però venivano regolarmente pagati (206): erano questi i ripieghi che permettevano di attrarre al proprio servizio i mercenari e le compagnie che erano notoriamente più capaci e attrezzati, quindi più contesi - per quanto la disponibilità di mercenari fosse normalmente cospicua, fino al punto che, come siamo informati dal Piacentino, l'esercito veneto-fiorentino veniva seguito da "multe gentes [...> etiam sine stipendio, sed sub spe stipendi atque lucri" (207).
A questi riconoscimenti, corrisposti per presunte qualità particolari, si aggiungevano le prede, un diritto da meritare sul campo. Nel regolamento per la milizia a cavallo del 1336 leggiamo che la cavalleria aveva il dovere di far partecipare al bottino anche i fanti. Che se ne parli espressamente potrebbe far pensare che questa partecipazione della fanteria fosse non del tutto pacifica, ma la norma è ripresa letteralmente nel regolamento del 1373 con l'aggiunta di un rinvio agli usi di osservanza generale. Nelle condotte stipulate con le compagnie, come quella del 1356, troviamo la stessa clausola, "quod si pedites erunt cum equitibus quando equitabunt, ipsi pedites habere debeant de lucro partem suam". Resta però il dubbio se, applicabile alle truppe mercenarie, si estendesse anche alle milizie veneziane. Infatti nel 1376 occorre che il senato ricordi al capitano generale Jacopo Cavalli che, siccome i balestrieri veneziani sono, come tutti sanno, causa di ogni bene, pare giusto e ragionevole che partecipino anche loro al bottino, alla pari dei mercenari (208). Non si specifica, né qui né altrove, in quale modo e proporzione dovesse avvenire la spartizione delle prede nell'esercito terrestre, mentre per quelle marittime esisteva una regolamentazione precisa sin dal 1350. Saperlo è di interesse non secondario, anche per avere altre conferme dell'importanza riconosciuta all'intervento della fanteria.
Non della divisione del bottino conquistato sul campo di battaglia, ma della pratica del saccheggio abbiamo una testimonianza vivace e particolareggiata nella guerra di Chioggia (209), che fa intravedere l'applicazione di un costume ormai affermato. Dopo la capitolazione dei Genovesi, secondo i patti stabiliti tra il consigliere ducale Pietro Emo e i capi dei mercenari, l'esercito è libero di entrare a Chioggia, con licenza di saccheggiarla per tre giorni. La Signoria vi avrebbe fatto il suo ingresso solo dopo. La formazione, che secondo Chinazzo "era molto possenti", contava duemilacinquecento lance e "gran pedonaia", della quale non si dà il numero. Venticinque lance deputarono uno di loro come butinier, e in questo modo la cavalleria era rappresentata da cento uomini incaricati di far bottino, i fanti da venticinque butinieri scelti tra loro, però senza che si indichi in quale rapporto numerico erano con quelli che rappresentavano.
Sono questi centoventicinque che entrano in Chioggia con qualche famiglio, presenti anche alcuni Veneziani. In gruppi di tre perquisiscono le persone "per menudo fin su le ongie di pie", non senza mostrare un certo rispetto per i gentiluomini, ai quali viene risparmiata una ispezione così scrupolosa. Secondo gli accordi vanno alla Signoria, per essere incarcerati, gli appartenenti ai paesi in guerra con Venezia, Genovesi, Padovani, Friulani, e i marittimi greci e slavi. Gli altri, mercenari e forestieri, vengono licenziati secondo gli usi bonae guerrae, che prevedono il rilascio immediato dei mercenari ad fidem, dopo aver tolto loro armi e cavalli (210). Tutti i beni catturati, "balestre, arme d'ogni raxon, lençuoli, leti, arçenti e dinari" vengono dai butinieri ammassati nella chiesa di Santa Maria e "partidi" - non si dice con quale criterio - tra i mercenari, che li vendono al meglio, soprattutto ai Veneziani, con pagamento in denaro (211). Viene ribadita anche in questa circostanza la regola fondamentale e di validità universale che le terre e gli immobili, ed egualmente le navi e le macchine belliche, vanno in ogni caso allo Stato.
In quanto ai prigionieri, il regolamento del 1336 faceva una distinzione diversa, assegnando allo Stato quelli che erano stati catturati in azioni svolte in nome del comune, ad postam communis; per coloro che lo erano stati nei fatti d'arme ad postam stipendiariorum il comune poteva invece corrispondere al catturatore un compenso secondo determinate tariffe, che tenevano conto della condizione del prigioniero. Le regole cambiano nel 1373, quando si stabilisce che tutti i prigionieri restano a chi li ha catturati (212). Per azioni ad postam stipendiariorum s'intendono quelle svolte dai mercenari di propria iniziativa, senza ordine dei rappresentanti dello Stato, tuttavia non senza il loro beneplacito. Era il capitano generale che stabiliva se era il caso di autorizzare tali imprese, che in linea di massima Venezia caldeggiava perché non vedeva di buon grado che essi restassero inattivi (213). Egli era infatti tenuto sia "personaliter equitare vel facere equitari [...> super territorio inimicorum [...>, conburendo, derobando, madendo", per creare il massimo di "damnum et confusionem" (214). Ma prima che si mettessero in movimento, Venezia esigeva che per publicum instrumentum "vel alfa cautela" fosse chiaro se cavalcavano di iniziativa propria o per conto del comune, con espressa indicazione delle regole che si dovevano osservare (215).
I profitti delle imprese di iniziativa propria erano dei partecipanti all'azione, e con essi anche i rischi; in particolare non venivano risarcite eventuali perdite o menomazioni dei cavalli avvenute in quell'occasione. Per tali eventi Venezia soleva rispondere in una prima fase "in facto emende" con due terzi del valore del cavallo, mentre il regolamento del 1373 non prevede più risarcimenti per cavalli morti, forse perché con le nuove forme dei combattimenti, in cui si mirava alla cavalcatura piuttosto che all'uomo, l'onere dell'indennizzo, del restauro equorum, diventava troppo gravoso (216). Comunque, se l'operazione aveva buon esito, i guadagni non erano disprezzabili e potevano costituire una proficua risorsa in caso di morosità dello Stato. Un'azione fortunata fu quella di cinquanta lance a cavallo al comando di Gasparo da Serravalle, che alla fine del novembre 1380, uscite dal campo di Mestre per far preda (217), catturarono al nemico, tra Bassano e Cittadella, bestie grosse e prigionieri per il valore di 1.500 ducati, vendendo parte del bestiame ad Asolo e portando indietro a Mestre "a salvamento" l'altra parte e tutti i prigionieri per chiedere il riscatto alla Signoria.
Il compenso previsto per la cattura di prigionieri nel regolamento del 1336 era di 8 ducati per un cavaliere e di 3 per un fante, mentre la condotta del 1356 rinvia genericamente a una prassi comuniter osservata da comunità e signorie italiane. Una somma maggiore si pagava ovviamente per i capi. Il regolamento fissa quella davvero considerevole di 50 ducati per capitani, conestabili e altra "notabilis persona" consegnati alla Signoria, fatta eccezione per gli Oltramontani e i Tedeschi che abitualmente non venivano rivendicati. Ancora di più per la cattura "de magnis autem dominis et notabilibus personis". Nella guerra scaligera fu stabilito un premio di 10.000 lire in contanti "Xm librarum numeratarum", per chi avesse preso prigioniero Mastino della Scala. E considerando i 1.000 ducati d'oro che nel luglio 1373 ebbe "el nobele cavaliere misser Neri d'Alemagna, soldato dila Signoria", perché era riuscito "per forza di suo posente cavallo" ad entrare tra le schiere nemiche e ad impadronirsi del vessillo del signore di Padova, tale insegna, che nell'esercito rappresentava il Carrarese, valeva quasi quanto lui (218).
Ma non sempre la ripartizione dei prigionieri veniva compiuta pacificamente. Nell'agosto 1376, benché si trattasse di "aliqui domini vel alii qui per pacta nostra spectarent comuni", per sedare il malcontento sorto sulla destinazione di quelli presi alla Rocchetta di San Vittore, il senato raccomandò al capitano Jacopo Cavalli di non inviarli a Venezia, ma di lasciarli a disposizione dei soldati, o quale parte del bottino o assegnando il prigioniero a chi l'aveva catturato, "secundum morem suum", questo sia per il morale dell'esercito sia perché il capitano fosse benvoluto dai suoi uomini (219).
Per i mercenari saccheggi, bottini di guerra, cattura di prigionieri erano tra gli incentivi maggiori. Poteva sollecitare il loro impegno anche la promessa di una paga doppia e l'arrotondamento a una mesata completa nel caso della conquista di un luogo fortificato o di un altro successo. Una clausola del genere è già inserita nel primo regolamento del 1336 e per molto tempo non la vediamo mancare in nessuna condotta, non solo perché era d'uso comune e quindi i mercenari l'avrebbero pretesa, ma anche perché il senato era ben consapevole, come precisa nell'ottobre 1345, che "npe accidat quod stipendiarii nolunt expugnare civitates, castra vel loca aliqua nisi cum dupla paga et mense completo vel possint robare res et bona dictorum locorum, ut sint sua" (220). Agli ufficiali veneziani presenti nel teatro di guerra era lasciata la decisione sul momento dell'applicazione, decisione non sempre facile che, come è ovvio, trova talvolta discordi i rappresentanti di Venezia e i mercenari. Nell'episodio già illustrato della capitolazione dei Genovesi a Chioggia i soldati veneziani oltre al permesso di saccheggio ebbero anche la paga doppia e il mese completo, benché la città non fosse stata da loro conquistata con le armi. Inoltre tale clausola non compariva più nel regolamento per gli assoldati ad modum lancearum del 1373. Ne godettero egualmente, come sottolinea Caresini, "ex dono" per la generosità di Venezia (221).
