Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Lo scetticismo moderno ha caratteri diversi da quello antico, anche se trae impulso dalla riscoperta degli scritti di Sesto Empirico, avvenuta alla fine del Cinquecento. La sua caratteristica principale è una marcata attenzione per i temi epistemologici, mentre la dimensione etica diventa via via sempre meno comprensibile ai moderni. Mentre i due aspetti sono ancora bilanciati in Montaigne, con Descartes il primo si impone decisamente e assume una portata più vasta, come preliminare alla fondazione di una nuova metafisica. Dopo Descartes, autori come Pierre Bayle trasmettono al Settecento un’immagine dello scetticismo principalmente come metodo nemico dello “spirito di sistema”, approccio critico alla realtà e apertura alla tolleranza.
L’introduzione del dubbio nella modernità: Montaigne e Sanches
Durante il Cinquecento, nel clima infuocato delle dispute innescate dalla Riforma luterana, l’accusa di favorire lo scetticismo in materia di religione rimbalza alternativamente dai cattolici ai protestanti. È in questo contesto che maturano le prime edizioni a stampa (in versione latina) delle opere di Sesto Empirico, l’autore ellenistico che ci ha tramandato l’insegnamento del capostipite della scuola scettica, Pirrone di Elide (365 ca.-275 ca. a.C.), vissuto circa cinque secoli prima. Ultime tra le opere della classicità risorte grazie alla cura del lavoro filologico degli umanisti, le Pyrrhoniae Hypotyposes di Sesto Empirico vengono pubblicate in latino nel 1562, a opera dello studioso ed editore calvinista Henri Estienne, mentre gli Adversus Mathematicos dello stesso autore sono editi nel 1569, a cura del cattolico Gentian Hervet; si deve invece attendere fino al 1621 per avere l’edizione princeps dei testi originali in greco. Grazie agli scritti di Cicerone e di Agostino si era invece mantenuta ininterrotta la conoscenza dell’altro filone scettico, quello neo-accademico rappresentato da Arcesilao e Carneade.
Dopo la loro pubblicazione, le opere di Sesto Empirico circolano non solo tra i filologi e i filosofi di professione, ma anche tra gli uomini di cultura, come Michel de Montaigne, che possiede una copia dell’edizione 1562 delle Hypotyposes; da essa trae molte delle parole chiave (phonai, alla lettera “frasi”) dello scetticismo pirroniano che si ritrovano sia nel testo della Apologie de Raimond Sebond (il più lungo degli Essais II, xii) sia scolpite sulle travi della biblioteca nella torre ove l’autore ama rifugiarsi per leggere, meditare e scrivere. L’importanza di Michel de Montaigne come diffusore del “nuovo” scetticismo può essere difficilmente sottovalutata, sia per l’enorme diffusione europea degli Essais sia perché quest’opera dal contenuto vario si rivolge a un pubblico ampio. Scritti in francese, gli Essais vengono rapidamente tradotti nelle principali lingue europee e anche in inglese a opera di John Florio (1603), amico di Shakespeare. Oltre a distinguere chiaramente i veri “scettici” (cioè i pirroniani che si fermano alla sospensione del giudizio o epoché) dai “dogmatici” e dai dogmatici negativi (cioè i neo-accademici, che affermano di non conoscere nulla) l’autore degli Essais (prima edizione dei primi due libri 1580, seconda edizione 1582, terza edizione in tre libri 1588, edizione postuma su una copia dell’esemplare di Bordeaux 1595) rielabora e divulga nozioni fondamentali come quelle di “fenomeno”, “criterio”, “epoché”, equipollenza (isostheneia) dei fenomeni, “atarassia” (imperturbabilità) e “apatia” (assenza di passioni), circolo vizioso o “diallele”, “regresso all’infinito”. Nella sua opera lo scetticismo diviene l’oggetto di una vera e propria riappropriazione filosofica, che lo rende adatto alle esigenze dei moderni.
Il primo importante apporto della nuova corrente scettica riguarda la nozione di “apparenza”. Montaigne non usa mai il termine “fenomeno”, che non è ancora in uso nelle lingue moderne, ma al suo posto si serve del termine “apparenza” e lo collega strettamente alla nozione di “fantasia”, intesa come rappresentazione sensibile. Entrambe queste scelte, che non sono solo lessicali, condizionano profondamente la sua comprensione dello scetticismo pirroniano, in quanto tendono a farne un fenomenismo per il quale: a) conosciamo della realtà soltanto l’apparenza, e principalmente l’apparenza sensibile; b) scena primaria dello scetticismo diventa la dicotomia tra apparenza e realtà, conoscibile la prima, inconoscibile la seconda che comprende le essenze e le sostanze del tradizionale approccio metafisico.
Che questa dicotomia implichi il permanere di un residuo dogmatico (l’affermazione di una realtà in sé) e come tale non sia fedele allo spirito originario del pirronismo “radicale”, è sicuramente vero, ma ciò non toglie che proprio in questa versione “fenomenistica” lo scetticismo antico vesta panni moderni e abbia fatto la sua entrata nella cultura europea. Montaigne può così interrompere il nesso tra la realtà e le apparenze, confinando tutte le nostre conoscenze entro il recinto di queste ultime. È in questi termini che egli formula il dilemma del ritratto di Socrate: come possiamo essere certi che il ritratto sia un’immagine di Socrate quando abbiamo accesso unicamente alle sue rappresentazioni, cioè alle apparenze (fenomeni e fantasie) e non al modello originale? Inoltre, è proprio questa la situazione che innesca la ricerca del criterio: poiché apparenza e realtà sono ormai separate, diventa necessario il ricorso a un “terzo” (il criterio) che garantisca la loro conformità, e questo a sua volta richiederà un nuovo criterio, in una sorta di regresso all’infinito. Il “diallele” o circolo vizioso, così come l’arresto dogmatico a una pretesa evidenza soggettiva saranno soltanto cattive maniere di sfuggire all’aporia del criterio e del regresso. Entrambi questi “modi” del ragionamento fanno della conoscenza una ricerca interminabile e priva di fondamenti sicuri.
