Le modifiche del giudizio di appello
Si esamina la recente riforma dell’appello. Si ricorda che l’appello avrebbe potuto essere definito alla prima udienza e, a tal fine, la disciplina era già stata modificata nel 2011. Si pone in evidenza che i nuovi motivi d’appello non apportano significativi elementi di novità alle soluzioni alle quali era pervenuta la giurisprudenza; che l’applicazione del “filtro” appesantisce il procedimento. Si esaminano quindi i rimedi esperibili contro l’ordinanza dichiarativa della manifesta infondatezza. Si dubita, infine, della legittimità delle disposizioni introdotte «per necessità ed urgenza», ma entrate in vigore dopo l’approvazione della legge di conversione.
L’art. 54 d.l. 22.6.2012, n. 83, conv. in l. 7.8.2012, n. 134, ha rinnovato la disciplina dell’appello; ha modificato gli artt. 342, 345, 434, 447 bis e 702 quater c.p.c.; ha aggiunto gli artt. 348 bis, 348 ter e 436 bis c.p.c.; sono cambiati anche gli artt. 360 e 383 c.p.c. In deroga a quanto previsto dagli artt. 1, co. 2, e 49 d.lgs. 31.12.1992, n. 546, la nuova disciplina non si applica al processo tributario; la sua applicazione al processo amministrativo ed a quello contabile è rimessa alla interpretazione, rispettivamente, dell’art. 39 c.p.a. di cui al d.lgs. 2.7.2010, n. 104, e dell’art. 26, R.d. 13.8.1933, n. 1038.
Non vi erano dubbi che l’appello fosse una revisio prioris instantiae e non un novum judicium; che fosse governato dalla regola tantum devolutum quantum appellatum; che fosse necessaria, a pena di inammissibilità, la specificità dei motivi e la completezza degli atti introduttivi. Il processo di appello, vuoi secondo il rito ordinario, vuoi secondo quello del lavoro, avrebbe potuto, sulla carta, essere definito alla prima udienza, ai sensi dell’art. 350 o dell’art. 437 c.p.c.
Ma ciò non avveniva. Prendendo atto della diffusa prassi di differire la decisione con la fissazione di un’apposita udienza per la «precisazione delle conclusioni», l’art. 1, co. 1, lett. b), l. 12.11.2011, n. 183, in vigore dal 14.12.2011, ha modificato l’art. 350 c.p.c. nel senso che «il presidente del collegio può delegare per l’assunzione dei mezzi istruttori uno dei componenti del collegio»1. L’art. 27, co. 1, lett. c), della stessa legge, ha novellato l’art. 351 c.p.c. ed ha previsto che, all’udienza fissata per la sospensione dell’esecuzione della sentenza impugnata, il giudice, «se ritiene la causa matura per la decisione, può provvedere ai sensi dell’art. 281 sexies»2.
Il problema, pertanto, non riguardava la disciplina del processo d’appello, che, già in base alla normativa anteriormente vigente quale interpretata ed applicata dalla giurisprudenza, era un modello concentrato che, sulla carta, non prevedeva tempi morti. Riguardava i flussi di controversie e le risorse disponibili ovvero l’insufficienza di queste ultime a rispondere alla domanda di giustizia.
In considerazione di ciò, la riforma si manifesta come un rimedio peggiore del male, perché, comunque, richiede un dispendio di energie e di risorse per la sua comprensione, per il coordinamento con la disciplina vigente e per l’adeguamento delle strutture degli uffici alla sua applicazione.
Ai sensi dei novellati artt. 342 e 434, co. 1°, c.p.c., «l’appello deve essere motivato. La motivazione dell’appello deve contenere, a pena di inammissibilità: 1) l’indicazione delle parti del provvedimento che si intendono appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado; 2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata».
Il primo dei due requisiti del n. 1 impone la specificazione dell’oggetto dell’appello: di chiarire se si chieda la riforma totale o parziale della decisione di primo grado. Non riguarda la «motivazione» dell’appello ma il suo oggetto: si tratta di un requisito di ammissibilità dell’impugnazione che, pur non espressamente previsto dalla legge, era già pacificamente operante.
