Le modifiche generali in tema di impugnazioni
La l. 23.6.2017, n. 103 ha operato la modifica, immediatamente efficace, in diversi punti, sia del sistema penale sostanziale sia di quello processuale, mentre per altri ha delegato il Governo ad adottare specifici decreti legislativi. Tra le modifiche più significative, anche sotto il profilo del numero delle norme coinvolte, vanno certamente considerate quelle di carattere processuale, finalizzate a rendere più funzionale e internamente coerente lo svolgimento del processo e a prendere atto, consacrandole normativamente, di letture operate dalla giurisprudenza nazionale e da quella europea con riguardo a singoli aspetti. Tra queste meritano particolare attenzione le modifiche riguardanti i giudizi di impugnazione, elaborate anch’esse, nell’intento di semplificarne i caratteri, mantenendo allo stesso tempo il necessario contemperamento con le garanzie difensive ed i principi del “giusto processo”.
Le modifiche in ordine alle impugnazioni, a volte di natura marginale, altre volte più significative e davvero incisive, hanno interessato sia aspetti di carattere generale sia aspetti riguardanti gli specifici mezzi di impugnazione in correlazione anche con il tipo di provvedimento oggetto del gravame. In particolare, il legislatore è intervenuto a modificare anzitutto la disposizione di carattere generale dell’art. 581 c.p.p. dedicata alle forme dell’impugnazione, ad introdurre mezzi di impugnazione inediti (come il reclamo avanti al Tribunale in composizione monocratica avverso il decreto o l’ordinanza di archiviazione nulli, in sostituzione del ricorso per cassazione, di cui al nuovo art. 410 bis c.p.p.) e a modificare specifici aspetti dei singoli mezzi di impugnazione. Nell’ambito di tale ultima ipotesi vanno allora ricordate le modifiche apportate in relazione al tipo di provvedimento impugnato (come nel caso della disciplina della sentenza di non luogo a procedere ex art. 428 c.p.p., impugnabile mediante appello e non più con ricorso per cassazione, della sentenza di applicazione della pena, la cui ricorribilità per Cassazione è stata limitata ai motivi attinenti alla espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e alla illegalità della pena o della misura di sicurezza e della rescissione del giudicato attribuita non più al giudice di legittimità ma alla Corte d’appello) o, più in generale, al singolo mezzo di impugnazione (come nel caso dell’appello, nel cui ambito si è da un lato reintrodotta la possibilità, soppressa nel 2008, che le parti concordino sui motivi di gravame con rinuncia agli altri e che il giudice possa decidere immediatamente in maniera conforme, e dall’altro si è prevista la necessità della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in caso di appello del p.m. avverso sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, o come nel caso del ricorso per cassazione, nel cui ambito si è eliminata la possibilità di ricorso effettuato personalmente dall’imputato, si è limitato il novero dei motivi di ricorribilità nel caso di sentenza assolutoria doppia conforme e si è introdotta una serie di ipotesi nella quali la Corte di cassazione può dichiarare l’inammissibilità del ricorso “senza formalità di procedura”). È evidente, al fondo di tali modifiche (si pensi soprattutto alla reintroduzione del “patteggiamento” in appello e alla limitazione dell’accesso al ricorso per cassazione nonché alla semplificazione delle modalità di trattazione), l’intento del legislatore di velocizzare i tempi di celebrazione dei processi di appello, oggi intollerabilmente lunghi.
È necessario in questa sede procedere ad esaminare dunque con maggiore attenzione le modifiche operate dalla novella con riferimento alle disposizioni generali sulle impugnazioni.
La modifica della disposizione dell’art. 571 c.p.p., relativa alla impugnazione proposta dall’imputato, laddove, nell’incipit, si è fatto salvo quanto previsto per il ricorso per cassazione dall’art. 613, co. 1, c.p.p. si spiega per ragioni di coordinamento con tale ultima disposizione che ha escluso, in deroga appunto alla generale previsione dell’art. 571 cit., la possibilità, nel segno della privilegiata considerazione della natura tecnica del mezzo, che il ricorso per cassazione sia proposto personalmente dall’imputato.
Con riguardo alla disposizione dell’art. 581 c.p.p., contenuta nel titolo I del libro IX e dedicata alla «Forma dell’impugnazione», le variazioni operate dalla novella sono state di duplice ordine: anzitutto si è allargato il novero di quanto deve essere enunciato nell’atto di impugnazione quale requisito “minimo” di ammissibilità dello stesso.