Un altro aspetto per il quale la mediazione di Montaigne è determinante per la cultura moderna è la concezione dello scetticismo come filosofia del dubbio. Mentre nella tradizione greca l’atarassia e la pace della mente scaturivano non dalla conoscenza e dal giudizio sulle cose, ma dalla sospensione dell’assenso, cioè dall’epoché, l’impostazione di Montaigne finisce al contrario per fare del dubbio e non dell’epoché il culmine della ricerca scettica, con tutte le conseguenze che questo comporta, giacché il dubbio è uno stato di inquietudine e di disagio, non di tranquillità e liberazione dai turbamenti. Assistiamo così a una vera e propria introduzione del dubbio nella modernità, per cui scetticismo e dubbio diventeranno coestensivi e sinonimi, mentre non lo sono affatto nella tradizione greca. Quanto sia pervasiva la nuova sinonimia stabilita tra scepsi e dubbio, lo si può vedere in un luogo cruciale dell’Apologie. Infatti, quando si tratta di riassumere in breve le “parole d’ordine” dello scetticismo, Montaigne le riduce drasticamente a due sole frasi: da una parte la formula dell’ignoranza socratica (“Ignoro”) e dall’altra quella del dubbio (“Io dubito”).
L’interpretazione di Montaigne è importante anche per la rivalutazione dello scetticismo dal punto di vista etico. Mentre tutta una tradizione antica e moderna (a cominciare da Diogene Laerzio e Antigono di Caristo) per giungere sino a Descartes e oltre insiste sulla “invivibilità” dello scetticismo o sulla “impossibilità di agire” (apraxia) a cui condurrebbe, Montaigne indica invece proprio negli scettici “il grado più elevato della natura umana”. In particolare, mentre lo scettico neo-accademico è costretto ad altalenare nei suoi giudizi a seconda dei diversi gradi di probabilità che gli si presentano, il pirroniano si mantiene al contrario “tranquillo, diritto, inflessibile, senza oscillazione né turbamento”. In altri termini raggiunge lo scopo dell’“atarassia”, “che è una condizione di vita tranquilla, quieta, priva delle agitazioni che ci vengono dall’opinione e dalla conoscenza”. Per la vita ordinaria lo scettico pirroniano e Montaigne con lui si attengono ai quattro criteri pratici di cui parlaSesto Empirico: la guida della natura, l’impulso necessario delle affezioni, la tradizione delle leggi e delle consuetudini, l’insegnamento delle arti. Queste guide bastano da sole ad assicurare una condotta di vita normale, senza che ci sia bisogno di aderire a qualche dottrina dogmatica sul bene o sulla virtù e proprio per questo l’autore degli Essais reagisce polemicamente ai racconti di Diogene Laerzio che dipingono Pirrone “stupido e inerte, con uno stile di vita selvatico e insocievole”. Al contrario Montaigne indica nel saggio di Elide un modello esemplare di “uomo che vive, discorre e ragiona, godendo di tutti i piaceri e le comodità naturali”.
Si deve dire però che dopo Montaigne il pirronismo sarà sempre meno interpretato come un’arte di vita e perderà il connotato etico che lo caratterizza sin dalle origini; ciò dipenderà dal fatto che il problema epistemologico, cioè il problema della validità della conoscenza, prenderà il sopravvento, come vedremo con Descartes. L’Apologie de Raimond Sebond è forse l’ultimo testo moderno nel quale si mantiene un certo equilibrio fra questi due aspetti, quello etico e quello conoscitivo, mentre nel Seicento diventa un luogo comune pensare che lo scetticismo integrale possa essere al limite pensato in sede teorica, ma non vissuto come regola di comportamento.
Il pirronismo, peraltro, non è l’unica opzione consentita agli scettici del Rinascimento. Benché sia trascurato dai commentatori che privilegiano senz’altro Montaigne, Francisco Sanches (1551-1623) rappresenta l’altra via, quella più influenzata dall’acatalessia (dichiarazione di inconoscibilità) neo-accademica, come già il titolo della sua opera Quod nihil scitur (1581) indica.
In realtà, l’opera di Sanches affonda le sue radici nei dibattiti della tarda scolastica sulla conoscenza riflessiva dell’anima. Da questi dibattiti il medico di origine portoghese aveva tratto la concezione di stati interni dell’anima o della mente per i quali non si dà la distinzione elusiva tra rappresentazione e realtà, o tra realtà e apparenze, distinzione sulla quale fa leva il dubbio scettico per innescare la ricerca interminabile del criterio.