La seconda parte del n. 1 degli artt. 342 e 434, co. 1, c.p.c. non implica la enunciazione di specifiche ragioni, cosicché si può escludere che, per quanto riguarda il giudizio di fatto, la riforma abbia trasformato l’appello in una impugnazione a motivi limitati. Per sfuggire alla sanzione dell’inammissibilità, appare sufficiente denunciare l’ingiustizia del provvedimento di primo grado e chiedere al giudice di appello un nuovo giudizio di fatto. La novità sembra consistere nell’imporre l’indicazione del contenuto della nuova valutazione richiesta. Questo risultato avrebbe potuto essere già conseguito argomentando in base all’interesse ad impugnare: l’errore di fatto, se non è fonte di un concreto pregiudizio per la parte che lo denuncia, non può costituire fondamento dell’impugnazione; per dimostrare la sussistenza del pregiudizio, occorre indicare quale sarebbe stata la corretta valutazione dei fatti e quali conseguenze ciò avrebbe comportato a vantaggio della parte.
Ad analoghi rilievi si presta l’esegesi del n. 2, per il quale, vuoi nel processo ordinario, vuoi nel processo del lavoro, l’ammissibilità dell’appello è subordinata all’«indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata».
Non si pretende la enunciazione di specifici errores in procedendo o in iudicando, ma delle «circostanze» sulle quali si fonda l’errore di diritto e degli effetti che esso ha prodotto e, quindi, del pregiudizio subito.
Anche in riferimento al n. 2, pertanto, l’appello resta un mezzo di gravame a motivi illimitati, grazie al quale si può denunciare l’ingiustizia della decisione di primo grado, derivante da errori nella valutazione dei fatti o da errores in procedendo o in iudicando, fonte di specifico pregiudizio per l’appellante.
Se si prescinde dalla esterofilia che ha ispirato le nuove disposizioni, la portata precettiva di queste ultime consiste nell’imporre, a pena di inammissibilità dell’appello, la specifica indicazione delle parti del provvedimento impugnato delle quali si chiede la riforma, degli errori di fatto e degli errori di diritto, nonché dei pregiudizi che da tali errori avrebbe subito l’appellante. Si tratta, in ogni caso, di risultati acquisiti dal «diritto vivente».
2.1 Il “filtro”
La novità più significativa della riforma, ai sensi dei nuovi artt. 348 bis e 348 ter c.p.c., applicabili anche nel processo del lavoro, in forza dell’art. 436 bis c.p.c., consiste nella introduzione di un “filtro” in appello.
Sennonché, la previsione di una preventiva valutazione di ammissibilità o di non manifesta infondatezza della domanda può svolgere una funzione di economia processuale nei sistemi di common law, dove tale valutazione precede e può evitare il trial. Essa corrisponde al giudizio che deve essere compiuto, nel processo penale, nell’udienza preliminare ai sensi dell’art. 424 c.p.p., per il quale questa può chiudersi con una «sentenza di non luogo a procedere» o con un «decreto che dispone il giudizio». Nel processo civile italiano, invece, la disciplina vigente impone una doverosa valutazione preliminare della ammissibilità e della fondatezza della domanda e consente, quindi, di definire la controversia in limine litis, ai sensi degli artt. 183, 420, 350, 375 o 702 bis c.p.c.3
Ai sensi dell’art. 348 bis, co. 1°, c.p.c., richiamato dall’art. 436 bis c.p.c. «Fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l’inammissibilità o l’improcedibilità dell’appello, l’impugnazione è dichiarata inammissibile dal giudice competente quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta».
Non è indicato alcun criterio di giudizio, cosicché la valutazione della mancanza di «una ragionevole probabilità» di accoglimento è affidata alla discrezione del giudicante e, quindi, anche al mero fastidio di occuparsi dell’impugnazione. Ogni sforzo interpretativo diretto a riempire di contenuti specifici l’aberrante formulazione normativa avrebbe il valore di una mera esortazione.
