Le misure cautelari reali: «figlie di un dio minore»
Se lo spostamento dei poteri dalla polizia giudiziaria – sotto il vecchio codice – alla collocazione nella materia delle misure cautelari – nel nuovo codice – intendeva rafforzare le garanzie dei sequestri preventivi, l’operazione deve ritenersi non aver centrato gli obiettivi.
La materia resta quella che si può definire “figlia di un dio minore”.
Il dato emerge con chiarezza sia in relazione ai presupposti, sia con riferimento alla fase di ablazione, sia nella disciplina dell’attività di controllo.
Il dato trova un preciso riscontro in tre recenti decisioni della Suprema Corte.
Con la sentenza Cass. pen., S.U., 17.12.2015, n. 29, (dep. 30.12.2015, Maresca), le Sezioni Unite hanno affrontato la questione relativa al rito con il quale deve celebrarsi il giudizio di cassazione avviato nella procedura cautelare relativa ad un sequestro (nella specie probatorio).
Con la sentenza Cass. pen., S.U., 16.11.1993, n. 14, in CED rv n. 192206, Lucchetta, preceduta da Cass. pen., 26.4.1990, n. 4, in CED rv. n. 184622, Serio, le Sezioni Unite avevano affermato che il procedimento in camera di consiglio relativamente ai ricorsi in materia di sequestri deve svolgersi nelle forme di cui all’art. 127 c.p.p. e non di quelle indicate dall’art. 611 c.p.p.
Una diversa conclusione era fatta propria dalla sesta sezione per la quale l’assenza di espresso richiamo, da parte dell’art. 325, co. 3, c.p.p., al co. 5 dell’art. 311 c.p.p., che è l’unico a imporre l’osservanza nel caso de quo delle forme dell’art. 127 c.p.p., risultava coerente con una precisa scelta del legislatore, e non solo frutto di inadeguatezza della formulazione normativa. Le Sezioni Unite – affrontando il contrasto – hanno accolto quest’ultima tesi.
Muovendo sia dalla formulazione dell’art. 531 c.p.p. del 1930, sia dalle direttive n. 89 e n. 95 della l.d. 3.4.1974, n. 108, le Sezioni Unite sottolineano come la forma non partecipata del procedimento in cassazione sostituisca la regola, risultando le eccezioni espressamente previste, come nell’ipotesi della rescissione del giudicato di cui all’art. 625 ter c.p.p. (Cass. pen., S.U., 17.7.2014, n. 36848, Burba).
Il dato risulterebbe coerente con la logica di semplificazione attraverso l’eliminazione di interventi e presenze assolutamente non necessari in un giudizio di legittimità al quale risulta maggiormente funzionale lo scritto rispetto all’esposizione orale. La conclusione sarebbe corroborata dal più vasto sistema normativo dei gravami nei confronti dei sequestri che prevede il riesame e l’appello (artt. 257, co. 1; 322, co. 1; 322 bis, c.p.p.) nonché la procedura per la restituzione delle cose sequestrate (art. 263, co. 5, c.p.p.). Per quest’ultima ipotesi, il successivo ricorso per cassazione (riconosciuto da Cass. pen., S.U., 31.1.2008, n. 7946, in CED rv n. 238507, Eboli), secondo il Collegio riunito, si svolge ex art. 611 c.p.p. (Cass. pen., S.U., 30.10.2008, n. 9857, in CED rv n. 242291, Manesi).
Muovendo dal mancato richiamo all’art. 127 c.p.p. contenuto nel co. 5 dell’art. 311 c.p.p., da parte del co. 3 dell’art. 325 c.p.p., il Supremo Collegio è pervenuto alla conclusione per la quale nel ricorso per cassazione proposto a norma dell’art. 325 c.p.p. deve osservarsi la procedura di cui all’art. 611 c.p.p.
Il contrario avviso delle richiamate Sezioni Unite (Serio e Lucchetta) muoveva dall’indicazione della “discussione” di cui al co. 4 dell’art. 311 c.p.p., implicante un richiamo all’oralità, e rimarcava la possibilità di enunciare motivi nuovi prima del suo inizio, situazione incompatibile con quanto previsto dall’art. 127, co. 2, c.p.p. ove si dispone che fino a cinque giorni prima dell’udienza possono essere presentate memorie in cancelleria.
Questa situazione di “incompatibilità” avrebbe consentito di ricondurre il caso de quo nella previsione della “diversa statuizione”, contenuta nell’art. 611 c.p.p., superando così il mancato rinvio all’art. 311, co. 5, c.p.p. che avrebbe come sola conseguenza la mancanza del termine – peraltro ordinatorio – per la decisione da parte della Cassazione.