Se si eccettuano gli accenti decisamente tragici adottati da Sanches, per esempio quando evoca l’esperienza drammatica del labirinto e l’incontro esiziale con il Minotauro per descrivere la disperazione della conoscenza, si potrebbe dire che le considerazioni sulla “varietà” delle cose, sulla “moltitudine” e la “confusione” delle opinioni (Ubi multitudo, ibi confusio) si situano direttamente sullo sfondo del successivo Discorso del metodo, ove Descartes descriverà il suo itinerario faticoso attraverso “la diversità delle nostre opinioni”. Allo stesso modo, il senso di fallibilità che in Sanches colpisce i sensi e di lì si propaga alla mente, producendo una condizione di incertezza totale, nella forma di una vera e propria decezione (Quid faciet mens sensu decepta? Decipi magis?), evoca la necessità di liberare la mente da tutti i suoi pregiudizi: tema questo su cui insisterà anche il Discorso del metodo. In definitiva, il procedimento scettico di Sanches finisce per fornire la riprova a contrario della bontà di una prospettiva decisamente antiempiristica, visti i risultati disperatamente deludenti della conoscenza sensibile. Nella sua opera è forte anche la polemica contro Aristotele. Anche Aristotele, si legge nel Quod nihil scitur, è uomo come noi e, benché si presenti come “uno dei più acuti scrutatori della natura”, talvolta si inganna e ignora molte cose. In generale nella “repubblica della Verità” è meglio dubitare, seguire l’esperienza e la ragione, che iurare in verba magistri. Si comprende dunque quanto grande sia stata l’influenza di Sanches in un’epoca in cui l’obiettivo primario dello scetticismo era quello di liberarsi del metodo aristotelico e del concetto di “scienza” come “conoscenza perfetta della cosa” che vi era contenuto.
Il saggio scettico di Pierre Charron e la nascita della soggettività moderna
All’inizio del Seicento, uno degli esponenti più noti dello scetticismo (combinato con elementi stoici) è Pierre Charron (1541-1603). Questi, con il suo trattato La sagesse (1601, 1604 seconda edizione modificata), sa dare forma sistematica al pensiero di Montaigne, producendo quel manuale di saggezza che è già implicito nei Saggi e che necessita tuttavia di essere esplicitato e riordinato per imporsi come guida per la vita. Il successo dell’operazione è tale che l’opera di Charron diviene un punto di riferimento per tutta la nuova cultura dell’honnête homme, caratteristica dell’“età classica” in Francia.
Sarebbe tuttavia riduttivo considerare la sagesse come una semplice riproposizione in forma più continua della riflessione troppo personale e rapsodica di Montaigne. Infatti, proprio sul terreno dello scetticismo il lavoro di Charron rivela un volto nuovo; in lui la rivalutazione stoica dell’autonomia della virtù si accompagna a un’esplicita polemica contro la superstizione e contro la subordinazione della morale alla fede religiosa, mentre l’aspirazione a una “prudenza” (preud’homie) tutta mondana si colora di suggestioni epicuree e di richiami a una spregiudicata valutazione “politica”. In realtà, è la figura stessa del saggio ad assumere dei connotati originali. In particolare, nell’opera di Charron la figura dello scettico assume i tratti di un personaggio attivo e protagonista, tratti che mancano sia nell’archetipo ellenistico (Sesto Empirico) sia nei Saggi di Montaigne, almeno come esplicita formulazione teorica. Per i greci antichi l’epoché è un pathos (passività) che accade al ricercatore al termine dell’investigazione, in altri termini il prodotto di una sequenza causale in larga misura indipendente dalla volontà del filosofo e scandita nei suoi diversi momenti: indagine, opposizione dei punti di vista in conflitto, equipollenza dei medesimi, sospensione del giudizio e infine atarassia. Per Montaigne lo scacco, che nella sospensione scettica l’intelletto e i sensi infliggono a sé medesimi, si colorava di un significato negativo, dimostrava che la ragione stessa, ben lungi dal poter svolgere una funzione di controllo, era in realtà “uno strumento di piombo e di cera, che si può allungare, piegare ed accomodare per ogni verso e a qualsiasi misura”. Sulla “passività” dell’epoché degli antichi il moderno viene così proiettando anche l’ombra di una svalutazione che investe in modo diretto l’opera della ragione.
Al contrario, Charron sottolinea innanzitutto il carattere “positivo” della ragione scettica e le attribuisce una “giurisdizione” piena e indiscussa, sia pure nei limiti della sfera interiore del saggio che si mantiene separato dalla sfera pubblica delle leggi, delle credenze, delle opinioni. Nell’ambito mondano proprio della “saggezza umana” la ragione conserva il diritto più completo a “giudicare di tutto”, a “trattenere l’assenso” in presenza di motivazioni insufficienti, e in definitiva contribuisce a salvaguardare l’“universalità di spirito” che è tipica dell’uomo dotato di “forza” di spirito. Il saggio scettico non si lascia circoscrivere nei confini della “legge municipale” tipica dei sistemi di credenze chiusi, siano essi quelli elementari del villaggio o quelli più raffinati delle nazioni, delle scuole filosofiche, delle chiese. Charron attribuisce poi al dubbio un significato attivo e volontario. Piuttosto che come un imponderabile punto di equilibrio tra opinioni divergenti, nella tradizione dell’isostheneia (per cui l’assenso rimane, come l’ago della bilancia, immobile fra due pesi, nessuno dei quali riesce a preponderare), la sospensione del giudizio si configura nelle pagine charroniane come un moto energico e volontario di liberazione dal complesso delle credenze. Questa iniziativa richiede una disciplina del giudizio e un esercizio della volontà praticati in modo consapevole e riflesso. Mentre lo scettico antico è, per così dire, messo in dubbio dal contrasto (diaphonia) dei fenomeni tra loro discordanti, lo scettico moderno è, dopo Charron, colui che mette attivamente in dubbio tutte le credenze che non siano fornite di motivazione razionale o che siano giustificate unicamente dalla consuetudine, dall’autorità, dalla tradizione.
Si può dunque affermare che la filosofia di Charron è uno dei luoghi di nascita della soggettività moderna. Con la separazione di interno ed esterno (consegnato quest’ultimo a un conformismo solo di facciata), con il riconoscimento del carattere attivo del dubbio, con l’attribuzione al saggio di un ruolo “critico” e “universale” di giudizio, la scepsi charroniana contribuisce enormemente alla nascita dell’intellettuale moderno, nella forma che oggi conosciamo, cioè come figura indipendente che afferma il suo diritto di giudicare con la ragione delle opinioni ricevute e delle convenzioni in vigore.