La nuova stravagante disposizione, peraltro, suscita dubbi di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111 Cost., nella parte in cui impone l’uso delle limitate risorse disponibili soltanto per l’eliminazione degli appelli apparentemente manifestamente infondati e non anche per la sollecita decisione di quelli manifestamente fondati, lasciando così sopravvivere le sentenze di primo grado manifestamente errate ed ingiuste.
Essa implica un esame preliminare dei fascicoli sopravvenuti, al fine di verificare se l’impugnazione principale e quella incidentale abbiano «una ragionevole probabilità» di accoglimento. Questo giudizio preliminare presuppone il contraddittorio con e tra le parti, ai sensi degli artt. 111 Cost. e 101 c.p.c., nonché in base all’inciso «sentite le parti». Il che può realizzarsi oralmente all’udienza ex art. 350 c.p.c. o a quella ex art. 437 c.p.c. Ma non può escludersi, ai sensi dell’art. 83 bis disp. att. c.p.c., che le parti chiedano e che il giudice conceda termini per il deposito di memorie sulla questione; un tale esito o, comunque, il rinvio dell’udienza si manifestano doverosi, allorché il dubbio sulla sussistenza di «una ragionevole probabilità» di accoglimento delle impugnazioni proposte emerga, per iniziativa del giudice o dell’appellato, all’udienza di prima comparizione.
Ne consegue che il processo di appello che, prima della riforma, tanto nel rito ordinario quanto nel rito «del lavoro», almeno sulla carta, poteva essere definito in un’unica udienza, dall’11 settembre 2012, dovrà necessariamente svolgersi in più udienze.
Sennonché, se le impugnazioni proposte si prestano ad essere definite immediatamente, sembra ragionevole provvedere in tal senso non soltanto nel caso in cui essa sia «inammissibile» «fuori dei casi» di inammissibilità o di improcedibilità. Questo risultato non richiede l’utilizzazione della sovrastruttura escogitata dalla fantasia esterofila del legislatore del 2012. È affidato alle prassi applicative che potranno essere utilizzate dai giudici di appello4.
Appare utile orientare l’attenzione sugli effetti e sui rimedi esperibili nei confronti dell’ordinanza dichiarativa dell’inammissibilità dell’appello, «fuori dei casi in cui» questo è inammissibile o improcedibile, nonché sul suo ambito di applicazione.
In primo luogo, ai sensi dell’art. 348 ter, co. 2, c.p.c., la definizione dell’appello con ordinanza succintamente motivata è esclusa se, nonostante l’impugnazione principale non abbia alcuna «ragionevole probabilità di essere accolta», la abbia quella incidentale. In mancanza di ulteriori specificazioni, nonché in considerazione del fatto che la dichiarazione di inammissibilità «fuori dei casi nei quali l’appello sia inammissibile o improcedibile» è, in realtà, una pronuncia di manifesta infondatezza, appare corretto comprendere nella previsione legislativa anche le impugnazioni incidentali tardive: queste non dovrebbero perdere «ogni efficacia» se il giudice ritiene che l’impugnazione principale non abbia alcuna «ragionevole probabilità di essere accolta»5. Dovrebbe, conseguentemente, escludersi l’applicazione dell’art. 348 bis, co. 1, c.p.c., anche nel caso in cui l’impugnazione incidentale, tempestiva o tardiva, non abbia alcuna «ragionevole probabilità di essere accolta», mentre la abbia quella principale. La possibilità di definire il giudizio di appello con ordinanza presuppone, dunque, che nessuna delle impugnazioni proposte, tempestivamente o tardivamente, abbia una «ragionevole probabilità di essere accolta».
In secondo luogo, l’applicabilità dell’art. 348 bis, co. 1, c.p.c. è espressamente esclusa nelle cause nelle quali è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero, ai sensi dell’art. 70, co. 1, c.p.c. Il “filtro” non opera neppure nel procedimento sommario di cognizione di cui agli artt. 702 bis ss. c.p.c.