Le riferite decisioni non mancano altresì di sottolineare le discrasie alle quali la contraria opinione andrebbe incontro: mancando la discussione, il termine per la presentazione dei motivi verrebbe modificato, ovvero mancherebbe alle parti (contrapposte) il tempo per contraddire.
Secondo le Sezioni Unite (Maresca), invece, il problema delle modalità di celebrazione del rito si colloca in un quadro diverso e più ampio, già delineato dalla giurisprudenza della cassazione, nel contesto dei non contrastanti orientamenti della Corte costituzionale e della disciplina convenzionale.
Il Supremo Collegio riunito richiama, a tal fine, alcune precedenti decisioni in materia: Cass. pen., S.U., n. 9857/2008, in CED rv n. 242291, Manesi, in materia di ricorso ex art. 263, co. 5, c.p.p.; Cass. pen., S.U., 28.5.2003, n. 26156, in CED rv n. 224612, Di Filippo, per la quale l’operatività dell’art. 127 c.p.p. è prevista per le fasi procedimentali di merito; Cass. pen., S.U., 18.10.2012, n. 41694, in CED rv n. 253289, Nicosia, in tema di ricorsi in materia di riparazione per l’ingiusta detenzione.Inoltre, esclusa l’incidenza di C. eur. dir. uomo, 10.4.2012, Lorenzetti c. Italia – in quanto attinente al giudizio davanti al Supremo Collegio, come evidenziato dalla Corte costituzionale con la sentenza 11.3.2011, n. 80 – la Suprema Corte segnala le numerose decisioni di manifesta infondatezza dell’art. 611 c.p.p., relativamente al pregiudizio per il diritto di difesa, in relazione alla mancanza di oralità, nonché la riconosciuta non incompatibilità della procedura non partecipata con le garanzie della CEDU (art. 6 § 1) (C. eur. dir. uomo, 13.11.2007, Bocellari e Rizza c. Italia; 18.5.2010, Udorovic c. Italia).
Se è vero che manca il richiamo al co. 5 dell’art. 311 c.p.p, con la conseguenza che potrebbe non essere integrata la deroga di cui all’art. 611 c.p.p.; se può essere vero che il richiamo alla discussione può non essere decisivo per indicare il rito con cui procedere, non si può ritenere che il mancato richiamo al termine per la decisione (art. 311, co. 5, c.p.p.) sia superato dalla previsione di tempi ristretti per la presentazione di motivi nuovi. Se può essere vero che la previsione del co. 5 dell’art. 311 c.p.p. si adatti alla procedura cautelare personale, stante il rilievo della materia, non può non ritenersi che ciò non sia rilevante anche nella procedura de qua.
Riassumendo, se una tesi sottovaluta il mancato richiamo all’art. 127 c.p.p., di cui al co. 5 dell’art. 311 c.p.p., da parte dell’art. 325, co. 3, c.p.p., la tesi delle Sezioni Unite, per “far quadrare” il suo ragionamento, è costretta ad affermare che il richiamo operato dall’art. 325, co. 3, c.p.p. al co. 4 dell’art. 311 c.p.p., va riferito esclusivamente all’obbligo di enunciazione contestuale dei motivi di ricorso e non alla facoltà per il ricorrente di enunciare motivi nuovi davanti alla Corte di cassazione prima dell’inizio della discussione. In questo modo, si ritiene innanzitutto di poter superare alcune questioni di termini nella fissazione dell’udienza, anche in relazione alle requisitorie scritte della procura generale. Soprattutto, in secondo luogo, si sterilizzano le ricadute in tema di lesione del contraddittorio, perché per i motivi nuovi opererebbe la disciplina di cui all’art. 611 c.p.p. da ritenersi proponibili ex art. 585, co. 4, c.p.p.
Resta sullo sfondo anche in questo caso – non espresso – il diverso rilievo che assume la procedura cautelare reale (Cass. pen., S.U., 17.6.2013, n. 26268, in CED rv n. 255582, Cavalli; e da ultimo, Cass. pen., S.U., 31.3.2016, n. 18954, in CED rv n. 26678890, Capasso) rispetto a quella delle cautele personali.
La questione, con soddisfazione agrodolce, dovrebbe trovare positiva soluzione nella ipotizzata riforma dell’art. 325 c.p.p., da parte del cd. progetto Orlando (Atto Senato n. 2067), prevedendosi il richiamo oltre ai commi 3 e 4 dell’art. 311 c.p.p. anche del co. 5.