Sarpi, Campanella e l’incontro mancato con il pensiero europeo
Avremmo una ben scarsa documentazione sulla penetrazione delle idee scettiche in Italia tra l’epoca della Controriforma e la fine del Rinascimento, se non disponessimo dell’opera di due intellettuali eccezionali, che in modi diversi dialogano con lo scetticismo: Paolo Sarpi (1552-1623) e Tommaso Campanella (1568-1639). Sia negli scritti filosofici sia nei Pensieri medico-morali lasciati inediti e composti quasi certamente dopo il 1601, Sarpi si confronta con Montaigne e Charron per riflettere innanzitutto sull’irriducibilità delle leggi positive ad alcun principio universale di giustizia. Per Sarpi l’anima è un corpo sottile che muove il corpo e ne è mossa, ricevendo le impressioni dei corpi trasmessi dai sensi. Quando il discorso interno, attivo, forma false idee generali, queste costituiscono tante opinioni errate, idee illusorie, credenze false, tanto regimi personali scomposti e dolorosi. L’arte del ben vivere è dunque costituita per Sarpi da una combinazione della diffidenza scettica con la saggezza epicurea: “non aborrire nessuna opinione, perché potrai entrare in quella, né isposarne alcuna, perché ti ripudierà, e nella ripudiata potrai tornarci. La peste dell’uomo è l’opinione della scienza. Non seguir opinione che porti titolo di verità, ma di voluttà o utilità”. Per quanto riguarda in particolare le credenze etiche e religiose, Sarpi recepisce in pieno la scissione di interno ed esterno e “l’etica della maschera” che era stata teorizzata sia dai suoi amati autori francesi e che ritroveremo più tardi nei libertini del Seicento: “Al di dentro vivi e giudica secondo la ragione, al di fuori secondo la comune opinione vivi e parla”.
Nel 1593 Sarpi conosce Tommaso Campanella a Padova, nel circolo dei fratelli Pinelli, così come al ridotto Morosini frequenta con ogni probabilità Giordano Bruno. Ed è soprattutto a Campanella che si deve la più vasta indagine sulle tematiche dello scetticismo anteriore anche al Discours de la Méthode di Descartes. Si tratta del primo libro della Metaphysica, libro riscritto da Campanella più volte nel carcere dell’Inquisizione: una prima volta nel 1602, poi nel 1611, quindi nel 1624, finché l’opera può finalmente essere pubblicata nel 1638 a Parigi. Nella sostanza, il testo di Campanella contiene un’analisi critica della teoria aristotelica della conoscenza, con la dimostrazione che essa conduce inevitabilmente a un impasse scettico, in quanto si basa su un’idea del sapere scientifico del tutto inattingibile da parte dell’uomo. All’inizio del libro, un’ampia trattazione è dedicata al riepilogo dei dubbi (dubitationes) degli scettici, per l’esattezza quattordici. “Nessun senso – afferma Campanella – percepisce le cose come sono, ma nel modo in cui viene affetto”; inoltre, poiché queste sensazioni “falsate e adulterate” sono basilari per tutto l’edificio della conoscenza, ciascuno finirebbe per “avere una sua propria filosofia a seconda della percezione dei suoi sensi”. Particolare interesse hanno le pagine in cui Campanella si sofferma su alcuni topoi che, già presenti in Sesto e in Cicerone, avranno tuttavia nuova fortuna grazie alla ripresa cartesiana: il dubbio sull’indistinguibilità del sogno e della veglia, il confronto tra saggezza e follia, a cui si aggiunge, tratto da Euripide, quello più drammatico tra la vita e la morte. Amplificati al massimo, questi temi assumono però nella Metaphysica un significato particolare, derivando dal principio che il sapere è passione (passio). Infatti, secondo gli scettici, avverrebbe nel conoscere una vera e propria trasmutazione del soggetto nell’oggetto, al limite dell’alienazione. Con abile passaggio di questa “alienazione” lo scettico sottolinea la prossimità con la “follia”, proiettando così sul sapere umano l’ombra di un dubbio radicale. Non a caso, al tema dell’umano “delirio” torneranno ancora le dubitationes XI, XII e XIII: “Il fatto che dormiamo, deliriamo e siamo nella regione della morte” si evince da molti segni, innanzitutto dalla constatazione dei “deliramenti” filosofici, ma anche dai contrasti non meno folli che si registrano sulle dottrine dei “ princìpi”, ivi compresi i fondamenti della morale e della religione.
Le pagine dedicate da Campanella a quest’ultimo tema, particolarmente insidioso, offrono una bella sintesi degli argomenti prodotti dallo scetticismo etico, mentre le colorite annotazioni sulla disparità tra religioni e sulle loro strane credenze sembrano riecheggiare celebri argomenti dei libertini o dei primi deisti, che proprio dai conflitti teologici avevano tratto una lezione di scetticismo disincantato. Per citare gli interrogativi messi in campo da Campanella: “Tutti credono di salvarsi con la propria religione e che tutto il mondo sarà condannato, ciò che appare indegno di un Dio. Quindi o a Dio piacciono tutte le religioni, o non si cura di queste cose. Anche in questo il delirio spiega le vele”».