Infatti, inalterata la necessità di indicazione del provvedimento impugnato, della data del medesimo e del giudice che lo ha emesso, ad integrazione dei precedenti ulteriori requisiti, caratterizzati dai «capi o punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione» (lett. a), dalle «richieste» (lett. b), ora divenuta lett. c) e dai motivi con «l’indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta» (lett. c), ora divenuta lett. d), si è posta anche la necessaria enunciazione «delle prove delle quali si deduce l’inesistenza, l’omessa assunzione o l’omessa o erronea valutazione» (lett. b) e si è specificato che tra le «richieste» suddette, in precedenza indefinite, debbano includersi anche quelle «istruttorie».
Quanto in particolare alle due modifiche in punto di profilo probatorio, è chiaro, sotto un primo versante, che integrazioni di tal fatta, di carattere squisitamente attinente al merito, seppur incoerentemente inserite in una norma che, essendo di carattere generale, dovrebbe applicarsi a qualsivoglia mezzo di gravame, vanno evidentemente riferite al mezzo dell’appello.
Sotto un secondo versante, l’esigenza di una specifica indicazione in ordine alle prove delle quali si lamenti l’inesistenza, l’omessa assunzione o l’omessa o erronea valutazione si raccorda alla modifica dell’art. 546, co. 1, lett. e), c.p.p. in tema di requisiti della sentenza laddove, in luogo della generica indicazione delle prove poste a base della decisione, si è invece richiesta, in maniera più penetrante, «l’indicazione dei risultati acquisiti e dei criteri di valutazione della prova adottati» restando ferma la necessità di indicazione delle ragioni di ritenuta non attendibilità delle prove contrarie, con riguardo in particolare ad imputazione, punibilità, pena, misura di sicurezza, responsabilità civile e vicende processuali. La esigenza di specificità delle doglianze in tema di prove rappresenta, dunque, il necessario contrappeso rispetto al più puntuale onere motivazionale richiesto al giudice della sentenza di talché l’impugnante è tenuto ad enunciare in modo specifico le proprie doglianze relative ai dati conoscitivi asseritamente travisati, ignorati, o inesistenti.
Ispirata ad una esigenza di completezza formale sembrerebbe poi la modifica che ha inteso far rientrare nelle «richieste» oggetto della enunciazione della impugnazione anche le richieste «istruttorie» (sia con riferimento, evidentemente, all’assunzione di prove nuove che alla riassunzione di prove già acquisite in precedenza) posto che difficilmente si poteva ritenere che così, in precedenza, non fosse a fronte della natura, di per sé onnicomprensiva, della dizione da sempre utilizzata.
In secondo luogo, a seguito della “riscrittura” dell’art. 581 c.p.p., quella che, in precedenza, era una semplice enunciazione (dei capi o dei punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione, delle richieste e dei motivi), è divenuta, oggi, una enunciazione “specifica”.
Ora, ove si voglia attribuire un senso alla variazione intervenuta in tal senso (l’alternativa sarebbe quella di ritenere tale aggiunta non realmente innovativa dello status quo ante, se non altro perché, difficilmente, una enunciazione che già prima la norma riferiva ad aspetti di per se stessi già strettamente ritagliati, poteva essere generica o aspecifica), l’unica strada obbligata è quella di ritenere, anche in accordo con la più recente giurisprudenza, che in tal modo si sia preteso dall’impugnante l’indispensabile operazione di confronto con i passaggi della sentenza impugnata sui vari profili lamentati in gravame, al tempo stesso relegandosi nell’area della inammissibilità delle doglianze semplicemente tese a richiedere al giudice dell’appello un rinnovato giudizio sostitutivo di quello di primo grado, o, ancor peggio, pretestuose o dilatorie.
Quanto alla indicazione del provvedimento impugnato, della data dello stesso e del giudice che lo ha emesso, è invece rimasta inalterata l’originaria formulazione sì che continua a non essere richiesta una “specifica” indicazione di tali elementi; va anzi aggiunto che il riferimento, oggi, della previsione dell’inammissibilità alla sola mancata enunciazione dei requisiti contenuti nelle lettere da a) a d) potrebbe essere foriero di equivoci se è vero che, ove non fosse per la previsione dell’art. 591 cit. che qualifica come inammissibile l’impugnazione che non osservi, tra le altre, l’intera disposizione dell’art.581 cit., potrebbe ritenersi che l’omessa indicazione del provvedimento impugnato, della data del medesimo e del giudice che lo ha emesso, collocate topograficamente al di fuori delle lettere appena ricordate, non sia neppure sanzionata. In ogni caso, la non necessità di una specifica indicazione consente plausibilmente di ritenere la permanente validità dell’indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in ragione del principio generale del favor impugnationis quale chiave di lettura degli artt. 581 e 591 citt.1, l’omessa od errata indicazione del provvedimento impugnato, della data del medesimo e del giudice che lo ha emesso non può avere rilievo di per sé, ma solo in quanto determinante incertezza nell’individuazione dell’atto2.