Le due ipotesi appaiono ispirate a rationes divergenti: la prima tende a garantire il controllo di merito sulle decisioni di primo grado nelle controversie di maggiore rilevanza, la seconda in quelle più semplici. La ratio di quest’ultima sembra consistere nell’esigenza di incentivare l’uso del procedimento sommario di cognizione di cui agli artt. 702 bis ss. c.p.c., che ha trovato scarsissima applicazione nella pratica.
Ai sensi dell’art. 348 ter, co. 3, c.p.c., «quando è pronunciata l’inammissibilità, contro il provvedimento di primo grado può essere proposto, a norma dell’articolo 360, ricorso per cassazione». Ai sensi dell’art. 383, co. 4, poi, «la Corte, se accoglie il ricorso per motivi diversi da quelli indicati dall’art. 382, rinvia la causa al giudice che avrebbe dovuto pronunciare sull’appello e si applicano le disposizioni del libro secondo, titolo terzo, capo terzo, sezione terza», cioè gli artt. 392, 393 e 394 c.p.c. sul giudizio di rinvio.
Il legislatore del 2012 ha ignorato i problemi relativi alla impugnabilità dell’ordinanza dichiarativa dell’inammissibilità dell’appello privo di «una ragionevole probabilità» di accoglimento per vizi formali di tale provvedimento.
Basti pensare al caso in cui l’ordinanza sia pronunciata al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla legge; ovvero al caso in cui il provvedimento abbia negato l’ammissibilità dell’appello principale, ma non abbia considerato la «ragionevole probabilità» di accoglimento di quello incidentale; ovvero a quello in cui l’ordinanza sia stata pronunciata senza aver provocato il contraddittorio con e tra le parti; ovvero ancora a quelli nei quali il provvedimento sia affetto da altri vizi propri: ad esempio, non sia stato sottoscritto o sia stato emesso da un giudice incompetente o dal giudice relatore, delegato all’«assunzione» dei mezzi di prova ai sensi dell’art. 350 c.p.c., invece che dal collegio, ovvero sia stato emesso prima ed indipendentemente dalla rinnovazione della notificazione ai sensi dell’art. 291 c.p.c. o dalla integrazione del contraddittorio ex art. 331 c.p.c.
L’ordinanza dichiarativa dell’inammissibilità dell’appello privo di «una ragionevole probabilità» di accoglimento è, indubbiamente, un provvedimento decisorio e definitivo. È, quindi, autonomamente impugnabile per cassazione per violazione di legge, ai sensi dell’art. 111, co. 7, Cost. e 360, ult. cpv., c.p.c.6
Sennonché la pronuncia di tale provvedimento, ai sensi dell’art. 348 ter, co. 3, c.p.c., apre la strada alla ricorribilità per cassazione della sentenza di primo grado.
Appare, quindi, preliminarmente legittimo chiedersi se, con lo stesso ricorso, possa essere impugnata l’ordinanza dichiarativa dell’inammissibilità dell’appello privo di «una ragionevole probabilità» di accoglimento e la sentenza di primo grado o se sia necessario proporre distinti atti di impugnazione.
La risposta positiva trae fondamento dall’orientamento giurisprudenziale per il quale «l’impugnazione di una pluralità di sentenze con un unico atto è consentita solo quando queste siano tutte pronunciate fra le medesime parti e nell’ambito di un unico procedimento»7. Nell’ipotesi considerata, si tratta, appunto, di provvedimenti di grado diverso pronunciati nella medesima causa, che investono l’uno il merito e l’altro una questione pregiudiziale.