Con la sentenza 29.1.2016, n. 15453 (dep. 13.4.2016, in CED rv n. 266335, Giudici), le Sezioni Unite hanno affrontato la questione relativa all’obbligo della polizia giudiziaria di avvisare l’indagato di farsi assistere dal difensore in riferimento ad un sequestro disposto d’iniziativa della p.g. e se, in caso affermativo, la nullità conseguente determini anche quella dell’autonomo decreto di sequestro preventivo emesso dal gip dopo la convalida di quello d’urgenza disposto d’iniziativa della p.g.
L’investitura del Supremo Collegio si rendeva necessaria essendo prospettato un contrasto interpretativo anche all’interno della stessa terza sezione della Cassazione. Invero, secondo un primo orientamento, l’art. 114 disp. att. c.p.p. che prevede l’obbligo della p.g. di avvisare l’imputato, se presente, di farsi assistere da un difensore di fiducia, opererebbe anche in materia di sequestro preventivo d’urgenza della p.g., con conseguente nullità dell’atto e della successiva convalida, salvo operare un distinguo, poi sulla invalidità o meno del successivo decreto di sequestro emesso dal gip. Secondo un diverso orientamento, l’art. 114 disp. att. c.p.p. riguarderebbe soltanto le attività di polizia giudiziaria riguardanti l’assicurazione delle fonti di prova indicate dall’art. 356 c.p.p. (perquisizioni e sequestro probatorio), salvo poi prospettare soluzioni diversificate sugli effetti invalidanti dell’omissione.
Il Supremo Collegio riunito si è espresso nel senso dell’inoperatività dell’art. 114 disp. att. c.p.p. al caso di specie. La motivazione: l’esplicito riferimento agli atti di perquisizione e sequestro probatorio; la natura cautelare e non probatoria del sequestro preventivo; le differenze procedurali che, da un lato, prevedono la convalida del p.m. e, dall’altro, assicurano il controllo immediato del giudice.
Le repliche: l’omogeneità delle situazioni nelle quali si estrinseca l’intervento d’urgenza della p.g.; il difetto di coordinamento connesso allo scostamento temporale delle disposizioni; la considerazione della natura eccezionale dell’intervento della p.g., essendo il sequestro probatorio di competenza del giudice.
Non potendo non riconoscere l’identità, sotto il profilo soggettivo, dei soggetti agenti (la p.g.), e la tutela di beni e valori costituzionalmente garantiti (libertà personale, domicilio e proprietà privata), la conclusione si basa sul dato letterale e su quello sistematico “ritenuti insuperabili”: non vincibile, il primo, con il riferimento ad una “dimenticanza” del legislatore, ma soprattutto non derogabile; il secondo, stante la separazione concettuale tra le attività ai fini probatori che richiederebbero la presenza (possibile) tempestiva del difensore, soprattutto trattandosi di atti non ripetibili, e quelle in funzione cautelare, ove la tutela dei diritti del soggetto destinatario del provvedimento è affidata ai successivi strumenti di controllo.
Il dato troverebbe conferma sia nel processo di “autonomizzazione” dei sequestri (probatorio e cautelare), sia nella mancanza di interventi difensivi anticipati rispetto ai provvedimenti cautelari.
Ma è proprio in questo “passaggio” che risiede la debolezza delle argomentazioni del Supremo Collegio.
Invero, proprio in relazione ad un provvedimento restrittivo della libertà personale – il fermo di indiziato di delitto di cui all’art. 384 c.p.p. – disposto in via d’urgenza dalla polizia giudiziaria (co. 3) è previsto che la p.g. chieda al soggetto fermato di nominare un difensore.
L’art. 386, co. 1, c.p.p. prevede, infatti, tra i doveri della p.g. in caso di arresto o di fermo, quello di informare l’arrestato o il fermato dei suoi diritti, fra i quali, la facoltà di nominare un difensore di fiducia o di ufficio e il successivo co. 2 dispone che dell’avvenuto arresto o fermo gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria informino immediatamente il difensore di fiducia eventualmente nominato ovvero quello di ufficio designato dal pubblico ministero a norma dell’art. 97 c.p.p.
Vengono meno, conseguentemente, le ragioni di ordine logico e sistematico che impediscono una lettura costituzionalmente orientata della questione de qua, che resterebbe – a questo punto – inquadrabile solo in una supposta incompatibilità tra misure restrittive della libertà fisica personale e restrizione della libertà delle cose.