Secondo Ernst Cassirer, che riconosce nell’opera di Campanella “una teoria completa dello scetticismo”, questo sarebbe il risultato del “conflitto” tra la gnoseologia sensistica di impronta telesiana e la metafisica platonico-agostiniana (incentrata sulla dottrina delle idee, delle primalità e sulla certezza dell’autocoscienza) che la integra e la corregge. In realtà, l’ultima grande opera del Rinascimento italiano avrebbe potuto aprire vie nuove anche per la riflessione sullo scetticismo, se non avesse avuto una singolare sfortuna. Dapprima è l’oggetto di un plagio mai riconosciuto, quando il grande erudito e scienziato francese, il frate Marin Mersenne (1588-1648), che si è procurato nel 1624 il manoscritto della Metaphysica nell’intento (da lui mai realizzato) di pubblicarlo, ne riproduce tradotte decine di pagine in una sua opera antiscettica (La vérité des sciences, 1625). Quando poi cerca di interessare alla Metaphysica l’amico Descartes, che pure ha già letto il De sensu rerum e altre opere di Campanella, quegli si rifiuta di prendere in considerazione proprio l’opera che più era affine alla sua riflessione. L’incontro di Campanella con il filone centrale del pensiero moderno, proprio sul terreno cruciale della discussione sullo scetticismo, è dunque un incontro mancato: nascosto dal plagio di Mersenne, negato dal rifiuto di Descartes.
Del buon uso dello scetticismo: Descartes e la svolta epistemologica del dubbio
Già con Campanella, e successivamente con Descartes, l’aspetto epistemologico dello scetticismo prevale decisamente sull’originaria connotazione etica. È soprattutto René Descartes a forgiarne l’immagine moderna: in opere come il Discours de la méthode (1637) e soprattutto nelle Meditationes de prima philosophia (1641) gli argomenti dello scetticismo sono assunti come la prova dialettica a cui deve sottoporsi la conoscenza per giungere a un’evidenza che si presenta come sicura proprio perché risulta indubitabile. Con il filosofo francese lo scetticismo raggiunge vertici che non sono mai stati toccati dagli antichi. In particolare, viene per la prima volta chiaramente formulato il problema dell’esistenza del mondo esterno (e perfino quella del corpo proprio), con la conseguente crisi del realismo diretto. Contemporaneamente, Descartes enfatizza il tema dell’“invivibilità” dello scetticismo nella prassi, limitandolo così alle mere questioni speculative e separandolo dalle finalità etiche a cui l’epoché era originariamente connessa. L’esasperazione dello scetticismo viene in realtà subordinata alla ricerca di un tipo certezza che non può essere per Descartes meno che assoluta, cioè metafisica.
Ripercorriamo rapidamente l’itinerario dello scettico così come viene descritto nel Discours e nelle Meditazioni (analogo discorso potrebbe essere fatto per la Recherche de la vérité). In generale, l’esperienza della “disparità”, tanto nei costumi dei popoli quanto nelle opinioni dei filosofi, rappresenta per Descartes come per i “nuovi pirroniani” un primo avviamento al dubbio. Ritornano poi le ragioni di incertezza che avevano alimentato tutta la tradizione scettica, da Sesto sino a Montaigne, Sanches e Charron: gli errori dei sensi (a proposito dei quali – commenta Descartes – “è regola di prudenza non fidarsi mai interamente di quelli che ci hanno una volta ingannati”); la constatazione che taluni “cadono in abbagli e paralogismi” anche sui “più semplici argomenti di geometria”; le illusioni del sogno e il dubbio che non vi siano “indizi concludenti né segni abbastanza certi per cui sia possibile distinguere nettamente la veglia dal sonno”.
Il passo successivo del dubbio bene illustra le peculiarità della strategia filosofica di Descartes, che passa attraverso un’amplificazione del dubbio (di carattere “iperbolico” e “metafisico”) tale che era rimasta sconosciuta alla tradizione antica. Questa amplificazione rappresenta la radicalizzazione dell’incertezza da cui scaturirà l’evidenza della prima verità, cioè “penso dunque sono” (cogito ergo sum). Il dubbio che non solo le idee di origine sensibile, ma anche le idee intellettuali costituiscano un universo di finzioni ingannevoli trova il suo appoggio nell’ipotesi che all’origine del nostro essere vi sia “un Dio che può tutto, e da cui io sono stato creato e prodotto così come sono. Ora, chi può assicurarmi che questo Dio non abbia fatto in modo che non vi sia nessuna terra, nessun cielo, nessun corpo esteso, nessuna figura, nessuna grandezza, nessun luogo, e che, tuttavia, io senta tutte queste cose, e tutto ciò mi sembri esistere non diversamente da come lo vedo?”. Con questo argomento l’incertezza si proietta anche sulle evidenze matematiche, che pure non dipendono dall’esperienza: “può essere che Egli [Dio] abbia voluto che io m’inganni tutte le volte che faccio l’addizione di due e di tre, o che enumero i lati di un quadrato”. Con questa ipotesi il dubbio assume una portata “metafisica” davvero globale.
Nella versione cartesiana il dubbio investe infatti l’origine del soggetto umano e la natura della causa da cui esso deriva. L’ipotesi del cosiddetto “Dio ingannatore” spinge lo scetticismo sino al livello più elevato: oltre a proiettare un alone di incertezza sull’attendibilità dei nostri ragionamenti matematici, essa mette in crisi i capisaldi metafisici della dottrina del senso comune, la convinzione cioè che le nostre idee derivino dall’esperienza di oggetti esterni e che questi abbiano un’esistenza indipendente. Nella nuova ipotesi – congettura Descartes – anche le idee meno artefatte potrebbero essere state poste nella nostra mente da una divinità onnipotente, quand’anche non vi corrispondesse alcuna realtà materiale. Nella fase conclusiva della Meditazione Prima, alla rappresentazione del “Dio che può tutto” sottentrerà quale estremo sostegno del dubbio una nuova figura, quella del “genio maligno, non meno astuto e ingannatore che possente, il quale abbia impiegato tutta la sua industria ad ingannarmi”. Il risultato finale sarà la totale derealizzazione del mondo fisico: cielo, terra e “tutte le cose esterne” verranno ridotte – in questa ipotesi – a “illusioni ed inganni”, così come il soggetto sarà deprivato di ogni connotato materiale esteriore, in quanto anche il corpo proprio finirà per ricadere nella sfera della decezione.