L’interesse ad impugnare il primo provvedimento deriva dalla circostanza che l’accoglimento del ricorso contro la sentenza di primo grado consente di ritornare innanzi al giudice di appello ai sensi degli artt. 392 ss. c.p.c., espressamente richiamati dall’art. 383, co. 4, c.p.c., mentre l’accoglimento di quello proposto contro l’ordinanza dichiarativa dell’inammissibilità dell’appello per vizi propri di tale provvedimento impedisce alla Corte di procedere oltre e consente di ritornare direttamente innanzi al giudice di appello, cosicché, mentre nel caso di accoglimento del ricorso contro la sentenza di primo grado, l’appello sarebbe regolato dalle ristrette norme del giudizio di rinvio, in caso di accoglimento del ricorso contro l’ordinanza, le parti si ritroverebbero in appello nelle medesime condizioni nelle quali si trovavano al momento della proposizione di tale impugnazione.
Pur nel silenzio della disciplina sul punto, dunque, sembra corretto ritenere che oggetto del ricorso per cassazione possa essere tanto l’ordinanza dichiarativa dell’inammissibilità dell’appello, principale ed incidentale, privo di «una ragionevole probabilità» di accoglimento, quanto la sentenza di primo grado; che i due provvedimenti possano essere impugnati con un unico ricorso; che sussista l’interesse ad impugnare autonomamente l’ordinanza; che la Corte sia tenuta ad esaminare preliminarmente il ricorso contro quest’ultima e, solo in caso di rigetto, ad esaminare il ricorso contro la sentenza; che la cassazione dell’ordinanza determina il rinvio al giudice di appello, affinché si rinnovi integralmente il giudizio di secondo grado.
Appare, poi, legittimo chiedersi se la Corte abbia anche il potere di cassare la sentenza senza rinvio, ai sensi dell’art. 382, co. 3, c.p.c.; ovvero se abbia quello di decidere «la causa nel merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto», ai sensi dell’art. 384, co. 2, c.p.c.
La lettera dell’art. 348 ter, co. 3, c.p.c. orienta per l’applicabilità dell’art. 382 c.p.c., espressamente richiamato, e per l’inapplicabilità dell’art. 384, co. 2, c.p.c., ma il risultato non si manifesta appagante: se non sembra possano esservi dubbi sulla necessità del rinvio al giudice fornito di giurisdizione o al giudice competente nei casi previsti dall’art. 382, co. 1 e 2, c.p.c., non vi sono ragioni per ammettere la possibilità della definizione del processo in rito, ai sensi dell’art. 382, co. 3, c.p.c. e, contestualmente, per escludere quella della decisione di merito, ai sensi dell’art. 384, co. 2, c.p.c. Appare ragionevole ammetterle o escluderle entrambe. In questa prospettiva, sembra evidente che la negazione dell’applicabilità dell’art. 382, co. 3, c.p.c. sarebbe contraria al principio di ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost. e ad elementari principii di economia processuale: il processo dovrebbe essere rinviato al giudice di appello soltanto perché questi dichiari il difetto assoluto di giurisdizione ovvero «che la causa non poteva essere proposta o il processo proseguito»; tali provvedimenti possono essere emessi direttamente dalla Cassazione. Analoghi argomenti possono essere invocati per l’applicazione dell’art. 384, co. 2, c.p.c.: il presupposto della disposizione è che «non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto»8, cosicché le parti non potrebbero dolersi della perdita di un grado di merito; la mancata rinnovazione di quest’ultimo non reca loro alcun concreto pregiudizio.
Nel testo del decreto legge, il ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado avrebbe dovuto essere proposto «nei limiti dei motivi specifici esposti con l’atto di appello»; non avrebbero potuto essere denunciati errores in procedendo o in iudicando diversi da quelli denunciati con l’atto di appello. L’inciso è stato soppresso dalla legge di conversione.
Appare, quindi, ragionevole ritenere che il ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado, proponibile dopo l’ordinanza di «inammissibilità» dell’appello «fuori dei casi di inammissibilità o di improcedibilità» (rectius: di manifesta infondatezza), prescinda totalmente dai motivi di appello. Oggetto del ricorso per cassazione, infatti, non è, in ogni caso, la valutazione di manifesta infondatezza dell’appello. Tale valutazione dipende da un giudizio probabilistico; è, quindi, affidata alla discrezionalità del giudice di secondo grado ed è insindacabile in cassazione. L’impugnabilità dell’ordinanza, come si è messo in evidenza, è possibile soltanto per vizi in procedendo. Per effetto di tale provvedimento, l’appello è tamquam non esset, cosicché non appare corretto richiamarne i motivi al fine di ridurre gli spazi del ricorso per cassazione.
