Le origini dell'identità lagunare
Pare opportuno rifarsi a un'indicazione di Gian Piero Bognetti per iniziare la trattazione su quel periodo della storia della Venetia che doveva portare alla vera e propria configurazione di un'identità "veneziana" nella laguna, al di là (o al di qua) di tutta l'enfasi sulle origini ben motivata dall'emergere della città dogale, ma sulla cui realtà gli storici ormai convengono in opportune riserve. Il Bognetti invitava infatti a attenersi "al quadro della situazione generale degli ultimi tempi dell'impero, nell'area veneta e sullo sfondo della lotta e delle tresche friulane, tra Longobardi e Bizantini" (1).
Il punto di partenza è, dunque, quello epocale dell'invasione longobarda del 569, perché se è vero che, già durante la guerra gotica, la spaccatura fra Venetia continentale e Venetia marittima era andata concretizzandosi molto chiaramente, è in definitiva l'invasione longobarda, nella sua proiezione temporale, a dare volto a questa realtà, se pure non senza alcune intersezioni, soprattutto nei primi tempi. Ma due cose vanno tenute ben presenti.
Innanzitutto, che né la guerra gotica, con la famosa marcia di Narsete lungo la costa alto-adriatica, aveva vitalizzato di per sé il bordo lagunare della Venetia, né aveva provocato questo effetto l'invasione longobarda. L'arco dell'Alto Adriatico, da Ravenna all'Istria, aveva da secoli ormai una sua vitalità grazie alla navigazione endolagunare e alle comunicazioni per via fluviale che lo stesso Cassiodoro in età gotica illustra adeguatamente, ivi compresa la gravitazione adriatica di Aponus (Abano) e, quindi, dell'agro patavino. L'invasione del 569 non modificò questa realtà, almeno fino alla conquista di Padova (durante le campagne di Agilulfo del 601-603) e di Concordia (nel 615). Importa piuttosto dare rilievo al secondo fatto: al trasferimento a Grado della sede patriarcale di Aquileia, questo sì dovuto alla marcia di Alboino.
Alboino invero, valicate con la sua gente le Alpi Giulie per i consueti passi del Piro (valle del Vipacco) e di Preval (la Ocra di Strabone) (2), aveva raggiunto l'Isonzo a Pons Sonti (alla Mainizza, presso Savogna d'Isonzo). Aquileia era a portata di mano, ma il re longobardo non imboccò la via litoranea, l'Annia, percorsa quindici o sedici anni prima al seguito di Narsete, contro i Goti, il che lo avrebbe esposto direttamente alle forze bizantine, imboccò bensì la "strada alta" in direzione di Codroipo e di Opitergium (Oderzo). Contemporaneamente, però, rese decisiva la spaccatura che gli avrebbe assicurato le spalle: andò, con preliminare deviazione verso Nord, alla conquista di Forum Iulii (Cividale), che dal tempo dell'invasione di Attila era divenuta caput Venetiae, sostituendo Aquileia, e era anche sede di presidio (στϱατία) bizantino. Quivi stabilì il primo ducato longobardo in Italia, affidandolo al nipote Gisulfo. Dopo di che, con la sua colonna di soldati, gruppi familiari, carriaggi, e con inclusione di Gepidi, Bulgari, Sarmati, Sassoni, proseguì il cammino per la suddetta "strada alta" (3), distribuendo "fare" lungo i bordi meridionali delle Prealpi, ma evitando Oderzo, altro caposaldo bizantino in terraferma. Lo superò da Nord, per valicare il Piave all'altezza di Maserada, dove gli venne incontro il vescovo Felice di Treviso per pattuire il libero transito in cambio dell'incolumità della sua città (4).
Scansando Oderzo, Alboino lasciava ai Bizantini il controllo della via Claudia Augusta, che da Altinum portava a Feltriae (Feltre), altro caposaldo bizantino nell'entroterra, assieme a Belluno e a Ceneta (Ceneda) (5), e di qui, per Tridentum (Trento), risaliva la valle dell'Adige e il passo di Resia. Alboino, invece, proseguendo sempre lungo la Postumia, per Vicetia (Vicenza) e Verona, in attesa di dirigersi verso Milano e Ticinum (Pavia), diveniva padrone di tutta la Padania, orientale, alle spalle della costa adriatica del Basso Po, che rimaneva così territorio bizantino. Era questa, fra l'altro, una regione colpita di recente da pestilenze e carestie (6).
Ma se solo lo sviluppo successivo della conquista longobarda della Venetia doveva provocare un progressivo restringimento dell'area bizantina gravitante sull'Adriatico e sulla laguna in particolare, senza che mai cessassero, nelle pause fra gli scontri militari, i rapporti di coesistenza e di commerci, il già accennato trasferimento della sede patriarcale per un verso assumeva il carattere di un provvedimento definitivo, per l'altro poneva in primo piano il rapporto con le sedi suffraganee che venivano a trovarsi in territorio longobardo.
Il trasferimento a Grado infatti non comportava in alcun modo una rinunzia di carattere giurisdizionale, ma era anzi la garanzia di sopravvivenza di un polo, su cui potevano continuare a gravitare non solo, grazie alla navigazione costiera, le suffraganee dell'Istria, ma anche quelle dei territori transalpini, norici e pannonici, oltre che veneti di terraferma. Tra l'altro, porto avanzato di Aquileia, Grado, proprio in occasione dell'assedio aquileiese di Attila, era stata opportunamente fortificata e quindi, anche sotto questo aspetto, rappresentava una base importante dal punto di vista sia militare, per alimentare con la flotta la difesa terrestre, sia commerciale, per i traffici tanto marittimi quanto paralagunari (7).
Quando, nel 579, il metropolita Elia convocò a Grado un concilio metropolitano, vi convennero, oltre naturalmente ai vescovi della Venetia, di Trento, Feltre, Padova, Concordia, Oderzo, Altino, Iulium Carnicum (Zuglio), Verona, Parenzo, Pola, Tergeste (Trieste), anche quelli norici, di Teurnia (St. Peter im Holz), Aguntum (Lienz) e Celeia (Celje), e pannoni, di Siscia (Èièak), Emona (Ljubljana) e Scarbantia (Sopron), nonché il rappresentante del vescovo Ingenuino di Sabiona (Seben), nella Rezia: segno che le antiche vie di collegamento tra la costa adriatica e il retroterra prealpino e transalpino erano liberamente percorribili pure in territorio longobardo, continuando a assicurare la gravitazione anche economica dell'arco alpino sull'Adriatico. Ma proprio la continuità di questa gravitazione, tanto più per la conservazione, ancora, dei cunei prealpini in mano bizantina, dava, grazie alla funzione metropolitana della sede patriarcale aquileiese, trasferita a Grado, una collocazione particolare all'area veneta marittima, di cui le scelte di carattere dottrinale diventarono momento di individuazione.
Questo trasferimento era infatti avvenuto dopo che la chiesa di Aquileia e le sue suffraganee, venete, istriane, transalpine, avevano preso posizione contro il cedimento di papa Vigilio (537-555), confermato poi dal suo successore Pelagio I (556-561), nei riguardi del secondo concilio costantinopolitano (553), voluto da Giustiniano per affermare un indirizzo più conciliante verso i monofisiti e, in sostanza, anticalcedoniano. Alla morte di Macedonio di Aquileia, che, con il vescovo di Milano Vitale, aveva guidato l'opposizione contro il concilio del 553 (quinto nella serie dei concili ecumenici), l'elezione del suo successore Paolino (Paolo) era avvenuta in un clima di accesa opposizione anticostantinopolitana e di indipendenza dottrinale nei rispetti di Roma.
È inoltre da tenere presente che, ancora a sette anni dalle vittorie bizantine di Tagina (552) e di monte Lattaro (553), che avevano segnato la fine del regno gotico in Italia, la regione padana e veneta era ben lungi dall'essere pacificata. Ancora per un decennio, Goti, Franchi, Eruli, Alamanni tennero salde posizioni a Nord del Po, soprattutto lungo le vallate dell'Adige e dell'Isonzo.
In questa situazione politica e militare, anche l'elezione del metropolita di Aquileia aveva riflessi nei rapporti col governo di Costantinopoli. E difatti il patrizio Giovanni, cui era stata affidata la cura degli interessi imperiali in Italia, nel mentre si trovava di fronte alle prese di posizione delle chiese facenti capo a Aquileia, doveva subire le pressioni di Roma, preoccupata di ristabilire l'unità religiosa. Alle sanzioni prese dal patrizio Giovanni nei riguardi dei vescovi istriani Eufrasio di Parenzo e Massimiliano di Capodistria, il metropolita aveva reagito con la scomunica del rappresentante del governo di Costantinopoli.
Tutto ciò avveniva in un momento assai delicato per Bisanzio, tuttora impegnata a difendere l' Illirico dalle incursioni di Unni, Bulgari, Slavi, oltre che nella difesa della frontiera orientale. Giovanni fu sostituito dal fratello Valeriano nello sforzo di sanare la situazione ecclesiastica italiana con tentativi di mediazione, sforzo destinato però al fallimento per l'intransigenza di papa Pelagio I. La attribuzione a Narsete, nel 56o, di tutti i poteri civili e militari fu deliberata nell'intento di porre fine una volta per tutte alle occupazioni barbariche nell'Italia settentrionale, compresa la Venetia. Ma Narsete non poté corrispondere alle attese del papa che avrebbe preteso che i due metropoliti scismatici, Paolino di Aquileia e Vitale di Milano, fossero deportati a Costantinopoli. Qualche intervento in tal senso comunque ci fu, come nel caso di Vitale di Altino, che si era rifugiato in Gallia, presso i Franchi, e che fu relegato in Sicilia. Pelagio I moriva nel 561, proprio quando l'azione militare di Narsete era vieppiù impegnata nel tentativo di rimettere ordine in Italia.
Quando poi, morto Giustiniano nel 565, il suo successore Giustino II rimosse Narsete dalla sua carica, la situazione religiosa della Venetia e delle provincie contermini era tutt'altro che risolta, mentre stava per aprirsi appunto il capitolo dei Longobardi, della cui chiamata in Italia fonti tendenziose attribuivano l'iniziativa allo stesso Narsete.
Il metropolita Paolino di Aquileia morì dopo il trasferimento a Grado, senza che il successore di Pelagio I, papa Giovanni III (561-574), pure riuscendo a ricondurre all'obbedienza romana il vescovo di Milano, potesse modificare nello stesso senso la situazione religiosa della Venetia. A Paolino successe Probino, vescovo di Salona (Spalato), anch'egli, come gli altri titolari delle chiese della costa dalmata, filocalcedoniano. Probino visse un solo anno ancora, e a lui successe (571) il surricordato Elia, che decise di rendere definitivo il trasferimento della sede episcopale a Grado, edificando una nuova basilica sopra la precedente, che risaliva al vescovo Niceta (454-484) e che era stata costruita in concomitanza con l'assedio di Attila ad Aquileia. Fu appunto il metropolita Elia a convocare a Grado un concilio nel 579 per prendere posizione nei riguardi della questione dei Tre Capitoli, cioè degli scritti di Teodoro di Mopsuestia, di Teodoreto di Ciro e di Iba di Edessa, che il concilio di Calcedonia del 451 aveva giudicato ortodossi e che invece il concilio di Costantinopoli del 553 aveva condannato.
Questa presa di posizione di Elia apparirebbe ancora più rilevante se al papa allora regnante, Pelagio II (579-590), si dovesse davvero attribuire il riconoscimento del titolo di metropolita al titolare della Chiesa di Aquileia trasferita a Grado (8). Il fatto che, in occasione della sinodo gradense del 579, la nuova basilica fosse consacrata a s. Eufemia, cioè a una martire cristiana di Calcedonia, dava ulteriore importanza alle decisioni prese in tale sede, in pieno contrasto con la politica religiosa di Bisanzio, ormai appoggiata con determinazione anche da Roma. Era un vero e proprio pronunciamento autonomistico delle chiese della Venetia e delle altre suffraganee di Aquileia-Grado, che non poteva non assumere anche valore politico, di affermazione di individualità della provincia adriatica nel gran corpo dell'impero. Il destino politico "bizantino" della Venetia risulta così avviato nel contesto di una presa di distanza nei confronti dell'impero sul piano ecclesiastico.
In un primo momento, l'impero non aveva reagito, troppo indebolito in Italia dalle difficoltà incontrate da Narsete, mentre il nuovo imperatore Giustino II (565-574) dovette fronteggiare gli Avari nell'Illirico e i Persiani in Oriente. Alboino, invece, istituiva suoi ducati, oltre che a Forum Iulii, a Vicenza e a Verona, nonché a Brescia e a Bergamo, al fine di predisporre presidi contro le spinte dei Franchi, già forti durante la guerra gotica, mentre l'ultima resistenza bizantina si arroccava nel Comense. Altri duchi furono da Alboino piazzati in Piemonte, a Torino e ad Asti (anch'essi in funzione di difesa dai Franchi), mentre l'assedio di Pavia era durato un buon triennio.
La scarsa resistenza ai Longobardi da parte bizantina pare dovuta, se non a un vero accordo con gli invasori, a una certa accondiscendenza nei loro confronti, in quanto servivano a contenere le spinte franche. Ma il duro assedio di Pavia e la contemporanea penetrazione longobarda lungo la via Emilia, fino a Modena e giù per l'Appennino, a Lucca, Chiusi, da una parte, a Camerino, dall'altra, raggiungendo Spoleto e, infine, Benevento, costituivano una prova della forza e dell'estensione del nuovo insediamento. Benevento cadeva nello stesso anno di Pavia, cioè nel 572. Ma la conquista di Alboino aveva il suo punto debole nella scarsa compattezza interna, per cui gli stessi ducati avanzavano pretese autonomistiche. I riflessi di ciò furono importanti anche per le sorti della Venetia.
Sempre nel 572, poco dopo la conquista di Pavia, Alboino veniva ucciso a Verona da una congiura di palazzo guidata dalla sua seconda moglie Rosmunda, nella quale ebbe parte l'alto ufficiale bizantino Longino, che aveva sostituito Narsete nella prefettura d'Italia, ma era poi caduto in disgrazia presso Giustino II, proprio alla vigilia dell'invasione longobarda, e si era ritirato a Ravenna, lasciando le forze bizantine senza comando supremo. Questa situazione può spiegare anche il pacifico attraversamento della Venetia da parte di Alboino e la sua accortezza nell'evitare le piazzeforti di Oderzo, Feltre e Ceneda. Longino mirava a servirsi di Rosmunda, ritiratasi a Ravenna col tesoro regio e con la figlia di Alboino, Albsuinda, assieme al suo complice Elmichi, ex scudiero del re, per ricattare gli elettori longobardi. Questi elessero a Pavia un nuovo re, Clefi, che sarà ucciso appena due anni dopo (574), lasciando un figlio ancora minorenne, Autari, e una situazione gravemente compromessa.
Se noi consideriamo che lo stesso anno 574 è quello in cui l'imperatore Giustino II affidava la guida dell'impero al comes degli excubitorii, Tiberio, da lui adottato come figlio e nominato Cesare perché fronteggiasse la situazione in Oriente dove i Persiani avevano invaso la Siria e affrontasse gli Avari nella Mesia, si può capire l'ambiguità del comportamento bizantino in Italia, tale da far supporre un tacito assenso al passaggio dei Longobardi attraverso la Venetia e la valle Padana. La situazione nella Venetia marittima e nei suoi avamposti di terraferma, fino Mantova e Cremona, a Occidente, fino alle Prealpi, a Settentrione, non offriva infatti per il momento motivi di eccessivo allarme.
Ma proprio nella Venetia si accentuava l'autonomia della Chiesa aquileiese, la cui sede originaria, nonostante il trasferimento a Grado, continuò a essere frequentata dal suo titolare (9). Tanto più che, sempre nel 574, moriva papa Giovanni III, che pur avendo riallacciato le relazioni con Ravenna e con Milano, non risulta abbia avuto contatti per tentare il recupero di Aquileia-Grado. Del suo successore, Benedetto I, eletto nel giugno del 575, il Liber pontificalis non ci dà informazioni particolari: morì il 3 luglio 579, mentre la carestia facilitava i progressi della conquista longobarda (10).
Quando, nell'autunno del 579, il metropolita Elia convocò il concilio a Grado, veniva contemporaneamente eletto il nuovo papa Pelagio II, il quale sulle prime, come s'è detto, non ricusava il titolo di metropolita della Venetia et Histria alla nuova sede di Grado, né la facoltà di Elia di consacrare la nuova basilica di S. Eufemia (11). Il momento politico era delicato: i rapporti fra Bizantini e Longobardi erano tutt'altro che chiari, anche perché, per l'interregno che tenne dietro alla morte di Clefi, si accentuavano le tendenze autonomistiche dei vari duchi, a cominciare da quello del Friuli, a ridosso della Venetia marittima.
Una ripresa bizantina in Italia si era avuta con la spedizione guidata da Baduario, che era sbarcato a Ravenna nel 575 ed era avanzato in Emilia, ma poi era stato vigorosamente respinto dalle forze longobarde. Il quadro politico in Occidente era allora confuso anche a causa della situazione franca, in seguito alla divisione del regno avvenuta fra i figli di Clodoveo. E i Longobardi ne avevano approfittato per qualche incursione al di là delle Alpi. Il fatto è che né Baduario, né poi il suo successore Decio riuscirono a creare una situazione tale da avviare la restaurazione dell'autorità imperiale in Italia. Dal che risultava indirettamente avvantaggiata la posizione del metropolita Elia e dei vescovi suoi suffraganei.
Un succedersi di fatti importanti rimise in moto la situazione generale nei vari scacchieri. Innanzitutto, nell'estate 582, assumeva la corona imperiale Maurizio (582-602), artefice di una serie di successi contro i Persiani, per cui lo stesso Tiberio lo aveva designato a suo successore. Nel fronteggiare la situazione italiana Maurizio approfittò della affermazione di Childeberto II (575-595) quale nuovo re dei Franchi per stringere con lui un accordo, previo sussidio di cinquantamila soldi d'oro, perché muovesse contro i Longobardi. I Franchi già l'anno prima avevano tentato una spedizione in Trentino sanguinosamente stroncata dal duca longobardo Ewin.
Questo accordo però non fu proficuo per i Bizantini, perché Childeberto II, calato nel 584 al di qua delle Alpi, accettò subito offerte di doni e conseguenti trattative coi duchi longobardi, ben consapevoli della pericolosità di un'intesa franco-bizantina. Essi decisero, anzi, di mettere fine alla fase di interregno ed elessero Autari re. Gli effetti furono immediati: i Longobardi del Nord mossero in forza contro i possedimenti bizantini in Emilia e i duchi di Spoleto e di Benevento puntarono su Roma. Roma e Bisanzio allora si trovarono unite nella comune difesa e, mentre Maurizio concludeva una tregua triennale con Autari, papa Pelagio II sventava il progetto del giovane re longobardo di legare a sé i Franchi attraverso il suo matrimonio con la sorella di Childeberto.
La situazione italiana, dunque, nel gioco delle reciproche misurazioni di forze era assai instabile, anche se l'impero, visto che non era prevedibile una riconquista a breve scadenza dell'Italia, aveva nel frattempo provveduto a un riassetto territoriale della penisola, consistente nella creazione di un comando supremo unificato, l'"esarcato d'Italia", con sede a Ravenna, cui avrebbe fatto seguito la creazione di una serie di "ducati" all'interno dei quali vigeva anche l'unità di comando militare e civile. Ma l'esito negativo della richiesta di papa Pelagio II a Smaragdo (rientrato dal 602 nella carica di esarca già coperta fino al 589) di un intervento contro gli scismatici della Venetia sta a dimostrare che si esitava a trarre le conseguenze della spartizione di fatto dell'Italia. Dopo avere inviato un suo messaggio ad Elia per comporre amichevolmente la divergenza dottrinaria e ottenuto per tutta risposta un'esplicita riconferma delle posizioni dei vescovi della Venetia et Histria, Pelagio aveva ripiegato su un invito a una riunione conciliare da tenersi a Ravenna, nella sede cioè dell'autorità bizantina. L'insidia era evidente, tanto è vero che, avuto un ulteriore rifiuto, il papa uscì allo scoperto e sollecitò l'esarca a disporre un intervento armato. Ma il metropolita Elia, a sua volta, ricorse all'imperatore, proponendogli di rimettere al suo giudizio la questione, dopo che la situazione politica avesse trovato una soluzione favorevole e gli invasori fossero stati debellati e ristabilita l'unità dell'impero. L'argomentazione era pienamente rispondente alle esigenze del momento e, quindi, fu accolta. In questo modo, però, l'iniziativa del metropolita gradense faceva aggio su quella del papa, dimostrando che la posizione religiosa della Venetia si inseriva con piena autonomia nel gioco delle forze politiche impegnate in un grande confronto per il dominio d'Italia. Si configurava già, in quelle contingenze, il nesso fra posizione geopolitica della Venetia maritima e collocazione ecclesiastica della sua chiesa metropolitana.
Appena fu possibile stipulare una tregua coi Longobardi, Smaragdo ritenne di poter intervenire su Grado usando la forza. Nel corso del 586 Elia morì, e Smaragdo corse subito a Grado; qui trascinò fuori dalla basilica il neoeletto metropolita Severo, che, insieme con i vescovi Giovanni di Parenzo, Severo di Trieste e Vendemio di Èièak, fu deportato a Ravenna, dove i quattro furono costretti con la forza a comunicare con il vescovo Giovanni, che era un antico avversario dei Tre Capitoli (12). C'era anche un altro fattore di instabilità nella zona longobarda gravitante sulla Venetia maritima: l'atteggiamento ribelle del duca del Friuli Grasulfo I, evidentemente d'accordo con i Bizantini.