Nell’Entretien avec Burman Descartes si mostrerà consapevole dell’originalità della propria strategia rispetto agli antecedenti classici: “Qui – scrive l’estensore del resoconto riferendosi al passo in cui vien supposta l’esistenza del genio maligno – l’autore rende l’uomo più incerto che può, spingendolo al massimo del dubbio; perciò non si limita a muovere i dubbi abituali degli Scettici, ma muove tutti i dubbi possibili, per distruggere così il dubbio alla radice”. Nel caso di Descartes non si tratta dunque di un dubbio fine a se stesso, come quello di coloro che “dubitano tanto per dubitare” e affettano di misconoscere l’evidenza, anche quando la incontrano. Se avessero persistito a sufficienza e con intenzione retta nei loro dubbi, anche gli scettici sarebbero infine giunti a superarli. Ed è ancora questa la ragione che autorizza il filosofo a riprendere quei dubbi e ad approfondirli: “Benché i Pirroniani non abbiano ottenuto alcuna certezza al termine dei loro dubbi, ciò non significa che sia impossibile riuscirvi”.
E infatti, a partire dalla prima certezza indubitabile (“penso dunque sono”), Descartes costruisce un ragionamento che permette di recuperare gradualmente tutto il valore della conoscenza, di sé, di Dio, del mondo esterno. Decisivo è il passaggio attraverso la dimostrazione dell’esistenza di Dio e quindi della sua bontà; cruciale è soprattutto la veridicità di Dio in quanto garante delle nostre idee correttamente acquisite, cioè chiare e distinte.
Con Descartes assistiamo realmente a una svolta nella rappresentazione e nell’impiego della scepsi. Questo ha delle implicazioni anche per la valutazione dell’aspetto etico. Nell’ambito della morale, Descartes presenta lo scetticismo come il rifiuto di determinazioni stabili e sicure, laddove è proprio nella prassi che si richiederebbero perseveranza e risolutezza. Pertanto lo scetticismo veniva considerato gravemente inadeguato a orientare la condotta morale. Si compiva così un’inversione che avrebbe avuto conseguenze di vasta portata nell’età moderna, giacché è proprio con Descartes che si assiste al definitivo declino dell’idea dello scetticismo come saggezza pratica per eccellenza. Agli occhi del filosofo il tentativo di declinare la scepsi in una prassi coerente assumeva ormai i caratteri della stravaganza e dell’insensatezza, se non della finzione tout court. Il programma della “vita senza dogmi” risultava così incomprensibile ai moderni, e allo scetticismo veniva riconosciuta una legittimità solo provvisoria e temporanea, nell’itinerario che dal dubbio conduceva alla certezza metafisica.
Gli scettici che vanno al di là di ogni limite del dubbio. I libertini e Descartes
Benché negli ultimi anni si siano moltiplicati gli studi intesi a mettere Descartes a confronto con le grandi correnti dello scetticismo antico, l’esame dei suoi scritti offre al riguardo risultati deludenti. I suoi riferimenti espliciti appaiono assai generici: nella maggior parte dei casi, parla di “scettici” in generale, più raramente di “Accademici” e in poche altre occorrenze di “Pirroniani”. Il testo della polemica da lui avuta con il gesuita Pierre Bourdin è invece particolarmente rivelatore: esso mostra che il confronto decisivo si giocava per Descartes con gli scettici “moderni”, non con gli antichi, e soprattutto con i “libertini”, cioè quegli intellettuali spregiudicati che nella Francia degli anni 1630-1640 si servivano dello scetticismo e dell’erudizione classica per mettere in discussione le convinzioni filosofiche, religiose e morali dell’epoca. Questo spiega anche la radicalità dell’approccio allo scetticismo adottato da Descartes.
Volendo rispondere all’accusa di peccare “per eccesso” nell’utilizzo del dubbio, il filosofo spiega al padre gesuita di voler, con le sue Meditazioni filosofiche, combattere gli “errori degli atei scettici” e di dover per questo spingere il dubbio all’estremo, proprio per inseguire e confutare “quegli scettici che vanno al di là di ogni limite del dubbio”. Mentre degli antichi dà un giudizio liquidatore, quasi sprezzante, degli scettici moderni Descartes deve riconoscere che rappresentano una filosofia “più in voga che mai”, tutt’altro che la “setta oggi abolita” alla quale potersi rivolgere con irrisioni o invettive, come fa il suo interlocutore ecclesiastico che li tratta come “disperati e incurabili”, dunque non meritevoli di seria considerazione.