La figura di ricorso per saltum introdotta dalla riforma prescinde anche dai limiti previsti dall’art. 360, co. 2, c.p.c., per il quale sono denunciabili soltanto gli errores in iudicando, ai sensi del n. 3 del primo comma dello stesso articolo.
Ai sensi dell’art. 348 ter, co. 4, c.p.c., nel caso di doppia conforme, è preclusa la possibilità di proporre ricorso per cassazione «per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti», secondo la nuova formulazione dell’art. 360, n. 5, c.p.c.
Per superare tale preclusione ed impugnare la sentenza di primo grado anche ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c., il ricorso, in osservanza del principio di autosufficienza, deve, quindi, indicare le ragioni di fatto poste a fondamento della decisione impugnata, quelle poste a fondamento dell’ordinanza dichiarativa dell’«inammissibilità» dell’appello o della sentenza di rigetto e dimostrarne la diversità. A tal fine, però, non è possibile riprodurre nel ricorso l’intera motivazione della sentenza di primo grado e dell’ordinanza o della sentenza di appello9.
D’altro canto, l’art. 348 ter, co. 4, c.p.c., impone che l’ordinanza dichiarativa dell’inammissibilità dell’appello, principale ed incidentale, privo di «una ragionevole probabilità» di accoglimento, abbia una congrua motivazione. Essa, ai sensi dell’art. 348 ter, co. 1, deve essere «succintamente motivata, anche mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e il riferimento a precedenti conformi». Sennonché, anche la motivazione delle sentenze, ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c., novellato dall’art. 52, co. 5, l. 18.6.2009, n. 69, «consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi»; e quella delle sentenze pronunciate ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c. consiste nella «concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione».
In funzione dell’applicazione del comma quarto della medesima disposizione e della esclusione della proponibilità del ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c., la motivazione dell’ordinanza deve, almeno, indicare «le ragioni inerenti alle questioni di fatto» a fondamento della «inammissibilità» dell’appello e l’identità di tali ragioni con quelle «poste a base della decisione impugnata». In mancanza di tale motivazione, non potrebbe essere invocata la preclusione prevista dall’art. 348 ter, co. 4, c.p.c.
L’analisi della nuova disciplina conferma altresì che non era privo di fondamento l’uso, nel corso del breve iter parlamentare della riforma, dei termini «appellicidio» e «cassazionicidio»: si può ragionevolmente dubitare che le corti di appello, che, attualmente, non sono spesso in grado neppure di aprire i fascicoli sopravvenuti (qualora questi siano stati acquisiti, ai sensi dell’art. 347, co. 3, c.p.c.) e rinviano le cause a grande distanza di tempo, possano farsi carico del maggiore impegno richiesto dalla normativa sopravvenuta; e si può anche dubitare che la Corte di cassazione, faticosamente impegnata nello smaltimento dall’arretrato, possa reggere il maggior flusso di ricorsi.
Come si è rilevato, la riforma ha vietato l’ammissione di ogni nuovo mezzo di prova nel processo ordinario d’appello; non ha modificato l’art. 437 c.p.c., cosicché, nel processo del lavoro, i nuovi mezzi di prova sono ancora ammissibili, purché «indispensabili», al pari di quanto avviene nel procedimento sommario di cognizione, nel quale l’aggettivo «rilevanti» è stato sostituito con «indispensabili»10.