Singolare la situazione che si determina, durante la guerra scaligera, quando le forze del nemico, al sopraggiungere dei mercenari tedeschi di Venezia, vedendo l'audacia di costoro - audaci appunto "propter maximas promissiones Venetorum", come dice Cortusio (222) - abbandonano intimorite, senza combattere, l'assedio di Montecchio. Così, attribuendosi il merito d'aver ovviato al pericolo della perdita del comune, anzi d'averlo praticamente riconquistato, i mercenari rivendicano ciò che ritengono un loro diritto, paga doppia e mese completo, mentre Venezia e Firenze sostengono che non si erano verificate le condizioni del patto che prevedeva una vittoria conseguita in un "corporale prelium cum inimicis" (223). La controversia viene rimessa all'arbitrato di Ludovico il Bavaro il quale, sia detto per inciso, si pronuncerà a favore dei mercenari, che rifiutandosi nel frattempo di compiere azioni belliche permettono al nemico di riorganizzarsi. Donde l'esclamazione risentita del notaio Piacentino su inaffidabilità, frode e cattiveria dei Tedeschi dei giorni suoi (224).
Sconosciuto era un sistema di decorazioni militari, per premiare azioni individuali eccezionali, a meno che non si voglia considerare tale il titolo di cavaliere, del quale si poteva essere insigniti militari cingulo sul campo di battaglia. Era un alto onore riservato a pochi eletti, di fatto comunque solo ai capi (225). Grandemente apprezzato, finiva col diventare elemento integrante del nome di quelli che l'avevano meritato. Riconoscimento non meno ambito era il conferimento della cittadinanza veneziana de intus et de extra (226) o in casi rarissimi l'accesso al maggior consiglio per i nobili forestieri (227).
Con maggior frequenza venivano largiti premi in denaro, secondo un'inveterata tradizione. Così, nel 1346 ne vennero proposti con larghezza per chi avesse superato per primo le mura della ribelle Zara, ancora maggiori per chi vi avesse piantato le insegne di San Marco. Di 70 ducati era quello promesso dal gubernator exercitus terrae Sarraceno Dandolo, quando il 13 luglio 1380 guidò viriliter la riconquista della Torre delle Bebe, a chi tra i suoi uomini vi avesse issato per primo la bandiera. "Illi septuaginta ducati", approva il consiglio dei savi alla guerra "solvantur per commune nostrum". Premi dati anche con finalità precise, "pro dando sibi causam de bono in melius se gerendi", "pro bono exemplo aliorum in temporibus futuris" (228).
Per suscitare l'entusiasmo, "quod habeant causam eundi alacriter et libenter" (229), nel periodo comunale ci si affidava ai discorsi dei capi, con rievocazione delle gesta compiute dagli antenati, sventolio del gonfalone al grido di "Viva san Marco", ma ora che l'esercito era composto prevalentemente da mercenari, la loro efficacia era molto minore e in ogni caso di breve durata. Ricordiamo l'episodio della guerra di Chioggia narrato da Daniele di Chinazzo, quando nell'incertezza tra gli ordini dati da Venezia e il tentativo di uno dei condottieri di trattare con i Genovesi prospettando grandi vantaggi economici per i mercenari, Carlo Zeno, per dissuadere l'esercito dal cedere a tale tentazione, piuttosto che appellarsi al giuramento di obbedienza da loro prestato, "prexe el confalon de san Marcho in man, andava per tuto el champo digando Viva san Marcho, e simel cridava la brigada" (230).
Traspare dalle deliberazioni del senato il desiderio che gli arruolati servissero volentieri, talvolta con la buona politica di aiutarli a superare momenti difficili. Ecco una delle prime testimonianze nel più volte citato regolamento soldatorum ad modum lancearum del 1373 dove, ad esempio, in caso di perdita di cavallo si concedono loro fino ad otto giorni pagati, durante i quali si possa provvedere alla sua sostituzione. E in caso di indisponibilità per malattia o per ferite essi non perdono lo stipendio, "si aliquis infirmaretur vel foret percussus, non perdeat soldum si non obiret, et si obiret habeat caput terminum". Si cercava di legarli ai capi, invitando questi "pro miliori agendorum nostrorum et ut ipse capitaneus noster magis diligatur ab eis" a comunicare con loro nel miglior modo "cum illis verbis que sapientie sue utilia videbuntur" (231).
Certo, non sempre questa disposizione conseguiva i risultati sperati. Infatti non mancavano i disertori, chi tramava col nemico, chi tradiva, nonostante il rischio di subire un procedimento penale per aver violato il giuramento di servire fedelmente la Repubblica per tutto il periodo dell'accordo. In questi casi la punizione era esemplare. Ne conobbe la severità Roberto da Recanati, uno dei capi delle truppe di Venezia a Chioggia che, invece di ricevere dai Genovesi i 40.000 ducati d'oro per sé e la sua "brigata" di cento lance a cavallo e trecento fanti, concordati perché li fiancheggiassero in una sortita, denunciato e tenuto in carcere per un mese per farlo confessare, fu "apichado per la gola" tra le due colonne di piazza San Marco. "A grande honor", commenta Daniele di Chinazzo (232).
5. I quadri minori
Il periodo compreso fra gli anni Trenta e gli anni Settanta del secolo, una quarantina d'anni a partire dalla prima grande guerra veneziana in terraferma, arco di tempo sufficientemente lungo per seguire la carriera di certi personaggi e perché si potessero stabilire certi usi militari, è un buon osservatorio per guardare da vicino gli uomini sui quali Venezia poté far affidamento per la conservazione, la difesa e l'espansione del suo dominio terrestre e per cogliere i rapporti intercorrenti con loro.
Un'osservazione preliminare è che in un periodo nel quale i vertici del comando, in primo luogo il capitano generale e i responsabili dell'amministrazione militare, cambiavano con ogni guerra, ed egualmente cambiavano e persino più volte durante la stessa guerra le compagnie di volta in volta arruolate con i loro condottieri più o meno celebri, non mancavano tuttavia elementi di continuità. Questa era innanzi tutto assicurata dai quadri minori, dai conestabili (233), fossero essi a capo di bandiere equestri o a piedi. In pace acquartierati presso le guarnigioni veneziane in terraferma, in Istria, in Dalmazia, Oltremare, in guerra essi erano i primi ad offrirsi per l'esercito in campo anche lontano dal luogo in cui si trovavano. Come Lucio Datri, conestabile di una bandiera di fanti a Candia, che dopo essersi distinto durante la repressione della rivolta dei feudatari dell'isola, alla notizia dello scoppio della guerra con Padova s'affretta ad abbandonare il posto che aveva, per trasferirsi in terraferma e combattere alla bastia della Lova, dove viene ferito e fatto prigioniero. Come lui Menegello, figlio Jacobucii de Arsenatu, che, proveniente anch'egli da Candia, raggiunge Venezia, dove apprende che è stata ormai firmata la pace (234).
Di provenienza diversa e attraverso le più varie vicende, erano accomunati dal fatto di esercitare la milizia professionalmente, in guerra e in pace, e di esercitarla esclusivamente al servizio di Venezia. Per quanto le testimonianze su questi uomini siano di norma limitate ai casi in cui si rendeva necessario l'intervento del senato per deliberare su proposte presentate dai rettori periferici o per concedere deroghe a leggi vigenti o per largire grazie, si coglie con chiarezza che durante questi pochi decenni s'è potuto formare nelle istituzioni militari veneziane un corpo di ufficiali di professione di provata fedeltà. Sarà questo il nucleo originale sul quale col tempo si costruirà una struttura permanente.
Il loro era con tutta evidenza un ufficio ambìto, per quanto non costituisse il gradino iniziale di una carriera ben articolata, fatta di avanzamenti e di promozioni. Scarsi sono in effetti i casi di mobilità nei gradi, e lo stesso Sardagna nelle sue prosopografie dei soldati che militarono in Istria allo stipendio di Venezia ritrova appena quello di Simone Sciavo - documentabile tra 1356 e 1381 tra Treviso e l'Istria - che da conestabile si era innalzato a capitano d'armi (235), dunque capeggiando non più una sola, ma una pluralità di bandiere. Un altro caso è quello di Cristoforo degli Arvassi da Chioggia, detto Canestro, veterano della guerra scaligera e ora, nel 1375, stipendiario equestre a Grisignana, che asserisce di aver servito Venezia per oltre cinquant'anni in varie parti e in molte guerre, specialmente "in guerra contra dominum Patriarcam, in guerra Buvolent, in guerra Antignan contra comitem Pisini, in guerra Jadr, in guerra Justinopolis", di aver consegnato alle carceri del Dominio ventiquattro prigionieri di Capodistria. Venne fatto capitano a Scardona, inviato con Lorenzo Celsi e Giovanni Gradenigo all'imperatore dei Romani, e dopo la cattura di Marco Corner e di Giovanni Gradenigo fu mandato in una missione molto pericolosa ad Ostrovizza per avere loro notizie. E dopo essersi trovato in varie parti del Dominio, sempre servendo fedelmente i rettori veneziani, era poi stato in Istria con Simone Michiel "cum quo mirabiliter exercuit personam suam contro inimicos, multa damna sibi inferrendo, nunquam se recusando" (236).