Il ritratto tracciato da Descartes degli “scettici odierni” si adatta perfettamente al principale esponente del gruppo libertino, François de La Mothe Le Vayer (1588-1672). Questi pubblica nel 1630, con lo pseudonimo di Orasius Tubero (e con la falsa data del 1506), i Quatre Dialogues faits à l’imitation des anciens, seguiti l’anno successivo dai Cinq autres Dialogues du mesme autheur. In questa opera l’autore si dedica con fine ironia a illustrare le tesi, fra loro contraddittorie, a cui mettono capo le filosofie “dogmatiche” in fisica, in etica, in logica; amplificando poi le potenzialità già insite nel decimo tropo di Enesidemo, mette a confronto usi, costumi, credenze, sistemi morali e politici di popoli e di epoche differenti, per ricavarne una lezione di relativismo e argomentando così la conclusione scettica sull’incapacità della ragione a scoprire verità incontrovertibili. Ben lungi dall’essere il prodotto di un nichilismo anti intellettualistico e fideistico, come certi interpreti lo hanno dipinto, lo scetticismo libertino è il frutto di una curiosità intellettuale aperta alla nuova scena del sapere secentesco. Le Vayer contrappone la vastità della natura all’angustia di prospettive tipica non solo del “senso comune”, ma anche di filosofie superate e irrigidite da un malinteso culto dell’autorità. Il “dogmatismo” gli sembra riflettere “l’arroganza e la temerità dello spirito umano”: “come se la natura non avesse altra estensione che quella propria della conoscenza dell’uomo” o “come se la sua sfera di azione non avesse altri limiti diversi da quelli del globo intellettuale” definito dai saperi tradizionali. Nello sforzo di spezzare il cerchio soffocante delle autorità e delle “sette” filosofiche, Le Vayer non esita neppure a evocare la scandalosa ipotesi (bruniana e lucreziana) della pluralità sterminata dei mondi o a proiettare il nostro mondo sulla prospettiva lunga dell’infinità dei tempi.
Una parte importante è consacrata alla critica alla religione. Benché nelle opere di Le Vayer si trovino numerose formulazione ascrivibili al “pirronismo cristiano” (cioè all’uso fideistico dello scetticismo inaugurato da Gianfrancesco Pico), tuttavia è soprattutto nei Dialogues che si mostra il volto “pagano”, più o meno esplicitamente antireligioso, che lo scetticismo è venuto assumendo nei circoli libertini nella Parigi degli anni Trenta. In particolare, il dialogo De la philosophie sceptique contiene una notevole ripresa della nozione di fenomeno, per il quale Le Vayer attinge direttamente alle opere di Sesto Empirico. Con il dialogo De la divinité questa nozione di fenomeno viene poi applicata all’insieme dei fatti religiosi. Come i sistemi astronomici, spiega il libertino, cercano di “salvare i fenomeni” dei movimenti celesti, formulando le loro “ipotesi”, così le religioni fanno altrettanto con i fatti della vita morale degli uomini: “tutto ciò che apprendiamo degli dei e delle religioni non è altro che quanto gli uomini più abili hanno concepito di più ragionevole secondo il loro discorso per la vita morale, economica e civile, come per spiegare i fenomeni dei costumi, delle azioni e dei pensieri dei poveri mortali, per dare loro regole di vita sicure e prive, per quanto è possibile, di ogni assurdità”. Infatti – concludeva il dialogo – “una religione così concepita non è altro che un sistema particolare che rende ragione dei fenomeni morali [phainomenes morales] e di tutte le apparenze della nostra dubbiosa Etica”.
Alla luce di testi simili si può comprendere che cosa Descartes intenda quando parlava della necessità di confutare “gli errori degli atei scettici”. Con il loro fermarsi al “criterio” del “fenomeno”, rifiutandosi di accogliere entità né verificabili né dimostrabili (come Dio e l’anima), i libertini offrono un’originale applicazione dell’atteggiamento scettico alle materie religiose, andando ben oltre la cautela conformistica dei loro antichi predecessori e sottraendosi peraltro all’accusa di ricadere nel dogmatismo.
Su questo sfondo, si capisce altresì l’impegno “metafisico” di Descartes e il suo sforzo di neutralizzare lo scetticismo solo dopo averlo portato alle estreme conseguenze. Formulando in proprio il precetto per cui “bisogna dubitare di tutto” (“de omnibus est dubitandum”, motto che diverrà per Kierkegaard l’emblema della filosofia moderna), l’autore delle Meditazioni rivolgeva contro i libertini del suo tempo l’accusa di non essere stati fedeli al loro stesso programma, di non essere cioè realmente andati fino in fondo nel dubitare e di essersi arrestati al di qua della suprema certezza metafisica. Nelle intenzioni di Descartes, un livello superiore di dubbio avrebbe dovuto dare accesso a un livello superiore di verità.
Scetticismo e tolleranza: Pierre Bayle
Le certezze cartesiane hanno tuttavia breve vita e già nella seconda metà del Seicento lasciano spazio a nuove forme di scetticismo che si alimentano proprio ai nuovi argomenti messi in circolazione dal filosofo francese. Il principale esponente di questa fioritura della scepsi post-cartesiana è senz’altro Pierre Bayle (1647-1706), una singolare figura di libero intellettuale, giornalista e poligrafo di origine francese ma esule a Rotterdam per motivi di religione (era ugonotto, cioè calvinista). La sua opera più famosa è un dizionario, in cui si affrontano temi storici e questioni filosofiche oltre che teologiche: il Dictionnaire historique et critique (prima edizione 1697, seconda edizione definitiva 1702). In quest’opera si offre una sintesi ben riuscita tra uno scetticismo estremo e una forma di fideismo altrettanto radicale. Le tematiche pirroniane vi vengono trattate sullo sfondo dei dibattiti teologici tipici del cristianesimo moderno, successivo alla Riforma: uno sfondo ben diverso dalla serena atmosfera classica degli scettici greci o romani. I “dogmatici” con i quali si confronta Bayle sono innanzitutto Cartesio e i cartesiani, di cui viene contestato il criterio dell’evidenza intellettuale come strumento di accesso a verità indubitabili; ma insieme a loro vengono presi di mira anche i teologi cristiani, sia protestanti sia cattolici. Bayle rileva come la nuova scienza newtoniana, che ha preso il posto della filosofia cartesiana, possa tranquillamente coesistere con una professione di scetticismo antimetafisico e antiteologico, purché la si intenda come conoscenza di fenomeni. Accanto alla fisica, anche la politica e la morale avrebbero potuto svilupparsi entro i “limiti” della mente umana con l’obiettivo di “ricercare ipotesi probabili e raccogliere esperienze”; scienza, etica e vita civile possono fare a meno di “certezze” assolute, fondandosi su regole di conformità o semplicemente su “ragioni probabili”. “Solo la religione – continuava Bayle – ha qualcosa da temere dal pirronismo”», poiché le sue credenze richiedono “certezza” e “ferma convinzione”. In definitiva, uno scettico come un Arcesilao redivivo sarebbe “con i nostri teologi mille volte più terribile di quanto non lo fosse stato con i filosofi dogmatici dell’antica Grecia” (articolo Pyrrhon, rem. B).