Sennonché il procedimento ex artt. 702 bis ss. c.p.c. si presta ad essere qualificato come un procedimento in unico grado, nell’ambito del quale è prevista una «fase» sommaria innanzi al tribunale e una «fase» a cognizione piena innanzi alla corte di appello. In considerazione di ciò, la sostituzione del termine «rilevanti» con «indispensabili», suscita dubbi di legittimità costituzionale, perché, nell’ipotesi considerata, i confini del potere di direzione del processo sono dettati soltanto dai principii generali e non da specifiche regole predeterminate. L’ammissione delle prove in tribunale, infatti, implica una mera valutazione di «opportunità» del giudicante, che non è tenuto alla osservanza delle regole sull’istruzione probatoria.
3.1 La disciplina transitoria
Le disposizioni sulla riforma delle impugnazioni civili sono inserite in un decreto legge, che avrebbe potuto essere emanato «in casi straordinari di necessità e d’urgenza». Sennonché, la mancanza di tali requisiti potrebbe travolgere il decreto e la legge di conversione11. Per espressa previsione normativa, infatti, esse sono prive dei requisiti di necessità e di urgenza. Appare, pertanto, non manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale dell’art. 54 d.l. 22.6.2012, n. 83, conv. in l. 7.8.2012, n. 134, per violazione dell’art. 77 Cost.
Le nuove disposizioni si applicano «ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione» dal trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della legge di conversione, cioè da martedì 11 settembre 2012. La legge di conversione, infatti, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’11.8.2012, n. 187, s.o. n. 171. Ai sensi dell’art. 1, co. 2, è entrata in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione, cioè il 12 agosto 2012.
Per quanto riguarda l’appello, il discrimine è dato dalla data di deposito del ricorso, nel rito «del lavoro» e nel procedimento sommario di cognizione e da quella in cui sia «stata richiesta la notificazione», nel processo ordinario.
1 La soluzione era stata, peraltro anticipata da Cass., 14.6.2011, n. 12957, in Foro it., 2011, I, 3033.
2 In questo senso, infatti, era l’emendamento presentato dalla maggioranza che sostiene il Governo.
3 La possibilità di definire immediatamente le controversie nelle quali si pongano questioni preliminari di rito aventi carattere impediente, di rigettare subito le domande manifestamente infondate, di evitare l’accertamento dei fatti costitutivi in presenza di questioni preliminari di merito aventi carattere assorbente costituisce un potere-dovere del giudicante in ciascun modello processuale. Sennonché, l’esperienza indica che, sovente, questo potere non viene esercitato. Non sono infrequenti i casi in cui, nonostante la manifesta infondatezza della domanda o la manifesta fondatezza delle eccezioni, il processo prosegua per l’accertamento dei fatti costitutivi e addirittura si apra e si svolga l’istruzione probatoria su tali fatti e, al momento della decisione, tale attività si riveli affatto inutile. Si rinvia, per più ampi sviluppi e per indicazioni a Costantino, G., L’esperienza del processo nell’assetto attuale. Le prassi esistenti e quelle possibili, in Processo ed organizzazione, a cura di G. Gilardi, Milano, 2004, 23 ss.; Id., Note sulla struttura della decisione nei processi a cognizione piena. Un modello per la consolle del giudice, in Tecnologia, Organizzazione e Giustizia, a cura di S. Zan, Bologna, 2004, 191; Id., Tra processo e organizzazione: per una giustizia civile tempestiva ed efficace, in Dem. dir., 2005, 125; Id., L’accelerazione del processo civile, in «I tempi della giustizia», Atti del XLV Corso di studi del Centro Internazionale Magistrati «Luigi Severini» (Perugia, 14 novembre 2008), Napoli, 2010, 3; tutti ora anche in Id., Riflessioni sulla giustizia (in)civile, Torino, 2011, II.1.
4 In questo senso, già prima della riforma, era la prassi adottata in alcune sezioni delle Corti di appello di Roma e di Torino. V., inoltre, Gestione delle udienze civili d’appello, tra protocolli (Bari) ed esortazioni (Milano), con una premessa di D. Dalfino, in Foro it., 2011, V, 145; nonché Cea, C.M., L’organizzazione dell’ufficio del giudice civile di appello, ivi, 2010, V, 169. V., inoltre, le relazioni sull’applicazione della nuova disciplina nelle Corti di Milano e di Torino.
