Le misure del Governo Letta
Il contributo analizza le linee generali del cd. Decreto Lavoro (d.l. 28.6.2013, n. 76 conv. con modificazione in l. 9.8.2013, n. 99), sottolineandone il carattere di aggiustamento sperimentale della normativa precedente.
Rileva come il cd. programma Garanzia Giovani costituisca il provvedimento più organico di riforma, in linea con le raccomandazioni europee. Si indicano potenzialità e limiti dell’unità di missione cui è affidato il compito di avviare il programma, nonché gli obiettivi di potenziamento dei servizi all’impiego e delle politiche attive del lavoro in vista di una agenzia federale del lavoro.
Si analizzano inoltre le norme sulla flessibilità in entrata, in particolare sul contratto a termine per il quale sono allargate le possibilità di “acausalità contrattate”.
Infine si menzionano le ipotesi di innovazione in vista di Expo 2015 e si rilevano le novità insieme con le criticità in tema di apprendistato e di tirocini.
La normativa sul mercato del lavoro, d.l. 28.6.2013, n. 76 conv. con modificazione in l. 9.8.2013, n. 99, ha avuto un iter meno travagliato di quello della precedente l. 28.6.2012, n. 92; forse perché, a differenza di questa non è stata circondata da aspettative, invero irrealistiche, di “grande riforma”. Anzi è stata presentata, al pari di altre leggi del governo Letta, come un insieme di misure di aggiustamento, sperimentali, fatte “col cacciavite”.
Per altro verso gli stessi proponenti hanno tenuto a precisare che questi interventi non escludono ambizioni ulteriori, perché sono da considerarsi un work in progress.
Che si tratti di misure di aggiustamento, non organiche né compiute, risulta chiaro dai contenuti e dall’impianto stesso della legge. Ed è significativo che la versione finale della legge non si discosti in misura rilevante dal decreto iniziale (d.l. n. 76/2013), anche qui a differenza di quanto avvenuto per la l. n. 92/2012, uscita non poco alterata rispetto alle proposte presentate dal governo Monti1.
Invero modifiche di un certo rilievo, frutto della interlocuzione con le parti sociali, sono intervenute neIla fase di elaborazione delle ipotesi normative confluite nel decreto.
Il governo Letta non si è sottratto al confronto con le parti sociali, ma, in coerenza con il suo approccio programmatico, lo ha svolto nei tempi brevi consentiti dalla gravità della situazione occupazionale, utilizzandolo, nella misura ritenuta possibile, senza farsi coinvolgere nelle controversie circa la sua qualificazione come concertazione, dialogo sociale o altro.
Nella fase di elaborazione del decreto le posizioni delle parti si sono rivelate distanti su punti rilevanti della normativa. Analoghe distanze sono emerse nel corso dell’iter legislativo di approvazione fra i partiti della “strana maggioranza” che sostiene il governo Letta, avvalorando il realismo dell’approccio progressivo se non minimalista adottato dall’Esecutivo.
Per altro verso indicazioni nella stessa direzione venivano dai primi bilanci e dalle valutazioni della l. n. 92/2012. Le risultanze del monitoraggio avviato dal Ministro Fornero circa l’impatto della normativa sui principali istituti riformati risultano ancora incerti e poco conclusivi2. Qualche tendenza emersa da questi dati, come la riduzione dei contratti a progetto, la netta flessione del lavoro intermittente, e un maggior peso dei contratti a termine e della somministrazione, può essere ritenuta coerente con l’obiettivo della l. n. 92/2012 di limitare l’abuso dei primi tipi e di favorire i secondi. Ma la cautela è d’obbligo anche perché il generale calo delle assunzioni rende più che mai difficile isolare l’impatto della legge sull’uso dei tipi contrattuali.
Infatti alcune survey condotte sulle opinioni degli operatori3 in ordine alle variazioni del ricorso ai vari tipi contrattuali ricevono risposte neutre; il che conferma che la breve durata del periodo applicativo della legge, unita alla complessità della materia, ha ostacolato il formarsi di percezioni chiare. L’incertezza è evidente nei giudizi sull’andamento e sull’esito dei licenziamenti; non si notano grandi mutamenti, anche se è diffusa la percezione che la gestione delle uscite dal rapporto di lavoro non sia (molto) migliorato.
In ogni caso l’avvio pur meritorio del monitoraggio non è stato utile – né lo poteva – a influenzare il nuovo legislatore del d.l. n. 76/2013, convertito nella l. n. 99/2013.
Le valutazioni delle parti sociali e degli esperti sul merito della l. n. 92, hanno continuato ad essere controverse, ancora di più di quanto non fosse emerso nel corso dell’approvazione, pur unanime, della legge. Questi contrasti e queste incertezze confermano l‘opportunità della scelta del governo di non impegnarsi in una nuova riforma e di attribuire al d.l. n. 76 un carattere sperimentale. Riconoscendo ciò, il proposito del governo di completare il primo passo con ulteriori e più ambiziosi interventi è ovviamente sottoposto alla verifica dei fatti, che si dovrebbe avere a tempi ravvicinati.
La verifica è annunciata dalla stessa legge per uno dei temi cruciali per il successo dell’intervento, cioè per il cd. programma “Garanzia giovani”, che è previsto diventare operativo a partire dal gennaio 2014. Tale programma costituisce la parte più organica dell’intervento, elaborata con contributi diversi, sia parlamentari sia di esperti, negli ultimi mesi della passata legislatura, sulla base di indicazioni ed esperienze europee che le autorità comunitarie hanno presentato ai paesi membri come misure per contrastare la disoccupazione giovanile dilagante nella maggior parte del continente4.
Le migliori pratiche europee indicano che il successo del contrasto alla disoccupazione dipende solo in parte da misure di sostegno alla domanda di lavoro o realizzate con incentivi economici, crediti di imposta o riduzioni degli oneri sociali, alle imprese che assumono giovani. Anzi molte ricerche, comprese quelle dell’Ocse, indicano che il rapporto fra costi e benefici è deludente, perché, soprattutto quando i sussidi sono concessi in forma generalizzata, cioè per le assunzioni di giovani senza particolari distinzioni, finiscono per incentivare comportamenti (assunzioni) che si sarebbero verificati comunque, e quindi costituiscono quelli che si definiscono “deadweight costs”, oppure incentivano assunzioni che sono a vantaggio di alcuni ma a svantaggio di altri, con effetti di sostituzione o di spiazzamento.
Di qui la indicazione che i sussidi siano resi selettivi, cioè diretti verso particolari categorie di lavoratori svantaggiati, come ad es. i giovani disoccupati o “neet” da molto tempo, e giovani con titoli di studio poco richiesti dal mercato5. La via della selettività è stata seguita anche dalla l. n. 99 che corregge opportunamente prassi precedenti, ed è anche in questo apprezzata dalle parti sociali e dagli osservatori.
Gli incentivi sono anzitutto limitati ai giovani fino a 29 anni di età (le proposte di alzare fino a 35 tale limite di età non sono state accettate) e riguardano assunzioni a tempo, indeterminato; inoltre sono estesi alla trasformazione dei contratti a termine in assunzioni a tempo indeterminato. Questi due requisiti non sono nuovi e confermano l’obiettivo, da sempre perseguito, di privilegiare le forme di lavoro stabile.
A questi requisiti si aggiungono due condizioni specifiche, comuni ad altri interventi europei: l’assenza di occupazione regolare da almeno sei mesi e la mancanza di diploma di scuola media superiore o professionale (una terza condizione originariamente prevista è stata opportunamente lasciata cadere in quanto ritenuta poco plausibile). Tali condizioni permettono di individuare due gruppi di soggetti che anche nelle esperienze di altri paesi sono risultate bisognosi di interventi specifici in quanto deboli sul mercato del lavoro, per carenza di competenze professionali o perché in stato prolungato di disoccupazione6.
Le indicazioni europee al riguardo forniscono ulteriori precisazioni. Per il primo gruppo di soggetti sottolineano l’importanza di accompagnare gli incentivi con interventi formativi diretti a correggere il deficit di competenze che è alla radice della debolezza sul mercato; per il secondo gruppo segnalano la necessità di interventi che prendano in carico i giovani, prima che il prolungarsi dello stato di disoccupazione accresca la difficoltà dell’inserimento al lavoro; le migliori esperienze pongono target temporali brevi per tali interventi (6/12 mesi).
L’ulteriore condizione degli incentivi per cui le assunzioni devono comportare un incremento occupazionale netto, è stata resa più stringente che in passato, in quanto l’incremento deve essere valutato tenendo conto non solo degli occupati a tempo indeterminato, ma di tutti gli occupati presenti in azienda. Il realizzarsi di questa condizione resta comunque un elemento essenziale per l’effettivo operare della selettività dell’intervento7.
