Le origini della letteratura latina e le forme della acculturazione: dalla storiografia all'epica
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
A contatto con l’autorevole cultura ellenica i Romani ne riprendono l’esperienza letteraria, adattando i modelli greci a gusto e codice culturali indigeni. Alle arcaiche forme di poesia e di storiografia, al teatro italico preistorico, si affiancano ben presto epica e testi drammatici greci; e se Livio Andronico traduce Omero in latino, Ennio e Nevio muniscono Roma di poemi epici nazionali.
Se cerchiamo il significato del termine “letteratura” su alcuni dei più diffusi dizionari di italiano, le definzioni in cui ci imbattiamo sono le seguenti:
“l’insieme delle opere variamente fondate sui valori della parola e affidate alla scrittura, pertinenti a una cultura o civiltà” (G. Devoto - G.C. Oli, Vocabolario della lingua italiana, Le Monnier, 2006, p. 1535).
“Ciò che è scritto a fini artistici, in prosa o in versi, e che è oggetto di sistemazione storica e analisi critica” (F. Sabatini - V. Coletti, Dizionario italiano Sabatini Coletti, Giunti, 1997, p. 1393).
Perché si possa parlare dell’esistenza di una letteratura riferibile a una specifica società è indispensabile che essa venga espressa, oltre che in una lingua condivisa, nella forma di opere scritte possibilmente dotate di finalità e caratteristiche artistiche. Stanti queste condizioni, possiamo affermare che una letteratura latina non sia esistita prima della seconda metà del III secolo a.C. Fino a quel momento, infatti, Roma e le altre città latine, pur possedendo una lingua scritta (che si afferma nel Lazio a partire dall’VIII secolo a.C.), non la impiegano con finalità estetico-artistiche, ma meramente pratiche: dalla stesura di leggi o trattati alla redazione di elenchi con nomi di magistrati o di eventi storico-militari, fino alle indicazioni di proprietà o di produzione di alcuni oggetti. Quanto alle composizioni che noi possiamo considerare di rilievo artistico, come i racconti epici e mitologici o le opere teatrali, anch’esse esistono probabilmente sin da età molto antiche, tramandate tuttavia soltanto tramite performance orali.
Il processo che porta alla nascita di una vera e propria letteratura latina si collega strettamente ai contatti, in parte amichevoli in parte di conquista, che Roma sviluppa con la società greca tra III e II secolo a.C., prima con i centri di cultura ellenica presenti nel meridione italiano e in Sicilia, poi con la Grecia vera e propria, entrata a far parte del dominio romano tra II e I secolo a.C. Non a caso, il primo poeta “letterato” latino è Livio Andronico, un magnogreco giunto a Roma come schiavo durante la guerra tarantina (280-272 a.C.).
L’incontro-scontro tra società romana e greca produce quel fenomeno che gli antropologi chiamano “acculturazione”, un processo di reciproco cambiamento riguardante una parte delle consuetudini sociali e culturali delle comunità che ne sono coinvolte. I Romani sono certamente colpiti e affascinati dalla letteratura che i Greci hanno prodotto e sviluppato da ormai diversi secoli e che in parte è loro nota, e la prendono a modello, facendola propria, per crearne una in latino. In quanto effetto di un complesso processo di acculturazione, si sbaglierebbe, tuttavia, a considerare la letteratura latina come un sottoprodotto tardivo e poco originale di quella greca. Se è vero, come afferma Quinto Orazio Flacco, che “la Grecia, sottomessa, conquista il feroce vincitore” (Epistulae II.1.156) grazie al successo dei valori e degli stili di vita che la sua letteratura veicola, è anche vero che i Romani si rivelano capaci di plasmare la loro giovane letteratura in modo innovativo, reinterpretando e trasformando generi e modelli greci alla luce della loro antica tradizione non letteraria, delle esigenze e dei valori di cui Roma si sta facendo portatrice nell’area mediterranea.
Le origini della storiografia latina sono da rinvenire innanzitutto nell’opera del collegio sacerdotale dei pontefici. Sin dall’età regia, alla fine di ogni anno il pontefice massimo, capo di tale collegio, redige su una tavola lignea imbiancata (tabula dealbata) un breve testo in cui si elencano i nomi dei magistrati eletti o designati durante l’anno, i principali fatti politici, militari, astronomici e gli eventuali casi di carestia che abbiano prodotto a Roma forti rincari dei prezzi.