La questione dovrebbe trovare risposta positiva.
Con la decisione Cass. pen., S.U., n. 18954/2016, sono state affrontate le questioni della modifica introdotta dalla l. 16.4.2015, n. 47 al co. 7 dell’art. 324 c.p.p. Con l’art. 11 di quest’ultima legge, infatti, il legislatore ha previsto che l’espressione «art. 309, comma 9» sia sostituita da quella «art. 309, commi 9 e 9 bis», in relazione al testo vigente prima della riforma «art. 309 commi 9 e 10».
Con la stessa legge, com’è noto, sono stati riformati il co. 9, introdotto il co. 9 bis, novellato il co. 10 dell’art. 309 c.p.p. Con la prima previsione si sono rafforzati i poteri di controllo del giudice del riesame; con la seconda si è prevista la possibilità per l’imputato di chiedere il differimento dell’udienza; con la terza si sono fissati i termini per il deposito della motivazione e si è previsto che nelle situazioni di perdita di efficacia della misura questa non possa essere reiterata, fatta salva la presenza di eccezionali esigenze cautelari.
Con la riferita sentenza il Collegio riunito ha affermato il seguente principio di diritto: il rinvio dell’art. 324, co. 7, ai commi 9 e 9 bis dell’art. 309 c.p.p. comporta, per un verso, l’applicazione integrale della disposizione di cui al co. 9 bis e, per un verso, l’applicazione della disposizione del co. 9 in quanto compatibile con la struttura e la funzione del provvedimento applicativo della misura cautelare reale e del sequestro probatorio, nel senso che il tribunale del riesame annulla il provvedimento impugnato se la motivazione manca o non contiene l’autonoma valutazione degli elementi che ne costituiscono il necessario fondamento, nonché degli elementi forniti dalla difesa. Il rinvio dell’art. 324, co. 7, al co. 10 dell’art. 309 c.p.p. deve intendersi invece riferito alla formulazione codicistica originaria di quest’ultima norma.
In particolare, con riferimento alla ritenuta inoperatività del richiamo al co. 10 dell’art. 309 c.p.p., la conclusione, secondo la Cassazione, riposa – principalmente – sulla natura statica e non dinamica del rinvio. In tal modo, la Cassazione si pone in linea con la precedente Sezioni Unite Cavalli che aveva escluso l’operatività nella procedura di riesame cautelare reale del termine di cinque giorni per la trasmissione degli atti e della conseguente perdita di efficacia della misura in caso di inadempimento di quest’obbligo.
Nei confronti della decisione possono essere sviluppate molte critiche.
In primo luogo, non appare pertinente il richiamo alla sentenza Cavalli, perché dimentica che nel caso del termine per la trasmissione degli atti nella procedura cautelare reale (co. 3 dell’art. 324 c.p.p.) manca ogni riferimento al termine di cinque giorni di cui al co. 5 dell’art. 309 c.p.p. che difficilmente potrebbe essere integrato in via interpretativa, considerati gli effetti che vi si volessero far derivare.
In secondo luogo, va sottolineato che la modifica qui considerata è prevista dall’art. 11 della l. n. 47/2015, dove sono racchiuse tutte le modifiche introdotte nella disciplina del riesame, sia personale, sia reale.
Nell’art. 11 della legge, infatti, il co. 1 attiene alla riforma del co. 6 dell’art. 309 c.p.p., il co. 2 riguarda la modifica del co. 8-bis, il co. 3 si occupa del nuovo co. 9, il co. 4 concerne il co. 9-bis, il co. 5 modifica il co. 10, il co. 6 regola proprio il co. 7 dell’art. 324 c.p.p.
Si ricava la sensazione d’un intervento che non può non connotarsi con i tratti dell’omogeneità. Del resto, in quest’ultimo comma, manca ogni riferimento a possibili compatibilità ed il co.5 del citato art. 11 della l. n. 47/2015 che modifica l’art. 309, co. 10, c.p.p. precede proprio quello di cui alla modifica dell’art. 324, co. 7, c.p.p. Difficile non pensare che i riformatori non ne abbiano tenuto conto.
Del resto, sotto il profilo formale, per l’eventuale interpolazione del solo nuovo co. 9-bis dell’art. 310 c.p.p., sarebbe stato necessario iniziare con la virgola, dopo il co. 9, mentre nulla si rendeva necessari per il co. 10 già preceduto dalla lettera “e”.