Un’altra novità rispetto al passato, valutata positivamente, consiste nel fatto che l’incentivo (decontribuzione pari a 1/3 della retribuzione lorda), pur essendo meno consistente del precedente credito di imposta per il sud, opera per un periodo più lungo (18 mesi) ed è esteso alle regioni del centro nord, pure coinvolte dalla crisi ma provviste di un tessuto produttivo in grado di reagire positivamente allo stimolo degli incentivi, nella prospettiva di una ripresa economica. Un aspetto critico di questa incentivazione, da più parti rilevato, riguarda gli effetti di spiazzamento di diversi soggetti che può indurre, non solo per i motivi generali sopra rilevati, ma perché essa opera in concorrenza con altri incentivi: in primis quelli economici a favore dell’apprendistato, quelli non nuovi a favore di disoccupati che fruiscono dell’indennità e per altro verso quelli a sostegno di soggetti over 55 che sta diventando un gruppo sempre più a rischio di disoccupazione8. Proprio per questo si è sottolineata l’esigenza che il programma giovani non esaurisca l’impegno, ma si accompagni con un mix più equilibrato di interventi.
La proposta di cumulabilità dei vari incentivi avanzata dalle associazioni imprenditoriali non ha avuto seguito9; ma resta la possibilità che agli incentivi statali si aggiungano ulteriori misure regionali.
La possibilità non è nuova, ed è stata utilizzata in modo diffuso ma diseguale dalle varie regioni con conseguenze non verificate da adeguati monitoraggi e quindi con possibili effetti distorsivi o correlati meno ai caratteri del mercato del lavoro locale che alle disponibilità finanziarie e politiche dei territori.
Gli incentivi al lavoro dipendente non esauriscono gli interventi promozionali della legge, in quanto si accompagnano con una serie ulteriore di misure che estendono il sostegno al di là dell’ambito del lavoro subordinato. Da una parte si prevedono interventi di favore all’autoimpiego, come il rifinanziamento della legge per l’imprenditoria giovanile, con particolare riguardo al sud, e per altro verso sostegni a progetti per i giovani nei settori no profit e alla cooperazione sociale.
Altri interventi hanno l’obiettivo di rafforzare in vario modo il legame fra scuola e lavoro, tradizionalmente debole nel nostro paese; in particolare, borse di tirocinio per giovani “neet” residenti nel sud, misure per sostenere vari tipi di tirocini formativi presso imprese e strutture produttive di studenti delle ultime classi delle scuole secondarie, con particolare riguardo agli istituti professionali e tecnici; tirocini curriculari per gli studenti universitari con sostegni basati su criteri meritocratici; tirocini nelle pubbliche amministrazioni sostenute da un apposito Fondo (v. infra, § 2.6).
Sono altresì significative allo stesso fine le disposizioni dedicate al riordino degli istituti professionali e al raccordo organico fra i percorsi degli istituti professionali statali e quelli di istruzione e formazione regionali, con l’obiettivo, fra l’altro, di garantire una flessibilità degli orari delle lezioni affinché rispondano meglio alle esigenze formative dei giovani e ne consentano un più facile accesso al mercato del lavoro. Le norme sono significative in un duplice senso. Perché il miglior funzionamento della formazione tecnico professionale, costituisce, secondo le migliori esperienze europee e italiane, uno strumento fondamentale per garantire la occupabilità dei giovani nel contesto economico attuale10. D’altra parte la flessibilità degli orari è un fattore pratico alquanto rilevante che può agevolare l’integrazione/alternanza fra scuola e lavoro. Queste innovazioni normative rispondono alle indicazioni di tutte le ricerche che mostrano l’importanza di non separare ma di mescolare, le attività di studio e di lavoro nel periodo stesso dell’apprendimento scolastico. E introducono un segnale di discontinuità rispetto alla nostra tradizione su cui la pratica applicativa della legge dovrà incaricarsi di incidere.
Si tratta di interventi di piccola dimensione, anche di riproposizione e rifinanziamento di misure già in atto, ma con obiettivi innovativi riguardanti istituti utili per l’occupazione in genere e, in particolare per quella giovanile, e per rafforzare l’alternanza scuola-lavoro.
L’efficacia dipenderà dalla capacità del sistema di andare oltre le misure episodiche. Il che richiama per un verso l’efficacia dell’implementazione e compresenza di altri interventi diretti a sostenere il contesto produttivo in cui esse devono operare.
In realtà la pluralità dei meccanismi incentivanti sia per le imprese, sia per i lavoratori, di origine non solo statale ma regionale, è un fenomeno non nuovo, ma accentuato dalla crisi. Proposte di riordino in grado di evitare sovrapposizioni fra incentivi e moltiplicazione degli effetti di spiazzamento sono state avanzate da tempo, ma finora senza esito.
La necessità del riordino è resa più evidente non solo dalla scarsità di risorse, che incombe su tutti gli interventi, ma dall’esigenza di semplificare e rendere più tempestivi i meccanismi di erogazione. La complessità degli atti necessari a programmare e attivare i vari fondi disponibili – nazionali, regionali ed europei – per finanziare questi provvedimenti, come di molti provvedimenti recenti, è emblematica e costituisce un motivo dei ritardi nella effettiva attivazione delle misure e delle incertezze che ne riducono la portata.
Il richiamo agli strumenti applicativi ha un rilievo pregnante per tutte le misure di contrasto alla disoccupazione11. Le ricerche sopra richiamate convengono nel ritenere che l’efficacia di tali misure, compresi gli incentivi economici, è strettamente legata alle politiche attive del lavoro, in particolare ai servizi di aiuto alla ricerca del lavoro, ma anche alla presenza di ammortizzatori sociali che accompagnino il sostegno al reddito con politiche di attivazione12. Entrambi sono aspetti storicamente deboli del nostro paese, da tempo denunciati, ma non affrontati.
Nonostante le sollecitazioni in proposito il governo non ha ritenuto di prorogare la delega, presente nella l. n. 92/2012, di riforma dei servizi all’impiego, né di intervenire con norme dirette: ha mantenuto l’obiettivo di riforma del sistema, ma rinviando l’intervento a un tempo successivo, entro fine 2013, giusta l’impostazione progressiva finora seguita.
Il rinvio di queste misure – perché di rinvio si tratta – dipende in parte dalla complessità istituzionale della materia, che incrocia competenze statali e regionali, creando difficoltà inedite in altri paesi; e dalla necessità di definire la sorte delle province oggi investite dal compito di gestione dei servizi pubblici all’impiego. Ma segnala ancora una volta la presenza di contrasti simili a quelli che hanno ostacolato precedenti tentativi di riforma dei servizi (risalenti addirittura agli anni ’90).
I contrasti riguardano non solo il rapporto fra competenze statali e regionali, ma attraversano le regioni, per motivi legati sia ad orientamenti politici delle loro amministrazioni sia alle esperienze pregresse. È significativo il dibattito in corso da tempo fra esperti e operatori sulla possibilità di istituire un’Agenzia del lavoro13, alla stregua di esperienze di paesi europei, quali Francia e Germania, che riorganizzi le funzioni di servizio all’impiego e le raccordi in misura strutturale con gli strumenti di sostegno al reddito in caso di disoccupazione. L’ipotesi dell’Agenzia è indicata dalla l. n. 99/2013 come obiettivo finale del riordino.
È altresì significativo che si ribadisca la necessità di razionalizzare gli interventi di politica attiva di tutti gli enti territoriali coinvolti, integrando i diversi sistemi informativi esistenti, compresi quelli delle agenzie private e quelli relativi alla composizione dei laureati. Inoltre è indicato l’obiettivo di perseguire l’integrazione tra strumenti di sostegno al reddito e servizi all’impiego.
Ma la realizzazione di tali obiettivi, per il tramite in particolare dell’Agenzia, è rinviata a una seconda fase dell’intervento. Restano irrisolti in particolare due punti critici: la distribuzione di competenze, e di risorse, fra strutture statali e strutture regionali che dovrebbero costituire l’impianto federale dell’Agenzia; il grado di integrazione fra le attività di servizio all’impiego svolte dalle strutture decentrate, da definirsi nella loro dimensione in vista del superamento delle province, e le decisioni riguardanti la erogazione dei sussidi di disoccupazione o la loro sospensione, in rapporto al dovere ai beneficiari dei sussidi di attivarsi nella ricerca di impiego o nella formazione, come richiesto dai servizi14. Tenere separate le due funzioni, di servizio all’impiego e di gestione degli ammortizzatori, rende difficile, se non impossibile, applicare la regola di condizionalità del diritto agli ammortizzatori alla attivazione dei beneficiari e all’accettazione di offerte congrue di lavoro e formazione. Tale regola di condizionalità è sancita da tempo anche nella nostra normativa, ma non è operante, anche perché chi fa l’offerta di servizio (i centri per l’impiego) è diverso e separato da chi paga le indennità (l’Inps).