Nel settembre del 587 Autari ruppe la tregua, prima che ne fosse scaduto il termine, e l'isola Comacina, importante baluardo bizantino nell'entroterra padano, fu espugnata dopo sei mesi di assedio. I Longobardi erano così oramai in grado di controllare tutti gli sbocchi delle valli alpine da cui potevano discendere i Franchi. Contemporaneamente, il duca di Trento, Ewin, su ordine del re Autari, attaccava l'Istria alle spalle e sul fianco del duca ribelle del Friuli Grasulfo I, che fu costretto a fare atto di sottomissione. Dopodiché Autari rafforzò il suo rapporto col duca di Trento (e quindi il controllo della val d'Adige), fidanzandosi con Teodelinda, figlia del duca dei Bavari, Garibaldo, e di Waldrada, figlia del re longobardo Wacone, della dinastia dei Litingi.
Così il re longobardo per un verso copriva, col ducato bavarese e con quello di Asti affidato al cognato Gundoaldo, le più importanti vie di accesso dei Franchi in Italia, per l'altro rafforzava il prestigio familiare, consolidando l'autorità regia. Importante, per i riflessi nella Chiesa aquileiese, è anche il fatto che Autari facesse leva sulla confessione ariana del suo popolo come cemento nazional-religioso, venendosi a trovare i Longobardi stretti fra il papa, Bisanzio e i Franchi, tutti di fede cattolica (13).
Nell'anno 588, Childeberto II decise di inviare un esercito per riconquistare i territori dell'Italia settentrionale da cui Narsete aveva cacciato i Franchi. Autari reagì e sconfisse le forze di Childeberto al loro approssimarsi all'Italia, mentre l'imperatore Maurizio era fortemente impegnato contro i Persiani in Oriente, e quindi poté concordare un'azione comune con i Franchi solo nella primavera successiva (589). Ma Autari, forte della precedente vittoria, con tempestività, fece andare all'aria questi progetti, accordandosi con Childeberto. L'accordo invero non poteva che essere di breve durata, data la divergenza dei rispettivi interessi: mentre Autari celebrava fastosamente le nozze con Teodelinda (maggio 589), Childeberto si riaccostava a Maurizio, nel frattempo alleggerito sul fronte orientale dai contrasti insorti in ambito persiano e disponibile, ora, per una controffensiva antilongobarda in Italia. A guidarla, l'imperatore inviò, in sostituzione di Smaragdo, Romano, valente condottiero, fornito di truppe regolari comandate dal generale Ossone.
Nel febbraio del 590 veniva eletto papa Gregorio Magno (590-604). Poco dopo, l'esercito dei Franchi, valicate le Alpi, raggiungeva con una colonna le vicinanze di Milano e con un'altra quelle di Verona. L'esercito di Romano, da parte sua, rioccupava Altino, temporaneamente caduta in mano dei Longobardi di Treviso, nonché Mantova e Modena. Inoltre, passavano ai Franchi Minulfo, duca dell'isola di S. Giulio d'Orta, sulla strada del Sempione, e il duca di Bergamo, Gaidulfo, mentre i duchi di Piacenza, Parma e Reggio passavano ai Bizantini. L'intero dominio longobardo era in frantumi.
Ma se poco solido era il fronte longobardo, si può dire altrettanto di quello franco-bizantino. Mancò la congiunzione, che sarebbe stata decisiva, fra i due eserciti, e l'esarca venne in urto con i generali franchi, che ricondussero il loro esercito, carico di bottino, al di là delle Alpi. L'esarca Romano si dovette pertanto accontentare della sottomissione del duca del Friuli, Gisulfo II, figlio di Grasulfo. Solo l'improvvisa morte di Autari (forse assassinato), nel settembre dello stesso 590, salvò i Bizantini da una nuova coalizione franco-longobarda.
In questa situazione, caratterizzata dalle incertezze e dai repentini cambiamenti di fronte, mentre la lotta per il predominio in Italia era in pieno svolgimento, si accese la diatriba fra la Chiesa aquileiese di Grado e il nuovo papa Gregorio. Già apocrisario di Pelagio II presso la corte costantinopolitana, Gregorio, che era stato il più diretto ispiratore del suo predecessore nelle prese di posizione contro lo scisma delle Venetiae, veniva fatto papa proprio mentre l'esarca Romano, impegnato contro i Longobardi, concedeva a Severo e compagni, che avevano abiurato a Ravenna la fede tricapitolina, di rientrare nelle loro sedi (591). Ma la Chiesa aquileiese reagì alla loro abiura con una sinodo tenuta a Marano, in laguna, alla quale parteciparono dodici vescovi, provenienti anche, in gran parte, dall'area longobarda (da Altino, Concordia, Sabiona, Trento, Verona, Vicenza, Treviso, Asolo, Feltre, Belluno, Zuglio e Pola), mentre i vescovi di Trieste, Parenzo, Emona, Èièak e Celeia, che forse non poterono muoversi per la contemporanea spedizione nell'Istria settentrionale del duca di Trento Ewin, ribadirono la "conversione" ravennate. Il metropolita Severo, da parte sua, revocata l'abiura, rientrò nell'obbedienza tricapitolina (14).
Dietro alle pressioni bizantine c'erano state naturalmente anche quelle di papa Gregorio. Ma la partecipazione dei vescovi dell'area longobarda alla sinodo di Marano mostrava che essa continuava a gravitare sull'antica Chiesa metropolitana di Aquileia trasferitasi a Grado, la quale ribadiva nel contempo la sua tradizione di perno della diffusione del cristianesimo nell'area alpino-danubiana. Dal che derivava anche un chiaro significato politico, perché, da una parte, si reagiva alla frattura geopolitica provocata dall'invasione dei Longobardi ariani, dall'altra, si ribadiva l'indipendenza di fronte alle imposizioni di Bisanzio, sollecitate dal papa romano. I vescovi aquileiesi, pur di non abiurare la fede tricapitolina, minacciavano di farsi consacrare dai vescovi delle Gallie, di un territorio cioè in mano ai Franchi, che contendevano a Longobardi e Bizantini la presenza e l'influenza in Italia.
Alle prese di posizione degli Aquileiesi Gregorio reagì invitando Severo a recarsi a Roma, onde sottoporsi al giudizio di una nuova sinodo (15). Ma i vescovi veneti respinsero quest'invito e notificarono il loro rifiuto all'imperatore Maurizio, indirizzandogli ben tre lettere: la prima, dei "vescovi delle città e castelli che sono in mano dei Longobardi"; la seconda, di Severo e dei suoi suffraganei; la terza, infine, del solo Severo. Motivo comune era la protesta per l'intervento papale, che imponeva addirittura una scorta armata, evidentemente imperiale. La lettera dei vescovi di area longobarda, l'unica delle tre pervenutaci (16), è importante perché fa la storia della diatriba, dall'ascesa all'episcopato di Elia all'intimazione di papa Gregorio I. I vescovi comunque si dichiaravano pronti, non appena le armi imperiali li avessero restituiti "ad pristinam libertatem", li avessero cioè liberati dal dominio longobardo, a recarsi a Bisanzio, per prospettare direttamente all'imperatore, e non al papa, ch'era parte in causa, le loro ragioni, e rimettere la decisione finale alla sua autorità. Ma, importante sul piano politico e forte indizio di una maturata vocazione all'autonomia o, quanto meno, della consapevolezza di una particolarissima posizione geopolitica, è l'avvertimento finale: se l'imperatore non fosse intervenuto a placare le pretese di Roma, i vescovi, che sarebbero loro succeduti nelle diocesi suffraganee di Aquileia-Grado, non si sarebbero più recati, per ricevere la consacrazione, presso la Chiesa metropolitana, sottoscrivendo, anche quelli dell'area longobarda, come avveniva tuttora, la loro fedeltà alla sancta res publica, cioè all'autorità imperiale. Si avrebbe avuta, insomma, la dissoluzione di quella metropoli, che restava il polo gravitazionale delle comunità cristiane nord-orientali (delle Venetiae), nonostante l'occupazione longobarda. L'alternativa minacciosa era, in breve, di entrare nell'area di influenza franca.
Con ciò si veniva a interferire nell'equilibrio ancora instabile fra le forze contendentisi il domino della penisola. E difatti Maurizio ordinò al papa di non molestare quei vescovi nella "presente confusione delle cose italiche", almeno "fintantoché, per intervento della divina provvidenza, e le regioni d'Italia non fossero state pacificate e gli altri vescovi dell'Istria e delle Venezie restituiti all'ordine preesistente" (17).
In campo longobardo non era stata ancora risolta la crisi successiva alla morte di Autari. Nel novembre 590, finalmente, Teodelinda aveva sposato Agilulfo, che venne eletto re. La prima preoccupazione del nuovo sovrano fu di riportare all'obbedienza i vari duchi, troppo spesso sensibili all'oro offerto da Costantinopoli, e di concludere le trattative con i Franchi, già avviate da Autari. Difatti nel 591 era ormai cessata ogni forma di collaborazione politico-militare tra Franchi e Bizantini. L'impero, già in difficoltà nella penisola illirico-balcanica contro Avari e Slavi, dovette perciò fronteggiare da solo in Italia la ripresa longobarda. Agilulfo, da parte sua, condusse varie operazioni per domare i duchi riottosi nell'area veneta: nel 591, contro Ulfari di Treviso; nel 593, contro Gandulfo di Bergamo e contro Zangulfo di Verona. Si procurò a tal fine una sorte di controassicurazione sul fronte alpino orientale, concludendo un accordo con gli Avari (593, e ancora 596).
Si capisce, quindi, bene come, in tale situazione, alla lettera dei vescovi della Venetia l'imperatore Maurizio reagisse intervenendo su papa Gregorio nei termini che si sono visti. Ma Gregorio non demordeva: quando, nel 592, il vescovo di Ravenna Giovanni gli chiese di inviare aiuti a Grado, ch'era stata incendiata da un'incursione (forse di pirati slavi), mentre una pestilenza gravava su tutta la costa adriatica, il papa rispose duramente, ricordando l'ostilità di quella Chiesa (18).
Nel contempo l'esarca Romano era impegnato nel ristabilire il collegamento fra Ravenna e Roma, interrotto dagli attacchi (591-592) del duca di Spoleto, Ariulfo, nelle cui mani erano caduti importanti centri dell'Italia centrale, quali Perugia, Todi, Amelia, Orte, Narni, Sutri. Nel 593-594, lo stesso Agilulfo, sospettoso dei successi di Ariulfo e del duca di Benevento, Arechi I, messosi per qualche tempo al soldo dei Bizantini, condusse il suo esercito a porre il campo sotto Roma, sì da indurre papa Gregorio a impegnarsi, a nome dell'imperatore, a pagare al re longobardo un tributo di cinquecento libbre d'oro.
In una situazione di così accentuata debolezza papale-imperiale, quale forza e quale prestigio potevano indurre i vescovi veneti e istriani suffraganei di Aquileia a rinunciare alle loro posizioni? Era una situazione, questa, che permetteva alla Chiesa scismatica di tenere viva una rete di rapporti che di fatto scavalcava gli stessi limiti territoriali della presenza bizantina nell'Alto Adriatico. Ma, morto nel 596 l'esarca Romano, il suo successore Callinico imboccò la via delle trattative, che nel 598 approdarono alla stipulazione di una tregua con i Longobardi della durata di un anno. In queste nuove situazioni si registrano i primi cedimenti alle pressioni papali e il passaggio del vescovo di Altino alla confessione romana: papa Gregorio colse l'occasione per porre questa diocesi sotto la giurisdizione di Ravenna, sottraendola a Grado già verso il 596 (19).
Cessata la tregua, Callinico riuscì a indurre a ribellione i duchi di Trento, Gaidoaldo, e del Friuli, Gisulfo II, e attaccò Parma. Ma la reazione di Agilulfo comportò subito la caduta in mano longobarda di Padova e di Monselice durante le campagne del 601-603, nel momento in cui l'Istria veniva invasa e devastata col concorso di contingenti avari e slavi. La caduta di Padova voleva dire per i Bizantini la perdita del controllo della principale via di comunicazione verso la Padania orientale, costituita dalla via Annia. Le comunicazioni con Ravenna potevano d'ora in poi essere assicurate solo dalla via costiera e dalla navigazione endolagunare. Era una grossa perdita che veniva a concentrare vieppiù nella laguna la presenza bizantina nella Venetia, mentre le successive (603) perdite di Cremona e Mantova toglievano a Bisanzio il controllo della navigazione fluviale padana. Di riflesso, anche queste perdite finivano con l'esaltare la funzione primaria di tutto l'arco lagunare, da Grado a Comacchio. Il ritorno dei duchi di Trento e del Friuli alla fedeltà nei confronti di Agilulfo non fu che la conseguenza naturale del ripiegamento di Bisanzio verso la costa.
L'uccisione a Costantinopoli di Maurizio (602) e l'ascesa al trono dell'usurpatore Foca (602-61 o) ebbero come conseguenza la sostituzione di Callinico con Smaragdo, operata grazie anche a trattative con lo stesso Agilulfo, che però nel 605 riprese l'offensiva mirando all'Italia centrale, per portare a termine l'occupazione di quella che sarebbe diventata la Tuscia longobarda. Seguì un periodo di tregua fra Bisanzio e Agilulfo, che durò fino alla morte del re longobardo (615), mentre la regina Teodelinda passava alla confessione cattolica (20).
Questo decennio di tregue, ripetutamente rinnovate, ebbe i suoi riflessi sulla situazione della Chiesa aquileiese, in connessione con l'accresciuta presenza e l'insediamento in forma più stabile dei Bizantini nel territorio della fascia lagunare. Si può con ragione dire che fu un periodo chiave della storia della laguna, ormai burocraticamente definita βενέτιϰα. Fatto centrale fu, tra il 6o6 e il 607, lo sdoppiamento-scissione della sede di Aquileia, quando, a Grado, il metropolita Candidiano, imposto con la forza dell'esarca Smaragdo come successore di Severo, abiurò lo scisma e dichiarò la sua fedeltà a Roma. Ne risultò una spaccatura ecclesiastica che venne a coincidere con la già esistente spaccatura politico-territoriale, perché, col concorso dello stesso Agilulfo e del duca del Friuli Gisulfo II, i vescovi di terraferma rimasero fedeli allo scisma e elessero un loro metropolita, Giovanni. L'abiura di Candidiano fu il risultato degli sforzi di papa Gregorio, conseguito a due anni dalla sua morte (604), ma con la conseguenza che veniva a aggiungersi un ulteriore motivo di separazione fra Venetia marittima e Venetia continentale.
A proposito della scissione del patriarcato aquileiese Paolo Diacono scriverà: "morto in quei giorni il patriarca Severo, viene ordinato al suo posto come patriarca nell'antica Aquileia l'abate Giovanni, col consenso del re [Agilulfo> e del duca [del Friuli> Gisulfo. Anche a Grado fu ordinato vescovo, per i Romani, Candidiano" (21). Giovanni diacono farà precedere di qualche anno Candidiano da un vescovo Marciano, che sarebbe stato l'artefice del ritorno sotto Roma, in quanto si precisa che "fu ordinato dai Romani" (22). L'area longobarda si qualificava pertanto anche rispetto alla "romanità" dell'area bizantina delle Venetiae: la situazione religiosa contribuiva così a caratterizzare vieppiù la separazione territoriale in riferimento ai rispettivi baricentri. La romanità della Venetia maritima storicamente e geograficamente riguardava proprio la sua proiezione adriatica. Infatti, "morto Candidiano, in Grado fu ordinato patriarca Epifanio, che era stato primicerio dei notai, dai vescovi che erano sub Romanis" (compresi quindi quelli dell'Istria) (23): il "sub Romanis" qui ha ormai il valore di appartenenti all'area imperiale, cioè di Bisanzio, unica capitale del vecchio impero.
Ma la delimitazione territoriale era tutt'altro che consolidata. Nel 604, quando, alla vigilia della morte, papa Gregorio mediava le tregue longobardo-bizantine, Agilulfo per parte sua stipulava una pax perpetua con Teodeberto II, re franco dell'Austrasia, pace che, dopo l'uccisione di questi (612), fu confermata con il di lui fratello Teoderico II, re di Borgogna, che l'aveva detronizzato. I Franchi erano pertanto l'ago della bilancia che assicurava il mantenimento dell'equilibrio fra le due forze dominanti in Italia e l'alleanza perseguita da Agilulfo frustrava in partenza ogni disegno imperiale di riconquista della penisola. D'altra parte, l'impero di Costantinopoli era sottoposto in quegli anni a una grave crisi interna, e quando nel 610 Eraclio (610-641) uccideva Foca e si impadroniva del trono imperiale, doveva affrontare la minaccia che Slavi e Avari portavano direttamente contro Costantinopoli, nonché il risveglio delle forze persiane in Oriente. Così anche Eraclio confermava le tregue stipulate in precedenza con Agilulfo. Ma proprio nel 610 si ebbe un'incursione di Avari e Slavi in Friuli, il cui duca Gisulfo II cadde in combattimento, mentre Cividale veniva saccheggiata e molti Longobardi presi in ostaggio (24), il che fa sospettare che Agilulfo avesse tacitamente consentito a un'iniziativa rivolta contro un duca, cui la prossimità all'area bizantino-adriatica aveva spesso ispirato accordi con i Bizantini. Ciò è tanto più spiegabile se si abbia presente la persistenza di un cuneo bizantino nel retroterra adriatico e veneto, che, avendo il suo caposaldo in Oderzo, si proiettava nella val Belluna, scavalcando la via Postumia "alta", unica via di collegamento del duca del Friuli con la Longobardia padana.
La riconferma della tregua con Agilulfo da parte di Eraclio trovava una precisa giustificazione nel ruolo alternativo proprio del ducato friulano, come si vide poi col truce episodio dell'uccisione in Oderzo, da parte del patrizio imperiale Gregorio, dei due figli di Gisulfo II, Tasone e Caco, che, scampati alla strage àvara, erano venuti nel capoluogo veneto-bizantino per il rituale taglio della barba, in omaggio allo spirito di alleanza perseguito dal loro defunto genitore: l'uccisione a tradimento sarebbe avvenuta (stando a quanto pur confusamente insinuò la cronachistica franca) in seguito a connivenze tra i Bizantini e il sovrano longobardo; e si potrebbe pensare forse a un accordo fra Arioaldo (re nel 626-636), successore del figlio di Agilulfo, Adaloaldo (602-626), e l'esarca ravennate Isacio (625-643), in un momento quindi di intese fra Bisanzio e Pavia (25).
Questi ulteriori anni di cosiddetta tregua si accompagnarono a altre svolte decisive per la vita della Venetia maritima: nel 616, l'esarca Eleuterio subiva pesanti sconfitte da parte del duca Sudrarit, il condottiero cresciuto alla scuola di Agilulfo, nel quadro di conflitti in seguito ai quali anche l'importante centro di Concordia cadeva in mano longobarda. Era una grave perdita, poiché si trattava del punto nodale dei collegamenti con la stessa Oderzo, ridotta oramai a essere una enclave isolata. Ma compromessa restava anche la viabilità da Aquileia attraverso la via Annia, in direzione di Altino: una strada che, già con la caduta di Padova, aveva perso d'importanza. Non restavano dunque percorribili che le vie interlagunari, col risultato di un ulteriore incremento di vitalità delle isole intermedie, verso le quali affluivano i profughi della terraferma. Queste migrazioni verso la laguna avvenivano secondo antiche linee di gravitazione. Innanzitutto, quella dei Patavini verso i vici litoranei, dove presumibilmente esistevano loro proprietà fondiarie e, comunque, siti abitati, di frequentazione soprattutto commerciale, alle foci del Meduacus (Brenta) e verso Metamaucum (Malamocco), che erano tappe di antica navigazione endolagunare. In secondo luogo, quella degli Altinati verso le aree prospicienti (Torcello, Mazzorbo, Burano, Costanziaco, Ammiana, Murano) (26).
Che queste migrazioni e relativi insediamenti abbiano comportato non facili problemi di convivenza con i precedenti abitanti è facile intuire, soprattutto se si rifletta sulla disastrosa situazione ambientale che si era venuta a creare con la catastrofica alluvione del 589, in seguito alla quale "factae sunt lavinae [fiumi di detriti> possessionum seu villarum hominumque pariter et animantium magnus interitus" (27). Quindi, oltre al disastro dei terreni, un'ecatombe di uomini e di animali. Paolo Diacono, come altre fonti, non circoscrive il disastro alla sola Venetia, ma lo estende a tutta l'Italia, e si sa che proprio allora l'Adige mutò il suo corso (28).
Da queste migrazioni la laguna veniva a ricevere, come per contraccolpo, una spinta vitale, cui la preesistente humus socio-economica offriva di per sé una consistente base di partenza. Paradossalmente, in conseguenza delle perdite territoriali sulla terraferma, si registrava una proiezione di vitalità in laguna.