Per giustificare l’esclusione dell’operatività del co. 10 dell’art. 309 c.p.p., nel giudizio di riesame cautelare reale, la sentenza è “costretta” a dare un qualche significato al richiamato co. 9 dello stesso art. 309 c.p.p. Invero, nel fare questa operazione – perché non ripercorrere la strada della “Sezioni Unite Cavalli” anche in questo caso? – si deve riconoscere che molti degli elementi che richiedono l’autonoma valutazione – di cui all’art. 292 c.p.p. (espressamente richiamato nell’art. 309, co. 9, c.p.p.) – in effetti trovano un difficile adattamento nel caso dei provvedimenti cautelari reali, probatori, di sequestro allargato e preventivo. Si ha la sensazione di uno zuccherino spruzzato a velo, su di un tema, quello dei presupposti dei sequestri, che richiederebbe ben altro.
La questione maggiormente dibattuta durante i lavori della Commissione ministeriale Canzio – da cui la riforma trae le mosse – è stata quella relativa ai tempi del deposito della motivazione essendo stato evidenziato da più parti che – a dispetto di quanto previsto dall’art. 128 c.p.p., operante in materia e nonostante le pronunce, come si dirà, delle Sezioni Unite – le motivazioni erano depositate anche a distanza di mesi, con pregiudizio sui tempi dell’eventuale successivo ricorso in Cassazione e di una eventuale richiesta di revoca o di sostituzione.
La soluzione di compromesso è confluita nel riformato co. 10 dell’art. 309 c.p.p. con riconoscimento, per rendere effettivo il nuovo termine ordinario di 30 giorni e quello prolungabile di 45, della perdita di efficacia della misura. Il divieto di reiterazione è stato inserito a seguito di un emendamento nel corso dei lavori del Senato.
Il riferimento al tempo del deposito della motivazione dell’ordinanza, dapprima del tutto assente nella disciplina dei gravami de libertate, figura non solo nell’art. 309, co. 10, c.p.p., ma anche nel co. 9-bis dello stesso articolo e per effetto – indiscutibile – del richiamo di cui al co. 7 dell’art. 324 c.p.p. anche in materia cautelare reale.
Dovendo concludere per l’inoperatività dell’art. 309, co. 10, c.p.p. (nella nuova formulazione) nella procedura di riesame reale, le Sezioni Unite qui considerate devono affermare che il riferimento al tempo del deposito della motivazione – ordinario e prorogato per effetto del differimento dell’udienza richiesta dall’imputato – è quello di cui all’art. 128 c.p.p., cioè, cinque giorni.
Qui le alternative sono due: o si recupera il contenuto della sentenza Manno delle Sezioni Unite («l’eventuale inosservanza dell’ultimo termine (quello dell’art. 128 c.p.p.), quantunque sprovvisto di sanzioni processuali, espone i magistrati a responsabilità civile e disciplinare, oltre che, all’occorrenza, penale»), con la conseguenza che la violazione della previsione costituisce illecito disciplinare e può dar luogo a responsabilità civile o penale oppure nella procedura cautelare reale, attraverso una nuova “lettura” delle Sezioni Unite dell’art. 128 c.p.p., e per l’inerzia di chi deve vigilare o attivarsi a tutela dei soggetti vittime di provvedimenti ablativi, avremo un deposito della motivazione, come avvenuto per il riesame delle misure personali, senza limiti di tempo, perché non sanzionati. Facile fare previsioni, al riguardo.
Il procedimento di riesame delle misure reali, così, vedrà un termine incerto per la trasmissione degli atti (“Sezioni Unite Cavalli”), un termine di dieci giorni dall’arrivo, mobile, di tutti gli atti, con perdita di efficacia della misura solo in caso di mancato deposito del dispositivo, ed un tempo mobile, nuovamente indefinito, per il deposito della motivazione.
Dal “trittico” delle Sezioni Unite si ricava la netta sensazione di una sottovalutazione culturale e giuridica del problema a vantaggio di soluzioni mirate al finalismo dello strumento ablativo.
Giocando ora sulla diversità tra esigenze probatorie e funzione cautelare, ora tra cautele personali e reali, il Supremo collegio svilisce le previsioni di tutela dei percorsi processuali nella materia del sequestro alle “cose” che andrebbero, invece, collocate in una logica di valorizzazione del concetto di libertà, conforme alle previsioni costituzionali.
Resterebbero, del resto, da capire – anche se non è difficile farlo, dovendosi risalire ad un elemento culturale – le ragioni per le quali il Supremo Collegio, tra due interpretazioni della stessa Suprema Corte, scelga in questa materia quella meno garantita.