Nell’immediato il compito di razionalizzare gli interventi di politica attiva e i sistemi informativi è affidato a una banca dati nazionale; e la strumentazione principale per l’attuazione del programma giovani consiste nell’istituzione, in via sperimentale di una struttura di “missione” presso il Ministero del lavoro, con il coinvolgimento di tutti gli attori delle politiche del lavoro. A questa sono affidati compiti di promozione, indirizzo, coordinamento, definizione di linee guida, predisposizione di rapporti, nonché definizione dei criteri per l’impiego delle risorse economiche relative alle politiche attive del lavoro anche in sede di conferenza Stato/autonomie.
A tale struttura si attribuisce il compito ulteriore di promuovere la ricollocazione di lavoratori beneficiari di interventi di integrazione salariale, in particolare di Casse in deroga.
Con questa seconda area di attività si estende l’intervento a una categoria di soggetti, investiti anch’essi dalla crisi occupazionale, ma assistiti da strumenti di sostegno al reddito; si segnala la volontà di accompagnare tali strumenti di tutela “passiva” con azioni positive di ricollocazione sul mercato del lavoro. Ed è significativo che l’intervento sia diretto a persone non disoccupate, ma ancora legate da un rapporto con le imprese, anche se spesso solo formalmente. Tale scelta si basa sull’ipotesi che questo legame e la auspicabile breve durata della inattività, rendano più facile la ricollocazione. In tal modo la previsione legislativa affida all’unità di missione un compito eterogeneo rispetto a quello relativo al programma giovani; perché diverse sono le condizioni personali e di contesto di questi lavoratori inattivi e quindi le azioni necessarie per facilitarne il reinserimento nel mercato del lavoro. Inoltre le attività di outplacement, nonostante alcune esperienze pilota, sono ancora poco diffuse e sostenute da poche strutture professionalmente attrezzate15.
Una soluzione simile di coordinamento è stata già utilizzata per altri interventi di politica del lavoro, coinvolgenti i diversi livelli di governo, in particolare per la gestione delle casse integrazioni in deroga. Essa rappresenta un second best rispetto a soluzioni istituzionali, quali l’Agenzia, che individuano un centro decisionale e di competenze unitario – sia pure con articolazioni – per svolgere i diversi compiti necessari all’attuazione delle politiche attive. L’efficacia di simili forme di intervento soft, basate non su responsabilità istituzionali unificate, ma sulla collaborazione fra soggetti diversi rispetto a obiettivi genericamente definiti, non è di per sé preclusa. Ma richiede che tale collaborazione sia guidata da una forte regia centrale (pubblica), oltre che sostenuta da una effettiva unità di intenti. Entrambi questi requisiti sono problematici nella esperienza italiana per gli stessi motivi che hanno reso finora debole il coordinamento o la collaborazione istituzionale in molte aree non solo delle nostre politiche del lavoro, e che hanno impedito soluzioni istituzionali più robuste.
Nell’amministrazione delle Casse in deroga la collaborazione fra Stato e regioni è oggetto di valutazioni diverse. Ha permesso di gestire senza traumi questo ammortizzatore sociale in condizioni difficili e in un territorio così diviso socialmente ed economicamente come il nostro. Ma il prezzo è stato di dar luogo a una distribuzione non razionale se non spartitoria, e poco equa, delle risorse, con la conseguenza di aggravare i rischi di spreco assistenziale e di distorsione dello strumento.
Non a caso la ricerca di criteri predefiniti e più equilibrati per la individuazione dei casi bisognosi di intervento e per la conseguente allocazione delle risorse si sta rivelando alquanto laboriosa e non è ancora conclusa (al momento in cui si scrive).
Rendere operativa la garanzia giovani, come attivare la ricollocazione dei lavoratori in CIG, richiederà alla struttura di missione un impegno diverso da quello esercitato nella gestione delle Casse, perché si tratterà non solo di definire criteri equi ed efficaci per l’impiego delle risorse, ma di finalizzare gli strumenti disponibili – sia gli incentivi economici, sia gli interventi di politica attiva (orientamento, counseling, formazione mirata) – necessari per assicurare la impiegabilità dei giovani e dei lavoratori in CIG, tenendo conto delle diversità delle loro situazioni personali e dei mercati del lavoro locali.
Finora la diversità di questi mercati è stata più subita che corretta dalle politiche degli attori pubblici e privati. Questi hanno funzionato con efficacia maggiore nei contesti territoriali più facili mentre hanno faticato a incidere nelle aree economicamente deboli. Ora il test è reso più difficile da una crisi che aggrava le condizioni di contesto in generale, e che nel contempo acuisce le disparità fra territori, in particolare fra nord e sud del paese.
La struttura prevista dalla l. n. 99/2013 fa leva sulle istituzioni pubbliche, secondo le indicazioni della raccomandazione europea del 22.4.2013. Ma oltre ai compiti pubblici che le competono, è previsto che essa debba occuparsi anche della promozione di “convenzioni” e accordi con enti e associazioni private per implementare e rafforzare le diverse azioni anche qui in consonanza con la raccomandazione europea secondo cui l’autorità pubblica incaricata di gestire il programma di garanzia giovani deve anche coordinare la “partnership” a tutti i livelli16.
Ma il coinvolgimento di operatori privati non potrà essere eluso neppure in questa fase prodromica, se l’unità di missione vorrà interloquire con tutti gli attori delle politiche del lavoro e promuovere interventi combinati fra le strutture pubbliche e private attive sui mercati del lavoro.
Le forme e i modi di tale coinvolgimento sono del resto un aspetto già discusso e da definire nella configurazione della futura agenzia del lavoro. Le esperienze regionali in proposito sono diverse; si tratta di vedere se l’unità di missione potrà facilitare la diffusione delle migliori pratiche di collaborazione fra strutture pubbliche e operatori privati e degli interventi più innovativi sperimentati in alcune regioni.
La conoscenza di tali pratiche è ancora carente e la unità di missione ha anche il compito di renderla sistematica (art. 5, co. 2, lett. a) raccogliendo i dati dalle regioni. Entrambe le aree di intervento sono nuove e relativamente poco note, quella sui giovani e ancora più quella di ricollocazione dei lavoratori: per questo una conoscenza degli esperimenti più avanzati è essenziale a orientare l’insieme del programma.
In ogni caso è bene ribadire che il successo delle politiche attive, specie per interventi di questa complessità, non dipende solo dalla normativa ma soprattutto dall’organizzazione delle strutture operative e degli investimenti nelle risorse umane impegnate nei servizi all’impiego. Altri paesi attivi nella “garanzia giovani” hanno dedicato alla gestione dei vari interventi inclusi nel programma, numeri consistenti di personale qualificato per i diversi servizi (orientamento, selezione, formazione professionale, consulenze per avviare attività autonome e di impresa, etc.)17.
Le condizioni del nostro bilancio precludono l’assunzione di nuovi dipendenti pubblici, sia pure per obiettivi così importanti; ma esistono migliaia di dipendenti in mobilità nelle amministrazioni centrali e locali che potrebbero essere destinati anche in via temporanea ad attività di servizio nel programma giovani.
Naturalmente andrebbero verificate condizioni e modalità di impiego di queste persone, a seconda delle loro qualificazioni professionali, se necessario attivando percorsi di formazione specifica per metterli in grado di operare come tutor dei giovani.
Le norme della legge riguardanti la flessibilità in entrata risentono, delle tensioni e dei nodi irrisolti propri dei precedenti tentativi di riforma a riprova della vischiosità di questa materia. Non è un caso che la regolazione del contratto a termine sia stata al centro delle controversie come era già stato per la legge Fornero.
Le modalità di tale regolazione sono il test principale di come l’ordinamento regola l’uso della flessibilità in entrata, di cui il contratto a termine è la forma principale. Il test è tanto più importante a motivo della grande diffusione non solo in Italia di questo tipo di contratto. Questo è diventato la forma più frequente di prima assunzione18, adottata spesso per tempi alquanto brevi, al confine col lavoro intermittente e con marcate differenze fra settori19.
La normativa della l. n. 99/2013 si colloca in linea di continuità con la precedente disciplina, anche qui con innovazioni incrementali, ma non per questo meno contrastate.
Essa prosegue nella tendenza a una parziale liberalizzazione del contratto a termine e in parallelo della somministrazione, con particolare riferimento al primo contratto proprio per la sua particolare frequenza.
La scelta risponde al giudizio del legislatore – già di quello del 2012 – che tale contratto costituisce una forma di “flessibilità buona”, su cui possono confluire istituti diversi più esposti a rischi e abusi, come in particolare i contratti a progetto, le cd. partite IVA e il lavoro intermittente. Per altro verso la legge conferma, allargando il potere della contrattazione collettiva di intervenire nella regolazione di questo istituto (come di altri).
La liberalizzazione del contratto a termine si esprime non solo nel favore per il primo contratto acausale, ma nella riduzione degli intervalli fra diversi contratti a termine nell’ammissibilità di proroga, entro il termine dei 12 mesi (e senza motivazione)20 e per altro verso nell’abolizione dell’obbligo di comunicazione in caso di superamento del termine.