Questi scarni elenchi degli eventi significativi occorsi ogni anno, detti annales maximi, vengono esposti al pubblico nel Foro romano e via via sostituiti con quelli dell’anno in corso. Sempre i pontefici si occupano, poi, di redigere dei brevi commentarii in cui le informazioni presenti sulle tabulae dealbatae vengono organizzate in modo discorsivo e più ampio. Quando, dalla fine del III secolo a.C., i Romani si accingono alla scrittura di opere letterarie sulla storia della loro città – il primo è Fabio Pittore, che tuttavia usa la lingua greca –, essi non possono fare a meno di ispirarsi al modello introdotto dai pontefici, raccontando con stile scarno e conciso gli eventi occorsi a Roma anno dopo anno.
Nello sviluppo della storiografia come genere letterario latino giocano un ruolo decisivo anche due forme di comunicazione tradizionali tipicamente orali: l’elogium e la declamazione oratoria. La prima consiste nella lode di un cittadino, solitamente di alto status, pronunciato in occasione delle sue esequie; vi si elencano le virtù dell’individuo e della famiglia a cui appartiene, le magistrature e le altre cariche ricoperte, gli eventuali successi militari. La seconda coincide con le orazioni tenute da alcuni cittadini, solitamente in senato, in momenti particolarmente importanti per la storia della città. La memoria delle famiglie aristocratiche e la ripetizione, integrale o parziale, degli elogi funebri e delle orazioni relativi ai loro antenati in precise circostanze – come altri funerali, altre sedute del senato – fanno sì che queste testimonianze orali giungano fino alle generazioni degli storici latini, che le impiegano ampiamente per la stesura delle loro opere letterarie.
Le origini della letteratura latina sono segnate da forme arcaiche di poesia che i Romani definiscono carmina – dal verbo cano, “cantare”. Si tratta di enunciati di carattere orale – invocazioni e consacrazioni a divinità, maledizioni contro nemici di guerra, ma anche formule magiche, di scongiuro e di guarigione, filastrocche e proverbi – concepiti per occasioni che segnano la vita pubblica e privata della comunità, e solo in parte fissati nella cultura scritta.
L’efficacia poetica di questi componimenti dal latino fortemente arcaico e ormai misterioso per i Romani dell’età classica, nel verso italico detto saturnio o in una simile prosa ritmata, si realizza in un andamento fortemente allitterante e iterativo, basato sulla ripetizione e il parallelismo. Perduti sono i carmina convivalia, dedicati forse ai racconti sulla storia leggendaria di Roma durante i banchetti degli aristocratici. Ma gli autori latini conservano formule cultuali come il carmen lustrale, pronunciato dal pater familias per la purificazione dei campi; o il carmen saliare, cantato dai sacerdoti Salii di Marte e di Ercole durante la loro danza guerriera con gli scudi sacri, e il carmen arvale, recitato dal collegio sacerdotale dei fratres Arvales per propiziare la fertilità della terra.
I villaggi laziali del tempo più antico conoscono una forma preistorica di teatro legata ai ludi – ovvero “feste” – celebrati dai contadini per le principali ricorrenze del lavoro agricolo. Tra gare e sacrifici rituali offerti agli dèi si svolgono i fescennini: scambi di battute e insulti scurrili, che personaggi grossolanamente mascherati improvvisano in versi sottolineati da una mimica rozza. L’oscenità dei fescennini sembra funzionale all’intento di scacciare il “malocchio” (gli antichi ne percepiscono il nome in relazione al termine fascinum, con questo significato) e di propiziare la fecondità della terra. Simile valore “apotropaico” hanno i volgari carmina rivolti dai soldati al comandante in trionfo, o i versi indirizzati agli sposi durante le cerimonie nuziali. Ai fescennini romani riporta del resto l’ilarità delle feste contadine tradizionali dell’Europa moderna, spesso scandite da gare di poesia e di abilità; ma l’esperienza teatrale di oggi, nella sua sostanziale laicità, rimane ben distante dalle preistoriche performance legate ai ludi: atti propriamente religiosi, in cui la stessa comicità è aspetto integrante del rito.