Inoltre si è voluto inserire nella norma l’affermazione che l’omissione del compito della specifica enunciazione dei requisiti di cui alle lett. da a) a d) dell’art. 581 cit. comporta l’inammissibilità dell’impugnazione, in tal modo però reiterandosi, verosimilmente nel segno di un più accentuato monito a che il giudice presti sul punto una particolare attenzione, quanto già disposto dall’art. 591, co. 1, lett. c), cit., che, appunto, contemplava e contempla (con previsione rimasta infatti inalterata pur a fronte della sostanziale duplicazione che essa, ora, viene ormai a rappresentare rispetto all’art. 581) l’inammissibilità ove non osservata, tra le altre, la disposizione dell’art. 581 cit.3
La legge ha inoltre delegato, come già anticipato, il Governo a modificare ulteriormente la disciplina delle impugnazioni secondo specifiche previsioni segnatamente volte a stabilire:
a) la ricorribilità per Cassazione solo per violazione di legge delle sentenze emesse in grado d’appello nei procedimenti per reati di competenza del giudice di pace;
b) l’appellabilità da parte del procuratore generale presso la Corte di appello soltanto nei casi di avocazione e di acquiescenza del pubblico ministero presso il giudice di primo grado;
c) l’appellabilità da parte del pubblico ministero in parte ricalcata sul modello, ritenuto legittimo dalla Corte costituzionale4, già operante per il rito abbreviato (ovverossia l’appellabilità delle sentenze di proscioglimento, nonché delle sentenze di condanna soltanto quando le stesse abbiano modificato il titolo del reato) ed in parte condizionata ad aspetti inediti (esclusione da parte della sentenza della sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o irrogazione di una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato, tale ipotesi sembrando dovere rappresentare l’erronea individuazione della pena da parte del giudice);
d) l’appellabilità da parte dell’imputato delle sentenze di condanna, nonché delle sentenze di proscioglimento emesse al termine del dibattimento, salvo ove pronunciate con le formule: «il fatto non sussiste» o «l’imputato non ha commesso il fatto»;
e) la non appellabilità, sia per il pubblico ministero, sia per l’imputato, delle sentenze di condanna alla sola pena dell’ammenda e delle sentenze di proscioglimento o di non luogo a procedere relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con pena alternativa;
f) la titolarità, da assoggettare peraltro a limiti di proponibilità da stabilire, dell’appello incidentale in capo all’imputato.
Tutte tali previsioni si pongono anch’esse nel segno della complessiva riduzione dei poteri di impugnazione delle parti ove, con riguardo in particolare alla posizione dell’imputato, si possa ritenere che ciò sostanzialmente non venga ad incidere sul “diritto”, non garantito a livello costituzionale ma penetrato intimamente nel sistema processuale, ad una rivalutazione nel merito della decisione del primo giudice al fine di ridurre, nella maggior misura possibile, i casi di errore giudiziario; quanto poi, segnatamente, alla riduzione dell’area di appellabilità da parte dell’imputato delle sentenze di condanna, la previsione di delega si presenta in realtà come “doppione” di quanto già oggi disposto dall’art. 593, co. 3, c.p.p. (secondo cui, infatti, sono inappellabili le sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda) mentre, con riguardo alle sentenze di proscioglimento o di non luogo a procedere relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con pena alternativa, la previsione mira a ristabilire negli stessi termini la disposizione dell’art. 593, co. 3, cit. nella versione a suo tempo introdotta dall’art. 13 l. 26.3.2001, n. 128 e poi, tuttavia, superata a seguito della modifica intervenuta ad opera della l. 2.1.2006, n. 46 e dalla sentenza di illegittimità C. cost., 6.2.2007, n. 26, laddove escludeva che anche il pubblico ministero potesse appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le sole ipotesi previste dall’art. 603, co. 2, c.p.p. ove la nuova prova fosse decisiva5. Quanto poi alla devoluzione al legislatore delegato della previsione di modifica in tema di appello incidentale, l’attribuzione della titolarità dell’appello incidentale al solo imputato, sia pure con limiti da stabilire, appare di per sé evidentemente comportare la soppressione dell’analogo potere oggi assegnato anche al pubblico ministero: una conseguenza, questa, forse collegata all’originario intendimento, poi abbandonato, di soppressione del divieto di reformatio in peius, che appare, però, di fatto, andare in direzione contraria alla volontà, alla base della novella, di scoraggiare gli appelli pretestuosi e dilatori6.