Si conferma anche qui la logica dei piccoli passi: perché le innovazioni sono introdotte all’insegna della temporaneità – legata alla crisi – e sono state graduate, tenendo conto del confronto con le parti sociali; in particolare dei rilievi sindacali che hanno contrastato le richieste imprenditoriali di ammettere forme più accentuate di flessibilità: in particolare quelle della Confindustria che chiedeva contratti a termine acausali per l’intero triennio di sperimentazione della legge con proroghe plurime, affidando il controllo sull’uso del lavoro a termine al solo limite temporale dei 36 mesi. Ipotesi ulteriori di favore per la flessibilità in entrata previste, originariamente dalla cd. bozza Expo 2015, sono state rinviate ad un accordo fra le parti sociali cui si affida il compito di aprire la strada all’intervento legislativo (v. infra § 2.5).
L’innovazione più significativa è quella dell’art. 7 che ammette il ricorso al contratto a termine, ovvero alla somministrazione acausale, oltre che nel caso del primo contratto per una durata massima di 12 mesi, «anche in tutte le ipotesi previste dai contratti collettivi nazionali o aziendali stipulati dalle organizzazioni sindacali, comparatamente più rappresentative sul piano nazionale»21. Con tale disposizione si allargano le possibilità di “acausalità contrattata”, in due direzioni22. Anzitutto tale possibilità è attribuita dalla legge anche alla contrattazione aziendale, mentre nella l. n. 92/2012 questa poteva operare solo per delega della contrattazione nazionale. In secondo luogo la delega ai contratti collettivi è senza condizioni, e può quindi riguardare non solo il primo contratto a termine, ma qualsiasi ipotesi di lavoro a termine23. Inoltre non è limitata né al ricorrere dei particolari processi organizzativi, indicati dalla l. n. 92 (che ne avevano sconsigliato la pratica applicazione), né dal limite complessivo del 6% del totale degli occupati. In tal modo è aperta la strada, auspicata anche da chi scrive, alla possibilità di sostituire in tutto o in parte il controllo dell’uso del contratto a termine per il tramite delle causali, con quello della fissazione di un tetto quantitativo a questo istituto: strumento più semplice e potenzialmente altrettanto efficace.
Alla stessa contrattazione è attribuita la delega a modificare gli intervalli fra diversi contratti collettivi, anche se la legge ne prevede già una riduzione a 10 e 20 gg. rispetto alla durata prevista dalla l. n. 92, in ciò aderendo alle richieste avanzate dagli imprenditori.
Gli spazi effettivi di questa acausalità negoziata dipenderanno dalle dinamiche negoziali. Le vicende recenti presentano tendenze diverse a seconda dei contesti sindacali, delle forme e dei contenuti della flessibilità. La previsione della l. n. 99 riguarda una questione delicata come la causalità del termine, finora non affrontata unitariamente dai sindacati neppure nell’accordo interconfederale del novembre 2012.
Le polemiche sull’art. 8 l. 14.9.2011, n. 148 non hanno giovato a favorire negoziati del genere, che peraltro non sono mancati, anche senza menzionare l’art. 8. Ma la delega della l. n. 99 non presenta i caratteri di indifferenziata delegificazione che hanno motivato le maggiori critiche all’art. 824.
Un negoziato che ammetta limiti quantitativi ragionevoli all’uso dei contratti acausali, di fronte a esigenze produttive dell’impresa, può portare risultati positivi per entrambe le parti e mantenere un controllo sull’istituto più efficace del ricorso alle causali, spesso fonte di incertezze interpretative e di controversie giudiziarie.
Piuttosto va rilevato che la contrattazione aziendale può presentare aspetti critici specie nel caso, non certo teorico, di posizioni diverse fra le varie organizzazioni sindacali.
Il rinvio della legge alle «organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale» può essere insufficiente ed ambiguo. Per un verso non sembra congruo – perché sarebbe paralizzante – ritenere necessaria la unanimità dei consensi fra tutte queste organizzazioni, come potrebbe sembrare dal riferimento della norma «alle» e non «a» organizzazioni. Tanto più oggi che l’accordo interconfederale del 31.5.2013 ha sancito, per la prima volta in modo esplicito nel nostro ordinamento, la validità del principio di maggioranza per la conclusione e per la vincolatività dei contratti collettivi25.
Per altro verso si è diffusa la tendenza – esplicitamente confermata dall’accordo del 31.5.2013 – ad attribuire responsabilità negoziale, sia pure nel quadro di regole nazionali, alle rappresentanze aziendali dei sindacati: alle Rsu in particolare, data la indicazione dell’accordo del 2013 di superare le Rsa di sigla.
Appare improbabile che il legislatore intervenga a regolare le competenze negoziali delle rappresentanze sindacali aziendali, anche nell’eventualità, pure non affatto sicura, di un intervento normativo motivato dalla sentenza della Corte Costituzionale26 sull’art. 19 st. lav. Se è così le parti sociali dovranno stabilire le modalità applicative di questa normativa, auspicabilmente secondo l’accordo del 31.5.2013, al fine di evitare che i dissensi fra sindacati diano luogo a pericolose controversie anche giudiziarie27.
Gli altri interventi della l. n. 99/2013 sui tipi contrattuali sono meno controversi, ma anche meno significativi, di quelli relativi al contratto a termine. Si tratta di modifiche di dettaglio alla normativa della l. n. 92/2012 che non rispondono a chiare priorità sull’urgenza di correggere punti rivelatisi critici nella prima applicazione della normativa, né contengono indicazioni univoche sull’allargamento delle flessibilità in entrata.
Si introduce un tetto massimo di quattrocento giornate nel triennio al lavoro intermittente con l’obiettivo di frenarne l’utilizzo e di evitare che questo si sviluppi fino a comprendere attività continue, a detrimento di altre forme di lavoro più strutturato: in ipotesi soprattutto il contratto a termine che già peraltro viene spesso utilizzato per periodi molto brevi; peraltro si prevede l’esclusione del turismo, spettacolo e pubblici esercizi dove l’istituto è particolarmente diffuso28.
Le iniziali rilevazioni dell’Isfol sull’andamento delle assunzioni avevano segnalato una significativa crescita di tale contratto, sia pure nella generale tendenza al calo dell’occupazione. Ma le rilevazioni più recenti, già del primo trimestre 2013, indicano l’arresto di tale crescita e una relativa stabilizzazione (anche) del lavoro intermittente su livelli ritenuti fisiologici; mentre viceversa confermano l’aumento del contratto a termine. La nuova normativa implica la necessità per il datore di lavoro di monitorare per ogni lavoratore impiegato le giornate lavorative prestate, oltre a dare la comunicazione preventiva resa obbligatoria dalla l. n. 92, ma ora ammessa con modalità semplificate, per ogni chiamata o ciclo integrato di prestazioni29.
A fronte dell’intervento limitativo sul lavoro intermittente, le modifiche del contratto a progetto permettono un limitato allargamento del suo ambito oggettivo con la previsione che il ricorso a tale contratto è escluso per i lavori che siano insieme esecutivi e ripetitivi, sostituendo con la lettera congiuntiva «e» la precedente lettera disgiuntiva «o». In effetti la previsione della l. n. 92 che il progetto non può comportare lo svolgimento di compiti esecutivi o ripetitivi era stata criticata, con l’argomento che la qualità del lavoro svolto non è significativa per la qualificazione del rapporto, in quanto ogni tipo di lavoro può essere svolto in forma sia autonoma sia subordinata. A tale argomento si era peraltro obiettato che la indicazione della l. n. 92 non contrasta con tale principio generale, in quanto non serve a integrare la fattispecie, ma è solo un indice per l’operare di una presunzione; come del resto l’altra norma della stessa l. n. 92 che fa operare la presunzione quando l’attività del collaboratore sia svolta con modalità analoghe a quelle seguite dai dipendenti30.
Il legislatore del 2013 tratta i due casi in modo diverso, senza apparente giustificazione, intervenendo a correggere solo il primo aspetto dell’oggetto del lavoro a progetto e non il secondo31.
In realtà già gli interventi correttivi attuati dalla legge Fornero sulla disciplina di questo contratto sono apparsi di fondamento e di impatto incerti.
Si è ritenuto, anche da chi scrive, che l’obiettivo perseguito dalla l. n. 92 di contrastare l’uso anomalo dell’istituto potrà raggiungersi non tanto per le restrizioni definitorie quanto per l’aumento dei costi contributivi e retributivi previsti dalla normativa.
Questo argomento solleva la questione dei costi indiretti che gravano sul lavoro in genere, e che sono stati storicamente distribuiti in modo alquanto anomalo fra i vari tipi contrattuali, con un favore per il lavoro autonomo e parasubordinato. Lo squilibrio si è progressivamente corretto negli ultimi interventi, ma l’attuale governo non ha ritenuto possibile un ulteriore intervento, che richiederebbe un complessivo ripensamento della struttura del costo del lavoro.