Se veramente a Eraclio si deve l'invio a Grado delle cattedre di Marco e del suo discepolo Ermagora (29), si ha una chiara indicazione politico-ideologica di come a Costantinopoli si guardasse al destino e alla funzione dei βενέτιϰοι della laguna. Tradizione marciana voleva dire rapporto con Alessandria, il porto d'Egitto che Eraclio recuperò nel 63o dopo la conquista persiana del 619, anche se poi, appena dopo la sua morte, nel 642, la si dovette abbandonare in mano agli Arabi. San Marco ed Ermagora sottolineavano una duplice continuità promanante dall'antica Aquileia, da dove era partita la prima cristianizzazione della Venetia e delle regioni alpino-danubiane, e da dove e per dove avevano fatto capo per secoli i traffici adriatico-mediterranei, compresi appunto quelli con Alessandria. Con quella donazione alla chiesa di Grado si ribadiva perciò l'autenticità della sede metropolitana nella sua nuova collocazione lagunare e si sottolineava al tempo stesso la vitalità economica e politica della Venetia maritima, giusta l'eredità che anch'essa aveva ricevuto da Aquileia. Contestualmente, il patriarca gradense Primogenio portava a Grado i corpi dei santi martiri di Aquileia, Ermagora, Felice e Fortunato (30).
Si andava, dunque, chiaramente configurando la nuova realtà della Venetia maritima, cui, tra il 639 e il 641, l'occupazione di Oderzo a opera di re Rotari (636-652) doveva dare un'ulteriore definizione, tanto più in quanto comportò anche la caduta di Altino. Così, non solo con la caduta di Oderzo si perdeva ogni possibilità di presenza in un nodo stradale già impoverito nella sua funzione dalla caduta di Concordia, ma con quella di Altino perdeva definitivamente ogni valore il tratto ancora percorribile dell'antica via Annia, rimettendo alla navigazione endolagunare il grosso dei collegamenti con relativi traffici. Questa proiezione lagunare, e quindi marittima, delle forze economiche e della presenza militare e politica bizantina nella Venetia riceveva impulso anche dal riversarsi verso la laguna delle popolazioni delle vecchie città veneto-romane più prossime alla costa, con i rispettivi presuli. Caduta Altino in mano longobarda, il vescovo Paolo riparava con i suoi fedeli nell'isola di Torcello, portando seco le reliquie dei martiri Teonisto, Tabra e Tabrata (31).
La caduta di Oderzo, fino allora unico saliente continentale valido in mano bizantina, nel momento in cui precludeva definitivamente al governo di Costantinopoli ogni iniziativa che concernesse anche la media Venetia, lo costringeva a fissare più a Sud, in prossimità della costa, una possibile linea difensiva. A ciò poteva servire il terrapieno lungo cui correva l'Annia, ormai inservibile, nel tratto fra la Livenza e il Piave, cioè fra i due caposaldi che avevano delimitato la residua presenza bizantina in terraferma, Altino e Concordia (32). Di qui la fondazione di un nuovo centro abitato, o l'ampliamento di un centro preesistente, Civitas Nova Heracleana (33), a Sud dell'alzata viaria dell'Annia e in un punto intermedio fra Piave e Livenza. A Civitas Nova fu trasferita da Oderzo la sede dell'amministrazione bizantina della Venetia e trovarono rifugio i profughi provenienti da tale città, in un sito che era in diretta comunicazione con Grado.
Ma un particolare significato per l'avvio di un epicentro lagunare nella Venetia maritima l'assunse soprattutto l'isola di Torcello, dove, come s'è detto, migrarono i fuggiaschi da Altino, ma dove anche, verisimilmente, avevano trovato rifugio già in precedenza altri esuli dalla terraferma. Torcello non era munita di fortificazioni, come Grado, non era cioè un castrum, ma la sua posizione geografica, con la vicinanza alla terraferma, su cui pure dovevano proiettarsi gli interessi dei profughi altinati, e la naturale difesa che le numerose isole e isolotti circostanti offrivano anche contro le minacce dei pirati del mare, la rendevano il luogo di maggiore attrattiva. Ciò tanto più se l'impaludamento non era così esteso come sarebbe stato in seguito, nonostante la trasgressione e gli eventi alluvionali che si ebbero tra V e VI secolo, e quindi maggiore dovette essere stata allora l'area insediativa, come del resto proverebbero recenti rinvenimenti archeologici. Torcello doveva per di più offrire un'ottima base all'itinerario endolagunare e, quindi, alle corrispettive attività economiche e commerciali, cui davano un certo apporto anche i prodotti della terra: vi fioriva infatti la coltivazione della vite, degli ortaggi, della frutta, e per di più vi persisteva l'antica tradizione delle officine vetrarie, secondo la tipica tecnica tardoantica (34).
Torcello però ci ha offerto soprattutto il più antico e più ampio documento epigrafico della dominazione bizantina in Alto Adriatico nel secolo VII. Si tratta della nota iscrizione del magister militum Maurizio, del 639, verso la fine del regno di Eraclio. Essa dice che, su ordine dell'esarca Isacio, fu edificata, a opera del suddetto comandante militare che vi risiedeva, e su un terreno di sua proprietà, una chiesa dedicata a s. Maria Madre di Dio, che fu consacrata dal vescovo Mauro (35). Poiché l'epigrafe è datata al ventinovesimo anno di regno di Eraclio e alla dodicesima indizione, il che rimanda al periodo compreso f r a il 1 o settembre e il 5 ottobre 639, è probabile che la consacrazione alla Theotòkos abbia avuto luogo nel giorno in cui il calendario liturgico sia greco che latino onora il Nome di Maria, cioè 1'8 settembre (36).
L'iscrizione offre spunti degni di attenta considerazione. Come ha rilevato il Pertusi, essa ci dà le seguenti informazioni: la zona lagunare, verso la fine del regno di Eraclio, era un "angolo di territorio bizantino" (V. Lazzarini), facente ancora parte dell'antica "a Deo conservata Venetiarum provincia", a capo della quale figura un magister militum alle dirette dipendenze dell'esarca d'Italia; la chiesa di S. Maria Madre di Dio fu edificata per ordine (ex iussione) dell'esarca Isacio e da lui dedicata, "per volere di Dio", "a utile ricordo dei meriti suoi e del suo esercito", quindi in un luogo connesso con l'acquisizione di questi meriti e con l'operare del suo esercito. Ma ciò significa anche che il comandante militare della provincia, Maurizio, in questo anno 639, precedente la occupazione di Oderzo da parte dei Longobardi, teneva il suo quartiere generale in una posizione arretrata, non ritenendo evidentemente ormai più difendibile l'avamposto in terraferma. La scelta di Torcello si spiega in funzione dei vantaggi che presentavano le più sicure vie endolagunari nelle comunicazioni con Ravenna. Importante è anche che nell'iscrizione si parli di una proprietà in loco di questo alto ufficiale bizantino, perché ciò offre un'indicazione circa il formarsi di patrimoni fondiari degli ufficiali bizantini nella Venetia maritima, premessa, questa, del crescente loro rapporto, anche di carattere civile, con la popolazione locale (37).
Sorge a questo punto il problema della nascita di sedi episcopali nell'area lagunare. Il Chronicon Gradense, compilazione che si ritiene databile all'XI secolo (38), attribuisce al patriarca Elia l'istituzione, nella seconda metà del VI secolo, di sei nuovi episcopati nelle isole della laguna e nella rispettiva gronda di terraferma: Torcello, Malamocco, Olivolo, Iesolo, Eracliana, Caorle (39). Ma non si può prestare fede a tale notizia, soprattutto per il fatto che l'invasione longobarda di qualche anno prima non aveva ancora creato una netta separazione fra antiche città di terraferma occupate dagli invasori, e isole e costa lagunari, rimaste immuni dalla conquista (40). Le notizie cronachistiche vanno rapportate all'epoca della loro compilazione e verificate alla luce dei recenti rinvenimenti archeologici, alcuni dei quali molto significativi. Infatti, come ad Iesolo (Equilium) sono stati trovati i resti di una chiesa paleocristiana (41), così a S. Pietro di Castello (Olivolo) sono venuti alla luce rilievi paleocristiani e un tremisse di Eraclio (42): attestazioni per quell'epoca di una vita cristiana non necessariamente a livello di sede episcopale, ma più probabilmente, come si può supporre anche per altre località, di dimensione parrocchiale. E probabile quindi che il Ghronicon tenda a attribuire maggiore antichità, e quindi maggiore prestigio, a sedi episcopali formatesi solo più tardi (43).
C'è poi il problema delle migrazioni dalla terraferma con almeno temporaneo trasferimento dei rispettivi vescovi, che nondimeno mantenevano la titolatura originaria: quello di Padova a Malamocco (dopo la conquista della città da parte di Agilulfo), quello di Altino a Torcello e quello di Oderzo a Civitas Nova. Che avessero conservato la titolatura originaria è dimostrato dalle sottoscrizioni apposte dai vescovi della Venetia et Histria, suffraganei di Grado, alla lettera della sinodo romana del 27 marzo 680, inviata a Costantinopoli in vista del sesto concilio ecumenico: fra di esse troviamo infatti quelle di Benenatus di Opitergium, Ursinianus di Patavium e Paulus di Altinum (44).
L'iscrizione di Torcello del 639 offre comunque un adeguato punto di partenza per seguire l'evoluzione sociale e economica della società lagunare, in stretta connessione con quella militare e politica, che sfocerà poi nella costituzione del ducato venetico vero e proprio. Tale indicazione è rappresentata dal nesso fra comando militare e proprietà fondiaria in loco e, contestualmente, dal nesso con la funzione ecclesiastica, esplicitato dall'erezione di una chiesa che, nella titolatura, mostra una precisa impronta bizantina (45).
Abbiamo, dunque, questa antica testimonianza, che significativamente proviene da un'isola che, per un verso, è a ridosso del continente, per l'altro si trova in una posizione centrale dell'itinerario endolagunare, e che concerne un alto ufficiale bizantino, perché tale lo rivela il nome che porta, il quale è anche un proprietario fondiario. Non c'è dubbio che ci troviamo di fronte al segnale di una progressiva ascesa, in ambito economico e civile, dell'elemento militare, che, in un momento in cui le risorse agricole, per la caduta della vitalità urbana della fascia costiera, sono le uniche fonti di reddito, e l'impegno per la difesa risulta assolutamente prioritario, si vede favorito nell'accesso alla proprietà della terra.
Se l'invasione longobarda, stabilendo un netto distacco tra Venetia "mediterranea" e Venetia "marittima", venne a potenziare le risorse economiche, che già nella tarda antichità davano vitalità alle realtà, anche sociali, di quest'ultima (si pensi ai navicularii di cui parla Cassiodoro), l'inserimento in tale ambito dei militari creava le condizioni per la progressiva trasformazione di questi in ceto dirigente anche sul piano civile. L'iscrizione di Torcello ci fa intendere come nel momento in cui il magister militum avrebbe dovuto trasferire da Oderzo a Civitas Nova la sede del comando, egli aveva già una sua base economica di carattere fondiario, alle spalle della linea difensiva, lungo l'ultima frangia della fascia lagunare e nelle vicine isole. Si rende così manifesto lo stretto legame esistente tra necessità e capacità difensiva, da una parte, e vitalità economica dall'altra (46). Civitas Nova era destinata a scomparire, nel venir meno della sua funzione, mentre le isole lagunari avrebbero trovato alimento nell'aprirsi ai collegamenti marittimi destinati a sopravanzare in progressivo sviluppo la realtà stessa dell'esarcato, da Grado alle foci del Po, e nel crescente afflusso di profughi, dalla terraferma a Rialto, Olivolo e Torcello, dall'Altinate e dal Trevigiano, a Malamocco, e Albiola, e, forse, dal Padovano, a Chioggia. Poca terraferma restava ancora in mano bizantina, oltre alla stretta fascia fra Civitas Nova e Altino: in direzione occidentale la zona deltica del Brenta, le campagne di Chioggia, Cavarzere e Loreo, in direzione del Po. La prospettiva era, dunque, quella di una progressiva urbanizzazione delle isole lagunari attraverso due distinti volani: quello religioso, con la geminazione delle cattedre episcopali abbandonate in terraferma, e quello militare, sempre più radicato nella realtà civile e economica. E ciò tanto più in quanto quelle isole apparivano essere l'"ultima spiaggia" del domino bizantino in Alto Adriatico. Ma se la presenza dei militari ribadiva il legame con Costantinopoli per la gravitazione adriatico-mediterranea dei traffici, con relativi movimenti di merci, di uomini, di idee, di linguaggi, l'incardinamento ecclesiastico in ambito lagunare, ormai gravitante su Roma, si rafforzava rispetto a Costantinopoli, così da essere in grado di compiere scelte autonome, di modo che i funzionari militari bizantini, inseriti economicamente e socialmente in ambito locale, non potevano fare a meno di venire a patti con l'autorità e il peso sociale dei titolari delle diocesi.
Riguardo all'aspetto militare, è evidente che nella "provincia venetica", quale zona apprestata a difesa, trovava particolare incremento la delega di funzioni anche civili alle gerarchie militari, in prosecuzione di un processo già iniziato ai tempi di Maurizio e sviluppatosi ulteriormente sotto Eraclio. L'iscrizione di Torcello documenta la definitiva coincidenza fra gerarchia militare e gerarchia civile nella persona dell'esarca insignito della dignità di patrizio ("ex iussione pio et devoto domino nostro Isaacio excellentissimo exarcho patricio"), a sua volta riverberantesi nella coincidenza delle due funzioni anche nel magister militum del settore, di nomina esarcale, comandante militare e, a un tempo, reggitore civile (47).
Da parte sua, il magister militum nominava i reggitori dei castra e delle civitates, cioè i tribuni. Ogni tribuno aveva alle sue dipendenze il numerus, l'unità militare di base, che comprendeva fra i trecento e i cinquecento uomini, forniti dalla civitas a lui sottoposta amministrativamente (48). Ai soldati veniva corrisposto, oltre al soldo annuale, il godimento di beni fondiari (στϱατιοτιϰὰ ϰτήματα) ritagliati nelle terre appartenenti al fisco. Proprio nel corso del VII secolo si constata dovunque l'accentuazione del reclutamento locale dei soldati dell'exercitus Italiae ed è da ritenere che questo avvenisse in forma preminente nella Venetia bizantina, direttamente esposta com'era alla inesorabile pressione longobarda. Troviamo così attestati, per l'età di Gregorio II (715-731), anche gli "omnes Pentapolenses atque Venetiarum exercita" (49). Mentre non è attestata per l'area lagunare l'esistenza di veri e propri agri limitanei riservati ai soldati, è possibile postulare la tendenza dei tribuni, tuttora in parte reclutati nelle provincie orientali (ad esempio, il σινάτωϱ Stefano di Lison) (50), a radicarsi nella vita economica e sociale della provincia, soprattutto fra i proprietari fondiari, come nel caso citato del magister militum dell'iscrizione di Torcello.
L'altro aspetto è, come si è detto, quello del rapporto con l'autorità ecclesiastica. La consacrazione della chiesa di Torcello con titolatura tipicamente bizantina attesta il pieno allineamento religioso, ormai avvenuto, con Bisanzio. È però un allineamento che era passato attraverso Roma, come aveva dimostrato pochi anni prima, tra il 627 e il 628, il caso del patriarca gradense Fortunato, ch'era stato considerato un abusivo perché "hereticus pontificatum arripuit": si era cioè impadronito del titolo patriarcale senza avere prima fatto atto di adesione alla confessione romana e, temendo di essere punito, dopo avere depredato la chiesa di Grado di oro, vesti e ornamenti sacrali, se ne era fuggito in territorio longobardo, a Cormons (51). Proprio questa spoliazione aveva provocato l'invio di quei tali doni da parte di Eraclio, che con la cattedra istoriata con episodi tratti dalla vita di san Marco aveva inteso ribadire per Grado l'eredità di Aquileia. Appunto in quell'occasione papa Onorio I (625-638), confortato dal vedere solidali contro Fortunato i vescovi delle Venezie e dell'Istria, compresi i suffraganei di Aquileia che si trovavano in territorio longobardo, aveva designato di sua autorità a ricoprire la cattedra di Grado il suddiacono regionario romano Primogenio (52). La nomina di un romano decisa direttamente dal papa, scavalcando le istanze locali, era un fatto fuori dall'ordinario per Grado, certamente provocato dall'importanza che Roma, al pari di Costantinopoli, dava a quella sede per la sua contiguità con l'area longobarda (53).
Questo collegamento diretto fra Grado e Roma confermava la sostanziale capacità di autonomia della Chiesa venetica rispetto a Costantinopoli. Tale collegamento veniva infatti a inserirsi nella disputa da tempo in corso fra Roma e Costantinopoli, ma riacutizzatasi sotto l'imperatore Costante II (641-668) e i papi Teodoro I (642-649) e Martino I (649-655), a proposito del monotelismo, una dottrina teologica, secondo la quale l'esistenza delle due nature in Cristo non contraddiceva alla presenza, nel Cristo medesimo, di una sola volontà. Essa era stata avallata ufficialmente da Eraclio nel 638, per superare il persistente dissidio fra ortodossi (calcedoniani) e monofisiti, al fine di ottenere una più salda unità politico-religiosa nelle dure prove che l'impero doveva sostenere contro Persiani, Arabi, Avari e Slavi. A parte un'incauta apertura iniziale di Onorio I, il monotelismo era stato respinto con fermezza dalla sede apostolica, tanto è vero che Costante II ripiegò su una formula per cui si limitava a vietare, per motivi di ordine pubblico, che si discutesse intorno al problema della sola volontà o delle due volontà. Ma anche questa soluzione di compromesso, che evitava un'esplicita condanna della tesi monotelitica, non fu accettata da Roma, che vedeva così minacciata l'ortodossia calcedoniana. Di qui lo scontro aperto, cui si accennava, fra Costante II e i papi Teodoro I e, soprattutto, Martino I.
Il contrasto dottrinale fra Roma e Bisanzio divise l'Italia bizantina, perché il metropolita di Ravenna si allineò con la seconda, mentre il titolare di Grado, Massimo, successore di Primogenio, si schierò dalla parte della prima. Si rinnovava pertanto la manifestazione di autonomia della Chiesa veneta rispetto a Bisanzio, che si era già avuta ai tempi del patriarca Elia. Ma questa volta Grado veniva a trovarsi sulle posizioni di Roma.
Al concilio lateranense convocato da papa Martino per condannare il monotelismo (649), cui non presenziò il metropolita di Ravenna, Massimo di Grado, affiancato dal vescovo di Pola, svolse un'azione da protagonista, trascinando con sé anche i vescovi dell'area longobarda. Grado diventava così la base avanzata dell'operazione di conversione dei Longobardi alla fede cattolica, già a suo tempo avviata da papa Gregorio I attraverso la regina Teodelinda. Ma la presa di posizione del patriarca di Grado contro il monotelismo contribuì a farne il punto di riferimento anche politico della provincia venetica.
Quando papa Vitaliano (657-672), dopo l'uccisione dell'imperatore Costante II in Sicilia (15 luglio 668), messi da parte i dissapori, si risolse a promuovere la riscossa di Costantino IV, figlio e successore dello scomparso, contro l'usurpatore Mezezio, fece appello alle forze marittime locali della Campania e dell'Istria (54). Ciò dimostra che la presenza bizantina nell'Alto Adriatico era ormai strettamente inserita nel particolare ambiente della ristretta fascia costiera, di cui la laguna è un punto nodale, e che in questo rapporto fra realtà locale e forze militari bizantine il riferimento all'autorità religiosa diventava determinante, quanto più si creavano momenti di contrasto fra Roma e Costantinopoli.
L'autorità ecclesiastica, molto bene radicata nell'ambiente e, insieme, portatrice di una tradizione tipicamente veneta, maturata dapprima con Aquileia, nella sua funzione di sede metropolitana, e poi consolidatasi con le prese di posizione di Grado, sia verso Roma (ai tempi di Elia), sia verso Bisanzio (ancora con Elia e più tardi con Massimo), diventava certamente una forza determinante nel costituirsi di quell'autonomia veneta, che verrà impetuosamente alla ribalta con la lotta antiiconoclastica e si consoliderà negli anni successivi alla fine dell'esarcato. Ciò naturalmente accentuava anche il rapporto dell'autorità religiosa con i duces e i tribuni, i quali, mentre si andava precisando la loro fisionomia di proprietari fondiari, in concomitanza con l'arruolamento militare locale a sostentamento di tipo coloniario, si trovavano ad avere dalla Chiesa, in enfiteusi, terre che essa aveva ricevuto dal governo imperiale dopo la guerra gotica (55). Ma la rilevanza civile dell'autorità ecclesiastica locale era dovuta in larga misura anche a ragioni culturali, che ne facevano l'unico elemento in grado di interloquire usando documenti e messaggi scritti e di assumere il monopolio del notariato, nonché al fatto che, nella Venetia, come nelle altre provincie, fino dal V secolo la legislazione imperiale aveva assegnato ai vescovi la funzione arbitrale nelle successioni (56). Questo è il punto qualificante nell'evoluzione della vita civile nella fascia bizantina dell'Alto Adriatico. Tanto più era quindi incisiva per la vita della laguna ogni presa di posizione del patriarcato di Grado.