Comunque, per essere ammessi a coprire l'ufficio di conestabile appaiono necessarie certe presentazioni o intercessioni nelle quali avevano un peso anche i meriti e la buona reputazione acquisiti in guerra dai padri o da altri familiari. Nell'ottobre 1376 il conte di Pola Francesco Venier, informando la Signoria che nella bandiera equestre al presidio di Moarcan si è reso vacante il posto del conestabile per la morte di Gervasio da Ravenna, a succedergli propone un uomo "de magna fidelitate et probitate", Nicolò de Conestabilis da Ferrara, abitante a Treviso, che durante la repressione della rivolta di Trieste e nella guerra dei confini contro Padova s'era comportato "laudabiliter et fideliter [...> in honorem dominationis". Il mese prima il senato aveva deliberato di riservare il comando di una bandiera di fanti a Serravalle, "quam quondam eorum pater regebat", al figlio più idoneo del nobilis vir Nicolò da Canal, che era morto in povertà, dopo essersi sempre comportato fedelmente al servizio di Venezia (237).
Già negli anni Settanta del sedolo l'ufficio sta per diventare ereditario, e cominciano a vedersi i segni del costituirsi in certe famiglie di una tradizione militare al servizio di Venezia. Basterà citare i Burlo di Trieste, i Conolato della Torre del territorio di Romano, i discendenti dal tedesco Corrado da Ravensburg e dallo stesso Simone Sclavo, e molti altri, tra i quali gli Olegio di Treviso che battezzavano i loro figli, i quali serviranno Venezia dal 1364 in poi, con i nomi significativi di Orlando ed Olivieri (238). E tra i veterani di quest'ultimo quarto del Trecento che potevano guardare indietro per trenta, quaranta, addirittura cinquant'anni di vita più o meno movimentata trascorsa per Venezia nelle guarnigioni e sui campi di battaglia, numerosi erano semplici cavalieri o fanti. Così, aveva servito il Dominio per trent'anni Bartolomeo da Ravenna, ora stipendiato a Montona; per quarant'anni, a detta di suo figlio Santuccio, il fu Jacopo de Tedaldino, che aveva concluso la sua vita quale uomo a cavallo a Capodistria (239).
Quando non erano più idonei al mestiere o perché menomati in seguito a ferite ("propter percussionem quam recepit in brachio pugnando [...> factus sit impotens", "multum devastatum in persona pugnans viriliter contra inimicos nostros") o perché vecchi ("ad debilem conditionem ductus est", "quod est deductus ad senem", "propter senectutem suam "), se si trovavano in condizioni di povertà tali da non essere in grado di "vivere et non moriri sub umbra nostri dominii", si assegnava loro un posto in una guarnigione o una certa somma mensile ("aliquam provisionem de qua vivere possit") o una delle poste o delle paghe morte. Ai congiunti bisognosi di valorosi caduti, spesso figli piccoli, mogli incinte, ragazze da maritare, si concedevano prestiti, si cancellavano debiti, si conservavano posti in bandiere per gli orfani quando fossero entrati in età idonea, si costituivano doti (240).
Tutte le loro azioni, così ricompensate, dovevano servire come "bonum exemplum aliis benefaciendi", perché "tales homines sunt utiles civitati, et precipue modernis temporibus" (241). E a differenza dei quadri e dei mercenari delle grandi signorie dell'Italia settentrionale, come quelli dell'esercito carrarese, appartenenti ormai in prevalenza alle famiglie aristocratiche padovane e ai loro clienti, e soprattutto alla famiglia e al seguito del signore (242), molti di questi uomini provenivano anche da fuori del Dominio, da Ravenna, Ferrara, Vicenza, Feltre, Fermo, Firenze, Parma, Piacenza, Belgrado in Friuli, dalla Germania. Stabilendosi con le loro famiglie nel territorio della Repubblica, contribuivano anche all'aumento della popolazione, "que quanto magis augebitur, tanto erit melius" (243). Il senato li apprezzava pure per questo.
6. Gli alti comandi
I molteplici problemi connessi col reclutamento, l'amministrazione, il funzionamento e il controllo di grandi e compositi eserciti facevano capo ad una serie di cariche che in questo secolo finirono solo in parte coll'assumere carattere permanente in ben definiti uffici, molte restando le funzioni che non arrivarono ad acquisire un profilo istituzionale netto e determinato.
Fatta eccezione per il comandante generale, gli altri comandanti e il più delle volte anche i governatori erano quasi esclusivamente patrizi veneziani. Nel solito sistema di equilibri caratteristico della costituzione veneziana non mancavano sovrapposizioni di competenze e di funzioni, talvolta persino in concorrenza, forse meno occasionale che non deliberata. Quasi sempre avevano la loro sfera d'azione nelle zone periferiche del Dominio interessate alle operazioni belliche, se non fuori dei confini dello Stato, tuttavia senza mai perdere i contatti col senato. A parte quello del capitano generale da terra, erano per lo più uffici collegiali che si costituivano in caso di guerra; eletti dal maggior consiglio e dal senato, i loro membri duravano in carica per un periodo determinato, di solito breve.
Al capitano generale invece veniva consegnato il bastone di comando per tutta la durata della guerra. Incapacità e trascuratezza delle disposizioni erano buoni motivi per la cessazione del mandato. Infatti, nell'affidare a Jacopo Cavalli il comando supremo della guerra contro i duchi d'Austria, il senato gli conferisce l'incarico "usque ad illud tempus quod placebit nostro dominio" (244). Eppure questo sperimentato e fidato veronese, che opererà con piena soddisfazione di Venezia, sarà l'unico tra i comandanti veneziani a essere posto alla testa dell'esercito una seconda volta, durante la guerra di Chioggia. Ingaggiato in un primo tempo quale "gubernator omnium soldatorum" mentre era ancora provisionato di Galeotto Malatesta (245), fu bersaglio di un tentativo di assassinio, sul quale i provveditori al campo riuscirono a fare piena luce. Come lui, anche Pietro Rossi era sopravvissuto ad analogo attentato ad opera di mercenari tedeschi (1337) (246).
Il primo ufficio collegiale ad essere costituito nell'eventualità di una guerra era quello dei sapientes guerre, di composizione numerica variabile, di solito di venticinque, trenta membri, nel Quattrocento anche di cinquanta (247). Eletto tra i "melioribus et maturioribus civitatis", senatori di provata esperienza e affidabilità, erano di sua competenza le questioni inerenti alla guerra, "negociis guerre preesse" (248). Riunendosi giornalmente in una sala loro deputata nel palazzo Ducale "ad consulendum super factis et commissis" (249), tra i suoi molteplici compiti vi erano le decisioni riguardanti l'opportunità di rafforzare certe fortificazioni, di immagazzinare altre vettovaglie, di far ricorso alle estrazioni a sorte delle duodene. Inoltre vigilava sul computo dei caduti (250). Aveva funzioni consultive e anche deliberative nel corpo del senato.
L'esecuzione delle sue decisioni competeva invece a tre executores eletti per la durata di due mesi ("pro mandando executioni ea que ordinabuntur per istud consilium [...> executores [...> teneantur omni die in mane et post nonam presentare se ad palatium et facere et exequi sicut fuerit opportunum") (251). Tra i vari compiti provvedevano ai rifornimenti dell'esercito, ma quelli di materiale bellico e per la costruzione delle macchine e delle fortificazioni del campo e delle bastie erano curati dai patroni arsenatus (252). Come esperti, essi ispezionavano le munizioni delle piazzeforti, facendo elenchi del materiale reperito, rimandando in Arsenale il materiale in disordine e alla fine della guerra facevano rientrare a Venezia tutto quello che ormai non serviva più (213).
Per la complessità delle mansioni del consiglio di guerra, si tendeva ad eleggere al suo interno un corpo più ristretto, da tre a cinque elementi con incarichi specifici, come quello di sovrintendere al reclutamento dei mercenari o di esaminare le entrate e le spese del comune, in maniera che si potessero prendere i provvedimenti necessari per coprire i costi della guerra (254).
Il reclutamento dei mercenari richiedeva una capacità di scelta degli elementi migliori e, come abbiamo visto, nel caso dell'ingaggio di compagnie anche quella di saper negoziare le condizioni più favorevoli. Tuttavia nel Trecento non abbiamo un ufficio specifico. La funzione veniva delegata di volta in volta a vari incaricati, anche a non Veneziani (255), secondo le circostanze e le qualità degli uomini richiesti. Così, viene commesso solutoribus armamenti l'ingaggio dei balestrieri e pavesari mancanti per la custodia del Castel Leone in Istria (256), ed è il capitano generale dell'esercito ad affidare a dei conestabili di vari presidi di terraferma il compito di assoldare un centinaio di buoni fanti, mentre gli inviati presso Giovanni Acuto partono in qualità di ambasciatori solenni, con precise e complete istruzioni del senato. Sono loro, però, a decidere sulla scelta più conveniente, presentando al condottiero le loro credenziali ("cum litteris credulitatis") all'inizio dei negoziati (257).
Meno formalità, ma una serie di disposizioni pratiche da osservare, guidano l'operato dei tre sapientes super soldatis in terra norva in occasione della guerra contro i duchi d'Austria, come si era già fatto nel 1368 in occasione della rivolta di Trieste (258). Eletti anche loro per la durata di circa tre mesi, questi savi erano tenuti a riunirsi mattina e pomeriggio, insieme a famuli e preconi prestati dalla Camera Armamenti e da altri uffici. Avevano la loro sede in una "camera" della chiesa di San Marco dove, con l'aiuto di due o più notai, assoldavano gli uomini che si presentavano in risposta a notificazioni fatte tramite banditori e lettere. Stipulavano la condotta per iscritto "secundurn usum" con tutti, cavalieri, fanti, balestrieri e altri. Pagavano, concedevano prestiti, annotavano tutto ordinatamente e si facevano consegnare dall' Ofcium Armamenti l'elenco delle spese sostenute. In fine dislocavano gli arruolati nelle sedi assegnate e ascoltavano e componevano le vertenze sorte tra loro (259).