In realtà le criticità sollevate riguardo questi punti della l. n. 92 riguardano l’impianto stesso della disciplina di entrambi gli istituti, partite IVA e contratti a progetto; a cominciare dall’utilizzo della presunzione che presenta il rischio di produrre effetti eccedenti rispetto all’obiettivo di controllare gli abusi, cioè difetti di sovra inclusione nella subordinazione (anche) di rapporti in realtà autonomi.
Ma una ripresa in esame di questo aspetto non è stata presa in considerazione della l. n. 99 perché eccedente i limiti autoimpostisi all’intervento. Non a caso nessuna modifica neppure di dettaglio è stata ritenuta praticabile per la disciplina dei lavori a partita IVA, nonostante questi siano stati oggetto di un intervento particolarmente incisivo, ma non meno discusso, dalla legge Fornero, che li ha attratti tendenzialmente nell’orbita del lavoro a progetto32. In realtà il limite della normativa della l. n. 92 è più di fondo, e quindi è al di fuori dell’orizzonte di interventi correttivi, circoscritti adottati dalla l. n. 9933. Tale limite dipende dalla scelta originaria di seguire le orme della normativa preesistente, intervenendo con modifiche parziali dei vari tipi di lavoro parasubordinato – progetto e partite IVA – invece di procedere a una revisione complessiva su basi nuove non tanto delle definizioni dei tipi di lavoro autonomo ed eventualmente associato, quanto delle tutele applicabili34.
Al di fuori di una simile revisione, l’opera di chiarimento e di superamento delle distonie normative che costellano la materia resta affidata alle interpretazioni giurisprudenziali, chiamate a esercitarsi ancora una volta sugli indici di subordinazione e a precisare quelli che identificano il solo coordinamento e la continuità della collaborazione rispetto all’area della subordinazione.
In una bozza del d.l. n. 76/2013 erano previste misure ulteriori di favore per la flessibilità in entrata finalizzate, secondo il governo, a stimolare l’occupazione e ad accelerare i lavori in vista dell’Expo del 2015 e quindi provviste di uno specifico carattere di straordinarietà. Si trattava di normative eterogenee; ampliamento del ricorso alla somministrazione a termine e al lavoro intermittente; elevazione a cinquemila euro del compenso totale per il lavoro accessorio; previsione di un tipo contrattuale di ingresso al lavoro dai tratti riconducibili al vecchio contratto di formazione lavoro, o al contratto di inserimento, (appena abrogato dalla legge Fornero); introduzione di una specifica causale «Expo 2015» integrante il contratto a progetto, cioè in grado di legittimare ex lege progetti correlati, direttamente o indirettamente ai lavori dell’Expo con termine finale al 30.6.2016. L’applicazione di tali misure, per il loro carattere di straordinarietà, avrebbe dovuto essere operativa solo previo consenso e con il controllo delle parti sociali rappresentative sul piano nazionale, cioè sulla base di accordi quadro o di contratti nazionali.
Per lo più gli accordi individuali conclusi secondo tali norme avrebbero dovuto essere certificati da una specifica commissione istituita dalle stesse parti sottoscrittrici dei contratti collettivi.
L’opportunità di queste misure è stata oggetto di contrasti fra i partiti della maggioranza, in particolare di critiche dal centro destra, che hanno consigliato l’accantonamento della bozza. Inoltre la previsione riguardante il contratto a progetto era apparsa subito criticabile, in quanto attribuiva al concetto di progetto un contenuto così indeterminato – tutti i lavori direttamente o indirettamente legati all’Expo – da svuotarne del tutto il già incerto valore definitorio.
È interessante ricordare che il tema delle misure straordinarie per l’Expo è stato ripreso in sede milanese da un accordo del 23.7.2013 stipulato fra le organizzazioni sindacali Cgil, Cisl e Uil e il commissario dell’Expo. Si tratta di un’intesa con efficacia diretta solo per le parti stipulanti e quindi limitata ai lavori svolti alle dipendenze dell’Ente Expo. Ma le parti sindacali hanno inteso dare un segnale circa le loro intenzioni, in vista dell’accordo nazionale che il Ministro del lavoro ha sollecitato entro il 15 settembre.
Sul punto più controverso dei contratti e della somministrazione a termine, l’intesa milanese non modifica la normativa vigente, ma ne utilizza e adatta gli spazi, in particolare quelli offerti dal ccnl del terziario, applicato nell’ente. Il ricorso alla causale del contratto a termine non è escluso, ma è coperto o incluso in un generico rinvio ai “servizi del sito espositivo”; cioè, sembra di capire, ai lavori direttamente connessi all’Expo.
L’ambito di applicazione della eventuale normativa sperimentale si è rivelato un punto controverso anche nelle trattative per la conclusione dell’accordo nazionale: altro è se l’ambito resta limitato ai lavori connessi effettivamente all’Expo, altro se il riferimento all’Expo è così generico da legittimare deroghe generali alla normativa nazionale.
Inoltre le parti del patto di Milano indicano la durata di tali contratti a termine fra un minimo di sei ed un massimo di dodici mesi e la loro quantità nell’80% dell’organico complessivo, con una quota del 10% riservata ai lavoratori in CIG, in mobilità, disoccupati o inoccupati (nella accezione europea). La clausola può sollevare dubbi di legittimità in quanto non prevede un contratto acausale, ma una sorta di “tipizzazione” contrattuale della causale35; ma si può argomentare che il potere attribuito alle parti dalla legge di stabilire nuove ipotesi di acausalità è sufficientemente ampio per comprendere a fortiori anche la previsione di una causale specifica.
In tema di apprendistato, inoltre, l’intesa definisce tre nuove qualifiche professionali legate ai caratteri dell’evento, con la relativa formazione, e ne stabilisce la durata da sette a dodici mesi. Si configura così una forma di apprendistato breve, prospettato anche in sede legislativa, che potrebbe contribuire alla diffusione dell’istituto. Analogo impulso viene dato allo stage.
2.6 Ancora novità su apprendistato e tirocini
Un discorso a parte merita la disciplina dell’apprendistato. Le vicende di questo istituto sono per molti versi singolari. La volontà del legislatore di promuovere l’apprendistato soprattutto nella sua versione professionalizzante come strumento principale di promozione dell’impiego qualificato per i giovani, è risalente nel tempo, almeno agli anni ’90. Essa si è tradotta in una molteplicità di interventi fino a quello della l. n. 92/2012, che integrando il d.lgs. 14.9.2011, n. 167 di recepimento dell’accordo stato-regioni, configura una revisione sostanziale dell’istituto, la terza in poco più di dieci anni. Eppure l’obiettivo perseguito apparentemente con largo consenso da tali interventi, non solo non è stato raggiunto, ma è sembrato allontanarsi.
Infatti tutte le rilevazioni, a cominciare dal monitoraggio citato dell’Isfol, indicano che il ricorso all’apprendistato è rimasto al di sotto delle aspettative e degli standard europei cui si tendeva. Anzi si è andato riducendo nel periodo della crisi, in misura anche più netta di quanto riscontrato per altri tipi di impiego. I motivi addotti per spiegare tali difficoltà sono diversi e non sempre fondati36.
Molti persistono anche di fronte alle disposizioni normative del 2011/2012 che hanno introdotto innovazioni volte a correggere gli ostacoli all’uso dell’istituto denunciati dagli operatori. Sembrano riflettere diffidenze radicate nel passato, più che motivi specifici. Alle resistenze non sarebbe estraneo neppure il nome dell’istituto, ritenuto obsoleto o “sminuente” rispetto alla volontà di promuovere lavoro qualificato; tant’è che nel testo della l. n. 99/2013 accanto al nome tradizionale di apprendistato, compare quello di “contratto di mestiere”.
La l. n. 99 non aggiunge molto alla disciplina in atto. La indicazione principale consiste nell’affidare alla conferenza permanente Stato – autonomie il compito di definire linee guida in vista di una disciplina. Le linee guida sono abilitate a porre deroghe alla disciplina vigente del decreto 167/2011 in particolare su tre aspetti ritenuti suscettibili di semplificazione: la obbligatorietà del piano formativo, le modalità di registrazione della formazione e le regole applicabili a imprese multi localizzate37.
In effetti la eterogeneità e spesso la inadeguatezza dell’offerta formativa regionali rispetto alla domanda degli utenti sono fra gli aspetti ritenuti critici del funzionamento dell’istituto. L’indicazione della legge è di indirizzo e non direttamente operativa, dato che riguarda una materia di competenza regionale. Ma il legislatore, memore dei ritardi e delle resistenze regionali a definire ed ad armonizzare la loro formazione, ha ritenuto di fissare un termine breve (30.9.2013), decorso il quale sono comunque operative alcune norme di semplificazione che riguardano i tre punti già indicati di possibili deroghe al decreto 167/2011. In effetti il termine è trascorso senza che le ragioni definissero linee guida comuni, cosicché prende vigore la normativa di legge.