Una grave pestilenza, narra lo storico Tito Livio, investe Roma nel 365 a.C. Nessuno dei riti purificatori cui si ricorre, per quanto solenne, riesce a produrre un effetto: non il sontuoso banchetto imbandito alle statue degli dèi (lectisternium), e nemmeno la danza elegante eseguita al ritmo del flauto da ballerini fatti arrivare dall’Etruria. Ma proprio quest’ultimo evento stimola la creazione di un nuovo genere di teatro: imitando gli stranieri, i Romani dei rozzi scambi fescennini imparano ad accordare ai loro versi movenze più armoniche e a modulare voce e movimenti sulla musica. Nasce così la satura, nuova performance mimico-melodica che propone al pubblico un susseguirsi di brevi pezzi di tipo diverso, una sorta di spettacolo-varietà così detto dal termine satur nel suo significato di “pieno”, “farcito” e “vario”. La sua affermazione segna il passaggio a tecniche sceniche più complesse, mentre compaiono scuole di attori (histriones) ed autori teatrali professionisti; e favorisce ben presto il contatto con i metri greci, dando inizio alla lunga sperimentazione che porta Roma ad una ricezione matura del “teatro alla greca”, introdotto nei ludi circa un secolo dopo.
Ma mentre il nuovo tipo di rappresentazione trasforma a poco a poco il giocoso divertimento (ludus) di un tempo in arte e si inizia a mettere in scena drammi a soggetto – continua Livio – i giovani Romani lasciano agli istrioni i generi maggiori per tornare alla tradizione: essi riprendono ad improvvisare nell’antico stile fescennino, e per questa via si cimentano con un genere di spettacolo appreso dalla città osca di Atella. Si tratta della fabula Atellana, breve e semplice farsa nota per l’uso di maschere fisse (Maccus, il matto, Bucco, il mascellone, Pappus, il nonnetto, e Dossenus, forse il gobbo), detta poi anche exodium Atellanicum per l’abitudine di farla seguire come spettacolo “di uscita” a conclusione di una tragedia o di una commedia alla greca.
Nel 240 a.C. Livio Andronico introduce a Roma il teatro attico: tragedie greche del V secolo a.C. e commedie del IV secolo a.C. si impongono nella cultura teatrale romana, relegando in secondo piano ogni altra forma di rappresentazione. Sullo scenario dominato dalla comicità della satura irrompono, quali generi drammatici maggiori, la fabula cothurnata, tragedia latina d’abito e argomento greco così detta dagli alti calzari dei personaggi tragici greci (cothurni), e la fabula palliata, commedia alla greca che ha nome dal pallium, il piccolo mantello indossato dai personaggi maschili della commedia attica.
Le pièces straniere, tuttavia, vengono adattate dai Romani a registro linguistico e cultura propri. Per la cothurnata si prediligono i soggetti del ciclo relativo alla guerra di Troia, efficaci nel rimandare alla preistoria di Roma – che vede il suo mitico antenato nel troiano Enea – radicando la rappresentazione al tema dell’identità nazionale. Quanto alla palliata, della minuta varietà di maschere comiche greche Roma non prende che una semplificata selezione: fra le principali compaiono il vecchio avaro, la matrona sua moglie/nemica, il giovane figlio generalmente squattrinato e innamorato, la cortigiana oggetto del suo amore e via via il lenone, il parassita, il cuoco, il soldato spaccone, il servo astuto. Muovendosi nell’esotico costume greco, quest’ultimo personaggio guadagna libertà di parola e movimento che lo vedono dominare la scena, ordire beffe ed inganni, spesso gabbare il padrone: un’immagine di inversione sociale, questa, che la commedia in abito nazionale (fabula togata) non può invece che sottoporre a censura. Ma la traduzione romana del teatro greco opera su più livelli, dall’accentuazione dell’aspetto musicale alla predilezione della mimica facciale rispetto all’uso della maschera, che gli attori romani arcaici, a differenza dei Greci, probabilmente non indossano sulla scena.
Roma stessa diviene oggetto di rappresentazione teatrale con la fabula praetexta, tragedia di abito ed argomento romano. Questo tipo di dramma mette in scena le origini mitiche della città con le vicende e i personaggi ad essa legati, come Romolo, le Sabine, Lucio Giunio Bruto. I racconti sulla Roma più arcaica prevalgono sulla tendenza, più sporadica, a rappresentare l’attualità: efficaci come sono nel rispondere alla duplice esigenza di rimandare all’identità collettiva del pubblico romano e insieme di distanziare nel tempo i fatti rappresentati, garantendo il giusto equilibrio nel grado del suo coinvolgimento.