Le modifiche operate sulle norme generali, in particolare dovendosi soffermare l’attenzione sull’art. 581 cit., rispondono anch’esse, in coerenza con il complessivo disegno avuto di mira dalla novella, all’evidente intento del legislatore di disincentivare, come detto, le impugnazioni dilatorie e dunque, in definitiva, di selezionare e ridurre il numero complessivo dei gravami, in particolare quelli di merito; il fatto che, infatti, alcune delle modifiche relative alla disposizione appena ricordata abbiano riguardato in particolare il profilo probatorio del mezzo di gravame, e, dunque, in tal modo, appunto, un peculiare aspetto di merito, è significativo del fatto che il vero obiettivo della nuova norma è, a dispetto del carattere apparentemente generale della disposizione, il giudizio di appello.
Vi è però da chiedersi se le misure adottate siano effettivamente innovative sul punto e dunque efficaci a perseguire il risultato: in particolare, il fatto che ora, a differenza del pregresso, come già visto sopra, l’enunciazione del gravame debba essere, quanto ai vari profili considerati, “specifica”, cambia davvero le cose? Da un lato, nessun reale mutamento parrebbe doversi riscontrare anzitutto con riguardo alle lettere da a) a c) ove la caratterizzazione di specificità pare avere davvero poco senso con riguardo ad aspetti (i capi e i punti della decisione, le prove e le richieste) la cui indicazione non può che essere già dotata, di per sé, “in rerum natura” di necessaria specificità (per così dire, per definizione) senza che la precisazione normativa possa, dunque, aggiungere nulla di nuovo rispetto al passato; dall’altro vi è però da chiedersi se la nuova previsione renda ancora praticabile l’indirizzo che, con riferimento alle richieste contenute nell’impugnazione, ha sino ad oggi affermato che le stesse possono anche desumersi implicitamente dai motivi quando da questi emergano in modo inequivoco7 e precisato che la valutazione giudiziale può supplire ad un’enunciazione erronea o insufficiente delle richieste, ma non alla sua assoluta mancanza8.
Diversa, quanto ad effettivo mutamento di rotta, parrebbe forse, quanto meno negli intendimenti del legislatore, dovere essere la conclusione con riguardo all’aspetto dei motivi di cui oggi, appunto, si contempla la necessaria specificità. Sul punto non può farsi a meno di ricordare le recente elaborazione giurisprudenziale culminata nella pronuncia delle Sezioni Unite con cui si è in particolare chiarito, che in tanto i motivi devono ritenersi specifici in quanto risultino esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della decisione impugnata, fermo restando che tale onere di specificità, a carico dell’impugnante, è direttamente proporzionale alla specificità con cui le predette ragioni siano state esposte nel provvedimento impugnato9; ciò che si ricollega ai moniti, sempre delle sezioni unite della Corte, laddove si sono richiamate le «fondamentali esigenze di funzionalità e di efficienza del processo, che devono garantire – nel rispetto delle regole normativamente previste e in tempi ragionevoli – l’effettivo esercizio della giurisdizione e che non possono soccombere di fronte ad un uso non corretto, spesso strumentale e pretestuoso, dell’impugnazione»10.
Sicché, in definitiva, su tale linea, parrebbe avere ritenuto di muoversi il legislatore della novella, tanto che, secondo le prime letture, l’appellante non potrebbe più limitarsi, come in precedenza, ad illustrare le ragioni per le quali ritenga errato l’esito del giudizio ma sarebbe tenuto ad individuare l’errore del ragionamento che quell’esito giustifica, non bastando, dunque, la prospettazione argomentata della soluzione alternativa ma occorrendo l’espressa, «puntuale confutazione» in fatto e in diritto delle ragioni espresse nella sentenza appellata, alle quali gli argomenti spesi in un appello ammissibile devono essere «strettamente collegati»11.