Il piano formativo individuale previsto dalla l. n. 167/2011 è dichiarato necessario solo per la formazione finalizzata all’acquisizione delle competenze tecnico-professionali e specialistiche. Si vuole così ridurre a un ambito delimitato, cioè a contenuti particolari della formazione dell’apprendistato che richiedono una pianificazione, l’adempimento del piano individuale che è sentito come oneroso e poco realistico, soprattutto dalle piccole imprese. Nell’ottica della semplificazione l’obiettivo di promuovere una formazione effettiva potrebbe essere raggiunto meglio che con un piano formalizzato con controlli sui contenuti e sui risultati formativi, o con ancora maggiore efficacia prevedendo, come suggeriscono esperienze straniere ed esperti italiani, una graduazione delle agevolazioni in rapporto alla qualità degli interventi formativi38.
Una seconda norma di chiusura – peraltro di dubbia utilità – diretta a facilitare le formalità di adempimento e controllo della formazione, stabilisce la registrazione della formazione e della eventuale qualifica in un documento avente i contenuti minimi del libretto formativo39.
Infine si prevede che nei casi di impresa multilocalizzata, la formazione deve rispondere alle regole della regione ove l’impresa ha la sede legale. In realtà qui si conferma una norma già presente nel TU del 2011 – per motivi non evidenti: forse perché la norma era poco osservata?
Non è stata accolta la richiesta di abolire la conferma di una quota di apprendisti prevista da l. n. 92/2012 come condizione per l’assunzione di nuovi apprendisti, che è sentita come una indebita costrizione, anche perché percentuali più alte sono previste da molti contratti collettivi e il rinvio alla contrattazione sarebbe qui più che altrove appropriato. Né è stata prorogata la percentuale di conferma del 30% di fatto operativa solo per i rapporti in essere prima della l. n. 92/2012.
Per altro verso è risultata impraticabile la proposta di rafforzare gli incentivi economici all’istituto fino ad abolire del tutto i costi contributivi. Probabilmente è stata decisiva, qui come altrove, la limitazione di risorse disponibili. Ma la introduzione di incentivi per le assunzioni di giovani a tempo indeterminato rende l’apprendistato meno appetibile di quanto già non sia risultato nella pratica. Il che può frustrare gli obiettivi del legislatore e ridurre l’efficacia delle innovazioni introdotte dalla l. n. 99. Ovvero, per altro verso, può far aumentare il rischio che, in mancanza di adeguati controlli e di certificazioni diffuse della formazione aziendale, i contenuti formativi dell’istituto diventino evanescenti, avvicinandolo al tradizionale contratto di inserimento.
Un discorso simile vale per i tirocini. Le norme della l. n. 99 rappresentano un ulteriore tentativo di promuovere nel nostro paese questo istituto soprattutto tramite incentivi a vari tipi di tirocini, mentre le regole sul funzionamento dell’istituto restano quelle delle linee definite nell’accordo Stato-regioni del 24.1.201340. Dalle indicazioni e dalle prassi europee il tirocinio è considerato, insieme con l’apprendistato, uno strumento prioritario per il passaggio dei giovani dalla scuola al mondo del lavoro. Qui ancora più che per l’apprendistato, i tentativi di diffonderlo hanno avuto successi limitati non solo per il diseguale impegno delle regioni competenti per la sua attuazione, ma per una difficoltà radicata nel nostro sistema, istituzionale e culturale, che ha sempre ritenuto di tenere distinti e distanti i periodi di lavoro da quelli di scuola. Eppure una tale scelta contrasta con tutta l’evidenza europea che mostra come adeguate esperienze di lavoro svolte nel corso degli studi siano preziose per facilitare l’orientamento e il migliore accesso dei giovani all’impiego.
A ciò si sono aggiunti ostacoli di natura costituzionale, perché il tentativo del legislatore nazionale di promuovere l’istituto e armonizzarne l’impiego è stato frenato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale41 che ha dichiarato la illegittimità dell’art. 11 l. n. 148/2011 secondo cui, in assenza di specifiche normative regionali sull’istituto, doveva ritenersi applicabile la disciplina statale, quella della l. 24.6.1997, n. 196 (che è ancora il testo base in materia). Tant’è che la legge Fornero aveva rinviato a un’intesa con le regioni la disciplina dell’istituto, limitandosi a fissare alcuni principi volti a contrastare l’abuso, purtroppo diffuso, dello stage. Ma anche tali principi sono stati oggetto di critiche di opportunità e di legittimità.
Il fatto nuovo è che l’auspicata intesa con le regioni è stata raggiunta il 24.1.2013. Essa costituisce la base per una regolazione complessiva della materia, anche sul piano nazionale e contiene regole innovative, anche se non prive di criticità.
Nonostante ciò, il d.l. n. 76 ribadiva la applicabilità della l. n. 196/1997 come norma di chiusura in assenza di normative regionali, sia pure per il periodo limitato al 2015. Difficilmente tale norma avrebbe potuto sfuggire a censure di costituzionalità di una Corte che ha ritenuto di escludere la competenza della legge statale in materia. In effetti essa è stata soppressa in sede di conversione del decreto. Anche se si potrebbe sostenere che la funzione residuale della l. n. 196 resta operativa, pena un pericoloso vuoto di disciplina42.
Se la l. n. 99/2013 sul programma giovani si prefigge obiettivi nuovi, ancorché prevedendo una strumentazione incerta e risorse scarse, un’altra parte della legge presenta contenuti eterogenei con finalità di correzione di istituti pregressi, su punti specifici e spesso minuti.
Gli interventi riguardano soprattutto varie forme della cd. flessibilità in entrata. Le soluzioni previste dalla l. n. 92/2012 sono state, com’è noto, molto controverse e soggette a non pochi aggiustamenti nell’iter parlamentare di allora43; aggiustamenti peraltro che non dovevano ridurre più di tanto le polemiche e le critiche. In realtà anche altre parti della l. n. 92 hanno subito rimaneggiamenti nel corso dell’approvazione, senza per questo superare i contrasti e i giudizi negativi, tuttora espressi da varie parti.
I motivi per cui la nuova legge non è intervenuta su questi aspetti sono dunque ulteriori. La normativa riguardante il regime dei licenziamenti, in particolare le conseguenze del licenziamento illegittimo, è stata ritenuta “intoccabile”. Così il Parlamento di allora dovette considerare la soluzione definita dalla mediazione del premier Monti sui punti più controversi della questione. Anche le critiche sugli aspetti “tecnici” di tale soluzione e le proposte di correzione manifestatesi in enorme quantità e con grande dovizia di argomenti, non sono servite né a modificare la soluzione proposta da Monti né a suggerire nuove ipotesi al governo Letta e al Ministro Giovannini. Esse si sono infrante contro il muro di una immodificabilità tutta “politica” : quella per cui nessuna alterazione si è ritenuta praticabile dalle parti politiche e sociali, perché avrebbe potuto mettere a rischio il delicato equilibrio raggiunto con la modifica della storica norma dell’art. 18 st. lav.
Un tale blocco all’iniziativa di riforma la dice lunga sul persistente sovraccarico politico-ideologico che pesa ancora su questa disposizione, come in genere il tema dei licenziamenti. I problemi applicativi della nuova normativa sui licenziamenti sono stati ampiamente discussi in dottrina e affrontati dalla prima giurisprudenza, peraltro concentrata soprattutto sui profili processuali della legge. Le decisioni di merito non sono numerose. Non sembra esserci stata un’accelerazione del contenzioso, anzi in certi territori si rileva una tendenza a risolvere le controversie in via transattiva, che può essere riconducibile all’incertezza applicativa delle nuove norme ovvero alla spinta presente nella legge verso soluzioni risarcitorie invece che reintegrative.
Un dato positivo, ma ancora parziale, è che le prime sentenze note sembrano essere rese in tempi rapidi (3-4 mesi), secondo le previsioni legislative.
Nessun intervento, neppure di aggiustamento tecnico, si è ritenuto di operare sul rito speciale riguardante i licenziamenti introdotto dalla l. n. 92/2012.
Forse si è ritenuto opportuno, per motivi di economia parlamentare, non estendere l’intervento sull’occupazione a una materia diversa come quella processuale o si è voluto rinviarlo a una successiva e più motivata decisione (come del resto per altri temi presenti nel dibattito).
Eppure i giudizi degli operatori alla luce della prima esperienza applicativa hanno segnalato non pochi aspetti critici: ad es. sulle modalità della fase istruttoria, sulla inammissibilità del rito qualora la domanda sia errata, sulla identità del giudice della fase sommaria rispetto a quello della fase di cognizione44.
E non sono mancate le richieste, specie da parte degli avvocati, di abolire del tutto il nuovo rito. Peraltro risulta che alcuni giudizi sono contrastanti ad es. sull’utilità del nuovo rito per accelerare i tempi di decisione che viene diversamente valutata a seconda delle situazioni delle varie sedi giudiziarie.