La ripresa longobarda nella seconda metà del VII secolo costringeva d'altronde il governo bizantino a ristrutturare i suoi restanti dominî italiani. Grimoaldo, duca di Benevento, figlio di Gisulfo duca del Friuli, aveva attaccato a metà del secolo Godeperto, che gli aveva incautamente chiesto aiuto contro il fratello Pertarito, col quale aveva diviso il regno alla morte del padre Ariperto. Grimoaldo uccise Godeperto a Pavia (662), si fece eleggere re e, seguendo l'antico costume di legittimazione, sposò la figlia di Ariperto. Grimoaldo intraprese una politica di riordinamento dello stato longobardo e affrontò i Franchi che si erano spinti nella pianura padana (663). Accorse poi in aiuto del figlio Romualdo, divenuto duca di Benevento, contro i Bizantini, da lui attaccati anche nel Ravennate, mentre domava la ribellione del duca del Friuli Lupo, appoggiato dagli Avari, che aveva compiuto una incursione su Grado, saccheggiandone la chiesa patriarcale. Nel 667, Grimoaldo distruggeva definitivamente Oderzo (già fortemente danneggiata dall'occupazione di Rotari nel 639), dividendone l'agro fra Treviso, Ceneda e Cividale. Di fronte a questa situazione, il governo bizantino si risolse a dare un nuovo assetto, puramente difensivo, ai suoi possedimenti italiani, basato sul frazionamento delle forze disponibili. Così, la Calabria, che fino alla metà del VII secolo era un'eparchia dell'esarcato d'Italia, in seguito alle conquiste di Romualdo I duca di Benevento in Apulia divenne ducato a sé stante. In coincidenza con ciò, vennero stabiliti duces a Roma, a Napoli e nella Venetia (con sede a Civitas Nova), sempre in nome della necessità di potenziare, con questo frazionamento che andava a scapito dell'esarca, la difesa locale. Questa ristrutturazione comportò anche l'erezione di fortificazioni e di castelli, che, nell'area lagunare, in fase di crescita di popolazione, dovettero costellare le isole e le basi costiere più esposte (Malamocco, Iesolo) (57). Il disfacimento territoriale della Venetia bizantina nel frattempo continuava, e incrementava, di riflesso, lo sviluppo economico delle isole lagunari e la navigazione entro e fuori la laguna, nell'arco da Ravenna a Grado, in sostegno ai commerci adriatici, cui pure servivano di appoggio le basi bizantine sulla costa dalmata (58).
La cronaca di Andrea Dandolo data la istituzione del ducato venetico al 697, mentre altre fonti assegnano al 706 l'elezione del primo duca e Giovanni diacono fa risalire al 713-716 la nomina di Paulitio dux, menzionato nel pactum Lotharii dell'84o (59). In questi testi si parla sempre di "duca" (ma anche di "ducato") secondo schemi fortemente autonomistici, considerandolo non come un funzionario bizantino, come in effetti era, bensì come l'espressione di una volontà locale, svincolata da ogni sudditanza all'impero. Ma, anche a prescindere da queste forzature, funzionali all'ideologia e ai bisogni di Venezia, quelle date offerte da cronisti tardivi sono tutte assai problematiche. Ma che cosa succede a livello di storia generale prima di quel fatidico 726 in cui le milizie della Pentapoli e della Venetia insorsero contro il decreto iconoclastico di Leone III, eleggendo effettivamente un dux nell'ambito delle famiglie di maggiore importanza locale, nella persona di Orso? (60)
Innanzitutto era sempre aperta, nei rapporti fra Roma e Costantinopoli, la questione monotelitica. Agli inizi del 678, l'imperatore Costantino IV Pogonato aveva inviato a papa Dono (676-678) una lettera con cui sollecitava l'invio a Costantinopoli di tre legati della Chiesa romana, di dodici vescovi di ubbidienza romana e di quattro abati dei monasteri greci di Roma. Questi erano invitati a partecipare a un'assemblea che non doveva essere un concilio ecumenico, ma offrire l'occasione per un dibattito teologico. La lettera di Costantino IV arrivò a Roma quando papa Dono era già morto (11 aprile) e pertanto trovò a riceverla il nuovo papa Agatone, eletto il 27 giugno 678. Papa Agatone (678-681) rispose solo due anni dopo; nel 68o, quando la prevista assemblea di Costantinopoli si era trasformata in vero e proprio concilio ecumenico, cui erano convenuti tutti i vescovi sottoposti alla giurisdizione del patriarca constantinopolitano (61). L'atteggiamento di Costantino IV era ispirato alla ricerca di una composizione della vertenza, tanto è vero che, nel dicembre 679, depose il patriarca Teodoro favorevole al monotelismo, e lo sostituì con Giorgio. Papa Agatone, a sua volta, prima di rispondere, convocò a Roma nel marzo 680 una sinodo per prendere posizione contro il monotelismo, le cui decisioni furono esposte in una lettera all'imperatore, sottoscritta da centoventicinque vescovi. Erano presenti anche i vescovi della Venetia e dell'Istria, cioè dell'area bizantina, nonché l'arcivescovo di Ravenna, Teodoro, nonostante l'autocefalia cui pretendeva la sua sede (62). Non sottoscrissero invece i vescovi della archidiocesi di Milano, retta da Mansueto, che redassero una loro lettera di risposta in greco.
La presa di posizione dei vescovi altoadriatici era importante per i riflessi che essa aveva ormai sulla presenza bizantina in questo settore, tanto più che nello stesso torno di tempo veniva concluso un accordo fra il regno longobardo di Pavia e l'impero, probabilmente grazie alla mediazione di papa Agatone. D'altra parte, anche la Chiesa di Milano in quegli anni aveva adottato un atteggiamento di apertura nei confronti del regno longobardo: una sinodo provinciale tenutasi fra il 679 e il 680 acclamava come "felicissimi e cristianissimi principi, amanti della religione cristiana" i re longobardi, in conseguenza anche della politica cattolicizzante del nuovo re Pertarito, rientrato sul trono dopo la morte del fratello Grimoaldo (671) (63). Nel 683 si tenne a Pavia una sinodo in cui le superstiti tracce di fede scismatica tricapitolina in area longobarda furono cancellate e gli ultimi seguaci dello scisma rientrarono nell'obbedienza romana. Cessava conseguentemente la divisione religiosa fra i due metropoliti di derivazione aquileiese, quello di Grado, nella Venetia maritima, e quello residente a Cormons, in area longobarda (64).
I turbamenti che colpirono al suo interno in quegli anni il regno longobardo non ebbero riflessi nell'Italia bizantina. Il nuovo re Cuniperto, succedendo al padre Pertarito nel 688, dovette affrontare una lotta con Alachis, duca di Trento, che prima si impadronì di Pavia, poi, dopo esserne stato cacciato, fece dell'area veneta (l'Austrasia) la base del suo potere. La battaglia di Cornate sull'Adda segnò la fine dell'avventura di Alachis, che cadde in combattimento. Ma, nell'angolo orientale del regno, sempre foriero di irrequietezza proprio per la sua posizione chiave fra la finitima zona lagunare bizantina e le Alpi, con i relativi collegamenti transalpini, dopo Alachis si ripeté un tentativo autonomistico da parte di Ansfrit, che si ribellò a Rodoaldo, duca del Friuli. Questi richiese l'intervento diretto del re Cuniperto, che, vinto Ansfrit, affidò il Friuli non più al duca Rodoaldo ma a suo fratello Adone, con qualifica non di duca, bensì di lociservator, cioè di amministratore regio privo di potere autonomo. Ciò non fu senza influenza sulla rinuncia della Chiesa aquileiese in territorio longobardo allo scisma tricapitolino, in conformità con l'indirizzo decisamente filoromano del re Cuniperto. Seguì, nel 698, l'accordo con papa Sergio I (687-701) per il riconoscimento delle due sedi, Cormons (poi, dal 735 circa, Cividale) e Grado. Il confine ecclesiastico fra i due patriarcati seguiva il confine politico fra i territori di dominio bizantino e quelli di dominio longobardo (65).
Quando morì Cuniperto nel 700, fra Costantinopoli e Roma era in corso una grave crisi, provocata dall'imposizione fatta dall'imperatore Giustiniano II a papa Sergio di accettare le deliberazioni del concilio, detto "Quinisesto", in quanto intendeva completare il quinto e il sesto concilio ecumenico relativamente ai problemi liturgici e disciplinari che questi avevano trascurati. Le decisioni del concilio costantinopolitano del 691 miravano in sostanza a rendere di osservanza universale e quindi a imporre anche a Roma una serie di usi liturgici prettamente bizantini. Inoltre, ritornando su un tema già dibattuto a Calcedonia, il Quinisesto stabilì che alla cattedra del patriarca della Nuova Roma d'Oriente spettassero gli stessi privilegi di cui godeva quella del patriarca della Vecchia Roma, in quanto seconda per dignità, subito dopo di questa. Il rifiuto del papa a sottoscrivere gli atti conciliare indusse l'imperatore a ricorrere alla forza, dando ordine al suo protospatario Zaccaria di arrestare il papa. Ma non solo l'esercito di Roma, bensì anche quelli di Ravenna e della Pentapoli si rifiutarono di eseguire l'ordine e marciarono su Roma per difendere il papa: chiaro segno di perdita effettiva di autorità da parte dell'impero nei suoi possedimenti nella penisola, presso gli stessi officiali che avevano la responsabilità della loro amministrazione.
E appunto in questo progressivo affievolirsi della presenza bizantina in Italia che anche nell'area lagunare veneta si manifestavano i primi segni di una nascente organizzazione autonoma. Anche se la notizia non ha un fondamento attendibile, non è senza significato che proprio a questi anni, e precisamente al 697, il cronista Andrea Dandolo faccia risalire l'inizio del ducato veneto con l'elezione del primo duca (66).
La crisi apertasi al momento della successione di Cuniperto, in seguito alla reazione di Ariperto II, duca di Torino, alla designazione del figlio del defunto re, che gli valse la conquista del trono, stava creando nell'Italia longobarda un vuoto di potere analogo a quello che si era determinato nell'Italia bizantina. E se la crisi longobarda dava spazio alle affermazioni dei duchi, a cominciare da quello di Benevento, Gisulfo II, che poteva condurre nel 702 una campagna di conquiste contro il ducato romano, quella bizantina, con la deposizione-uccisione di Giustiniano II, nel 711, e la successiva anarchia militare, rafforzava le ribellioni antibizantine nei possedimenti italiani, alimentate anche dall'autorità papale, che, con Costantino (708 -715), si rifiutava di riconoscere imperatori di tendenze monotelitiche, come Filippo Bardane (711-713). Le polemiche religiose si intrecciavano inoltre con i contrasti politici e amministrativi, come si vede nell'atteggiamento di papa Gregorio II (715-731), che si rifiutò di subire le imposizioni fiscali di Leone III Isaurico (717-741) sulle proprietà ecclesiastiche.
Si dava così spazio all'accentuazione del processo autonomistico, in cui era coinvolta anche la realtà venetica, dove diventava sempre più forte la classe fondiaria dei magistri militum e dei tribuni, mentre il sistema di reclutamento delle truppe e degli ufficiali, ormai definitivamente locale, radicava strettamente l'organizzazione militare e civile nella vita di una società in pieno sviluppo, ivi comprese le conseguenti fissazioni dei rapporti di forza fra i diversi ceti, o gruppi all'interno di uno stesso ceto. A questo processo partecipavano naturalmente anche quegli elementi di origine greca, o più latamente orientale, che ancora risultano documentati, come il Teofilatto di Torcello, la cui dimora sarebbe finita fra le proprietà del dux Giustiniano Particiaco nell'829 (67).
L'avvento di Liutprando sul seggio regale longobardo nel 712 apriva un periodo in cui le forze che si trovavano di fronte in Italia venivano assumendo più precisa e più stabile fisionomia. Liutprando regnerà fino al 744; nel 717, Leone III Isaurico conquistava a Costantinopoli il trono imperiale; nel 715, veniva eletto papa il già ricordato Gregorio II, cui toccò sostenere il primo scontro con l'imperatore per la questione iconoclastica, formalmente aperta nel 726, ma con avvisaglie già negli anni precedenti, in cui si colloca anche un fallito tentativo di adoperare la forza bizantina in Roma contro lo stesso papa Gregorio (68).
La contesa iconoclastica non faceva, in realtà, che mettere allo scoperto la debolezza della presenza bizantina in Italia, dove le istanze autonomistiche erano giunte a un punto di avanzata maturazione. Ma, a parte l'attendibilità, o meno, dell'indicazione di Giovanni diacono sull'elezione nelle Venetiae, a Civitas Nova, di un dux Paulitio, fra il 713 e il 716 (regnanti l'imperatore Anastasio e re Liutprando) (69), va notato che quanto si può desumere dal capitolo nr. 26 del pactum Lotharii dell'840 (noto anche a Giovanni diacono, che vi accenna espressamente), dove ci si richiama a una delimitazione dei confini di Civitas Nova, stipulata al tempo di re Liutprando fra un dux Paulitio e un magister militum Marcello (70), può rispecchiare ancora una situazione pienamente "bizantina", nel senso che il dux in questione, a differenza di ciò che arguisce Giovanni diacono, potrebbe essere stato un esarca ravennate o il duca di Venetia et Histria ancora congiunte (71). A maggior ragione la "bizantinità" rimane indiscutibile qualora in Paulicio si riconosca il duca longobardo di Treviso, come pure è stato proposto (72). Quel che soprattutto e in ogni caso si desume dalla testimonianza in questione è il legame esistente, in questa prima metà del secolo VIII, fra le isole lagunari e la terraferma retrostante, così come si manifesta nella definizione dei diritti di pascolo e di capulum (aratura).
Ma, ancora una volta, sono i documenti ecclesiastici a segnalarsi per la loro perspicuità, in una situazione in cui la definizione stessa dei rapporti fra i due tronconi ereditari dell'antico patriarcato aquileiese mostra l'incentrarsi sulla Chiesa di Grado del volano della progressiva affermazione autonomistica delle isole venetiche. Non c'è dubbio che l'iniziativa del duca del Friuli, Pemmone, di ospitare a Cividale il vescovo di Iulia Carnica, fuggito davanti agli Slavi, "costituendo di fatto un vescovo ducale, ad onta delle tradizioni canoniche e del parere del patriarca di Aquileia, che dai tempi di Arioaldo aveva per sede il piccolo castello di Cormons" (73), rafforzava indirettamente la posizione di Grado. Se ne ha la riprova nell'intervento di Gregorio II, che il primo dicembre 723 ammoniva il Foroiuliensium episcopus Sereno a non molestare il territorio della Chiesa gradense, travalicando i confini delle terre longobarde ("nec amplius quam in finibus Langobardorum existentibus gressum tendere praesumat") (74). Di ciò venivano informati i vescovi e il popolo della Venetia, che dovevano darsi cura di vegliare contro gli sconfinamenti ("ne ergo incuria quadam aut discidio locum gens eorum insidiando, ut assolet, invadat, pervigiles cavete") (75). Notevole è anche l'accentuazione della differenza dei titoli dei due presuli: l'episcopus Foroiuliensium, da una parte, e il patriarca Gradensis, dall'altra (76).
Due anni dopo, il papa interveniva contro l'illecita occupazione della Chiesa di Grado, dove era morto il patriarca Donato, da parte del vescovo di Pola, Pietro, ribadendo il divieto per i vescovi di passare da una sede episcopale all'altra. Gregorio II confermava inoltre l'autorità della sede patriarcale gradense (dove fu eletto Antonino, con conseguente invio del pallio papale) anche nei rispetti delle chiese dell'Istria (77).
L'aprirsi della crisi iconoclastica fra Roma e Bisanzio non poteva non avere per conseguenza l'offerta di appoggio del re longobardo al papa. Nella prospettiva di Liutprando l'intesa con Roma divenne uno dei cardini della sua politica, soprattutto di fronte all'indebolimento della presenza bizantina in Italia. Pronto ad approfittare della crisi dell'impero, il re longobardo, che appena salito al trono aveva rinnovato la donazione al papa del "patrimonio di s. Pietro" delle Alpi Cozie, quando Costantinopoli nel 717, l'anno stesso in cui Leone Isaurico prese il potere, subì l'assedio degli Arabi, guidò l'offensiva, sua e dei duchi, contro i territori imperiali in Italia. Mentre Romualdo II di Benevento si impossessava del castello di Cuma, e Faroaldo di Spoleto di quello di Narni, Liutprando invadeva il Ravennate, assediava la stessa Ravenna e faceva un'incursione a Classe, traendone bottino e prigionieri. Furono azioni con esito passeggero, ma che vennero a costituire un chiaro indizio delle ambizioni longobarde e del futuro assetto politico in Italia. La stessa incursione nel Ravennate, antica roccaforte del dominio bizantino, ma anche posizione essenziale per gli sbocchi della navigazione fluviale e, quindi, dei commerci padani, come dimostrava l'accordo fra Liutprando e gli abitanti di Comacchio di un paio d'anni prima (715), relativo ai pedaggi da pagare lungo il Po per l'importazione del sale in territorio longobardo, veniva a inficiare il dominio bizantino in tutto l'arco adriatico, ai limiti meridionali della stessa laguna veneta (78).
Leone III, quando papa Gregorio si rifiutò di sottostare alle imposizioni tributarie imperiali, aveva ingiunto all'esarca Paolo di marciare su Roma, ma le truppe esarcali furono bloccate per strada da quelle di Spoleto e della Tuscia, sollecitate dallo stesso papa. La tensione fra Roma e Bisanzio, motivata dai provvedimenti fiscali di Leone III, durò dal 719 al 725. Il primo decreto contro il culto delle immagini è del 726.
3. La contesa iconoclastica
Il 726 è anche la prima data sicura della scelta dei Venetici di un loro dux nella persona di un rappresentante della nobiltà locale eracleense, di origine tribunizia: Orso (726-737) (79). La crisi apertasi nel 726, togliendo autorità all'esarca di Ravenna, faceva emergere l'importanza della adesione venetica alla mobilitazione promossa da Gregorio II. Questi infatti inviò lettere a tutte le chiese, denunciando l'empietà dell'imperatore, che si dichiarava disposto a transigere sulla questione fiscale se il papa avesse avallato il decreto sulle immagini: nel caso contrario, Leone avrebbe fatto incatenare e deportare il papa, come il suo predecessore Costante II aveva fatto con Martino.
Come racconta il biografo di Gregorio II, il papa, che scrisse "dovunque" per invocare la solidarietà dei fedeli contro il basileus, ma dovette in realtà rivolgersi in particolare ai vescovi, ebbe subito dalla sua gli "eserciti" delle Venetiae e della Pentapoli, che, allo stesso modo, del resto, di ciò che accadeva nelle altre provincie dell'Italia bizantina, elessero propri duchi al posto di quelli di nomina imperiale ("sibi omnes ubique in Italia duces eligerunt"). Come dimostra l'elezione del duca Orso nelle Venetiae, si esplicava così la stretta connessione fra elemento militare e popolazioni locali. L'esarca Paolo fu ucciso nella sua sede di governo, e Ravenna divenne un caposaldo degli insorti, mentre Osimo, nella Pentapoli, e alcuni castelli emiliani si sottomisero alla sovranità di Liutprando. Ciò a cui invece il papa si oppose fu l'elezione di un nuovo imperatore da contrapporre a quello di Costantinopoli (80).
Si delineavano così, ormai, le linee di sviluppo della situazione italiana, secondo cui la crisi bizantina apriva la strada per un verso alla espansione longobarda e, per l'altro, dava luogo all'affermazione, grazie all'indebolirsi della presenza bizantina nell'Alto Adriatico, di quella realtà venetica, che, proprio in conseguenza della spaccatura, a suo tempo prodotta dall'invasione longobarda, trovava nella base lagunare lo spazio e le condizioni per il recupero e il potenziamento dell'eredità, religiosa, economica e anche politica di Aquileia tardoantica, che, da sempre città di frontiera, aveva svolto una funzione determinante nello spostamento in zona alpino-danubiana dell'asse di congiunzione fra le due parti dell'impero, l'occidentale e l'orientale, almeno fino all'assedio di Attila a metà del V secolo (81). Tutto questo naturalmente non implicava una rivoluzione statuale, restando sempre le Venetiae parte integrante di quell'impero di Costantinopoli, che, con le basi dalmate e bassoadriatiche, continuava a garantire approdi sicuri al commercio marittimo, premessa indispensabile di un ulteriore sviluppo delle isole lagunari. D'altra parte, lo stesso Orso era insignito del titolo aulico di hypatos (console), riservato a chi si fosse recato a Costantinopoli rendendovi omaggio all'imperatore (82). Tanto è vero che, chiusa, come si vedrà, la parentesi del duca Orso, si restaurerà, almeno per qualche anno ancora, il reggimento dei magistri militum e che, nella imperialis iussio di Leone III e del suo figlio e erede Costantino alla Chiesa di Grado, del 727, la Venetia veniva considerata tuttora provincia dell'impero ("a Deo conservata Venetiarum provintia") (83).
Come ha scritto a suo tempo il Cessi, "nel programma degli agitatori non era registrata quale meta la distruzione dell'unità imperiale e la creazione di stati autonomi: tutt'altro" (84). E ciò spiega la su ricordata opposizione di Gregorio II, "che sperava nella conversione di Leone", alla proclamazione di un nuovo imperatore da insediare poi a Costantinopoli (85).