I governatori, gubernatores exercitus, e i provveditori, provisores ad campum, erano ufficiali di rango più elevato, che tenevano il campo con un ragguardevole seguito di famuli e di collaboratori. Essi assicuravano un collegamento continuo tra il governo e il capitano generale, del quale controllavano l'operato, rappresentando Venezia nel teatro di guerra. Con loro si limitava il potere discrezionale, l'arbitrium, del capitano generale, esigenza importantissima, considerando che dalla guerra scaligera in poi, fatta eccezione per le rivolte, tutti i capitani generali furono forestieri.
Novità introdotta durante la guerra scaligera, due governatori fiorentini e due veneziani - Andrea Morosini e Marin Faliero e dopo loro altri - accompagnavano l'esercito. Il Piacentino li descrive con cavalli e armi, occupati a trattare e seguire da vicino le vicende della guerra e dell'esercito accanto al capitano generale, assistendolo con i loro consigli (260). Queste indicazioni generiche assumono un contenuto più preciso quando il senato è costretto a prendere posizione in merito a certe sovrapposizioni di compiti tra il capitano e i governatori, per esempio proprio con un capitano generale veneziano, Marco Giustinian, alla rivolta di Zara del 1345. Viene fatto affiancare da due governatori, in maniera che i tre alti ufficiali possano disporre e provvedere a maggioranza (261). È in questa occasione che sorgono diflèrenze tra le due cariche, sulle competenze sia sull'opportunità di assoldare altri mercenari sia "in facto regendi et faciendi iustitiam inter gentem exercitus nostri terrę". Competenze che peraltro non erano del tutto chiare nemmeno al senato, che solo dopo un attento esame delle rispettive commissioni può precisare che, date la complessità e le difficoltà della guerra di Zara, pare più prudente che a prendere decisioni siano in tre anziché il capitano solo, e quindi "per omnia agenda [...> exercitus" sia la maggioranza a decidere, salvo "in facto belli", nel qual caso è solo il capitano ad aver voce. Ad un ulteriore quesito posto dagli interessati si risponde che l'arbitrium spetta al solo capitano in due casi: nella giurisdizione civile e criminale sui soldati e nelle faccende di guerra dal momento in cui l'esercito ha lasciato la bastia per svolgere le operazioni militari. Tutte le altre decisioni vanno prese a maggioranza (262).
Come è noto, pur essendo tra i più stimati rappresentanti del patriziato, essi non sempre agivano in conformità alla commissione, né meritavano la fiducia in loro riposta. Così, l'operato di Andrea Zeno e di Domenico Michiel nel novembre 1372 alle Brentelle, insieme a quello dell'insufficiente capitano generale, il maremmano Ranieri Vasco, causò il loro richiamo anzitempo, un processo e per il Michiel l'interdizione da tutti gli uffici per cinque anni (263). Quella guerra dei confini presentò gravi problemi per Venezia anche per la scelta dei capitani generali. Per quanto il nuovo capitano Giberto da Correggio fosse "doctus in expeditionibus bellicis", era tuttavia vecchio e ammalato, così che tutto il peso del comando cadeva sulle spalle dei nuovi governatori, Leonardo Dandolo miles e Pietro della Fontana, che non apparteneva al patriziato veneziano, ma era genero di Michele Steno. Se la guerra prese una svolta favorevole, con la vittoria presso Buonconforto, il merito fu dei governatori che "strenuissime se gesserunt" (264), in particolare il della Fontana.
La più alta autorità veneziana in campo era il collegio dei provveditori (265), di norma tre. Agivano autonomamente o insieme ai rettori locali o al capitano generale. In collegio coi rettori assumevano poteri di senato, perciò davano direttive anche al capitano generale ("simul cum rectoribus nostris ubi se reperient habeant libertatem ordinandi providendi disponendi expediendi et faciendi in omnibus et per omnia sicut haberet istud consilium rogatorum") (266). Una delega così ampia era opportuna per situazioni in cui si rendevano necessarie decisioni immediate per le quali non potevano essere richieste disposizioni da Venezia ("multi infiniti casus possent occurrere que requirerent subitas provisiones et succursus"), per esempio nel caso di spostare con urgenza truppe, di allontanare persone sospette, di spendere denaro e di provvedere con qualunque rimedio opportuno alla sicurezza dello Stato. Qualsiasi decisione presa andava eseguita come se fosse stata deliberata dai consigli veneziani (267). In caso di discussioni e disaccordi, era comunque la decisione dei provveditori ad essere determinante.
Data la pienezza dei poteri loro delegati, la prudenza richiedeva che potesse essere eletto provveditore un solo membro di ogni casata e di ogni ufficio (268). Ed erano i provveditori a presiedere col capitano generale alle riviste generali e a subentrare nelle funzioni dello stesso capitano ammalato. Quando questo accadde con Jacopo Cavalli nell'agosto 1376 furono loro a punire i colpevoli del suo attentato (269).
7. Verso forme nuove dell'arte della guerra
A chiusura del capitolo vorremmo accennare brevemente a qualche aspetto della pratica della guerra nell'ultima fase del Trecento. È sin dalla guerra con Padova del 1372-1373, nella battaglia vinta di Buonconforto, che nelle operazioni militari veneziane si delinea con maggior rilievo tutta una serie di sperimentazioni e di novità ispirate anche alle tattiche ungherese e inglese.
A Buonconforto è quest'ultima ad imporsi, messa in atto da uno dei nuovi gubernatores, Pietro della Fontana. Consisteva nel far combattere a piedi tutti gli uomini d'arme, anche i cavalieri, con una certa tecnica, la cui paternità viene attribuita alla compagnia Bianca inglese (270). All'espediente di privarsi della cavalcatura per il combattimento si era già fatto ricorso nella lontana estate 1337 davanti a Monselice. Allora il capitano generale Pietro Rossi aveva infatti ritenuto utile smontare dal cavallo, insieme ad altri, "per dare più vigore di combattere alle sue genti", come dice Giovanni Villani (271). La stessa impressione ha Daniele di Chinazzo: "per sostegnir più e far so honor", una settantina di lance a cavallo, di scorta a una spedizione di viveri per Treviso, sorprese dai nemici padovani "saltà tuti a pe' cum le lane in man e per lo simele fexe l'altra brigada e fo gran meschia" (272). Era originariamente il modo più indicato per forze d'inferiorità numerica perché tenessero più saldamente il campo contro nemici superiori.
La novità era rappresentata dalla trasformazione degli appiedati in una formazione in grado anche di contrattaccare, avanzando spalla a spalla con la lancia in resta, una lancia grossa e lunga, impugnata da due uomini che, in una fase successiva, addossati l'uno all'altro per aiutarsi a vicenda, combattevano insieme (273), In questo modo si evitavano anche danni ai cavalli, i quali infatti venivano tenuti dai ragazzi dietro la linea di combattimento. Queste innovazioni tattiche, che richiedevano una stretta collaborazione tra più elementi affiatati, maggiore di quanto non fosse richiesta per i combattimenti in forma tradizionale, portarono all'introduzione della lancia di tre componenti, uomo d'arme, sergente e ragazzo.
Ma va osservato che questi uomini appiedati non dovevano essere armati di tutto punto, perché la corazzatura che, come si sa, con la cotta di maglia d'acciaio insieme alle piastre metalliche, nel Trecento aveva raggiunto il massimo del suo peso (274) vincolava alla cavalcatura, impedendo movimenti davvero efficaci che non partissero dal dorso del cavallo. Questo implicava il servizio di un sergente, sempre che non si facesse ricorso al più leggero armamento inglese, cappello senza visiera e corazzine o panciere imbottite o formate da tele, lane o cotonine sovrapposte, ben compresse e finemente trapuntate, la diploide, descritta dal cronista Pietro Azario (275).
Sempre prima di Buonconforto, nel febbraio 1373, vennero conquistate dalle parti di Lova due bastie padovane in un'azione concertata tra il "navalis exercitus" imbarcato su ganzaroli, i balestrieri di Venezia e un certo numero di mercenari che combattevano anch'essi "absque equis" (276). Ma il gesto così determinante del della Fontana fu che lo stesso comandante combatteva a piedi, e come narra il Caresini, minacciando di uccidere chiunque avesse tentato la fuga, "subjicens se ipsum eidem legi, ut, si forte terga dare videretur, quilibet ipsum impune perfodiat" (277). Era il giorno di san Marziale, il 1° luglio, per altre due volte nel Trecento particolarmente fausto per le imprese terrestri veneziane, che fu perciò dichiarato festa solenne.
La cavalleria appiedata prelude ai successi delle fanterie quattrocentesche, che avranno un peso risolutivo nelle battaglie, anche loro obbligate all'attacco senza pietà, per non essere sopraffatte e soccombere. La misura introdotta da Pietro della Fontana, per quanto di applicazione ancora isolata, trovava una condizione certamente favorevole nello scemare quantitativo dei mercenari tedeschi, che al seguito di Enrico VII e soprattutto di Ludovico il Bavaro avevano invaso l'Italia nei primi decenni del secolo (278), e nel rinvigorirsi della presenza inglese nelle pause della guerra dei Cento anni.