Anche per questo forse si è avanzata fra le altre l’ipotesi di rendere facoltativo il ricorso al rito della l. n. 92: tesi già adottata da qualche decisione giurisprudenziale.
Una seconda area non toccata da modifiche normative è quella degli ammortizzatori sociali.
Qui i motivi sono altrettanto solidi, ma di origine diversa. La carenza di risorse è la ragione che viene addotta da molti anni, dalle proposte della Commissione Onofri del 1997 fino alle prime indicazioni del Ministro Fornero, per rinviare riforme strutturali del sistema e per attuare solo interventi parziali. Non è necessario ripercorrere le varie tappe di questi interventi45 per avvertire che la costruzione di un sistema universalistico di tutele del reddito attivato in altri paesi europei, trova in Italia ostacoli ulteriori rispetto alla carenza di risorse; a cominciare dalla difficoltà di rompere gli schemi categoriali/corporativi su cui non solo il sistema degli ammortizzatori, e tutto il nostro welfare a eccezione della sanità e assistenza è stato costruito. Il superamento di tale impianto presuppone una modifica netta nella valutazione dei rischi di disoccupazione e di inattività da tutelare e quindi nella allocazione delle risorse fra i vari gruppi sociali, modifica che né le parti sociali né i partiti sono stati in grado di decidere. Di conseguenza ha prevalso, con qualche aggiustamento al margine, la difesa degli assetti categoriali esistenti e si è confermata la prioritaria destinazione delle risorse alla tutela degli insider, quelli più rappresentati e difesi dalle consolidate organizzazioni sociali di ambedue le parti.
Per altro verso la difficoltà di muovere verso assetti universalistici di welfare è aggravata dalla debolezza degli strumenti di controllo pubblico e sociale necessari per evitare derive assistenzialistiche del sistema e comportamenti opportunistici dei beneficiari.
Questi rischi peraltro non sono esclusi nel sistema presente, perché il controllo esercitabile delle organizzazioni rappresentative e la remora dei costi contributivi non sono stati sufficienti a contrastarli, tanto più sotto la pressione della crisi. Le vicende delle Casse in deroga e già prima le prassi della mobilità e delle casse integrazioni straordinarie confermano la consistenza di tali rischi 46. Né la loro gravità ha spinto a superare l’impasse del sistema. Ne sono riprova i contrasti che hanno sollevato i pur parziali tentativi della legge Fornero di porre limiti definiti all’istituto (tutto italiano) della mobilità e le difficoltà – già sopra rilevate – di stabilire criteri predefiniti al ricorso delle casse in deroga tali da permetterne un utilizzo, se non universalistico, almeno utile a sopperire in modo diffuso e controllato a bisogni di soggetti e imprese non coperti dal sistema categoriale.
Fatto si è che per questi motivi l’impegno del governo si è tradotto in provvedimenti circoscritti: una proroga riguardante gli ammortizzatori specifici di settore; il mantenimento dello stato di disoccupazione ai fini dei servizi per l’impiego per i soggetti che svolgono lavori tali da determinare un reddito annuale non superiore a quello minimo escluso da imposizione e in ogni caso i soggetti impegnati in lavori socialmente utili47, nonché soprattutto interventi di rifinanziamento della cassa integrazione in deroga e della mobilità per le piccole imprese. Questi ultimi sono stati assunti per un periodo limitato di tempo segnato dal tetto delle risorse disponibili. Come si vede, continua a prevalere una logica emergenziale il cui superamento non appare possibile e comunque non è previsto nell’orizzonte normativo.
Un’altra questione sollevata più volte, ma non affrontata dal provvedimento, riguarda la sorte dei cd. esodati, in seguito alla riforma delle pensioni del governo Monti. Gli interventi sui cd. esodati o salvaguardabili, si sono succeduti nel corso del 2012 e 201348 con l’obiettivo di precisare il confuso disposto della normativa originaria (art. 24, co. 14 e ss., d.l. 6.12.2011, n. 201) e di integrare via via le platee di soggetti individuati (prima 65.000 nel d.l. n. 201, poi 55.000 nel d.l. 6.7.2012, n. 95, ancora 10.130 nella l. 24.12.2012, n. 228, precisata nel d.m. 22.4.2013, infine 6.500 nel d.l. 31.8.2013, n. 102, in corso di approvazione).
Tali successivi aggiustamenti nascono, oltre che dall’incertezza normativa, dalla presenza di un rilevante numero di lavoratori astrattamente salvaguardabili, ma esclusi da tale regime perché in sovrannumero rispetto ai contingenti assegnati alle singole categorie. Pur a fronte di una riduzione consistente della platea degli esclusi, questa resta più ampia di quella che in principio il legislatore considerava meritevole di protezione; e le soluzioni previste sono fortemente controverse, sollevando anche dubbi di legittimità costituzional49. Non sono mancate proposte di legge di origine parlamentare sia ulteriormente correttive del sistema degli esodi sia dirette a prevedere specifici ammortizzatori sociali per i lavoratori che, nonostante le varie estensioni delle platee, risultassero esclusi dalla salvaguardia (AS 3515, 10.10.2012, a firma Ichino, Treu e altri).
1 Per i primi commenti alla legge cfr. Tiraboschi, M., a cura di, Interventi urgenti per la promozione dell’occupazione, in particolare giovanile e della coesione sociale, Primo commento al dl 76/2013, Adapt, n. 10, 2013; Id, Il lavoro riformato, Milano, 2013; Casotti, A.-Gheido, M.R., Misure per l’occupazione e la crescita, Milano, 2013; n. speciale di Guida lav., 35, 6.9.2013, e i contributi di seguito pubblicati in questa sezione.
2 Cfr. Isfol, Gli effetti della legge 92/2012 sulla dinamica e gli avviamenti dei contratti di lavoro, 2012-2013.
3 Survey sugli effetti della riforma del lavoro, a cura di Gi Group Academy, 2013, a), b), c), in http://www.osservatorio.it/index.php.
4 Cfr. fra i tanti, Treu, T.-Dell’Ariga, C., a cura di, Giovani senza futuro?, Roma, 2011, in particolare i contributi di Allulli, G., Checchi., D., Delrio, F., Comi, S.,-Lucifora, C., Sestito, P., Anastasia, B., Samek, Lodovici, M.-Semenza, R., Varesi, P.
5 Cfr. Dell’Aringa, C.,-Treu, T., I giovani nella crisi: analisi, prospettive, proposte, in Dell’Aringa, C.,-Treu, T., Giovani senza futuro, 31 ss.; OECD, Employment Outlook 2011, Paris; Scarpetta S., et al., 2010, Rising youth unemployment during the crisis, Papers n. 106, Paris.
6 Cfr. Samek Lodovici, M.–Semenza, R., Le politiche per l’occupazione dei giovani: un confronto europeo, in Dell’Aringa, C.-Treu, T., Giovani senza futuro, cit., 349 ss.; V. i documenti europei: Consiglio Europeo del 27/28 giugno 2013 e Vertice di Berlino, commentato da Sartore, A. in Interventi urgenti, Adapt, cit.,10 ss.; Raccomandazione del Consiglio Europeo del 22 aprile 2013, con commenti nel bollettino speciale Adapt, a cura di Rosolen, G.-Gioli, G.; inoltre Rosolen, G.-Tiraboschi, M., Le prime misure per l’attuazione della garanzia giovani, in Interventi urgenti, Adapt, cit., 291 e analogamente Tiraboschi, M., a cura di, Il lavoro riformato, cit., 46 ss.
7 Cfr. Valsiglio, C., Assunzioni agevolate di giovani e soggetti Aspi, in Guida lav., cit., II.
8 Valsiglio, C., Assunzioni agevolate, cit.
9 L’Inps si è espresso circa la illegittimità della fruizione di una doppia agevolazione, v. circ. n. 111/2013 in http://www.inps.it.
10 Cfr. Samek Lodovici, M.-Semenza, R., Le politiche per l’occupazione dei giovani, cit., 354 ss.; Allulli, G., Le politiche europee e la qualità dell’istruzione e formazione professionale, in Adapt, cit., 55 ss.
11 Rilievo comune: cfr. Tiraboschi, M., Un piano per il lavoro e senza un progetto, in Interventi urgenti, Adapt, cit., 34, e Tiraboschi, M., a cura di, cit., Il lavoro riformato, 3 ss.
12 Cfr. Borioni, P., Politiche attive giovanili e modelli nordici, in Dell’Aringa, C.-Treu, T., Giovani senza futuro, cit., 205 ss.; Samek Lodovici, M.-Semenza, R., Le politiche per l’occupazione dei giovani, cit., 350 ss. e le indicazioni europee sulla Youth Guarantee, con i commenti citati a nota 6.