Il nuovo patrizio ed esarca Eutichio, inviato da Costantinopoli a prendere il posto dell'ucciso Paolo, non poté sbarcare a Ravenna e prese stanza a Napoli, di dove intendeva muovere alla riscossa contro Roma. Contestualmente, milizie longobarde conquistavano il castello di Sutri ai confini del ducato romano, e il re Liutprando, forse sospettoso dei rapporti diretti che si erano stabiliti fra Gregorio e i due duchi di Spoleto e di Benevento, venne ad accamparsi alle porte di Roma. Il papa, stretto nella morsa di due eserciti, andò incontro a Liutprando, che venne a deporre le insegne reali sulla tomba di s. Pietro, dopo avere ottenuto da Gregorio che si rappacificasse con l'esarca Eutichio (86).
Questo avvenne nel 729, due anni dopo la succitata lettera di Leone III alla Chiesa gradense, che riguardava le consacrazioni episcopali da operarsi in quella provincia senza interferenze e irregolarità (87). Nel pieno della crisi l'imperatore guardava, dunque, alla Venetia come a una sua provincia, rivolgendosi alla Chiesa di
Grado: segno che in essa individuava ancora un punto di riferimento essenziale della presenza bizantina nell'Alto Adriatico. Che questo avvenisse nel corso della disputa iconoclastica con Roma, significa che la stessa Chiesa romana non metteva in discussione l'autorità imperiale. Ma era anche segno che il governo di Bisanzio non anteponeva i suoi indirizzi religiosi, non condivisi dalla Chiesa veneta allineata con Roma, alla necessità di tutelare i propri interessi nei territori dell'Alto Adriatico.
La crisi iconoclastica riscoppiò virulenta nel 730, quando l'imperatore arrivò a deporre il patriarca di Costantinopoli, Germano, favorevole all'accordo con Roma. Le prese di posizione del successore di Gregorio II, Gregorio III (731-741), con la sinodo del novembre successivo alla sua elezione (avvenuta in marzo), cui furono invitati fra gli altri il patriarca di Grado Antonino e i suoi vescovi suffraganei (88) e che decretò la scomunica degli iconoclasti, provocarono la confisca, da parte di Leone III, dei "patrimoni di s. Pietro" in Sicilia e in Calabria, nonché il distacco dall'obbedienza romana e il passaggio alla costantinopolitana delle diocesi della penisola balcanica e di quelle calabresi e siciliane (89). Ma, da parte sua, l'esarca Eutichio praticava una politica filoromana, cercando di creare un fronte comune contro le spinte espansionistiche di Liutprando. Fu Eutichio a aprire le ostilità contro Liutprando, nel 732, per recuperare i territori emiliani di recente perduti. Il risultato fu la sconfitta dell'esercito bizantino a Bologna e la conquista di Ravenna da parte delle forze longobarde. All'esarca non restò altro scampo che la fuga. Sia egli che l'arcivescovo ravennate ripararono nelle Venetiae (90).
Questo è un momento decisivo per la configurazione anche politica dell'area veneto-bizantina, dove lo stesso duca Orso apparteneva allo schieramento filobizantino eracleense della nascente aristocrazia lagunare, e dove la Chiesa di Grado, epicentro dell'organizzazione ecclesiastica, rappresentava un importante punto di riferimento per l'impero, come aveva dimostrato il citato intervento di Leone III circa la regolarità delle nomine episcopali. Nel 732 il papa Gregorio III si rivolgeva al patriarca gradense Antonino, che, come s'è appena detto, aveva partecipato alla sinodo antiiconoclastica dell'anno precedente, per indurlo a appoggiare il rientro a Ravenna di Eutichio, l'esarca rifugiatosi apud Venetias (91). Benché la lettera che Gregorio avrebbe inviata contestualmente al duca Orso risulti essere un falso (92), il fatto che il papa si rivolgesse a Antonino perché si adoperasse, al servizio degli imperatori Leone e Costantino, a che Ravenna, che "caput extat omnium", venisse reintegrata nella respublica, "affinché, con il nostro fervido impegno per la santa fede, con il nostro amore per essa, ci sia dato di persistere saldi con l'aiuto di Dio nella stabilità della respublica e nel servizio imperiale", è una nuova prova che le Venetiae rappresentavano ormai una posizione anche politicamente determinante (93).
Eutichio doveva avere scelto quel rifugio non solo perché il più prossimo a Ravenna fra i domini bizantini, ma anche perché il più difeso e difendibile, nonostante l'incombenza territoriale immediata del regno longobardo, sia per la natura stessa dell'area veneto-lagunare, sia per gli approntamenti difensivi già da tempo ivi esistenti, sia perché la residenza ad Eraclea del duca Orso offriva una base per una possibile organizzazione di una spedizione di rientro a Ravenna. Ma il fattore fondamentale che giocava a favore di quella scelta dovette essere costituito dall'esistenza di una flotta in grado di fare operazioni anche militari, come si vide subito dopo quando appunto i Venetici riconquistarono Ravenna (94). Questo intervento sta a di mostrare che, in corrispondenza dell'appoggio politico-diplomatico che il papa era stato pronto a fornire all'esarca ravennate, esisteva un'asse di intesa fra patriarca gradense e duca venetico. Il suo significato politico risiede nel fatto che esso avveniva senza bisogno di un'azione diretta da parte del governo imperiale, che pure allestì una flotta per il recupero di Ravenna, annientata però da una tempesta. L'intervento dei Venetici bastò da solo a rimettere l'esarca nella sua sede, dove fra l'altro veniva catturato il nipote di re Liutprando, Ildeprando.
L'impresa venetica contro i Longobardi a Ravenna va probabilmente posta prima del 735 (95). L'uccisione, due anni dopo, ad Eraclea, del duca Orso, con il conseguente ritorno per cinque anni al reggimento dei magistri militum annuali, è stata oggetto di interpretazioni discordanti. Conosciamo i nomi dei cinque titolari, che si sono susseguiti in quest'ordine: Leone; Felix, cognomento Cornicula; Deusdedi, filius sepedicti Ursonis interfecti duces; Iubianus ypatus; Iohannes Fabriciacus (96). Si trattava di personaggi dell'amministrazione esarcale, con determinati titoli di funzione o aulici (Felix "corniculario ", Iubianus "ipato"); mentre, per ciò che concerneva Deusdedit, la scelta cadde su un familiare dell'ucciso duca Orso, che tornerà, come vedremo, a farsi vivo in seguito (97). Secondo alcuni, l'uccisione di Orso e il conseguente ritorno dal 737 al 742 al regime dei magistri militum rispecchierebbero "una svolta centralistica ed una riduzione delle autonomie riconosciute, o estorte, nel passato" (98). Ma siamo troppo poco, e male, informati sia sulle vicende che accompagnarono l'uccisione di Orso che sulla situazione interna del ducato venetico, perché si possa arrivare a conclusioni sicure. Tant'è che il Pertusi (99) ha potuto vedere proprio nel ritorno ai magistri militum, espressione ormai dell'aristocrazia locale, un ulteriore segno di progresso autonomistico, laddove il ripristino dei duces nel 742 sarebbe da considerarsi come un segno di ripresa della sovranità bizantina. Come che sia, il ritorno ai duces avveniva col beneplacito dell'aristocrazia locale, giacché il nuovo duca, forse artefice dell'accecamento e uccisione dell'ultimo magister militum Giovanni Fabriciaco, era lo stesso Deusdedit, figlio del defunto duca Orso (100), un membro, dunque, dell'aristocrazia eracleense, che aveva ricoperto la stessa carica, terzo nella serie dei cinque magistri.
4. Caduta dell'esarcato e sue conseguenze
L'elezione a duca di Deusdedit coincise con l'abbandono di Civitas Nova come sede del ducato e il trasferimento di essa a Malamocco. Poiché questo centro, data la maggiore vicinanza alla capitale esarcale Ravenna, era più esposto a un ritorno in forze bizantino (per altro improbabile, data la situazione di crisi in cui versavano le forze dell'impero in Italia), è da escludere che il trasferimento sia da intendersi nel senso di un'accentuazione delle istanze autonomistiche venetiche. Piuttosto, si deve pensare ad un'accentuazione del carattere marittimo della provincia venetica, di fronte a una terraferma sempre più estranea e lontana; ma si deve pensare anche all'opportunità, per il neoeletto Deusdedit, di sottrarsi all'ostilità degli Equilensi, rivali degli Eracleensi (101) In rapporto non chiaro con il trasferimento della sede del ducato da Civitas Nova a Malamocco è l'abbandono della vecchia capitale da parte delle grandi famiglie locali, che andarono a stabilirsi a Rivus altus, mentre Givitas Nova sarebbe stata addirittura distrutta.
Se, come è stato di recente sostenuto (102), la distruzione di Civitas Nova ebbe luogo già nel 737, al momento cioè dell'uccisione del duca Orso e del conseguente inizio del quinquennio di governo dei magistri militum annuali, bisogna ammettere che in tale data sia avvenuto il trasferimento a Rivus altus delle famiglie eracleensi e che nella stessa isola abbiano risieduto anche i magistri militum, fino all'uccisione dell'ultimo di essi, Giovanni Fabriciaco, e al successivo passaggio a Malamocco, dove erano da tempo confluite le famiglie di possessores emigrate da Pataoium, del nuovo duca Deusdedit, il cui potere si sarebbe, dunque, fondato su una base sociale diversa da quella su cui aveva poggiato il potere di suo padre, il duca Orso. Rimane peraltro estremamente fragile ogni tentativo di ricostruzione, data la desolante povertà di fonti affidabili, povertà che costringe, fra le altre cose, a tentare l'utilizzo (spesso spericolato e sempre scivoloso) di testi quali quelli riferiti a un'ipotizzata (anch'essa) Origo civitatum Italiae, cioè il Chronicon Altinate e il Chronicon Gradense, fantasiosi racconti tanto importanti per la storia della cultura e delle tradizioni venetiche quanto ambiguamente deludenti per la ricostruzione dell'accaduto.
Fra l'uccisione di Orso (737) e il ritorno al regime ducale con Deusdedit (742), la situazione italiana evolse in direzione di un ulteriore indebolimento della presenza bizantina e dell'acuirsi dello scontro fra papato e Longobardi. Gregorio III moriva nel 741, lo stesso anno della morte di Leone III Isaurico. Nel 739, Liutprando aveva ripreso l'offensiva, devastando la Pentapoli e muovendo contro Spoleto, il cui duca Trasmondo II stava tramando alleanze sia con l'esarca Eutichio che col papa. A Spoleto, Liutprando insediò un duca di sua fiducia, mentre il deposto Trasmondo cercava rifugio a Roma, da dove Gregorio III, vedendosi sempre più minacciato, si rivolse per aiuto a Carlo Martello. Si apriva così il capitolo delle relazioni franco-papali, i cui sviluppi avrebbero avuto tante ripercussioni anche nel ducato venetico.
L'atteggiamento meno deciso del successore di Gregorio III, Zaccaria (741-752), ridiede fiato a Liutprando, che nel 743 ripeté i suoi attacchi contro Ravenna, che furono per il momento scongiurati da un intervento del papa, in concomitanza con le trattative che il re longobardo stava conducendo con Bisanzio per un nuovo assetto dei territori italiani. Agli inizi del 744 Liutprando moriva, lasciando erede del regno il figlio Ildeprando. Ma la sua successione fu contestata e, dopo solo otto mesi, Ildeprando fu deposto e eletto re al suo posto Rachi, duca del Friuli, la cui politica di rappacificazione scontentò quanti ritenevano che soltanto un'azione a fondo contro la residua presenza bizantina nell'Italia centro-settentrionale avrebbe garantito la sicurezza del regno longobardo. Così Rachi fu costretto a intraprendere una spedizione contro Perugia (749), presto interrotta dall'intervento di papa Zaccaria, che provocò la destituzione di Rachi, al cui posto fu eletto suo fratello Astolfo (749-756).
Il nuovo sovrano tornò però subito alla politica d'espansione, con l'obiettivo di assicurarsi il possesso del delta padano, poiché dal controllo di quella via fluviale dipendeva la vita stessa della capitale del regno, Pavia. Già all'inizio del 750, Astolfo conquistava definitivamente Ravenna, facendo prigioniero l'esarca Eutichio (103). È da notare che, questa volta, i Venetici si guardarono bene dall'intervenire in soccorso dell'esarca, se, addirittura, in quella o in un'altra occasione precedente, non dettero man forte agli aggressori (104). Ma, anche se si resta esitanti innanzi alla prospettiva di un disimpegno così significativo soltanto pochi anni dopo avere riportato l'esarca a Ravenna ai tempi di Liutprando, abbiamo una testimonianza non trascurabile dei rapporti di buon vicinato comunque esistenti fra i Venetici e Astolfo. Dal pactum Lotharii dell'840 risulta infatti che proprio il re longobardo avrebbe confermato la terminatio pattuita ai tempi di re Liutprando fra il dux Paulitio e il magister militum Marcello, riconoscendo così la situazione confinaria nella zona di Civitas Nova e i diritti dei Venetici in terraferma "de Plave maiore usque in Plavem siccam, quod est terminus vel proprietas vestra" (105).
La fine, con la caduta di Ravenna in mano dei Longobardi, dell'esarcato d'Italia venne a creare una situazione nuova, almeno dal punto di vista formale se non sostanziale, nei ducati da esso dipendenti, compreso il venetico, per il semplice fatto che cessò di esistere anche sulla carta il comando unificato cui in teoria avevano fatto finora capo i diversi "eserciti" provinciali con i loro rispettivi comandanti. È come, insomma, se i ducati dell'Italia bizantina si fossero trovati all'improvviso decapitati, e questo indipendentemente dalla continuità o, piuttosto, dalla discontinuità degli impulsi che da quel centro di comando, ora non più esistente, partivano verso la periferia, per non dire dell'incerta solidità del filo che collegava, in quegli ultimi anni di vita dell'esarcato, Ravenna a Costantinopoli.
Da quello venetico al romano, i vari ducati vennero a trovarsi in una situazione che può essere definita di sostanziale autonomia e, a un tempo, di formale dipendenza da Costantinopoli, senza più il diaframma ravennate. Con la differenza, nel caso del ducato lagunare, che la sua progrediente proiezione marittima, nell'Adriatico e, col tempo, ben oltre i limiti di questo suo più immediato spazio liquido, costituiva un motivo in più, di grande peso e rilievo, per mantenere in piedi o, addirittura, intensificare i rapporti con l'impero, la cui importanza nei traffici mediterranei, anche in tempi di consolidata presenza marittima arabo-musulmana, non è certo da sottovalutare. Inoltre, anche nella nuova condizione, i ducati bizantini continuarono a sussistere come tali all'interno dei loro confini, non importa se più o meno bene definiti, al punto che, con qualche buon fondamento di là del ricercato paradosso, Duchesne poté spingersi a affermare che, rispettivamente, Napoleone nel 1797 e Vittorio Emanuele II nel 187o, mettendo fine, alla Repubblica di Venezia e allo Stato della Chiesa, conclusero, in realtà, la vicenda storica di due ducati bizantini (106).
Per ciò che riguarda più in particolare Venezia, il dux, dopo la fine dell'esarcato, per via se non altro della situazione geografica in cui si trovava l'area lagunare, a ridosso, cioè, dell'Istria e della Dalmazia tuttora bizantine, accentuò la sua duplice connotazione, quanto a base legittimante il proprio potere, assommando "in sé per un certo periodo di tempo due funzioni: l'una emanata da una volontà locale, l'altra conferita dalla autorità sovrana imperiale da cui originariamente dipendeva". Sarà la conquista dell'Istria da parte di Carlomagno nel 788 (dopo che i Longobardi, come vedremo, se ne erano impadroniti nel 770) a spostare il precario equilibrio fra i due diversi volti del duca venetico, chiudendo il periodo di transizione che aveva avuto inizio nel 726 e, nel contempo, facendo del ducato la posta del conflitto fra i due contendenti per la supremazia nell'Adriatico (107). Ma anche nel ducato venetico, per non parlare del romano, dove l'eredità del duca bizantino fu raccolta dal papa, e, dunque, non ci fu più nessun duca a Roma, il "doge" (è forse giunto il momento di chiamarlo così) continuò a dovere fare i conti, più di prima, col vertice ecclesiastico locale, il patriarca di Grado, lui, sì, sempre più decisamente inserito nell'orbita del patriarcato d'occidente.
Poco dopo che il centro politico del ducato si era trasferito da Civitas Nova a Malamocco, allontanandosi dalle ultime frange di terraferma non longobarda, all'estremità opposta dell'arco lagunare che, ad oriente, metteva capo a Equilium (Iesolo), non certo per iniziativa del potere imperiale, ormai non più presente in modo diretto in quell'area, venne eretto il castello di Brondolo, in posizione strategica, sulla riva destra del Meduacus (Brenta), ai confini col Piovado di Sacco che si trovava sotto dominio longobardo, allo sbocco di un'altra via fluviale, quella costituita dall'Adige, secondo il suo corso di allora (108). Con questa iniziativa mirante a salvaguardare lo spazio interno lagunare da eventuali, possibili minacce sia navali che terrestri, i Venetici, senza dichiarare alcun distacco dall'impero, mostravano così, nel delicato frangente del crollo del dominio bizantino nell'Italia centro-settentrionale, la loro capacità di azioni autonome, atte a tutelare un'identità politico-territoriale, che, attraverso le lotte intestine per il potere e il fermentare di una vivace vita politica locale, che esse lasciano intravedere, risultava ormai avviata verso il traguardo di una sempre più completa autonomia (109).
Sul futuro delle isole della laguna avrebbe influito in misura determinante la nuova situazione che, con la caduta di Ravenna, la fine dell'esarcato e la conseguente riaffermazione del potere regio longobardo sui ducati centro-meridionali, dava vita al confronto diretto fra re longobardo e papa romano, quest'ultimo determinato a succedere all'impero nel possesso dei territori cui si era ridotto il suo dominio prima delle conquiste longobarde più recenti, mentre Astolfo, da parte sua, avanzava pretese anche su Roma e l'ex ducato bizantino che ad essa faceva capo, dando per scontato che l'"intero popolo dei Romani" della penisola fosse stato "consegnato a lui dal Signore" (110).
La minaccia del re longobardo indusse papa Stefano II (752-757), successo a Zaccaria, a sollecitare l'intervento in Italia di re Pipino, ormai, a pieno titolo re dei Franchi, ripetendo così la mossa che era stata tentata, a suo tempo, senza successo, da Gregorio III col padre dello stesso Pipino, il maestro di palazzo Carlo Martello. Nel corso del famoso viaggio intrapreso nell'ottobre 753 oltr'Alpe, per incontrare sul posto il sovrano franco, il cui invito aveva pressantemente sollecitato, Stefano II ottenne non solo l'impegno di Pipino per una spedizione in Italia (le spedizioni in effetti sarebbero state due), ma anche la "promessa" formale di riservare al papato, una volta annientato il regno longobardo, una zona d'influenza (l'espressione, moderna, viene usata in mancanza di meglio). Essa veniva delimitata da un confinium molto frastagliato che andava da Luni, alle foci della Magra, a Monselice, con un saliente ben dentro la pianura del Po (fino a Parma, Reggio, Mantova). Ma, soprattutto, Stefano ottenne da Pipino l'impegno a effettuare la "restituzione", una volta riconquistati, al papato medesimo, e non all'impero, come il termine "restituzione" avrebbe in teoria comportato, di specifici territori, corrispondenti ai dominî bizantini che i Longobardi avevano occupato più di recente, con l'aggiunta dei due ducati di Spoleto e Benevento, longobardi già dalla fine del secolo VI, ma minacciosamente confinanti con le terre di s. Pietro, nonché delle Venetiae e dell'Istria (111).
Ammettiamo pure che la promissio Carisiaca, designata così da Quierzy-sur-Oise, dove sarebbe stata formulata, e il cui tenore ci è noto solo attraverso la dettagliata notizia che ne dà il Liber Pontificalis nella vita di Adriano I, perché questo papa il 6 aprile 774 avrebbe chiesto e ottenuto che gli fosse confermata da Carlomagno per la prima volta a Roma (112), sia stata davvero originariamente rilasciata da re Pipino a papa Stefano II nell'aprile del 754 - ciò che è stato a più riprese, e di nuovo anche di recente, contestato (113). Ma, con riferimento specifico al tema che ora ci tiene occupati, l'inclusione delle Venetiae nel novero dei territori destinati a integrare il nucleo primitivo del dominio temporale della Chiesa romana, costituito dall'omonimo ducato nel governo del quale il papa era subentrato di fatto, senza scosse, né soluzioni di continuità, al già in gran parte esautorato duca bizantino, non ha trovato finora un spiegazione plausibile, tranne il possibile collegamento, inverificabile sulle fonti di cui disponiamo, fra il trattamento riservato nella promissio ai Venetici e l'atteggiamento da essi tenuto al momento della caduta dell'esarcato. Né infatti, delle due Venetiae, la continentale poteva essere inclusa fra i territori occupati più di recente dai Longobardi, la cui "restituzione" Roma rivendicava per sé, perché era stata occupata molto tempo prima; né la lagunare, in qualsivoglia momento, era mai stata intaccata dai dominatori germanici dell'entroterra.