Contemporaneamente alla cavalleria appiedata si diffonde la pratica della fanteria montata, che invece significava inserire, seppur ancora in quantità modesta, reparti nuovi nell'esercito, come i balestrieri a cavallo veneziani e italiani e gli arcieri ungheresi e inglesi, in particolare nelle guerre contro i duchi d'Austria e, in alleanza con Gian Galeazzo Visconti, in quella anticarrarese. Essa prelude alla cavalleria leggera che a Venezia, come è noto, raggiungerà il massimo dell'efficienza con quella degli stradioti.
La più grande innovazione del periodo fu tuttavia quella legata all'introduzione dell'artiglieria. Per quanto per la prima testimonianza dell'uso di una bombarda la Toscana preceda (279), è però Venezia che si conquistò la fama di essere fra i pionieri dello sviluppo di quest'arma (280). Ciò per il suo impiego veramente massiccio durante la guerra di Chioggia contro i Genovesi, tanto in forma di bombarde fisse erette su terra battuta su chavalete di legno, quanto mobili, trasportate su imbarcazioni fluviali e sulle galee, nelle acque di Chioggia e lungo la costa dalmata. Con esse vengono prese di mira, nell'ottobre 1378, la città e il porto di Zara: "portum et civitatem stimulantibus cum bombardis", scrive il C aresini (281). Ma è soprattutto nella cronaca del più competente Daniele di Chinazzo, figlio di un militare (282), che le bombarde appaiono con pari dignità delle altre armi usate dalle forze navali e terrestri, insieme alle varie macchine ("edifici") tradizionali, divenendo uno strumento essenziale della guerra.
Nel campo dei Veneziani alla bastia di Fosson c'erano "tra grande e prole" ventidue bombarde e tre mangani che ogni sera scaricavano le loro munizioni sul campo genovese a Brondolo, mentre i Genovesi rispondevano a quanto pare in modo più irregolare al fuoco, così che non passava giorno che le due forze contrapposte non si scambiassero sui cinquecento colpi. Alla riconquista della fortezza di Loreo a dare un contributo decisivo furono in particolare due bombarde grosse, la "bombarda Trevixana", fusa a Treviso, con proiettili da 195 libbre (kg 93) e un'altra, fatta a Venezia, di portata non molto inferiore (proiettili da 140 libbre, kg 67). La prima riuscì anche a danneggiare il campanile di Brondolo, sotto le cui macerie restarono uccisi il capitano generale delle galee genovesi, Pietro Doria, e un suo nipote. E attraverso le brecce aperte dalle bombarde grosse alla Torre delle Bebe i balestrieri veneziani, dall'interno di un gatto di legno avvicinato alla fossa, riuscirono a colpire con i loro verrettoni molti degli occupanti della fortezza (283).
Chinazzo parla di tanta "mortalità e pericholo" senza precedenti causati dalle artiglierie durante la guerra di Chioggia. Sopravvalutare la loro potenza distruttiva è inesatto quanto limitare la loro utilità alla difesa di chi si trovava accerchiato, cui fornivano la possibilità di stroncare le più leggere opere ossidionali degli assedianti, ed anche per l'effetto psicologico del fragoroso sprigionarsi di sassi e di fiamme (284).
È vero che Venezia possedeva, col suo Arsenale e con le fornaci e officine del Ghetto ad esso collegate, una delle fonderie da cannoni e una delle fabbriche di polvere più avanzate del tardo Trecento (285). Inoltre aveva la possibilità di costruirne anche a Treviso, ma di come le armi da fuoco venivano fornite e servite non si sa molto nemmeno nel primo Quattrocento. Scarse sono soprattutto le informazioni riguardanti gli addetti al loro impiego. Tra le poche notizie la rievocazione del sistema adoperato da Venezia durante la guerra di Chioggia. Si sorteggiava ogni giorno una galea la cui ciurma veniva fatta scendere a terra col compito preciso di aiutare a caricare le bombarde e i mangani, in maniera che fossero sempre forniti di munizioni (286). Fra i comandanti è noto l'ingegnere veterano Domenico, proveniente da Firenze, che avrà un ruolo di spicco all'assedio di Padova del 1404-1405. Ma l'epoca delle artiglierie è appena agli inizi.
1. Per l'epoca comunale rinviamo all'importante contributo di Aldo A. Settia, L'apparato militare, in Storia di Venezia, II, L'età del comune, a cura di Giorgio Cracco - Gherardo Ortalli, Roma 1995, pp. 461-505.
2. Michael E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, Roma 1989, p. 22.
3. Giovanni Villani, Nuova Cronica, a cura di Giuseppe Porta, III, Parma 1991, lib. XII, L, p. 108.
4. Jacopo Piacentino, Cronaca della guerra Veneto-Scaligera, a cura di Luigi Simeoni, Venezia 1931, p. 57; Guillelmi de Cortusiis Chronica de novitatibus Padue et Lombardie, a cura di Beniamino Pagnin, in R.I.S.2, XII, 5, 1941, P. 76.
5. V. A.A. Settia, L'apparato militare, p. 485.
6. I veterani smobilitati della guerra scaligera costituirono infatti la Grande compagnia. Sulla quale, e sulla cui consistenza, v. Michael E. Mallett, Signori e mercenari. La guerra nell'Italia del Rinascimento, Bologna 1983, pp. 37 s.
7. Luigi Simeoni, Le origini del conflitto veneto-fiorentino-scaligero (1336-1339) e note sulla condotta della guerra (con appendice di documenti), in Id., Studi su Verona nel Medioevo, III, a cura di Vittorio Cavallari, Verona 1962, pp. 114 s. (pp. 63-156).
8. Samuele Romanin, Storia documentata di Venezia, I-X, Venezia 1972-1975: III, pp. 8 s., 11-19.
9. M.E. Mallett, L'organizzazione militare, p. 21.
10. A.S.V., Senato, Secreta, reg. A (B), 1345, 29 agosto, 29 settembre, 31 ottobre, 8 novembre.
11. Raphayni de Caresinis Chronica a. 1343-1388, a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 2, 1922, p. 4.
12. Heinrich Kretschmayr, Geschichte von Venedig, II, Gotha 1920, p. 193.
13. R. de Caresinis Chronica, p. 4.
14. A.S.V., Senato, Secreta, reg. A (B), 1345, 29 agosto.
15. Guerra di Trieste coi Veneziani, dalla cronaca inedita di Gio. Giacomo Caroldo (1368-1370), Udine 1874, p. 34.
16. Ibid., p. 46.
17. Numerose testimonianze nelle deliberazioni del senato, ad esempio A.S.V., Senato, Secreta, reg. L (D), 1376, 19 giugno, elezione di tre savi per assoldare mercenari: "Non possint refutare sub pena ducato-rum centum pro quolibet", e soprattutto ibid., 18 settembre: "Quia multi refutant res ad quas elliguntur pro factis guerre presentis cum damno agendo-rum, vadit pars quod de cetero si aliquis elligetur ad aliquam rem pro factis presentis guerre vel per consilium rogatorum vel per collegium et reffutabit, solvat ducatos XX pro pena nostro comuni. Et istud duret donec durabit presens guerra". 18. Problemi aggravati in seguito ad una nuova peste, del "mal de la giandussa", che nel 1361 colpì in particolare Parenzo, la Polisana e Montona e ad un'altra epidemia, che nel 1371 fece strage della popolazione delle campagne di Pola. Bernardo Benussi, Manuale di geografia, storia e statistica della Regione Giulia (Litorale) ossia della città immediata di Trieste, della contea principesca di Gorizia e Gradisca e del margraviato d'Istria, Parenzo 19032, p. 189. Sulla nuova ondata di peste del 1363 e sul suo peso psicologico, v. Samuel K. Cohn Jr., Piété et commande d'oeuvres d'art après la peste noire, "Annales H.Ss.", 51, 3, 1996, pp. 558 ss. (pp. 551-573).
19. V. per questa guerra Paolo Sambin, La guerra del 1372-73 tra Venezia e Padova, "Archivio Veneto", ser. V, 38-41, 1946-1947, in particolare pp. 26-76 (pp. 1-76).
20. Sempre fondamentale Luigi A. Casati, La guerra di Chioggia e la pace di Torino, Firenze 1866.
21. Daniele di Chinazzo, Cronica de la guerra da Veniciani a Zenovesi, a cura di Vittorio Lazzarini, Venezia 1958.
22. V. per questo periodo Roberto Cessi, Venezia e la prima caduta dei Carraresi, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 17, 1909, pp. 311-337, e per gli anni successivi Id., La politica veneziana di terraferma dalla caduta dei Carraresi al lodo di Genova (1388-1392), "Memorie Storiche Forogiuliesi", 5, 1909, pp. 127-209.
23. A.S.V., Senato, Secreta, reg. A (B), 1345, 14 novembre.
24. Marco Pozza, Due capitolari per la milizia cittadina, in Gino Belloni - Marco Pozza, Sei testi veneti antichi, Roma 1987, p. 79 (pp. 77-93).
25. Ibid., p. 80 e n. 12.
26. Ibid.
27. Guerra di Trieste, p. 34.
28. A.S.V., Senato, Misti, reg. 36, 1380, 29 aprile.
29. J. Piacentino, Cronaca, p. 44. La discordanza numerica va probabilmente spiegata con quella tra gli uomini iscritti e quelli effettivamente impiegati: Luigi Simeoni, ibid., p. 44 n. 3 e p. 2I.
30. Una delle poche azioni di vero combattimento durante la guerra scaligera fu l'attacco violento sferrato dai cittadini veneziani, essi soli, contro il castello delle Saline, L. Simeoni, Le origini del conflitto, p. 115.