Giunto a Roma dalla Magna Grecia come schiavo, poi divenuto liberto, Livio Andronico si dedica all’insegnamento della grammatica e alla composizione di opere teatrali. Nel 240 a.C. mette in scena un dramma greco tradotto in latino che presenta a Roma la tragedia di tipo euripideo, un genere ricco di musica e perciò abbastanza affine al pubblico romano, abituato al teatro melodico della satura.
Andronico predilige soggetti del ciclo troiano come Achilles, Aiax mastigòphorus, Equos Troianus, Aegistus, Tèreus: racconti che possono risultare efficaci nel richiamare le origini leggendarie di Roma come nel trasmettere codici etici di riferimento, grazie alla straordinaria concentrazione di motivi antropologici (criminose vicende familiari fatte di incesti, matricidi e patricidi, adulteri e cannibalismo) che scarseggiano nella mitologia nazionale.
La speciale attitudine di Andronico all’importazione transculturale di testi trova la sua più importante realizzazione nell’Odusìa, versione latina dell’Odissea della quale rimangono 40 versi. Con Ulisse (versione latina del greco Odysséus) il poeta sceglie per i Romani un eroe greco aderente ai loro valori tradizionali: un uomo per eccellenza saggio e fedele alla patria, alla ricerca della quale erra a lungo come il troiano Enea, intento al viaggio che porterà un giorno alla fondazione di Roma. Il testo greco è adattato dal poeta, con la traduzione, al gusto romano: al posto delle divinità greche compaiono i corrispondenti latini, come Camena in luogo della greca Musa o Saturno al posto di Crono; invece dell’esametro troviamo i saturni ricchi di parallelismi degli antichi carmina, mentre l’uso di termini spesso desueti conferisce all’opera un registro arcaico, patetico e solenne. L’Odusìa fa così di Livio Andronico l’inventore della traduzione intesa come forma di creazione poetica e letteraria: come scambio culturale più ampio della semplice trasposizione fra lingue diverse. Volgendo in latino la poesia di Omero, segno dell’autorevole patrimonio culturale greco, egli inventa in realtà per Roma una lingua poetica propria: uno strumento valido e creativo alla ricerca di una letteratura nazionale romana.
L’opera di Gneo Nevio imprime un segno ancor più deciso al processo di romanizzazione della cultura greca avviato da Livio Andronico. Nato in Campania, l’autore milita nella prima guerra punica con l’esercito romano. Nel dibattito politico che vede contrapposta la linea conservatrice di Fabio Massimo a quella di Metelli e Scipioni, fortemente espansionistica e favorevole ad una più diretta apertura di Roma all’influenza greca, Nevio si schiera dalla parte dei primi: posizione, questa, che gli costa l’arresto dopo l’elezione di Quinto Cecilio Metello a console, quindi la morte a Utica da esule.
Sul fronte poetico, la sua produzione si distingue per la forte connotazione in senso romano-italico: di più, egli si svincola dalla traduzione per introdurre per la prima volta opere originali in latino. Nel suo repertorio teatrale figurano cothurnatae che ampliano il tradizionale temario del ciclo troiano con la tragedia Lycurgus, in riferimento al culto delle sacerdotesse di Bacco-Dioniso. Ma Nevio dà il meglio di sé in palliatae dal marcato segno romano e particolarmente felici nella trattazione della tematica amorosa, nelle quali il tipo del “servo furbo” in costume greco acquista la libertà espressiva che segnerà per eccellenza il servus plautino. Novità neviana sono anche le praetextae, tragedie d’abito e argomento romano: fra queste compaiono Romulus e Clastidium, dedicate rispettivamente al mitico fondatore di Roma e alla vittoria romana sui Galli a Casteggio (222 a.C.).
Ma a dare dignità letteraria senza precedenti alla tradizione romana, intrecciando fatti recenti e racconti tratti dal patrimonio mitico collettivo, è più pienamente il Bellum Poenicum, un carmen continuo incentrato sulla prima guerra punica con il quale, sul tipo ellenistico dell’epos breve, Nevio dà a Roma il suo primo poema epico nazionale. L’opera prevede una sezione storica e una mitologica: con stile asciutto e oggettivo sono esposte le operazioni militari fino all’assedio di Agrigento (262 a.C.); la descrizione del tempio agrigentino di Zeus, dove è raffigurata la presa di Troia, dà poi inizio alla trattazione stilisticamente più elaborata della storia mitica di Roma – dalla fuga di Enea da Troia alla fondazione della città –, per tornare infine alla guerra punica con la vittoria romana.