13 Cfr. già Pirrone, S.-Sestito, P., Ai disoccupati ci pensa una Agenzia con sussidi e politiche attive, in Le riforme che mancano, Dell’Aringa, C.-Treu, T., a cura di, Roma, 2009, 95 ss.
14 Il compito dei servizi all’impiego e in genere delle politiche attive del lavoro è oggi più difficile che in passato data la variabilità e incertezza dei sistemi produttivi e del lavoro.
15 Cfr., Treu, T., a cura di, Employability per persone e imprese. Percorsi di outplacement, Milano, 2013.
16 V. Rosolen, G.-Tiraboschi, M., Le prime misure, Adapt, cit., 298.
17 Borioni, P., Politiche attive giovanili e modelli nordici, cit. 205 ss., che peraltro segnala i diseguali andamenti dei programmi di questi paesi. Alcuni paesi – Finlandia, Austria, Germania, Ungheria, Polonia – hanno dedicato, nonostante la crisi, 10% o più di risorse per aumentare lo staff dei servizi pubblici all’impiego (in Germania sono impegnati circa 115.000 operatori); Dell’Aringa, C.-Treu, T., I giovani nella crisi, in Dell’Aringa, C.-Treu, T., Giovani senza futuro, cit., 30; Sartori, A., Misurare e valutare i servizi per l’impiego. L’esperienza internazionale, Roma, 2009.
18 Cfr. i resoconti Isfol del monitoraggio, Gli effetti della legge 92/2012 sulla dinamica egli avviamenti dei contratti di lavoro.
19 Arel, Osservatorio lavoro, analisi degli effetti e proposte di modifica della legge Fornero, 21 maggio 2013, in corso di stampa, in particolare l’intervento di B., Anastasia.
20 Inoltre il contratto a termine acausale può essere fatto proseguire per 30 o 50 gg. a seconda della sua durata fino a un massimo di 12 mesi e 50 giorni; circ. Ministero del lavoro, 29.8.2013, n. 35. La legge precisa ad abundantiam che le assunzioni a termine dei lavoratori in mobilità non rientrano nella disciplina generale. Delle Cave, M., I contratti a termine nel decreto occupazione dopo la conversione, in Guida lav., cit., XXII; e il contributo di S. Giubboni in questo volume.
21 Cfr. il contributo di S. Giubboni, in questo volume; Delle Cave, M., I contratti a termine del decreto occupazione dopo la conversione, in Guida lav., 35, XII; Tiraboschi, M., Il lavoro a termine nuovamente riformato, in Tiraboschi, M., Il lavoro riformato, cit., 175 ss.
22 Giubboni, S., contributo in questo volume, parla di «deriva de regolativa» e solleva dubbi sulla sua compatibilità con i vincoli comunitari.
23 Cfr. in tal senso la circ. Ministero del lavoro, 29.8.2013, n. 35, con le prime indicazioni sulla l. 99/2013.
24 Cfr. per tutti Treu, T., Le relazioni industriali dopo l’accordo del 28 giugno 2011, in Dir. rel. ind., 2011, 632 ss.; e per una analisi degli accordi Imberti, L., A proposito dell’articolo 8 della legge 148/2011: le deroghe si fanno , ma non si dicono, in Dir. lav. rel. ind., n. 138, 2013, 255 ss.
25 I commenti all’accordo sono già numerosi, Treu, T., Il libro dell’anno del diritto 2013, Roma, 2013, e i contributi di Carinci, F.-Tosi, P.-Potestio, P.-Marazza, M.-Vallebona, A., in Dir. rel. ind., 2013, 548 ss.; Maresca, A., Il contratto collettivo nazionale di categoria dopo il patto d’intesa del 31 maggio 2013, in Riv. it. dir. lav., 2013, 707 ss.; Viscomi, A., Prime note sul protocollo 31 maggio 2013, in Riv. it. dir. lav., I, 2013, 749 ss.
26 C. cost., 23.7.2013, n. 231.
27 Cfr. oltre agli autori citati alla nota 25, Treu, T., Le regole delle relazioni industriali: test per l’autoriforma, in Quad. rass. sind., 2013, n.3, p. 35 ss.
28 Marrucci, M., Quel che resta del lavoro a chiamata, in Guida lav., cit., XXI; Giovannone, M.-Scolastici, R., Il lavoro intermittente, in Tiraboschi, M., Il lavoro riformato, cit., 240 ss.
29 Il d.l. 76/2013 aveva alleggerito la sanzione prevista l’inadempimento, stabilendo che essa non trova applicazione qualora dagli adempimenti contributivi assolti si evidenzi la volontà di non occultare la prestazione di lavoro. Ma tale norma è stata soppressa in sede di conversione.
30 Treu, T., Flessibilità e tutele, cit., 30.
31 Rossi, P., Lavoro a progetto: sempre più rigido nella forma e con dimissioni da convalidare, in Guida lav., cit., XVI; Bubola, G., Il contratto di collaborazione coordinata e continuativa a progetto (e non) le cosiddette Partite IVA, in Tiraboschi, M., Il lavoro riformato, cit., 211 ss. Un intervento restrittivo è invece quello che prevede la forma scritta per l’esistenza del rapporto (e non per la sola prova). Cfr. per le implicazioni S., Giubboni, contributo in questo volume.
32 Bano, F., Il popolo delle Partite IVA all’ombra del lavoro a progetto, in Lavoro e diritto, 2013, 191 ss.; A. Perulli, Il lavoro autonomo e il perdurante equivoco del lavoro a progetto, in Dir. rel. ind., 2013, 1; Id, Il lavoro autonomo e parasubordinato nella riforma, in Lavoro e diritto, 2012, 541 ss.
33 Anche a proposito dell’associazione in partecipazione la l. n. 99/2013 si è autolimitata a un intervento di stabilizzazione, sia pure sui generis, in quanto affidata alla contrattazione collettiva aziendale. Cfr. Marrucci, M., La stabilizzazione dell’associazione in partecipazione, in Guida lav., VIII; Pasquini, F., La stabilizzazione degli associati in partecipazione che apportano lavoro (e un refuso sui tirocini?), in Tiraboschi, M., Il lavoro riformato, cit., 292 ss.
34 Cfr. gli autori citati alla nota 32.
35 Falasca, G., Quel pasticciaccio brutto dell’apprendistato, in Lavoro e impresa, 30.7.2013.
36 Cfr. il severo giudizio di Falasca, G., L’apprendistato dopo il decreto Letta: riparte il cantiere legislativo, in Guida lav., cit., XVI; v. anche Tiraboschi, M., Apprendistato: un rilancio di facciata, in Tiraboschi, M. (a cura), Interventi urgenti, cit., 348 ss.
37 È stata opportunamente eliminata la limitazione della normativa alle assunzioni effettuate entro il 31.12.2015 da parte di piccole e medie imprese.
38 Ma la circolare Ministero del Lavoro 29.8.2013, n. 35, precisa che gli ispettori dovrebbero concentrare prioritariamente l’attenzione sui contenuti del piano e sul loro rispetto.
39 Cfr. G. Falasca, L’apprendistato, op. cit.
40 Cfr. per i precedenti P. Pascucci, Tirocini, in Il libro del diritto Treccani, 2013, p. 351 ss.; e per un commento il contributo dello stesso ne Il Libro del Diritto Treccani 2014, in corso di stampa.
41 C. cost., 19.12.2012, n. 287.
42 Cfr. il commento di P. Pascucci in questo volume.
43 Cfr. in generale Treu, T., Flessibilità e tutele nella riforma del lavoro, in Riv. it. dir. lav., 2013, 1 ss.
44 Su questi aspetti cfr. il commento di G., Amoroso in questo volume.
45 Oggetto di speranze e delusioni ampiamente riflessi nel dibattito politico e culturale. Cfr. Guerzoni, L., a cura di, La riforma del welfare, Bologna, 2008 e più di recente Berton, F.- Richiardi, M.-Sacchi, S., Flexinsecurity, Bologna, 2009.
46 Cfr. Santoni, V.F., Ammortizzatori sociali in deroga e canale bilaterale, in Studi in onore di T. Treu, Napoli, 2011, 1259; Gragnoli, E., Gli strumenti di tutela del reddito di fronte alla crisi finanziaria, in Dir. rel. ind., 2012, 573 ss.; Barbieri, M., Ammortizzatori in deroga e modelli di welfare negli accordi Stato-Regioni e Regioni-Parti Sociali, in Riv. giur. lav., 2011, I, 379 ss.
47 Boller, C., Disoccupazione, comunicazioni unilav e assunzioni nei gruppi di imprese agricole, in Guida lav., cit., XXIII.
48 Faioli, M., I lavoratori cd. esodati: le forme di tutela, in Il libro del diritto Treccani 2013, Roma, 2013, 414 ss.
49 Cinelli, M.-Garofalo, D.-Tucci, G., Esodati, “salvaguardati” esclusi nella riforma pensionistica Monti-Fornero, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2013, 379 ss.