31. J. Piacentino, Cronaca, p. 45.
32. L. Simeoni, ibid., p. 44 n. 3.
33. Ibid., p. 44; v. anche S. Romanin, Storia documentata, III, p. 90.
34. J. Piacentino, Cronaca, p. 44.
35. M. Pozza, Due capitolari, p. 80 n. 13.
36. A.S.V., Senato, Secreta, reg. A (B), 1345, 14 novembre.
37. Antonio S. Minotto, Documenta ad Ferrariam, Rhodigium, Policinum ac Marchiones Estenses spectantia, in Acta et diplomata e R. Tabulario veneto chronologico ordine ac principium rerumque ratione inde a recessiore tempore usque ad medium seculum XIV summatim regesta, III, 2, Venetiis 1874, p. 9.
38. M. Pozza, Due capitolari, p. 78 n. 6.
39. Antonio Pertile, Storia del diritto italiano, II, 1, Torino 1897, p. 401.
40. S. Romanin, Storia documentata, III, p. 90.
41. Maurice Aymard, La leva marittima, in Storia di Venezia, Temi, Il Mare, a cura di Alberto Tenenti ‒ Ugo Tucci, Roma 1991, p. 437 (pp. 435-479), che cita S. Romanin, Storia documentata, II, pp. 333 s.
42. A.S.V., Senato, Secreta, reg. A (B), 1345, 14 novembre.
43. J. Piacentino, Cronaca, p. 105.
44. Ibid.
45. M.E. Mallett, L'organizzazione militare, pp. 127 ss.
46. M. Pozza, Due capitolari, p. 82.
47. Regolamentazioni analoghe si ritrovano a Genova solo nel 1363 sotto il dogado di Gabriele Adorno, Nilo Calvini, Contributo alla Storia militare nel Medioevo in Liguria: i balestrieri genovesi, "Rassegna Storica della Liguria", i, 1974, nr. 2, pp. 303, 309 ss. (pp. 287-316).
48. A.S.V., Maggior Consiglio, Liber Clericus Civicus, c. 200, in M. Pozza, Due capitolari, pp. 82 s.
49. Pompeo G. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata dalle origini alla caduta della Repubblica, I, Bergamo 19226, p. 199.
50. Giovanni Battista di Sardagna, Memorie di soldati istriani e di altri italiani e forestieri che militarono nell'Istria allo stipendio di Venezia nei secoli XIII, XIV e XV, "Archeografo Triestino", n. ser., 7, 1880-1881, pp. 27 s. (pp.. 18-102, 235-289).
51. P.G. Molmenti, La storia di Venezia, p. 200. Per le difficoltà dell'uso della balestra, per l'importanza operativa, il prestigio che conferiva al bravo balestriere, gli effetti psicologici sul nemico, v. A.A. Settia, L'apparato militare, p. 475.
52. P.G. Molmenti, La storia di Venezia, p. 200.
53 D. Di Chinazzo, Cronica, pp. 108 s., 113.
54. P.G. Molmenti, La storia di Venezia, pp. 200 s.
55. A.S.V., Senato, Secreta, reg. L (D), 1376, 17 agosto.
56. Ibid., 9 settembre.
57. Ibid., 18 settembre. Ma ci sono anche populares che fungono da capita balistariorum, v. ibid., 10 novembre.
58. Paola Ratti Vidulich, Duca di Candia. Quaternus consiliorum (1340-1350), Venezia 1976, nr. 266, pp. 155-157.
59. Infatti, già nel 1347 vennero assoldati mille arcieri candioti per l'esercito che il Delfino, nella sua qualità di capitano generale dell'esercito cristiano, stava radunando contro i Turchi. Ibid., nr. 136, pp. 73-75.
60. Ancora nel Quattrocento M.E. Mallett, L'organizzazione militare, p. 107.
61. Giambattista Verci, Storia della Marca Trevigiana e Veronese, I-XX, Venezia 1786-1791: XII, nrr. MCCCXCVIII s., pp. 21 s.
62. Ibid., XIV, nr. MDCXVIII, p. 32.
63. Ibid., nr. MDCXIX, p. 32.
64. Ibid., nr. MDCXVIII, p. 32.
65. A. Pertile, Storia del diritto, p. 400.
66. G.B. Verci, Storia della Marca Trevigiana, XIV, nrr. MDCXVII s., pp. 31 s.
67. Guerra di Trieste, p. 37.
68. A.S.V., Senato, Misti, reg. 36, 1377, 8 maggio.
69. Ibid., 1378, 18 marzo.
70. D. di Chinazzo, Cronica, p. 65.
71. M.E. Mallett, L'organizzazione militare, p. 20.
72. Listine o odnosajih izmedju Juznoga Slavenstva i Mletaéke Republike, in Monumenta sectantia historiam Slavorum meridionalium, I, a cura di Sime Ljubié, Zagreb 1868, p. 413 (a. 1333).
73. B. Benussi, Manuale di geografia, p. 189.
74. Roberto Cessi-Paolo Sambin, Le deliberazioni del consiglio dei Rogati (Senato). Serie "Mixtorum", I, Venezia 1960, lib. V, nr. 166, p. 191; Roberto Cessi-Mario Brunetti, Le deliberazioni del consiglio dei Rogati (Senato). Serie "Mixtorum", II, Venezia 1961, lib. XV, nr. 103, p. 31.
75. H. Kretschmayr, Geschichte von Venedig, p. 193.
76. R. Cessi-P. Sambin, Le deliberazioni, lib. XI, nr. 23, p. 361.
77. A.S.V., Senato, Misti, reg 5, 1375, 12 ottobre.
78. B. Benussi, Manuale di geografia, p. 188.
79. Così anche nel pactum dell'aprile 1341 con un conestabile di una bandiera equestre, G.B. di Sardagna, Memorie di soldati, nr. 10, pp. 255-257; mentre in un altro del settembre 1335 la bandiera è di venticinque uomini a cavallo, con tredici ronzini, ibid., nr. 12, pp. 258 s.
80. R. Cessi - M. Brunetti, Le deliberazioni, lib. XV, nr. 4, p. 6; v. anche Antonino Lombardo, Le deliberazioni del consiglio dei XL della Repubblica di Venezia, I, Venezia 1957, reg. XXII, nrr. 84, 157, 214, pp. 27, 41, 65.
81. G.B. di Sardagna, Memorie di soldati, pp. 58 s.
82. Riccardo Predelli, I libri commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, II, Venezia 1878, nrr. 283 Ss., pp. 171 s.
83. A.S.V., Senato, Secreta, reg. A (B), 1347 m.v., 17 gennaio.
84. Ivi, Pacta, reg. 5, c. 106 (109) V, Exemplum confectionis seu contractus Paysanatici fiendi in partibus Sclavonie, 1343, 13 giugno.
85. Barbuta, appellativo usato originariamente per un cavaliere tedesco, poi in senso più lato per chi si armava alla tedesca, con un'armatura composita a piastre e con un elmo (barbuta) con feritoia che lasciava scoperti solo gli occhi e il naso. M.E. Mallett, Signori e mercenari, p. 39. Secondo G.B. di Sardagna, Memorie di soldati, pp. 19 s., questo elmetto chiuso con visiera e barbozza dovette il suo nome probabilmente alla caratteristica di coprire il mento e la barba.
86. R. Predelli, I libri commemoriali, II, nr. 354, pp. 59 s.
87. A.S.V., Senato, Secreta, reg. L (D), 1376, 18 maggio.
88. R. Cessi-P. Sambin, Le deliberazioni, lib. XII, nrr. 103, 105, 203, 219, 225, 239, 241, 286, 288, pp. 395-410; lib. XIII, nr. 83, p. 419. Nella guerra del 1336-1339 infatti Gerardo da Camino "comuni Venetiarum cum locis et hominibus adherebat", J. Piacentino, Cronaca, p. 49.
89. A.S.V., Senato, Secreta, reg. L (D), 1376, 29 maggio.
90. Ibid., 22 luglio.
91. Ibid., 30 maggio.
92. Ibid., reg. A (B), 1345, 8 novembre.
93. Ibid., 31 ottobre.
94. Ad esempio ibid., reg. L (D), 1376, 8 giugno.
95. Secondo lo studio ormai classico di Daniel Waley, The Army of the Fiorentine Republic from the Twelfth to the Fourteenth Century, in Florentine Studies. Politics and Society in Renaissance Florence, a cura di Nicolai Rubinstein, London 1968, in particolare pp. 98 ss. (pp. 70-108), va fatta una netta distinzione tra mercenariato e condottierato, nel senso che nel mercenariato sono gli incaricati dello Stato a reclutare di-rettamente individui o piccoli gruppi, mentre nel condottierato si interpone il condottiero-imprenditore che in seguito a trattative con lo Stato gli fornisce uomini attrezzati per la guerra. Concordo con Gian Maria Varanini, Mercenari tedeschi in Italia nel Trecento: problemi e linee di ricerca, in Kommunikation und Mobilita im Mittelalter. Begegnung zwischen dem Siiden und der Mitte Europas (11. - 14. Jahrhundert), a cura di Siegfried de Rachewiltz - Josef Riedmann, Sigmaringen 1995, p. 171 (pp. 159-178), che in ambito veneziano tale differenziazione non va esasperata.