Diverso, almeno in parte, il caso dell'Istria, che, se nel 754 era ancora bizantina, e dunque per essa, al momento in cui la promissio sarebbe stata rilasciata, valgono le stesse considerazioni che abbiamo fatto per le Venetiae; nel 770 era stata però invasa dai Longobardi, e si potrebbe perciò pensare che questa sua condizione di conquista recente, anzi recentissima, abbia indotto i collaboratori di Adriano I a inserire di soppiatto il suo nome nella copia della promissio esibita a Carlomagno per la conferma. Contrariamente a ciò che viene spesso ripetuto (114), non deve invece sorprendere che il tracciato del confinium, che delimita la zona d'influenza papale, non si estenda dal Tirreno all'Adriatico, ma si arresti a Monselice. Secondo l'Anonimo Ravennate, Monselice era infatti una città marittima (115), rispetto alla quale le isole della laguna finivano così col configurarsi, distanza a parte, un po' come la Corsica, sempre nel testo della promissio Carisiaca, veniva a trovarsi nei confronti di Luni: "a Lunis cum insula Corsica [etc.> ".
Checché si debba pensare dell'anomalia della promissio concernente le Venetiae, è comunque un fatto che, quando, nella primavera-estate del 756, dopo la seconda discesa in Italia del re franco (neppure questa conclusasi, ricordiamolo, con l'annientamento del regno longobardo), si addivenne finalmente a una "donazione" vera e propria, che, rimasta inefficace per secoli, costituirà il fondamento della politica di recuperationes, perseguita dal papato nel secolo XIII, non si ritrova in essa alcun riferimento alla Venetia marittima (Comacchio, la più settentrionale delle città esarcali, fu però aggiunta ai territori inclusi nella precedente donazione), come, del resto, era da aspettarsi, non trattandosi di terre ex imperiali, occupate di recente dai Longobardi, "liberate" dai Franchi e ora rivendicate dalla Chiesa romana, bensì di una provincia tuttora imperiale. Fu, insomma, la mancata occupazione longobarda che risparmiò alla Venetia marittima il destino di essere inclusa prima o poi nello Stato della Chiesa (116).
Una provincia, però, ancora imperiale solo di nome, dal momento che, in tutta questa fase cruciale della vita italiana, la presenza dell'autorità dell'impero non si fece praticamente sentire in queste sue propaggini ritenute ormai periferiche (l'interesse per esse rinascerà più tardi), ciò che, come non è difficile arguire, non poteva restare senza conseguenze nell'accelerare l'evoluzione in senso autonomistico del ducato venetico, dove erano in corso di definizione i rapporti fra il doge e le varie fazioni delle famiglie tribunizie. Anche se non si dovesse prestare fede alla tradizione che vuole i Venetici alleati di Astolfo al momento dell'azione risolutiva intrapresa dal re longobardo contro ciò che rimaneva dell'esarcato, il mancato intervento delle loro forze navali, mobilitate e efficacemente impiegate non più di una quindicina d'anni prima, quando si era trattato di riconquistare Ravenna caduta in mano di Liutprando, sta ad indicare che, almeno in quell'ora cruciale, gli abitanti delle lagune furono soltanto spettatori rispetto alle sorti dell'impero. D'altra parte, anche Astolfo, ormai deciso a muovere contro il ducato romano, non sembrò porre in testa ai suoi interessi il ducato venetico, ritenuto evidentemente secondario per il futuro del suo dominio in Italia, come se i Romani delle isole della laguna non fossero anch'essi parte integrante dell'"intero popolo dei Romani" della penisola, che egli asseriva essergli stato affidato dal Signore. Un interesse limitato, che finì col tradursi in un atto di benevolenza nei loro confronti, se - come s'è visto - gli garantì la conferma delle vecchie concessioni pattuite al tempo di Liutprando e il mantenimento di antichi diritti goduti in terraferma.
Al riparo di questo contesto "internazionale" favorevole, le forze locali in lotta per il potere trovarono modo di espandersi: il doge Deusdedit, che aveva operato lo spostamento del centro del ducato a Malamocco, evidenziava nella sua persona, quale figlio e successore, sia pure dopo un intervallo di qualche anno, del primo doge eletto, e non nominato (ma soltanto riconosciuto) dall'alto, una spiccata tendenza all'ereditarietà nell'ambito della classe dei possessores, analogamente a ciò che si riscontra in altri ducati ex bizantini, a cominciare da Roma stessa, dove la successione di Paolo I (757-767) al fratello Stefano II - il primo caso del genere nella storia del papato - ha tutta l'aria di un tentativo di instaurazione dinastica (117). Ma persisteva, per il momento, una grande instabilità. Dopo tredici anni di governo (742-755 circa), Deusdedit fu deposto, e poi ucciso, da Galla (o Gaulus), il quale, appena un anno dopo, fu anch'egli deposto e accecato (756). E al nuovo doge eletto per rimpiazzarlo, Domenico Monegario, di Malamocco, i Venetici decidevano di affiancare due tribuni da rinnovarsi annualmente, realizzando una significativa commistione fra il regime ducale e il regime dei magistri militum annuali, che era subentrato al governo di Orso. La decisione, che sarebbe apparsa sorprendente a un attento testimone come il diacono Giovanni, disposto a vedervi soltanto una riprova della stolta volubilità popolare (118), è in realtà l'indice preciso di un delicato momento istituzionale in cui la vecchia tradizione tribunizia, fautrice di un assetto politico ampiamente decentrato che favoriva il ceto dei possessores, si confrontava con il rafforzarsi del potere ducale, per sua stessa intrinseca natura accentratore (119). In ogni caso, il rapporto di forza fra i ceti emergenti nelle varie isole e nelle residue frange paralagunari era ancora molto precario. Nonostante il correttivo che si era cercato di introdurre con l'istituzione dei due tribuni annuali, anche il governo del meduacense Monegario fu rovesciato, dopo otto anni, con la forza, e il doge accecato. Il suo successore, Maurizio Galbaio, che governerà dal 764 al 797, nella delicata fase del passaggio dalla dominazione longobarda a quella franca nei territori tutt'intorno all'area lagunare (Istria compresa), era originario di Civitas Nova, ma comunque mantenne la capitale del ducato in Malamocco (120).
La duplice, benché non ancora definitiva sconfitta, inflitta a Astolfo dai Franchi di Pipino, e di lì a poco la sua scomparsa (dicembre 756) lasciarono il regno longobardo privo di guida in un momento quanto mai critico, dando fiato alle risorgenti istanze autonomistiche dei ducati, in ispecie di quelli di Spoleto e di Benevento, e provocando un ulteriore aggravamento dell'incombente minaccia franca, nonché un rafforzamento della posizione chiave del papato. A cercare l'accordo con i Franchi, servendosi della mediazione papale, non furono più solo il nuovo duca di Spoleto, Alboino, e Giovanni, tutore del giovane duca di Benevento, Liutprando, bensì anche, dopo la breve parentesi del ritorno sul trono di Rachi, lo stesso Desiderio, ex fiduciario di Astolfo in Toscana, che, forte della base regionale del suo potere, riuscì a scalzare Rachi, puntando, da un lato, sull'appoggio dei ducati periferici e, dall'altro, assicurandosi il benestare di Stefano II e di Pipino, in cambio della "promessa" di restituire, in aggiunta ai territori dell'ex esarcato conquistati da Astolfo ceduti già nel 756, anche le "rimanenti città" (Faenza, Imola, Bologna, Ferrara, Ancona, Numana, Osimo) che erano appartenute in antico all'Esarcato e alla Pentapoli. Ma la morte, subito dopo, di Stefano II (26 aprile 757) e la crescente instabilità della situazione romana, dove gli appetiti destati dal dominio temporale alimentavano sotto il nuovo papa Paolo I i contrasti fra iudices de clero e iudices de militia, consentirono a Desiderio di mantenere solo in parte gli impegni presi, mentre i pressanti appelli del papa a Pipino restavano inascoltati. Il re longobardo, approfittando del disimpegno franco, si arrischiò di attraversare la Pentapoli per costringere all'obbedienza i due ducati centro-meridionali. Pipino, da parte sua, si stava adoperando per indurre Paolo I a cercare di raggiungere un modus vivendi direttamente con Desiderio e, insieme, per arrivare a un accordo di massima sull'assetto dell'Italia con l'imperatore, che il papa, nelle sue inascoltate lettere al re franco, accusava nel frattempo di preparare un ritorno in forze nel Ravennate e nella Pentapoli, addirittura in collusione con il re longobardo.
La crisi scoppiata a Roma alla morte di Paolo I (767), così come la crisi provocata a Ravenna dalla morte dell'arcivescovo Sergio (769), diedero a Desiderio l'occasione di intervenire nelle due contrastate successioni. Mentre il re franco, impegnato nel consolidare il proprio potere all'interno del regno, persisteva nella politica di disimpegno dalle cose italiane, il regno longobardo tendeva infatti a diventare un punto di riferimento per questa o quella delle fazioni locali, sempre più vivaci e combattive in una situazione di generale instabilità peninsulare. Non deve, quindi, sorprendere che, nella carenza di autorità e di presenza dell'impero, cui pure restava formalmente legata, anche la Venetia maritima partecipasse del clima di incertezza e di instabilità, che caratterizzava il resto dell'Italia ex bizantina. Ma qui, con più nettezza che altrove, ciò avveniva in una precisa prospettiva di crescente definizione, sia amministrativa che politica, di quella che abbiamo chiamato 1'"identità lagunare", e fuori da ogni ingerenza longobarda.
Una prova di questo la abbiamo nel reggimento del nuovo doge Maurizio Galbaio, eletto - come s'è visto - dopo la deposizione, ancora una volta cruenta, di Domenico Monegario. Maurizio apparteneva alla classe dei possessores eracleensi, ma si insediò a Malamocco, l'isola che, per il momento, costituiva l'epicentro politico del ducato. Che a suo tempo da tale centro avesse retto il ducato Deusdedit eracleense, che poi sempre lì fosse subentrato il metamaucense Domenico Monegario e che ora ancora da Malamocco esercitasse la funzione ducale un "civis Heraclianae civitatis", appunto il Galbaio, testimonia come nella provincia venetica si fosse trovato un ragionevole equilibrio nelle tensioni fra le diverse aree e i gruppi che le rappresentavano: tensioni, peraltro, più intuibili che precisabili, data la situazione delle fonti di cui disponiamo; in ogni caso, i provvisori equilibri di volta in volta raggiunti, se consentivano uno sviluppo abbastanza lineare delle nuove realtà politiche venetiche, non bloccavano però la forte dinamica interna, che esplodeva di tempo in tempo in forme più clamorose, specialmente con gli atti di deposizione e le nomine violente di nuovi dogi.
"Consul et imperialis dux huius Venetiarum provinciae", come lo definiva l'arcivescovo di Grado in una lettera a papa Stefano III (768-772) del 770/772 (121), Maurizio Galbaio mostrò di avere l'autorevolezza necessaria per mantenersi al potere per più di trent'anni; ma la sua vera forza era probabilmente costituita dal fatto di essere l'espressione di una larga base elettorale, formata non soltanto dai Venetici di varia provenienza che si erano raccolti a Malamocco. Era, insomma, l'intero popolo venetico che, nel designarlo, aveva fatto valere i diritti derivanti dall'autonomia di fatto che era riuscito ad acquisire fino ad allora, anche se, come dimostra la titolatura di cui egli si fregiava, ciò era avvenuto senza mettere in discussione la perdurante appartenenza della Venetiarum provincia al gran corpo dell'impero (122). Una riaffermazione, questa, che acquistava tanto più valore in quanto veniva a coincidere col momento in cui le mire espansionistiche di Desiderio sottraevano all'impero l'Istria (770), sancendo il definitivo distacco di quella provincia dal nesso politico-amministrativo che l'aveva congiunta per secoli alla Venetia.
Le difficoltà sopravvenute nel regno franco alla morte di Pipino (24 settembre 768), per il latente contrasto fra i suoi due figli ed eredi, Carlo e Carlomanno, cui avrebbe posto fine, nel dicembre 771, la morte di quest'ultimo (salvo i problemi che porranno a loro volta le pretese dei figli dello scomparso), offrirono un'ulteriore occasione a Desiderio per inserirsi nel gioco politico europeo o, semplicemente, per cercare di ritardare la fine annunciata del regno longobardo. Per iniziativa della regina vedova, Bertrada, desiderosa di chiudere con le buone la partita aperta da Pipino col regno transalpino e rimasta ancora in sospeso, fu stipulato un duplice matrimonio, fra sua figlia Gisella e Adelchi, figlio di Desiderio, e fra una figlia di questo e Carlo. Nelle intenzioni di chi le aveva progettate, le due unioni sarebbero dovute servire a tenere a bada il re longobardo, inducendolo a dare corso alle ulteriori "restituzioni" di città esarcali cui si era impegnato, ancora vivente Pipino, con Stefano II. Una strategia diplomatico-matrimoniale, che, sia detto fra parentesi, non solo non convinse, ma addirittura fece indignare Stefano III. Sotto i suoi occhi, Desiderio, che era venuto a Roma (771) con il pretesto di pregare sulla tomba del principe degli apostoli e di negoziare l'attuazione delle famose "restituzioni", coglieva l'occasione per liquidare i vertici, a lui ostili, del palazzo lateranense, lasciando padrone del campo un suo uomo di fiducia, capo della locale fazione longobarda, Paolo Afiarta. Dopo che la politica di ravvicinamento all'impero intrapresa da Pipino, che non era certo fatta per piacere a Desiderio, era rimasta interrotta, la conquista longobarda dell'Istria, portata a compimento nel frattempo, conseguiva l'obiettivo di bloccare ogni iniziativa bizantina, che da quell'angolo estremo dell'Alto Adriatico potesse muovere a minacciare le posizioni dei Longobardi medesimi nell'Italia centro-settentrionale.
Quest'ultima conquista, una specie di colpo di coda dei lontani discendenti di Alboino, faceva della Venetia lagunare una residua enclave, ancora nominalmente bizantina (e attenta a non rinunciare a questa lontana, poco intrigante e, tutto sommato, conveniente dipendenza), circondata da tutti i lati dal dominio longobardo. Questo spiega la probabile partecipazione, con milizie proprie, cioè venetiche, del doge Maurizio Galbaio alla difesa dell'Istria, un intervento che costò al doge la cattura in combattimento del figlio Giovanni, che fu portato prigioniero a Pavia (123), Su tutt'altro piano, ma nello stesso ordine di idee, Maurizio si associò all'appello rivolto, intorno al 770/772, dal metropolita di Grado, Giovanni, a papa Stefano III per denunciare i soprusi compiuti, dopo l'occupazione, dai "sevissimi Langobardi" nei confronti delle Chiese dell'Istria, sue suffraganee, e delle popolazioni locali, compromettendo anche la riscossione delle decime del patrimonio di s. Pietro e delle altre chiese. Oltretutto, insisteva Giovanni, i maltrattamenti subiti rappresentavano un incentivo per i vescovi ribelli a persistere nel loro atteggiamento di protervia ("protervi praevaricatores episcopi magis magisque contumaces consistunt et contraria gerunt") (124). Per tutta risposta, il pontefice si limitava a richiamare i suffraganei all'osservanza del precetto canonico che imponeva l'obbedienza al metropolita gradense, in un momento in cui i vescovi istriani potevano invece carezzare l'idea di un ritorno alla giurisdizione dell'antica metropoli di Aquileia, longobardizzata dall'inizio del secolo VII (125). Rispondendo invece al metropolita di Grado, Stefano III si rifaceva al precedente costituito dal patto "inter Romanos, Francos et Longobardos", stipulato dal sud predecessore Stefano II (Pavia, 756), in base al quale i territori ex bizantini liberati dalladominazione longobarda venivano posti sotto la protezione di s. Pietro un patto che, per analogia, ora poteva venire esteso anche all'Istria, caduta nel frattempo, in deroga ai patti pavesi, sotto la dominazione longobarda, e, in prospettiva, alla stessa "Venetiarum provincia", se se ne fosse dato il caso (126). "Di fatto nel momento attuale [quest'ultima> era sottratta alle sanzioni di quello [patto di Pavia>, e perché non era in stato di occupazione longobarda, e perché in essa perdurava un reggimento romano. Anche se di nome era bizantina, era in possesso di larga autonomia, che esonerava la S. Sede dall'esigere l'ottemperanza ai precetti invocati in favore dell'Istria invasa" (127). In conclusione, in forza del richiamo del papa, la sola integrità della provincia ecclesiastica gradense venne preservata, almeno per il momento, anche se l'Istria rimaneva longobarda, in attesa di passare sotto il dominio franco (128).
Come già anticipato, l'occupazione longobarda dell'Istria, cui seguì, diciotto anni dopo, quella franca, segnava la fine dell'unità, anche di destino storico, dei territori che avevano concorso a formare la antica X regio ( Venetia et Histria), ribadendo anche esteriormente la avvenuta formazione nella prima delle due provincie originarie, nella sua proiezione lagunare, di un'entità politico-territoriale nuova, con una sua già abbastanza bene delineata vocazione anche economica. L'istituzione, nell'undicesimo anno del governo di Maurizio Galbaio, della sede episcopale di Olivolo (129), nella cui giurisdizione era incluso il territorio contermine di Rivus altus, lascia già presagire come questa nuova entità politico-territoriale, finora articolata in una molteplicità indistinta di insediamenti insulari dispersi, stia per darsi un centro di gravitazione comune, che prima o poi si porrà anche come capitale del ducato.
Rivoalto era stata sede di un castello, fondato probabilmente fra la prima metà del secolo VII e gli inizi dell'VIII (130), e si era presto rivelata come un punto chiave nel reticolo delle isole lagunari, anche come base di traffici endolagunari e marittimi. Di questa primazia di fatto, affermatasi di pari passo con i progressi dell'autonomia del ducato, è manifestazione evidente la creazione, nelle sue immediate vicinanze, della sede episcopale di Olivolo. È, dunque, fra Rivoalto (Rialto) e Olivolo che, a partire dalla seconda metà del secolo VIII, si sviluppa al massimo grado quella vitalità lagunare, di cui saranno partecipi anche altri centri di insediamento, come Iesolo, Malamocco e Caorle, le cui parrocchie, nel secolo successivo, diverranno anch'esse sedi episcopali, quando il concilio mantovano dell'827 rinverdirà l'antico diritto metropolitano di Aquileia, e Grado, minacciata di declassamento, potenzierà la propria posizione di Chiesa metropolitana, istituendo nuove suffraganee lagunari. Le cronache coeve cercheranno poi di nobilitare queste suffraganee con l'attribuire ad esse una presunta origine eliana, facendone cioè risalire artatamente la fondazione al famoso patriarca del VI secolo, che, rendendo definitivo il trasferimento da Aquileia a Grado della sede episcopale, aveva avuto una parte decisiva nell'avviare il processo ora giunto a compimento.
5. Considerazioni finali
Al termine della trattazione del periodo della storia della Venetia che portò alla configurazione dell'"identità lagunare", si impongono alcune considerazioni finali, che, senza ambire di atteggiarsi a conclusioni, tendono solo a metterne meglio in evidenza il carattere, e i limiti.
È evidente, anzitutto, la sproporzione fra la parte, preponderante, che è stata riservata alla storia generale della penisola italiana e quella, tanto più modesta, concernente le vicende interne dello spazio lagunare, con la conseguenza che il definirsi stesso di questo spazio, che pure costituisce l'oggetto della trattazione, rischia di apparire, più che come la lenta e faticosa conquista degli abitanti della laguna, come il risultato - provvidenziale o fortuito, a seconda dei punti di vista - del disinteresse che i protagonisti di quella che, tanto per intendersi, potremmo chiamare la grande storia, dipanatasi nell'arco di tempo compreso fra il 569 e il 773, avrebbero mostrato per la laguna veneta. I Longobardi, in particolare, da Alboino (che, al momento dell'invasione, trascurò, del resto, anche una parte considerevole della Venetia continentale) all'ultimo loro re, Desiderio, che, come s'è appena visto, pure arrivò a impadronirsi dell'Istria, non solo non sembrano avere mai minacciato (probabilmente anche perché non disponevano di una flotta) le isole della laguna, ma, con Astolfo, ribadirono addirittura il diritto dei lagunari a conservare antichi diritti d'uso e pertinenze in terraferma. Del resto, i rapporti fra il ducato, fermo nella sua dipendenza bizantina, e la vicina terraferma longobarda non si interruppero mai, permanendo piuttosto flussi continui, seppure ovviamente soggetti alla situazione politica complessiva e alle sue tensioni (113). Quanto ai diretti antagonisti dei Longobardi, i Bizantini, il fatto stesso che essi non abbiano pensato di estendere ai propri residui possessi nell'Alto Adriatico (area lagunare e Istria) il nuovo ordinamento "tematico" (132) costituisce una testimonianza indiretta, ma non trascurabile, della loro scarsa possibilità d'impegno nella regione, ove, peraltro, il particolarissimo rapporto che si era venuto istituendo con il sempre formalmente soggetto doge venetico doveva assicurare un grado di presenza oltre il quale a Costantinopoli non era al momento realistico pensare di andare. Era un atteggiamento che, come si vedrà, muterà radicalmente da quando sulle sponde di quel mare verranno ad affacciarsi non più i Longobardi ma i Franchi di Carlomagno; ma anche allora si tratterà di interventi temporanei e congiunturali, seppure di grande impegno e con significativi esiti. In sostanza, premeva e si riusciva soltanto a riportare nelle direttrici più funzionali il ruolo venetico, senza impegnarsi nella riaffermazione di una troppo costosa e poco conveniente presenza continuativa.