In verità, dello scetticismo e dei suoi rapporti con la fede il Dictionnaire fornisce versioni diverse e fra loro non coincidenti. Nei testi più ortodossi (come l’Eclaircissement sur les pyrrhoniens, aggiunto per rispondere alle critiche degli ambienti calvinisti) Bayle sottolinea la funzione apologetica dello scetticismo, in quanto rinuncia alla ragione ed è utile a preparare l’accoglimento di una fede nuda, incomprensibile e indimostrabile. In altri brani invece le valutazioni del filosofo di Rotterdam appaiono più sfumate e complesse. Emblematico il caso della rem. C dello stesso articolo Pyrrhon: qui Bayle mette quasi sullo stesso piano l’apologetica di Jean Calvin, gli argomenti antilibertini di Pascal e la scepsi cristiana del libertino per eccellenza, La Mothe le Vayer; ma poco più oltre, nello stesso testo, altri passi di La Mothe venivano addotti per sostenere che “non c’è nulla di più opposto alla religione del pirronismo”. Negli articoli sul problema del male, poi, Bayle non si limita ad affermare l’inconciliabilità tra fede e ragione, tra narrazione biblica e argomentazione filosofica. Sotto il velo della rinuncia fideistica a difendere razionalmente le posizioni teologiche, Bayle sviluppa una critica aggressiva e imbarazzante per i teologi di tutte le grandi tesi coinvolte negli insolubili problemi del male, della libertà e della predestinazione. Per riprendere una sua efficace formulazione, nel caso di dottrine religiose come quelle del peccato, della salvezza, del premio o del castigo, il problema non nasce dal fatto che manchino i lumi per comprenderle (dunque dal carattere limitato della ragione come in un approccio fideistico), ma piuttosto dal fatto che disponiamo positivamente di ragioni contrarie che ci impediscono di accettarle. In altri articoli, riferiti piuttosto ad esponenti della tradizione protestante (come “” e “Hoffmann”), Bayle insiste ancora sulla rigorosa alternativa tra fede e ragione, mettendo la cultura del suo tempo di fronte a un aut aut radicale.
A questa versione drammatica della scepsi, altri articoli dello stesso Dictionnaire affiancano una versione più critica, quasi metodica, dello scetticismo. “Non decidendo né pro né contro”, lo scettico sfugge “alle difficoltà imbarazzanti ”, alle “obiezioni gravi e serie, alle ritorsioni, agli argomenti ad hominem”, che sono “generalmente lo scoglio inevitabile dei Dogmatici”. Gli scettici possono dunque ritenersi vittoriosi quando costringono i loro avversari ad abbandonare il piano dell’evidenza per ridursi nei limiti della semplice probabilità. Inoltre, alle tradizionali accuse di apraxia, cioè di “inazione” o “quietismo” in cui sarebbe caduto lo scettico (secondo il topos diffuso della invivibilità dello scetticismo), Bayle risponde in modo efficace precisando che la condotta della vita può orientarsi sulle “apparenze”, senza attendere “i giudizi speculativi che pronunciamo sulla natura delle cose”. In questo genere di articoli (per lo più dedicati allo scetticismo accademico piuttosto che a quello pirroniano), il rapporto tra dubbio e credenza non si configura come un’alternativa secca o come un rapporto di reciproca esclusione. In concreto, Bayle presenta il dubbio come un atteggiamento di cautela e di controllo che deve costantemente accompagnare la credenza, assegnandole un grado di certezza solo probabile e provvisorio, dunque sempre rivedibile. Semplicemente, il valore di verità o di realtà che gli scettici attribuiscono a questa loro persuasione non è identico a quello cui si riferiscono i dogmatici: non deriva cioè da un “criterio infallibile” come l’evidenza cartesiana, ma da una necessità soggettiva e istintiva.
Anche in campo teologico, accanto al fideismo estremo di certi articoli, sussiste nei testi di Bayle una forma di scepsi più moderata (quella rappresentata da articoli come Mélanchton o Synergistes). In quei contesti Bayle attribuisce alle credenze religiose lo statuto di opinioni solo ipotetiche, la cui funzione è di salvare o a dar ragione dei fenomeni tanto naturali quanto civili, con la conseguenza esplicita, che tutti i sistemi teologici appaiono altrettanto possibili, se paragonati alla “saggezza infinita” che ha “mezzi infiniti per manifestarsi, tutti degni di lei”. Lo scetticismo resta nemico dell’affermazione categorica, ma si rivela invece compatibile con una forma di credenza “moderata”, avvertita dei suoi limiti e aperta alla tolleranza di altre credenze, ivi comprese quelle degli atei a cui Bayle riconosce una legittimità speculativa e morale, oltre che politica.