96. M.E. Mallett, Signori e mercenari, pp. 36 s.
97. Per John Hawkwood, in Italia Giovanni Acuto, v. ibid., pp. 43, 46-49
98. Infatti, all'inizio del giugno 1376 Si trovavano a Venezia tre ambasciatori del condottiero e della sua compagnia "causa veniendi ad servitium nostrum", A.S.V., Senato, Secreta, reg. L (D), 1376, 8 giugno.
99. Ibid.
100. Ivi, Commemoriali, lib. 7, C. 167 (162), Pactum soldatorum ad modum lancearum. Il pactum è sine data, ma attribuito dal Predelli al 1373, marzo (?). Riccardo Predelli, I libri commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, III, Venezia 1883, nr. 694, p. 107.
101. Antonio Boscardin, Guerra ed eserciti nella Padova dei Carraresi (1318-1405), tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Facoltà di Scienze Politiche, a.a. 1993-1994, p. 170; v. anche G.M. Varanini, Mercenari tedeschi, p. 171.
102. M.E. Mallett, L'organizzazione militare, p. 160.
103. A.S.V., Senato, Secreta, reg. L (D), 1376, 30 giugno.
104. D. di Chinazzo, Cronica, p. 107.
105. Per semplicità abbiamo chiamato così la Forma pactorum secundum que debent equites soldifare, A.S.V., Comrnemoriali, lib. 3, C. 138, regesto in R. Predelli, I libri commemoriali, II, nr. 390, p. 68; nello stesso modo il Pactum soldatorum ad modum lancearum, c. 167 (162), regesto in R. Predelli, I libri commemoriali, III, nr. 694, p. 107.
106. M.E. Mallett, L'organizzazione militare, p. 29.
107. "Ordini e regolamenti" per disciplinare l'impiego delle milizie da assoldare, emanati a Pisa nel 1327-1331 e a Siena nel 1337 (poi di nuovo negli anni Sessanta del Trecento): Maria Ludovica Lenzi, La pace strega. Guerra e società in Italia dal XIII al XVI secolo, città di Castello 1988, p. 58. Andrew Ayton, Knights and Warhorses. Military Service and the English Aristocracy under Edward III, Woodbridge 1994, p. 91.
108. J. Piacentino, Cronaca, p. 52.
109. A.S.V., Senato, Misti, reg. 36, 1377, 23 giugno.
110. Ivi, Senato, Secreta, reg. L (D), 1376, 18 settembre.
111. Giovanni Battista di Sardagna, Il conte Armannodi Wartstein al soldo di Venezia (ottobre 1356), "Archivio Veneto", 9, pt. II, 1875, pp. 25-45 (pp. 1-45).
112. A.S.V., Senato, Secreta, reg. L (D), 1376, 8 giugno.
113. M.E. Mallett, L'organizzazione militare, p. 47.
114. Anonimo Romano, Cronica, a cura di Giuseppe Porta, Milano 1981, p. 37. Su questo importante passo e sulla formazione della Grande compagnia raccogliendo tutti questi mercenari rimasti senza soldo, G.M. Varanini, Mercenari tedeschi, p. 170.
115. R. de Caresinis Chronica, p. 27.
116. R. Predelli, I libri commemoriali, II, nr. 58, p. 125.
117. G.B. Verci, Storia della Marca Trevigiana, XI, nr. Mcccclxvi, pp. 164 s.
118. "De lanceis vero [...> que compleverunt et sunt pro compiendo firmam suam [...> scribatur capitaneo generali et collegio Tarvisii [...> quod cassentur ad complementum firme sue [...> et ante si ante eis videbitur abiliter fieri posse". A.S.V., Senato, Secreta, reg. L (D), 1376, 12 ottobre.
119. J. Piacentino, Cronaca, pp. 105 s. Ma tali pratiche erano usate da ambedue le parti, L. Simeoni, Le origini del conflitto, pp. 126 s.
120. R. de Caresinis Chronica, p. 27.
121. D. di Chinazzo, G'ronica, p. 163.
122. Ibid., p. 165.
123. La finalità, ormai sottintesa nelle condotte del Trecento, nei pacta della fine del Duecento viene enunciata esplicitamente: "ut possent se preparare equis et armis et aliis necessariis ad eundum in dictum servicium domini ducis et comuni Veneciarum", G.B. di Sardagna, Memorie di soldati, nr. 6, p. 247.
124. Gli spostamenti su navi veneziane avvengono invece senza gravare sui soldati per le spese dei noli, v. ad esempio A.S.V., Senato, Misti, reg. 36, 1377, 23 giugno.
125. Matteo Villani, Cronica, Trieste 1858, lib. VII, XXIX, pp. 221 s.
126. G.B. di Sardagna, Il conte Armanno, p. 29.
127. Ibid., pp. 30 s.
128. A.S.V., Senato, Secreta, reg. L (D), 1376, 9 dicembre.
129. Ibid., 27 maggio; ivi, Senato, Misti, reg. 35, 1375, 13 novembre; reg. 36, 1377, 28 aprile.
130. Ivi, Senato, Secreta, reg. L (D), 1376, 17 maggio.
131. J. Piacentino, Cronaca, p. 52.
132. Ibid.; G.B. Di Sardagna, Il conte Armanno, p. 28.
133. G.B. Di Sardagna, Il conte Armanno, p. 26.
134. Id., Memorie di soldati, nrr. 5 e 7, pp. 238-253 (1289).
135. Lo slapum è una parte dell'armatura a protezione della testa, quindi una variante della barbuta. Nel Lexicon latinitatis Medii Aevi Iugoslaviae, a cura di Marko Kostrencié, I, Zagabriae 1973, p. 104, viene spiegato quale cassidis buccula, quindi come elmo protettivo degli zigomi. Secondo G.B. Di Sardagna, Memorie di soldati, pp. 19 s., questo nome deriva dalla caratteristica dell'elmo di proteggere le tempie (tedesco Schliifen), nome che appare solo a Venezia e prima del 1370 quando si impone la variante inglese del copricapo a forma di cappello senza visiera, "cum solo cupo barbutae".
136. A.S.V., Commemoriali, lib. 3, C. 138, Forma pactorum secundum que debent equites soldifare (1336).
137. G.B. di Sardagna, Memorie di soldati, p. 28.
138. Ibid., nr. 5, pp. 240 s. Del dextrarius, il classico cavallo da guerra, discute ampiamente A. Ayton, Knights and Warhorses, pp. 62 s., osservando però che solo pochi di essi, un numero minimo, meritavano veramente di essere distinti dall'equus ordinario.
139. G.B. Di Sardagna, Memorie di soldati, nr. 39, p. 276.
140. Un regolamento senese coevo, pubblicato da M.L. Lenzi, La pace strega, p. 64, prescrive in modo più dettagliato che l'iscrizione nei ruoli debba avvenire "per li nomi, sopranomi, segni et stature delle persone". Simile elenco dei soldati iscritti nel ruolo con la descrizione dei principali caratteri sc matici dei singoli è sopravvissuto per l'esercito provenzale del 1374: Maurice Hébert, L'armée provengale en 1374, "Annales du Midi", III, 1979, pp. 5-27.
141. A.S.V., Senato, Secreta, reg. L (D), 1376, 8 luglio.
142. Ibid., 12 novembre.
143. Ivi, Commemoriali, lib. 3, C. 138. Alla fine del Duecento la stima dei cavalli non era passata ancora tra le competenze esclusive di Venezia, che con i propri incaricati vi partecipava soltanto pariteticamente insieme ai rappresentanti dei mercenari. G.B. di Sardagna, Memorie di soldati, nrr. 5 e 7, pp. 238-253 (1289).
144. A.S.V., Senato, Secreta, reg. A (B), 1345, 24 settembre.
145. Ibid., reg. L (D), 1376, g settembre, 12 novembre.
146. M.E. Mallett, L'organizzazione militare, p. 153.
147. Per le difficoltà, v. A.S.V., Senato, Secreta, reg. L
(D), 1376, 9 dicembre.
148. G.B. Di Sardagna, Il conte Armanno, p. 25.
149. Alla fine del Duecento i servitori con ronzini, chiamati subtus soldaderii, erano riservati al solo conestabile e a tre altri equites per bandiera di venticinque, armati come il conestabile. Gli altri uomini erano senza servitore. Id., Memorie di soldati, nrr. 5 e 7, pp. 238-253.
150. Ercole Ricotti, Storia delle compagnie di ventura in Italia, II, Torino 1845, p. 77; v. anche A. Ayton, Knights and Warhorses, p. 119.
151. Franco Mezzanotte, Costi per compagnie di ventura in territorio eugubino (1377-1379), in AA.VV., La rocca posteriore sul monte Ingino di Gubbio, Perugia-Firenze 1987, p. 230 (pp. 221-247).
152. A.S.V., Senato, Secreta, reg. L (D), 1376, 16 luglio.
153. Ma perché ci si renda conto delle complicazioni che possono destare nel computo queste unità militari, sarà bene citare una deliberazione del senato dell'8 novembre 1345, con la quale vengono date disposizioni al capitano del paisanatico circa l'impiego di due bandiere e quattordici poste che fanno insieme settantadue barbute: "due bandiere, et Xiiii poste que faciunt barbutas LXXII nostrorum stipendiariorum equestrium". Ibid.,. reg. A (B).
154. M.E. Mallett, L'organizzazione militare, p. 29.
155. Cit. da G.B. di Sardagna, Il conte Armanno, p. 6.
156. D. di Chinazzo, Cronica, p. 161.
157. A.S.V., Senato, Secreta, reg. L (D), 1376, 20 giugno.
158. Ibid., 30 maggio, 18 settembre, 27 maggio.
159. Ivi, Senato, Misti, reg. 35, 1376 m.v., 26 gennaio. Per gli equitatores al seguito dei gubernatores, v. anche ivi, Senato, Secreta, reg. A (B), 1345, 29 settembre.