L'impressione di un'area lagunare, che avrebbe conquistato la sua identità solo in quanto avrebbe avuto la ventura di rimanere ai margini della grande storia, è però falsa. Potrebbe essere solo il frutto di una sottovalutazione della disperante scarsezza delle fonti contemporanee che concernono direttamente tale area e, ancora più, della nessuna attendibilità delle fonti tardive, così impegnate nel sostenere il dogma dell'originaria indipendenza del ducato da avere destato nella storiografia moderna una reazione in senso contrario, che è andata talvolta di là del segno. Invece, per esempio, sarà forse un caso, ma è certo un fatto che una delle poche testimonianze superstiti, la celeberrima iscrizione di Torcello del 639, in quanto costituisce la sola prova dell'esistenza di una struttura di governo bizantina in un'isola della laguna, può essere addotta, se non altro per la sua data, a conferma indiretta di una visione delle cose che mette l'accento sulla persistenza, molto più a lungo di quanto si ritenesse una volta, della presenza armata degli imperiali ben dentro la terraferma, con centro a Oderzo, con la conseguenza che l'afflusso verso le retrostanti isole lagunari di profughi provenienti dalle città venete, o già occupate dai Longobardi, o più direttamente esposte all'incombente minaccia di costoro, e i loro iniziali insediamenti nelle nuove sedi sembrerebbe avere avuto effettivamente, almeno per una settantina d'anni, quei caratteri di spontaneità e di autogestione dei più immediati bisogni collettivi, su cui la tradizione locale avrebbe imbastito, stravolgendone, non occorre dirlo, il senso, la leggenda dell'originaria indipendenza del ducato.
Elevando, con una notevole dose di arbitrio, la lapide di Torcello a punto d'inizio, il periodo durante il quale l'area lagunare fu direttamente presidiata dal governo esarcale andrebbe perciò circoscritto agli anni 639-726. Ma nemmeno l'apporto sempre più consistente della ricerca archeologica ha consentito finora di andare oltre qualche vaga ipotesi, oggetto per di più di animate controversie, su quanto riguarda la composizione della società che venne strutturandosi, durante tale periodo di decisiva incubazione, nelle isole della laguna. Basti dire che l'esistenza stessa di un exercitus Venetiarum ci coglie di sorpresa dalle colonne del Liber Pontificalis, in connessione con la rivolta antiiconoclastica, quando i giochi evidentemente erano ormai fatti. Ed è solo una magra consolazione il constatare che su Roma, dove il Liber veniva redatto, e dove, mutatis mutandis, era in corso un processo analogo di fusione fra officialità bizantina, ultimi residui di aristocrazia senatoria tardoantica e forze emergenti di matrice locale, le informazioni di cui disponiamo siano quasi altrettanto scarse. Certo, nel caso di Roma, siamo favoriti dalla conoscenza dello sfondo ambientale sul quale tale processo veniva svolgendosi, anch'esso in evoluzione, e in via di avanzato deterioramento, ma sempre a partire da premesse che ci sono perfettamente note, mentre, nel caso dell'area lagunare, era il processo stesso a produrre, nel suo svolgersi, un quadro ambientale, che, pur nell'inevitabile rispetto di dati geografici che erano quelli che erano, sarebbe risultato alla fine radicalmente diverso dal paesaggio caratterizzato dai "domicilia sparsa", di cui parlava ancora Cassiodoro, seppure col velo di una colta e studiata retorica. Ma, prima di venire a parlare di quest'ultimo punto, va considerato un altro aspetto, parallelo a quello or ora affrontato, che la trattazione ha contribuito a mettere in grande evidenza.
A mezza strada, se così si può dire, fra le informazioni di cui disponiamo sulle vicende politiche a livello peninsulare e gli isolati sprazzi di luce che illuminano con deplorevole intermittenza la concreta gestazione della società lagunare, quanto rimane della corrispondenza dei papi contemporanei con i vescovi della Venetia e, con dovizia relativamente maggiore in paragone a ciò che rivelano di altri aspetti della vita associata e produttiva, i risultati delle prospezioni archeologiche recenti in diversi siti della laguna ci consentono di seguire con una certa continuità le vicende che, a partire dal trasferimento (prima provvisorio, poi definitivo) a Grado del titolare della sede aquileiese, con il suo corteggio di sedi suffraganee, fino all'erezione a Olivolo (775-776) della prima sede originariamente insulare, segnano le tappe successive del definirsi di un'"identità ecclesiastica lagunare". Per il fatto stesso che esse risultano molto più individuabili di quelle che hanno contrassegnato il medesimo sviluppo sul piano politico-sociale, è inevitabile che l'osservatore moderno sia portato ad attribuire a questo aspetto, comunque essenziale, del processo complessivo anche il carattere di forza traente, di motore primo, che sarebbe stato all'origine e alla base di tutto il resto. E difatti, se si rileggono le pagine precedenti, è indubbio che, a parte la spessa cornice di storia generale, il filo che tiene insieme i lacerti di storia locale passa usualmente per Grado. Con una varietà di conseguenze per ciò che concerne i progressi della famosa "identità", che richiede di essere sottolineata, e che, ferma restando la riserva pregiudiziale circa lo svantaggio incolmabile in cui la ineguale distribuzione delle testimonianze superstiti pone gli aspetti politico-militari e civili rispetto a quelli ecclesiastico-religiosi, consente di delineare, all'interno di un frastagliatissimo e discontinuo quadro d'insieme, l'unico possibile sottoinsieme dotato di una certa coerenza, senza che, per questo, ci si debba spingere a privilegiarlo in modo assoluto rispetto a un contesto che ha il solo torto di essere me-no, o affatto, documentato.
Fino alla ripulsa dello scisma tricapitolino, avvenuta poco meno di quarant'anni dopo il trasferimento della sede episcopale aquileiese, Grado costituì anzitutto una forte remora, per via della vasta estensione continentale della sua provincia ecclesiastica, all'impermeabilità della frontiera politico-militare, di per sé mobile in continuazione, che divideva la Venetia già longobarda da quella ancora bizantina, nonché - prima, e dopo il suo rientro nell'obbedienza romana, quando a Aquileia e poi a Cormons sedeva ormai un secondo patriarca mantenutosi fedele allo scisma - un legame indiretto, ma di rilievo non trascurabile, fra i due tronconi (la Venetia e l'Histria) dell'antica X regio, che i Longobardi avevano per tempo separati. Due funzioni, queste, che, a prima vista, sembravano fatte entrambe non per favorire, bensì per ostacolare, il nascere dell'identità lagunare, ma che, in definitiva, esaltando l'importanza non solo ecclesiastica di Grado, andavano anche nel senso di una rivitalizzazione dell'intera area di cui essa costituiva l'estremità nord-orientale.
D'altra parte, una Grado scismatica, finché tale rimase, a dispetto dei fulmini dei pontefici romani (in particolare, di Gregorio Magno) e, in misura di norma molto minore, degli eserciti esarcali ravennati, e decisa a fare valere direttamente le proprie ragioni, in parte di carattere anche politico, solo di fronte alla suprema istanza del potere imperiale, è un segnale di tale forza in direzione dell'autoaffermazione di una realtà nuova per il momento esclusivamente ecclesiale, da consentire di pensare che i suoi riflessi si siano subito proiettati ben al di là dell'ambito specifico (ma, in quei tempi lontani, di importanza basilare) da cui esso veniva lanciato. E lo stesso discorso, introdotte le opportune varianti, vale anche per Grado, non più tricapitolina, schierata, questa volta, con Roma, ma contro Costantinopoli, al momento della querelle monotelitica. Per non dire della querelle successiva, quella iconoclastica, durante la quale lo stesso "exercitus Venetiarum", che, evidentemente in perfetta sintonia con le posizioni gradensi, aveva preso parte in prima linea alla rivolta "nazionale" contro i decreti di Leone III, per suggerimento patriarcale sollecitato con lealtà esemplare da Roma (nonostante il conflitto in corso sul culto delle immagini) scese poi in campo con successo per aiutare l'esarca Eutichio a riprendere possesso della sua sede.
Ma se tutto questo incide sul presente e sull'immediato futuro, altri aspetti della presenza ecclesiastica gradense sembrano congiungere un passato ormai tramontato a un futuro ancora di là da venire. Ponendosi come legittima erede a tutti gli effetti di Aquileia tardoantica, la Grado dei primi secoli dell'alto medioevo, in particolare del VII secolo, che per consenso ormai pressoché unanime segna la vera cesura fra vecchio e nuovo mondo, ha, sì, contribuito alla definizione di quella che, con insistenza forse eccessiva, abbiamo chiamato un' "identità lagunare", ma ha soprattutto fatto in modo che questo spazio sui generis, fatto di terre emerse abitate e disabitate, di terre appena sommerse, di canali, di paludi, di distese acquee, nel cui ambito di lì a poco sarebbe sorta una vera e propria città, non restasse chiuso in se stesso, ma rimanesse sempre in qualche modo collegato con il mondo transalpino, con l'altra sponda dell'Adriatico e, ciò che più importava, con l'Alessandria di Marco e di Ermagora, lungo itinerari che ieri erano stati di evangelizzazione e domani sarebbero stati di traffici commerciali.
Come s'è detto più sopra, al tempo del governo di Maurizio Galbaio (764-797), che costituisce il punto terminale della nostra trattazione, alcuni sparsi indizi lasciano presagire che, facendo centro su Rialto e Olivolo, l'intera area lagunare stesse per darsi un centro di gravitazione comune, contrassegnato per ora da un addensamento demico e da un intensificarsi di manifestazioni di vita civile e religiosa, non ancora dalla presenza della sede del potere politico, che per il momento rimaneva fissa a Malamocco. In altre parole, chi, in quei decenni, avesse potuto avere una visione panoramica dall'alto, come è consentito ai giorni nostri, della laguna, avrebbe avvertito che, fra i vari insediamenti dispersi sulle terre emerse della laguna medesima, ce n'era uno che stava differenziandosi rispetto agli altri, in quanto andava assumendo i primi connotati di centro a carattere prevalentemente urbano - una città, certo, di foggia insolita (non però del tutto priva di precedenti, come si riteneva, a torto, una volta), ma comunque una città nuova. A differenza dell'ultima, in ordine di tempo, sorta, se non proprio in quell'area, ai margini di essa, all'incirca un secolo e mezzo prima, Civitas Nova, che era stata regolarmente "fondata", la città che stava per nascere non veniva fondata da nessuno; nasceva, insomma, spontaneamente. Rispetto alla cronologia proposta a grossissime linee per la "scomparsa" e la "rinascita" delle città nell'impero (133), i conti, per ciò che riguarda la Venetia, tornano quasi alla perfezione: la fondazione di Civitas Nova cade ancora entro i limiti del "primo periodo bizantino", quando tali iniziative, benché più rare e destinate in genere a scarso successo, sono ancora testimoniate qua e là; l'avvio alla formazione "spontanea" del nucleo realtino coincide con l'inversione di tendenza, che, a partire dalla capitale dell'impero, pose fine alla fase di massimo declino della vita cittadina, che, per Costantinopoli, viene datata, di fino, al 747 e fu pressoché coeva nelle città provinciali (134).
Ma l'interrogativo destinato, allo stato attuale della documentazione e degli studi, a rimanere senza risposta riguarda il carattere degli insediamenti lagunari durante quei centocinquant'anni intermedi. Nel silenzio quasi completo delle fonti scritte, interrotto felicemente di tanto in tanto da ciò che vengono scoprendo gli archeologi, la risposta sembrerebbe poter essere fornita dall'estensione all'area lagunare di quanto viene detto dell'impero nel suo complesso: "Se l'impero bizantino del primo periodo era un aggregato di città, nel periodo medio esso può descriversi quale aggregato di kastra (fortezze)" (135). Ma, in questo caso, la specificità dell'area lagunare non può non fare valere i suoi diritti. Non è da escludere, anzi è positivamente dimostrato, che kastra sorgessero anche in laguna, in rapporto a esigenze insediative prima ancora che politico-militari, che, anche se non individuabili caso per caso, vanno comunque messe nel conto. Ma, a parte la presenza ormai non contestata più da nessuno di un diffuso substrato tardoantico, i tempi e i modi nei quali si svolse l'afflusso nelle isole della laguna di profughi della terraferma - ancora una volta, si obietterà, una petizione di principio - fanno pensare che i nuovi insediamenti si presentassero, piuttosto che come castelli nel senso più banale del termine, come membra disiecta delle città di provenienza, non città nuove, dunque, ma brandelli di città, valorizzati, in qualche caso, dalla presenza del vescovo, profugo anch'egli insieme con i suoi fedeli, ma ben fermo nel conservare la titolatura originaria, nell'attesa di un ritorno in sede che non ci sarebbe stato (136). Non occorre dire che, se le cose andarono proprio così, la nascita - quando sarà il momento di una città nuova si troverà a essere facilitata. L'identità lagunare presentava fino dagli inizi una spiccata impronta cittadina.
Dopo la sua scomparsa ho provveduto a compiere una revisione approfondita del testo, integrandolo soprattutto nell'ultima parte e aggiungendo alcune considerazioni finali. Gherardo Ortalli, che qui ringrazio, mi ha validamente assistito con consigli preziosi.
1. Gian Piero Bognetti, Natura, politica e religioni nelle origini di Venezia (1964), in Id., L'età longobarda, IV, Milano 1968, p. 511 (pp. 499-524). Cf. ora, per la situazione della Venetia, Anna Nicoletta Rigoni, L'ambito territoriale della 'Venetia' tra Altomedioevo e Medioevo nella 'Cosmographia' dell'Anonimo Ravennate, in Paolo Diacono e Guido, in AA.VV., La 'Venetia' nell'area padano-danubiana. Le vie di comunicazione, Padova 1990, pp. 137-150, e Guido Rosada, La direttrice endolagunare e per acque interne nella 'decima regio maritima': tra risorsa naturale e organizzazione antropica, ibid., pp. 153-182.
3. Carlo Guido Mor, La marcia di re Alboino (568-70), in AA.VV., Problemi della civiltà e dell'economia longobarda, Milano 1964 (Biblioteca della rivista "Economia e storia", 12), p. 182 (pp. 179 - 197); Luciano Bosio, La via romana dalla Pannonia alla X Regio e il cammino dei Longobardi, in Atti del convegno di studi longobardi (Udine-Cividale, 15-18 maggio 1969), Udine 1970, pp. 155-164.
4. Pauli Diaconi Historia Langobardorum, a cura di Ludwig Konrad Bethmann - Georg Waitz, in M.G.H., Scriptores rerum Langobardicarum et Italica-rum saec. VI-IX, 1878, pp. 45-187, ma p. 79 (II, 12); v. le osservazioni di Wladimiro Dorigo, Venezia Origini. Fondamenti, ipotesi, metodi, I-II, Milano 1983, p. 222, n. 143, sulle opportune scelte di Alboino nella economia "di una rapida occupazione militare, partita dall'agro aquileiese [...> per stabilire la prima piattaforma del potere economico e politico residenziale in Italia".
5. Per i resti bizantini del castello di Zumelle a Castelvint e i ritrovamenti di Arten in val Belluna,
cf. Luisa Alpago Novello Ferrerio, Bizantini e Longobardi nella val Belluna, "Archivio storico di Belluno, Feltre e Cadore", 46, 1975, pp. 56-58;
Luciano Bosio - Guido Rosada, Le presenze insediative nell'arco dell'Alto Adriatico dall'epoca romana alla nascita di Venezia, in AA.VV., Da Aquileia a Venezia, Milano 1980, pp. 536 e 543 (pp. 509-567).
6. Lellia Ruggini, Economia e società nell'"Italia annonaria", Milano 1961, pp. 479 s.
7. L. Bosso - G. Rosada, Le presenze insediative, p. 542: scali a Iesolo, Caorle, Marano, per la navigazione paralagunare; su Grado, v. Carlo Guido Mor, La fortuna di Grado nell'Alto Medioevo, in AA.VV., Aquileia e l'Alto Adriatico (A.A., I), Udine 1972, pp. 299-315; Fernando Rebecchi, Sull'origine dell'insediamento in Grado e sul suo porto tardoantico, in AA.VV., Grado nella storia e nell'arte (A.A., 17), Udine 1980, pp. 41-56.
8. Giorgio Fedalto, in Antonio Carile - G. Fedalto, Le origini di Venezia, Bologna 1978, p. 317 (pp. 251-427) cf. Gian Carlo Menis, I confini del patriarcato d'Aquileia, in Numero unico della Società filologica friulana per il 410 Congresso, Trieste 1964, Pp. 4 ss. (pp. 1-12)
9. Roberto Cessi, Da Roma a Bisanzio, in AA.VV., Storia di Venezia, I, Dalla preistoria alla storia, Venezia 1957, p. 369 (pp. 179-401).
10. Liber Pontificalis, a cura di Louis Duchesne, I, Paris 1886, p. 308.
11. G. Fedalto, in A. Carile - G. Fedalto, Le origini, p. 317.
12. Pauli Diaconi Historia Langobardorum, pp. 105-107 (III, 26).
13. Ottorino Bertolini, Autari, in Dizionario biografico degli Italiani, IV, Roma 1962, p. 603 (pp. 600-607).
14. Giuseppe Cuscito, Cristianesimo antico ad Aquileia e in Istria, Trieste 1977, p. 296; G. Fedalto, in A. Carile - G. Fedalto, Le origini, pp. 320 S., propende per il 591 in ogni caso, nella datazione della sinodo di Marano ci si orienta verso il 590/91.
15. Gregorii I. Papae Registrum epistolarum, I, a cura di Paul Ewald - Ludwig Hartmann, in M.G.H., Epistolae, I, 1887-1891, pp. 16-17 (I, 16).
16. Ibid., pp. 17-21 (I, 16a); Documenti relativi alla storia di Venezia anteriori al Mille, a cura di Roberto Cessi, I, Padova 1942, pp. 14-19, nr. 8. Cf. G. Fedalto, in A. Carile - G. Fedalto, Le origini, p. 322.
17. Gregorii I. Registrum, I, pp. 22 S. (I, 16b) Documenti relativi, I, pp. 20 s., nr. 9.
18. Gregorii I. Registrum, I, pp. 143-146 (II, 45); Pauli Diaconi Historia Langobardorum, p. 117 (IV, 4); Documenti relativi, I, p. 2 I, nr. 10.
19. Gregorii I. Registrum, I, pp. 359 s. (V, 56). Per l'identificazione del Pietro destinatario della lettera con Pietro vescovo di Altino, cf. ibid., p. 359, n.; v. anche G. Fedalto, in A. Carile - G. Fedalto, Le origini, pp. 324, 329.
20. Gregorii I. Papae Registrum epistolarum, II, a cura di Paul Ewald - Ludwig Hartmann, in M.G.H., Epistolae, II, 1893-1899, pp. 431 s. (XIV, 12). Cf. G. Fedalto, in A. Carile - G. Fedalto, Le origini, p. 327.
21. Pauli Diaconi Historia Langobardorum, p. 127 (IV, 33).
22. Iohannis Diaconi Chronicon Venetum, in Cronache veneziane antichissime, I, a cura di Giovanni Monticolo, Roma 1890 (Fonti per la storia d'Italia, 9), pp. 76 s. (pp. 59-171), e Cronica de singulis patriarchis Nove Aquileie, ibid., p. 9 (pp. 5-16).
23. Pauli Diaconi Historia Langobardorum, p. 127 (IV, 33).
24. Ibid., pp. 128 s. (IV, 37). Cf. Jaro Sasel, Der Ostalpenbereich zwischen 530 und 650 n. Chr., "Rheinisch - Westfalische Akademie der Wissenschaften", 78/2, 1988, pp. 97 ss.
25. Pseudo - Fredegario, Chronica, a cura di Bruno Krusch, in M.G.H., Scriptores rerum Merovingica rum, II, 1888, pp. 145, 155-156 (pp. 18-168); Pauli Diaconi Historia Langobardorum, pp. 132 s. (IV, 38). Per la datazione della vicenda di Tasone e Caco si è anche proposto il periodo compreso tra il 610 e il 616: Roberto Cessi, Venezia ducale, I: Duca e popolo, Venezia 19633, p. 64; Gherardo Ortalli, Venezia dalle origini a Pietro II Orseolo, in AA.VV., Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, I, Torino 1980, pp. 356 s. (pp. 339-438).
26. W. Dorigo, Venezia Origini, p. 223.
27. Pauli Diaconi Historia Langobardorum, p. 104 (III, 23).
28. Liber Pontificalis, I, p. 309 (vita di Pelagio II); Gregorii Magni Dialogi, a cura di Umberto Moricca, Roma 1924 (Fonti per la storia d'Italia, 57), p. 185 (III, 19). Cf. Giuseppe Toaldo, Essai Météorologique sur la véritable influence des astres, des saisons et changements de temps, Chambéry 1784, p. 244, Antonio Averone, Sull'antica idrografia veneta, Mantova 191 I, pp. 141-147.
29. Cf. Sergio Tavano, Il culto di s. Marco a Grado, in AA.VV., Scritti in memoria di P.L. Zovatto, Milano 1972, pp. 201-219.
30. Cronica de singulis patriarchis, pp 10 - 11.
31. Andreae Danduli Chronica per extensum descripta, a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, I, 1938 -1958, pp. 42, 20-21, e 95, 15-18. Paolo sarebbe poi morto un mese dopo e gli sarebbe succeduto come vescovo Mauro. A costui direttamente riferiscono, invece, il passaggio a Torcello Iohannis Diaconi Chronicon Venetum, pp. 84 s., e il Chronicon Altinate, in Origo Civitatum Italiae seu Venetiarum (Chronicon Altinate et Chronicon Gradense), a cura di Roberto Cessi, Roma 1933 (Fonti per la storia d'Italia, 73), p. 128.