È tuttavia da dubitare che la mera modifica intervenuta nel senso di richiedere la “specifica enunciazione” dei motivi possa davvero equivalere, sul piano normativo, ove, naturalmente, si ritenesse che un tale onere non fosse già evincibile dal testo precedente come affermato dalle Sezioni Unite, ad imporre all’impugnante la critica specifica delle ragioni della decisione. Non si può invece ritenere che la modifica in oggetto finisca per travolgere il confine tra un appello inammissibile perché “aspecifico” ed un appello “manifestamente infondato” e, per ciò solo, come chiarito sempre dalle Sezioni Unite, non inammissibile giacché la valutazione della manifesta infondatezza dei motivi di appello continua a non essere espressamente menzionata quale causa di inammissibilità dell’impugnazione12. Né si può ritenere che l’onere di specificità imposto dalla novella, qualunque sia l’oggetto dell’enunciazione dell’impugnazione, possa significare che la riproposizione di questioni già esaminate e disattese in primo grado possa essere di per sé causa di inammissibilità in particolare dell’appello. Sul punto sempre le sezioni unite della Corte di cassazione hanno chiarito che il giudizio di appello ha infatti per oggetto la rivisitazione integrale del punto di sentenza oggetto di doglianza, con i medesimi poteri del primo giudice ed anche a prescindere dalle ragioni dedotte nel relativo motivo. E ciò a differenza del giudizio di cassazione che può avere per oggetto i soli vizi di mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione, tassativamente indicati nella lett. e) dell’art. 606 c.p.p.; con la conseguenza che il motivo di ricorso non può, per definizione, costituire una mera riproposizione del motivo di appello, perché deve avere come punto di riferimento non il fatto in sé, ma il costrutto logico-argomentativo della sentenza d’appello che ha valutato il fatto13.
Resta in definitiva l’impressione, difficilmente contrastabile, che le modifiche operate non riescano, al di là dei pur lodevoli intenti del legislatore, ad incidere in maniera davvero significativa sul sistema processuale delle impugnazioni nel suo complesso.
La deflazione in particolare del carico delle impugnazioni di merito pare in definitiva essere stata affidata ad interventi non solo di carattere marginale ma addirittura neutralizzati, pur nella adeguatezza sistematica della linea seguita, dalla attribuzione alle Corti d’appello della impugnazione avverso le sentenze di non luogo a procedere e del nuovo strumento impugnatorio della rescissione del giudicato. Più efficace, evidentemente, nel senso della semplificazione dei tempi processuali, la reintroduzione del cosiddetto “patteggiamento” in appello di cui all’art. 599 bis c.p.p.
A ciò si aggiunga non essere chiara la ragione per la quale si sia, in quasi tutti i casi oggetto delle previsioni di delega, già puntualmente circoscritti dalle singole lettere del comma 84 dell’art.1 della legge, ritenuto di affidare al Governo il compito di legiferare anziché procedere direttamente al varo delle relative disposizioni.
1 Ex multis, Cass. pen., 26.2.2015, n. 13832, in CED rv. n. 262935; Cass. pen., S.U., 12.10.1993, n. 10296, in CED rv. n. 195000.
2 Ex multis, Cass. pen., 17.5.2013, n. 23932 in CED rv. n. 255813 .
3 Sul valore “pedagogico” della espressa menzione dell’inammissibilità, Marandola A., A proposito della specificità dei motivi d’appello, Parola alla Difesa, 2016, n.1, p. 18.
4 C. cost., 23.7.1991, n. 363.
5 Cass. pen., 11.5.2017, n. 27954, inedita; Cass. pen., 18.4.2007, n.19037, in CED rv. n. 238083-85.
6 Cfr. Relazione al d.d.l. n. 2798 Camera dei deputati, p. 9, secondo cui «nella prospettiva della riduzione dell’appellabilità senza sacrificio per le ragioni della difesa, si prescrive che l’appello incidentale sia rimesso soltanto all’imputato e quindi acquisti una spiccata funzione difensiva e sia limitato nella sua estensione, in particolare ai casi in cui non abbia legittimazione all’appello principale».
7 Cass. pen., 6.5.2003, n. 23412, in CED rv. n. 254932; in senso analogo, Cass. pen., 18.5.2010, n. 29235, in CED rv. n. 248205 e Cass. pen., 6.2.2004, n. 7742, in CED rv. n. 228978.
8 Cass. pen., 18.9.2003, n. 42764, in CED rv. n. 226934.
9 Cass. pen., S.U., 27.10.2016, n. 8825, in CED rv. n. 268822-23.
10 Cass. pen., S.U., 17.12.2015, n. 12602, in CED rv. n. 266818-21.
11 Ceresa Gastaldo, M., La riforma dell’appello, tra malinteso garantismo e spinte deflattive, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2017, fasc. 3.
12 Cass. pen., S.U., n. 8825/2016.
13 Cass. pen., S.U., n. 8825/2016.