160. M.E. Mallett, L'organizzazione militare, p. 94.
161. Ibid., p. 27.
162. Nel 1289 è documentata la presenza di tre balestrieri veneti montati in bandiere equestri di venticinque componenti, G.B. di Sardagna, Memorie di soldati, nrr. 5 e 7, pp. 238-253; v. anche M. Pozza, Due capitolari, p. 81, per "equites et pedites cum balestris" nel tardo Duecento.
163. Guerra di Trieste, p. 14.
164. A.S.V., Senato, Secreta, reg. R (E), 1388, 22 aprile, 9 maggio; R. De Caresinis Chronica, p. 69.
165. F. Mezzanotte, Costi per compagnie di ventura, p. 230.
166. Galeazzo e Bartolomeo Gatari, Cronaca Carrarese confrontata con la redazione di Andrea Gatari (1318-1407), a cura di Antonio Medin - Guido Tolomei, in R.LS.2, XVII, I, 1931, p. 117 n.
167. A. Ayton, Knights and Warhorses, pp. 58 s. Già a metà del Trecento nell'esercito inglese operarono lance composte dall'uomo d'arme con due valletti arcieri montati. Sugli arcieri montati, v. ibid., pp. 12 ss.
168. A.S.V., Senato, Secreta, reg. L (D), 1376, 8 giugno; v. anche ibid., 20 giugno.
169. Ibid., 20 giugno.
170. G. e B. Gatari, Cronaca Carrarese, pp. 113, 115; R. de Caresinis Chronica, p. 26.
171. G. E B. Gatari, Cronaca Carrarese, p. 114 n.; A.S.V., Senato, Secreta, reg. L (D), 1376, 26 giugno.
172. M. Villani, Cronica, lib. V, LIII, LIV, p. 32.
173. Ibid., lib. VI, LXXIII, p. 209.
174. Ibid., LV, p. 203.
175. Ibid., LIV, p. 202.
176. R. Cessi-P. Saivibin, Le deliberazioni, lib. VII, nr. 32, p. 249. Per la specializzazione della fanteria alla fine del Duecento, v. G.B. di Sardagna, Memorie di soldati, nrr. 5 e 7, pp. 239, 249, "pedites cum balestris et cum lanzeis longhis".
177. A.A. Settia, L'apparato militare, p. 479.
178. Nel 1377 ciascuna bandiera di trenta fanti triestini da mandare a Negroponte conta due caporali. G.B. di Sardagna, Memorie di soldati, nr. 39, pp. 275 s.
179. A.S.V., Senato, Misti, reg. 36, 1377, 23 giugno; v. anche ibid., 8 maggio, per l'arruolamento di cento-centoventi fanti sotto sei conestabili a Trieste e cinquanta fanti sotto due conestabili a Capodistria, da inviare oltremare.
180. R. Cessi-P. Sambin, Le deliberazioni, lib. X, nr. 191, p. 341 (luglio 1327).
181. G.B. di Sardagna, Il conte Armanno, p. 30; G.B. Verci, Storia della Marca Trevigiana, XIV, nrr. MDCXVIII e MDCXIX, p. 32, 1369, 9 e 18 gennaio; A.S.V., Senato, Misti, reg. 36, 1377, 8 maggio, 23 giugno.
182. A.S.V., Senato, Secreta, reg. A (B), 1347 m.v., 17 gennaio.
183. G. Villani, Nuova Cronica, lib. XIII, CXVIII, p. 558; v. anche R. De Caresinis Chronica, p. 4.
184. A.S.V., Senato, Secreta, reg. A (B), 1347 m.v., 17 gennaio.
185. M.E. Mallett, L'organizzazione militare, p. 162.
186. A.S.V., Senato, Misti, reg. 35, 1375, 12 aprile, con riferimento ai cavallari.
187. Ivi, Senato, Secreta, reg. R (E), 1388, 14 luglio.
188. Frederic C. Lane-Reinhold C. Mueller, Money and Banking in Medieval and Renaissance Venice, I, Baltimore-London 1985, p. 591.
189. A.S.V., Commemoriali, lib. 7, C. 167 (162).
190. M.E. Mallett, L'organizzazione militare, pp. 162 s.
191. R. Cessi-M. Brunetti, Le deliberazioni, lib. XV, nr. 2, p. 5, 4 marzo 1332.
192. A.S.V., Commemoriali, lib. 3, C. 138.
193. Ivi, Senato, Secreta, reg. A (B), 1345, 30 agosto.
194. "Ordinabitur per nostrum dominium quod patentur habitationes et stalle per equos et fictus extimabitur qui per equites et pedites debet solvi", ivi, Commemoriali, lib. 3, C. 138.
195. R. Cessi: M. Brunetti, Le deliberazioni, lib. XV, nr. 37, p. 12.
196. A.S.V., Senato, Misti, reg. 35, 1376 m.v., 26 gennaio.
197. F.C. Lane - R.C. Mueller, Money and Banking, pp. 577-595.
198. G.B. Verci, Storia della Marca Trevigiana, XII, nr. MCCCXCVI, pp. 16 s.
199. R. De Caresinis Chronica, p. 43.
200. D. di Chinazzo, Cronica, p. 134.
201. A.S.V., Senato, Secreta, reg. L (D), 1376, 20 giugno.
202. M.E. Mallett, L'organizzazione militare, p. 162.
203. J. Piacentino, Cronaca, p. 107.
204. V. ad esempio A.S.V., Senato, Misti, reg. 35, 1376 m.v., 26 gennaio.
205. Ivi, Senato, Secreta, reg. L (D), 1376, 8 giugno.
206. A. Pertile, Storia del diritto, p. 406.
207. J. Piacentino, Cronaca, p. 107.
208. A.S.V., Senato, Secreta, reg. L (D), 1376, 17 agosto.
209. D. di Chinazzo, Cronica, p. 135. Per il regolamento delle prede marittime, v. Mario Brunetti, La battaglia di Castro (1350) ed il regolamento delle prede marittime della Repubblica di Venezia, "Rivista Marittima", 43 1910, nr. 2, pp. 279-281 (pp. 269-282).
210. V. ad esempio R. de Caresinis Chronica, p. 26, per l'applicazione di questo uso dopo la vittoria del 1373 sugli Ungheresi.
211. D. di Chinazzo, Cronica, p. 135.
212. "Si equitabunt ad postam comunis Veneciarum [..> lucrum quod facient [...> sit illorum qui equitabunt, exceptis personis que capientur [...> qui debent esse comunis [...> Si equitabunt ad eorum postam [...> lucrum quod facient tam de personis quam de rebus sit illorum qui equitabunt [...> Salvo quod persone [...> que caperentur debeant nobis dari si eas voluerimus, eques per ducatos octo et pedes per ducatos tribus [...> ". A.S.V., Commemoriali, lib. 3, C. 138. "Quod capti quos caperent debeant esse sui et bona mobilia que lucrarentur debeant esse sua", ibid., lib. 7, C. 167 (162).
213. "Debeat [...> equitare et ire ad damnum inimicc rum, ita quod gentes nostre non stent frustra e quod non perdamus denarios", ivi, Senato, Secreti reg. R (E), 1388, r o aprile.
214. Ibid., reg. A (B), 1345, 29 agosto.
215. G.B. Di Sardagna, Il conte Armanno, p. 27.
216. La soppressione del provvedimento tradizionale de restauro equorum si ha, nello stesso periodo, anche i> Francia e in Inghilterra. Secondo Philippe Contamine, Guerre, état et société à la fin du Moyen Äge: étudd sur les armées des rois de France, 1337-1494, Paris-L. Haye 1972, p. 146, è tra il 1369 e il 1380 che cad in disuso in Francia, senza portare, se non tempo raneamente, ad un aumento dello stipendio. In In ghilterra, dove l'abbandono è improvviso e desini tivo, la spedizione in Guascogna del 1370-1371 l'ultima nella quale si abbia un risarcimento pe cavalli morti o diventati inutilizzabili. A. Ayton Knights and Warhorses, pp. 120-123, che notando i1 seguito un aumento dello stipendio, regard, e termin più vantaggiosi per le prede, ne attribuisce le ragion non tanto a problemi economici per la Coron: d'Inghilterra quanto alla circostanza che nella pra tica bellica inglese il cavallo da battaglia era orma divenuto un elemento di minor conto. Come si visto, a Venezia la paga pro lancia era aumentata In più, come si vedrà, negli anni Settanta migliora no anche le condizioni e la sicurezza economica deg> assoldati. V. anche Michael E. Mallett - Johr R. Hale, The Military Organization of a Renaissanc State. Venice c. 1400-1617, Cambridge 1984, pp 17-18, 138-139.
217. D. di Chinazzo, Cronica, p. 161.
218. A.S.V., Commemoriali, lib. 3, c. 138.; G.B. di Sardagna, Il conte Armanno, p. 27; J. Piacentino, Cronata, pp. 14 s.; G. e B. Gatari, Cronaca Carrarese, p 115. Ci permettiamo di rinviare per il problem: dei prigionieri al nostro Hannelore Zug Tucci Venezia e i prigionieri di guerra nel Medioevo, "Stud Veneziani", n. ser., 14, 1987, pp. 15-89.
219. A.S.V., Senato, Secreta, reg. L (D), 1376, 17 agosto
220. Ibid., reg. A (B), 1345, 15 ottobre.
221. R. de Caresinis Chronica, p. 48. Ebbero la met