5 Per l’estensione della disposizione, che si riferisce esclusivamente alla «inammissibilità», anche alle ipotesi di improcedibilità dell’impugnazione principale, v. Cass., 14.4.2008, n. 9741, in Foro it., 2008, I, 3633, con nota di B. Gambineri; in Giur. it., 2009, 126; in Riv. dir. proc., 2009, 233, con nota di E. Odorisio; in Corriere giur., 2009, 224, con nota di S. Turatto. Ma, nel senso che la rinuncia all’impugnazione principale non travolge quella incidentale Cass., 19.4.2011, n. 8925, in Riv. dir. proc., 2012, 212, con nota di G. Guarnieri; in Giusto proc. civ., 2011, 823 con nota di S. Cartuso.
6 Sull’ambito di applicazione dell’art. 111, co. 7, Cost. e, quindi, sulla nozione di provvedimenti decisori e definitivi nell’ambito della tutela sommaria, si rinvia alla esemplare motivazione di Cass., 29.12.2011, n. 29742, seguita da Cass., 18.1.2012, n. 686, in Foro it., 2012, I, 1074.
7 Così, in motivazione, Cass., 14.10.2005, n. 19976, in Foro it., Rep. 2005, voce Cassazione civile, n. 83.
8 Si rinvia, anche per indicazioni, a Bove, M., La corte di cassazione come giudice di terza istanza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2004, 947.
9 Nel senso che «la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale contenuto degli atti processuali è ... inidonea a tener il luogo della sintetica esposizione dei fatti, in quanto equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non serve affatto che sia informata), la scelta di quanto effettivamente rileva in relazione ai motivi di ricorso», v. Cass., S.U., 11.4.2012, n. 5698. Nello stesso senso, tra le ultime, v. Cass., S.U., 17.7.2009, n. 16628, in Giur. it., 2010, 1133; Cass., S.U., 9.9.2010, n. 19255; Cass., 1.2.2010, n. 2281; Cass., 23.6.2010, n. 15180, in Boll. trib., 2010, n. 1247; Cass., 16.3.2011, n. 6279; Cass., 9.2.2012, n. 1905.
10 V., tra gli ulti
mi, Poli, G.G., Ultrattività delle decadenze e «indispensabilità» dei mezzi di prova in appello: ricerca di una “convivenza” possibile, in nota a Cass., 31.3.2011, n. 7441, e a Cass., 28.2.2011, n. 4478, in Giusto proc. civ., 2012, 163.
11 C. cost., 23.5.2007, n. 171, in Foro it., 2007, I, 1985, con nota di Romboli, R., Una sentenza storica: la dichiarazione di incostituzionalità di un decreto legge per evidente mancanza dei presupposti di necessità ed di urgenza; e in Fallimento, 2008, 11, con nota di Santangeli, F., Decretazione d’urgenza e norme processuali in materia fallimentare. Nel caso di specie, si discuteva della legittimità costituzionale dell’art. 7, co. 1, lett. a), d.l. 29.3.2004, n. 80, conv. in l. 28.5.2004, n. 140, con il quale si era escluso che la condanna per il peculato d’uso costituisse causa di incandidabilità alla carica di sindaco e, poi, di decadenza dalla stessa. La questione era stata sollevata dalla Corte di cassazione in riferimento alla disposizione del decreto; era stata restituita dalla Corte costituzionale dopo l’emanazione della legge di conversione; era stata sollevata nuovamente dalla Cassazione in riferimento alla legge di conversione. Con questa decisione, la Corte ha smentito il principio per il quale il difetto dei requisiti del «caso straordinario di necessità e d’urgenza», per la emanazione dei decreti legge, una volta intervenuta la conversione, si traduce in un vizio in procedendo della relativa legge, affermato con le decisioni 27.1.1995, n. 29 (in Foro it., 1996, I, 1157, con nota di G. D’Auria) e 25.11.2003, n. 341, (ivi, 2004, I, 357) ed è quindi insindacabile.