32. L. Bosso - G. Rosada, Le presenze insediatine, pp. 547 s.
33. Pier Luigi TozzI - Maurizio Harari, Eraclea Veneta. Immagine di una città sepolta, Parma 1984, pp. 60 s.; Guido Rosada, Da 'Civitas Nova' ad ''Heraclia'. Il possibile caso di una tradizione di propaganda sulle origini "antiche" di Venezia, "Aquileia Nostra", 57, 1986, coll. 909-928. Le ricerche archeologiche non hanno dato finora elementi per definire topograficamente la città di Civitas Nova Heracleana (Eracliana). È da dire peraltro che l'operazione di livellamento dei terreni, attuata nel corso degli anni sessanta con mezzi tecnici devastanti, ha prodotto un grave effetto distruttivo sui resti archeologici disseminati sugli antichi spalti fluviali, entro cui anche le recenti campagne di scavo (1987) hanno potuto individuare: a) un'area di insediamento dell'età del Bronzo Recente; b) aree di concentrazione di materiale d'età romana; c) aree di probabili necropoli d'età romana (fra II sec. a.C. e IV/V sec. d.C.); d) due pozzi romani; e) un'area di insediamento altomedievale; f) un'area più ridotta di insediamento bassomedievale e rinascimentale. Cf. AA.VV., Cittanova-Heraclea 1987: risultati preliminari delle indagini geomorfologiche e paleogeografiche, "Quaderni di Archeologia del Veneto", 4, 1988, pp. 112 ss. Durante il periodo romano e altomedievale la zona di Cittanova era collegata con il sistema fluviale costituito dai corsi di Grassaga-Piveran-Piave di S. Donà. Era un sito posto su un dosso fluviale, collegato col mare e con la rete fluviale dell'entroterra, e quindi tale da ricoprire un ruolo di un qualche rilievo. Nel corso del medioevo l'area di Cittanova entrò sempre più nel dominio lagunare: ibid., p. 130. Cf. Ricerche archeologiche a Cittanova (Eraclea) 1987-1988, a cura di Sandro Salvatori, "Quaderni di Archeologia del Veneto", 5, 1989, pp. 77 -114, Ricerche archeologiche a Cittanova: metodi, risultati, prospettive, "Venezia Arti", 3, 1989, pp. 146 -148.
34. AA.VV., Scavi a Torcello. Relazioni provvisorie, "Bollettino dell'Istituto di storia della società e dello stato veneziano", 3, 1961, pp. 1-71; Lech Leciejewicz - Eleonora Tabaczyïska - Stanislav Tabaczyïski, Torcello scavi 1961-62, Roma 1977; Michele Tombolani, Saggio stratigrafico a Torcello, in AA.VV., La 'Venetia' dall'antichità all'alto medioevo, Roma 1988, pp. 205-214.
35. Agostino Pertusi, L'iscrizione torcellana dei tempi di Eraclio (1962), in Id., Saggi veneto - bizantini, Firenze 1990, pp. 1-31; Antonio Carile, in A. Carile - G. Fedalto, Le origini, pp. 22, 199 s., 222 (pp. 11-237); W. DorigO, Venezia Origini, p. 268.
36. A. Pertusi, L'iscrizione, pp. 26 s.
37. W. Dorigo, Venezia Origini, pp. 214, 268.
38. Cf. Giovanni Monticolo, Prefazione, in Cronache veneziane antichissime, I, p. XVIII. A "poco oltre il I o8 I " Si riferisce R. Cessi, in Origo Civitatum, p. XXIII.
39. Chronicon Gradense, in Cronache veneziane antichissime, pp. 43 s. (pp. 19-51); in Origo Civitatum, pp. 41 s.
40. Una rivalutazione della tradizione "eliana" in Giorgio Fedalto, Il vescovado di Caorle dalle origini al Trecento, in AA.VV., Studi Caorlesi (A.A., 33), Udine 1988, pp. 27-50.
41. Giuseppe Cuscito, La basilica paleocristiana di Iesolo. Per lo studio dei primi insediamenti cristiani nella laguna veneta, "Aquileia Nostra", 54, 1983, coll. 217-262.
42. Id., L'origine degli episcopati lagunari tra archeologia e cronachistica, in AA.VV., Aquileia e l'arco adriatico (A.A., 36), Udine 1990, p. 159 (pp. 157-174).
43. Ibid., pp. 157-174.
44. Johannes Dominicus Mansi, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, XI, Florentiae 1765, coll. 311-312 C.
45. W. Dorigo, Venezia Origini, p. 268; Id., Sull'organizzazione difensiva bizantino-venetica nei secoli VI-VIII, in AA.VV., La 'Venetia' dall'antichità all'alto medioevo, pp. 115 (pp. II1-120). Ma v. anche Antonio Carile, Il ducato venetico fra ecumene bizantina e società feudale, ibid., pp. 89 ss. (pp. 89-109).
46. Ibid., pp. 96 s.
47. Ibid., pp. 94 s.
48. Un Antoninus tribunus è ricordato con la moglie (Agnella coniunx) in un'iscrizione di Iesolo, secoli VII-VIII: cf. Franco Sartori, Antoninus tribunus in un'epigrafe inedita di lesolo (Venezia), in AA.VV., Adriatica praehistorica et antiqua. Miscellanea G. Novak dicata, Zagabria 1970, pp. 587 ss.
49. Liber Pontificalis, I, p. 404.
50. Cf. l'epigrafe edita in Bruna Forlati Tamaro, Un cimelio di Lison di Portogruaro, "Aquileia Nostra", 48, 1978, coll. 161-188, ma v. anche A. Carile, Il ducato venetico, p. 98, e n. 55, con l'indicazione di come "nelle elezioni di tribuni i proprietari locali tendono a prevalere". Cf. pure G. Ortalli, Venezia dalle origini, p. 348.
51. Cronica de singulis patriarchis Nove Aquileie, p. 10; cf. G. Fedalto, in A. Carile - G. Fedalto, Le origini, pp. 329 s.
52. Cronica de singulis patriarchis, pp. 10-11; cf. G. Fedalto, in A. Carile - G. Fedalto, Le origini, p. 330.
53. Ibid., p. 199.
54. Cf. Liber Pontificalis, I, pp. 346 e 347, n. 2. V. G.P. Bognetti, Natura, politica e religioni, p. 521. Per la spedizione in Italia di Costante II (663-668), v. Iohannis Diaconi Chronicon Venetum, pp. 79-84. Cf. Pasquale Corsi, La spedizione italiana di Costante II, Bologna 1983.
55. Significativa in proposito la lettera di papa Teodoro al patriarca Primogenio (del 642-647) perché ottemperasse all'impegno di concedere in enfiteusi una domus al consiliarius esarcale Mariano: Documenti relativi, I, p. 25, nr. 15. Cf. A. Carile, Il ducato venetico, p. 115.
56. G.P. Bognetti, Natura, politica e religioni, p. 520.
57. W. Dorigo, Venezia Origini, pp. 263 s., e n. 229; A. Carile, Il ducato venetico, p. 101.
58. Si tratta di tendenze a tempi lunghi, favorite dalla natura particolare dei luoghi. Cf. Jadran Ferluga, L'amministrazione bizantina in Dalmazia, Venezia 1978, pp. 111 ss.
59. Cf. A. Carile, in A. Carile - G. Fedalto, Le origini, pp. 226 s.
60. Roberto Cessi, Politica, economia, religione, in AA.VV., Storia di Venezia, II, Dalle origini del ducato alla IV crociata, Venezia 1958, p. 79 (pp. 67-476); Id., Venezia ducale, I, p. 101; A. Carile, in A. Carile - G. Fedalto, Le origini, p. 28.
61. Girolamo Arnaldi, Agatone, in Dizionario biografico degli Italiani, I, Roma 1960, pp. 373-376.
62. G. Fedalto, in A. Carile - G. Fedalto, Le origini, pp. 334, 338.
63. Paolo Delogu, Il regno longobardo, in AA.VV., Storia d'Italia, I, pp. 96 s. (pp. 1-216).
64. G. Fedalto, in A. Carile - G. Fedalto, Le origini, pp. 334 s.
65. Ottorino Bertolini, Cuniberto, in Dizionario biografico degli Italiani, XXXI, Roma 1985, p. 687; cf. Heinrich Schmidinger, in Handbuch der europäischen Geschichte, I, Stuttgart 1976, p. 386.
66. Andreae Danduli Chronica, p. 102.
67. SS. Ilario e Benedetto e S. Gregorio, a cura di Luigi Lanfranchi - Bianca Strina, Venezia 1965, p. 23, nr. 2; forse da identificare con il Teofilatto esarca del 701-705: v. Liber Pontificalis, I, p. 383; cf. A. Carile, Il ducato venetico, p. 98.
68. Cf. Girolamo Arnaldi, Le origini dello Stato della Chiesa, Torino 1987, p. 80.
69. Cf. Iohannis Diaconi Chronicon Venetum, p. 91, 5-I2.
70. Ibid., p. 91, 13-19, dove però si legge che la trattativa avrebbe avuto luogo fra re Liutprando e il dux Paulitio, mentre dal capitolo 28 del pactum Lotharii si ricava solo che la terminatio, fatta "a tempore Liuthprandi regis [...> inter Paulitionem ducem et Marcellum magistrum militum", fu rinnovata agli abitanti di Civitas Nova da re Astolfo (749-756). Ma v. Documenti relativi, I, p. 107, nr. 55 (capitoli 26 e 28).
71. R. Cessi, Venezia ducale, I, pp. 90-97. Cf. A. Carile, in A. Carile - G. Fedalto, Le origini, pp. 226-227.
72. G.P. Bognetti, Natura, politica e religioni, p. 523, muoveva per primo in questa direzione. L'ipotesi è ora ripresa da Stefano Gasparri, Dall'età longobarda al secolo X, in AA.VV., Storia di Treviso, a cura di Ernesto Brunetta, II, Il Medioevo, Venezia 1991, pp. 15-19 (pp. 3-39), ove pure si insiste opportunamente sulle diverse e forti connessioni fra l'area trevigiana (longobarda) e quella venetica (bizantina).
73. P. Delogu, Il regno longobardo, p. 132.
74. Documenti relativi, I, p. 27, nr. 17; anche in Epistolae Langobardicae collectae, a cura di Wilhelm Gundlach, in M.G.H., Epistolae, III, 1892, pp. 698-699, nr. 8 (pp. 691-725).
75. Ibid., pp. 699-700, nr. 9; Documenti relativi, I, pp. 28 s., nr. 18.
76. G. Fedalto, in A. Carile - G. Fedalto, Le origini, p. 335.
77. Epistolae Langobardicae collectae, pp. 700 s., nr. 10; Documenti relativi, I, pp. 29 s., nr. 19.
78. P. Delogu, Il regno longobardo, p. 135.
79. R. Cessi, Venezia ducale, I, pp. 101-103, A. Carile, in A. Carile - G. Fedalto, Le origini, pp. 228 s.
80. P. Delogu, Il regno longobardo, pp. 149 s. e G. Arnaldi, Le origini, pp. 81 s.
81. Cf. Massimiliano Pavan, Aquileia città di frontiera, in AA.VV., Vita sociale, artistica e commerciale di Aquileia romana (A.A., 29), I, Udine 1987, pp. 48 s.
82. L'indicazione sul titolo di hypatos è fornita dagli atti del placito di Risano(804): André Guillou, Régionalisme et indépendance dans l'empire byzantin au VIIe siècle. L'exemple de l'exarchat et de la Pentapole d'Italie, Roma 1969, p. 305, Documenti relativi, I, p. 64, nr. 40. Cf. A. Carile, Il ducato venetico, p. 103.
83. Documenti relativi, I, pp. 31 s., nr. 21.
84. Così nella I edizione di Roberto Cessi, Venezia ducale, I, Le origini, Padova 1928, pp. 92 s.
85. Liber Pontificalis, I, p. 405.
86. Ottorino Bertolini, Roma e i Longobardi, Roma 1972, pp. 34-36 e P. Delogu, Il regno longobardo, pp. 150 ss.
87. Documenti relativi, I, pp. 31 s., nr. 21; A. Carile, in A. Cabile - G. Fedalto, Le origini, p. 28.
88. Documenti relativi, I, pp. 32 s., nr. 22.
89. P. Delogu, Il regno longobardo, p. 155, O. Bertolini, Roma e i Longobardi, pp. 38 s.
90. P. Delogu, Il regno longobardo, p. 156.
91. Epistolae Langobardicae collectae, p. 702, nr. 12, anche in Documenti relativi, I, pp. 40 s., nr. 26, con datazione al 740-741.
92. Ibid., p. 40; Epistolae Langobardicae collectae, p. 702, nr. - 11.
93. Cf. O. Bertolini, Roma e i Longobardi, pp. 38 s. e G. Arnaldi, Le origini, p. 94.
94. G. Ortalli, Venezia dalle origini, p. 366.
95. O. Bertolini, Roma e i Longobardi, p. 38; Friedrich Wilhelm Deichmann, Ravenna Hauptstadt des spätantike Abendlandes, I: Geschichte und Monumente, Wiesbaden 1969, pp. 8 s., e ibid., II/3: Kommentar, Wiesbaden-Stuttgart 1989, p. 90. Attorno al 740 pone invece l'intervento venetico R. Cessi, Venezia ducale, I, p. 103, seguito da buona parte degli studiosi di cose veneziane. Va anche aggiunto che al tempo dei magistri militum (e quindi fra il 737 e il 742, secondo la cronologia più accettata) colloca le vicende in questione Iohannis Diaconi Chronicon Venetum, p. 95.
96. Ibid., pp. 95 s.
97. A. Carile, in A. Carile - G. Fedalto, Le origini, p. 229; Id., Il ducato venetico, p. 103; Gherardo Ortalli, Deusdedit, in Dizionario biografico degli Italiani, XXXIX, Roma 1991, p. 502 (pp. 502-504).
98. Id., Venezia dalle origini, p. 367; A. Carile, in A. Carile - G. Fedalto, Le origini, pp. 28 s.; Id., Il ducato venetico, p. 103.
99. A. Pertusi, L'impero bizantino e l'evolvere dei suoi interessi nell'alto Adriatico (1964), in Id., Saggi veneto-bizantini, p. 46 (pp. 33-65).
100. Iohannis Diaconi Chronicon Venetum, pp. 96 s. Cf. G. Ortalli, Deusdedit, p. 502.
101. A. Carile, in A. Carile - G. Fedalto, Le origini, p. 229.
102. W. Dorigo, Venezia Origini, pp. 256 s.
103. Per la data della caduta di Ravenna, tutt'altro che pacifica, seguiamo Ottorino Bertolini, Ordinamenti militari e strutture sociali dei Longobardi in Italia (1967), in Ordinamenti militari in Occidente nell'alto medioevo, Spoleto 1968 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull'alto medioevo, XV), pp. 502-507 (pp. 429-607).
104. L'ipotesi è stata formulata da O. Holder-Egger sulla base di un passo del Liber pontcalis ecclesiae Ravennatis di Agnello Ravennate e ripresa, fra gli altri, da O. Bertolini, Roma e i Longobardi, pp. 63 s.
105. Documenti relativi, I, p. 107, nr. 55 (capitoli 26 e 28). Sul mancato intervento venetico per Ravenna nel 750 in rapporto alla testimonianza del pactum Lotharii, cf. R. Cessi, Venezia ducale, I, pp. 113 S. e G. Ortalli, Deusdedit, p. 503.
106. Louis Duchesne, I primi tempi dello Stato pontificio (1898), Torino 19672, p. 18, I.
107. Agostino Pertusi, Q,uedam regalia insignia. Ricerche sulle insegne del potere Ducale a Venezia durante il Medioevo, "Studi veneziani", 7, 1965, p. 97 (pp. 3-123).
108.Iohannis Diaconi Chronicon Venetum, p. 97, 23-98,
109. A fronte della tradizionale interpretazione che vede l'edificazione di Brondolo in funzione antilongobarda (così già Heinrich Kretschmayr, Geschichte von Venedig, I, Gotha 1905, p. 49), R. Cessi, Venezia ducale, I, p. 109, vi coglie anche l'espressione di uno "spirito antibizantino", con ciò implicitamente anticipandone la fondazione a prima del 750 e della fine dell'esarcato. Cf. G. Ortalli, Venezia dalle origini, p. 371, n. 1.
110. G. Arnaldi, Le origini, p. 111
111. Ibid., pp. 127-134.
112. Liber Pontificalis, I, p. 498.
113. Da Ovidio Capitani, in uno scritto ancora inedito.
114. G. Arnaldi, Le origini, p. 129.
115. Cf., in questo stesso volume, Lellia Cracco Ruggini, p. 74.
116. R. Cessi, Venezia ducale, I, p. 115.
117. A. Carile, in A. Carile - G. Fedalto, Le origini, p. 229. Per Roma, cf. G. Arnaldi, Le origini, pp. 115-117.
118. Iohannis Diaconi Chronicon Venetum, p. 98, 5-10.
119. Carlo Guido Mor, Aspetti della vita costituzionale veneziana fino alla fine del X secolo (1964), in AA.VV., Storia della civiltà veneziana, I: Dalle origini al secolo di Marco Polo, Firenze 1979, p. 88 (pp. 85-93); A. Carile, in A. Carile - G. Fedalto, Le origini, p. 231; G. Ortalli, Venezia dalle origini, pp. 371 s.; Gerhard Rösch, Der venezianische Adel bis zur Schliessung des Grossen Rats, Sigmaringen 1989, p. 39.
120. Iohannis Diaconi Chronicon Venetum, p. 98, 11- 17. Nell'identificazione delle diverse fazioni in contrasto ci si è orientati di volta in volta anche a riconoscere un "partito della terraferma" o ad assumere come chiave interpretativa la contrapposizione fra interessi più mercantili e marittimi (orientati su Malamocco) e interessi tradizionalmente fondiari e agricoli (incardinati su Civitas Nova). La documentazione residua, peraltro, sconsiglia di arrischiarsi in definizioni troppo rigide: cf., in proposito, R. Cessi, Venezia ducale, I, pp. 110 -113; G. Ortalli, Venezia dalle origini, pp. 370 s.; G. Rösch, Der venezianische Adel, p. 39.
121. Documenti relativi, I, p. 49, nr. 30 (pp. 46-49); anche in Epistolae Langobardicae collectae, p. 713, nr. 19 (pp. 711-713).
122. A. Carile, Il ducato venetico, pp. 104 s.
123. Dell'importante evento la tradizione venetica non ha tramandato alcun ricordo, con una scelta del tutto funzionale ai propri bisogni politici e alla propria immagine. Le notizie si ricavano invece, indirettamente, dal Liber Pontificalis, I, p. 491. Cf. R. Cessi, Venezia ducale, I, pp. 119. s.
124. Documenti relativi, I, pp. 46-49, nr. 30; Epistolae Langobardicae collectae, pp. 711-713, nr. 19. Cf. Roberto Cessi, L'occupazione longobarda e franca dell'Istria nei sec. VIII e IX, "Atti del R. Istituto veneto di scienze, lettere ed arti", 100, 2, 1940-1941, pp. 291-293 (pp. 289-313); Id., Venezia ducale, I, pp. 120-122.
125. Documenti relativi, I, pp. 50 s., nr. 31; Epistolae Langobardicae collectae, pp. 713 s., nr. 20.
126. Documenti relativi, I, pp. 51 s., nr. 32; Epistolae Langobardicae collectae, p. 715, nr. 21.
127. R. Cessi, L'occupazione, pp. 294 s.; cf. anche ibid., p. 294, n. 4: "Infatti papa Stefano, dopo aver postulato l'estensione del patto pavese e all'Istria e alla Venezia, nell'effettiva validità limitava l'applicazione al caso concreto dell'Istria".
128. Ibid., p. 297.
129. Iohannis Diaconi Chronicon Venetum, pp. 98, 18-99, 3.
130. W. Dorigo, Venezia Origini, p. 537.
131. Cf., da ultimo, S. Gasparri, Dall'età longobarda, pp. 18 s.
132. Agostino Pertusi, La formation des thèmes byzantins, in Berichte zum XI. Internationalen Byzantinisten-Kongress, München 1958, pp. 1-40; Id., Contributi alla storia dei temi bizantini dell'Italia meridionale, in Atti del 3° Congresso internazionale di studi sull'alto medioevo (Benevento, Montevergine, Salerno, Amalfi 14-18 ottobre 1956), Spoleto 1959, pp. 495-517.
133. Cf. Franz Dölger, Die frühbyzantinische und byzantinisch beeinflusste Stadt (V.-VIII. Jahrhundert), in Atti del 3° Congresso internazionale di studi sull'alto medioevo, pp. 65-10o; Cyril Mango, La civiltà bizantina, Bari 1991, pp. 71-102.
134. Ibid., p. 92.
135. Ibid., p. 86.
136. Cf. Lellia Cracco Ruggini - Giorgio Cracco, Changing Fortunes of the Italian City from Late Antiquity to Early Middle Ages, "Rivista di Filologia e di Istruzione Classica", 105, 1977, pp. 474-475.