Fra mito e storia recente, Nevio mette in campo vicende e personaggi esemplari della tradizione capaci di esprimere valori e norme di comportamento all’interno della comunità. E trasmette, così, un codice culturale profondamente romano, secondo il quale l’unico eroismo possibile (e al contempo il semplice dovere di ognuno) consiste nel saper anteporre l’interesse collettivo a quello personale; inoltre, fondamentale è la capacità di sottomettersi alla volontà divina. Ed è proprio grazie alla scrupolosa osservazione di virtus e pietas, atteggiamenti adottati in un lontano passato da Enea, che – sembra dire il poeta – i Romani del futuro potranno guadagnare il trionfo nella loro guerra contro Cartagine. Il Bellum Poenicum di Nevio mette così in atto un preciso procedimento: si ricostruisce la memoria del passato fornendo con essa, allo stesso tempo, un significato al presente e, in definitiva, un codice culturale da riconoscere come valido, al quale ognuno deve attenersi per essere un buon romano.
Quinto Ennio nasce a Rudiae in Puglia, terra di incontro fra le lingue greca, osca e latina: “tre cuori” del poeta, per sua stessa definizione, che gli valgono forse la capacità letteraria di mediare fra culture diverse. Arriva a Roma con Marco Porcio Catone, allora questore, del quale guadagna la stima mentre milita con gli alleati romani nella seconda guerra punica; vi lavora come autore teatrale e maestro di grammatica, avviando una assidua frequentazione con le famiglie aristocratiche in linea con gli Scipioni. A Scipione Africano si lega strettamente, celebrando le sue gesta e quelle di altri potenti personaggi romani al modo dei poeti ellenistici di corte.
Designato pater della letteratura latina già dagli antichi e superato per fama solo da Virgilio, Ennio coltiva una varietà di generi letterari rivestendo un ruolo fondamentale nel processo di acquisizione della cultura greca: per primo importa l’epica in esametri, cui imprime uno stile nuovo che fa dei suoi Annales un modello indiscusso fino all’Eneide virgiliana. Le sue coturnate registrano una netta predilezione per temi legati al ciclo troiano: Achilles, Aiax, Alexander, Hecuba, Iphigenìa, Eumènides, Thyestes e altre dello stesso segno. Fra le preteste, Ambracia celebra l’assedio della città da parte di Marco Fulvio Nobiliore (189 a.C.), mentre Sabinae è dedicata al celebre ratto orchestrato da Romolo. Lo stile tragico enniano, improntato a solennità e patetismo, resta d’esempio fino a Seneca, con il suo gusto per l’orrido e i sentimenti esasperati, per l’indagine psicologica e la sentenza di tipo filosofico.
Ma Ennio non si ferma al teatro. Inaugura il genere della satira con una raccolta di componimenti, vari per metro e soggetto, in cui esprime il proprio pensiero su argomenti tratti dal quotidiano. Coltiva la poesia celebrativa in metro greco con Scipio, esaltazione del vincitore della seconda guerra punica, o con gli epigrammi funebri in distici elegiaci (alcuni dei quali ugualmente dedicati all’Africano). Si cimenta in scritti filosofici, mentre Sota ed Hedyphagètica – un poemetto licenzioso in sotadèi e una guida gastronomica in esametri – non mancano di iscrivere la sua attività nell’ambito della parodia epica di matrice ellenistica.
Opera maggiore del poeta sono gli Annales, poema epico in esametri (ne restano circa 600) diviso in 18 libri. L’autore vi narra la storia di Roma, procedendo per anni secondo il rigoroso principio cronologico degli Annales redatti dai pontefici: prima le origini mitiche di Roma fino ai sette re (libri I-III), quindi la conquista romana dell’Italia (IV-VI), le guerre puniche (VII-XII) e la storia più recente (XIII-XVIII). Ennio utilizza i proemi per rivolgersi al proprio pubblico: celebre quello iniziale, dove aderisce alla teoria pitagorica della reincarnazione e racconta di come Omero gli sia apparso in sogno per rivelargli che la propria anima rivive in lui. Attraverso il sogno, già luogo di investitura poetica per Esiodo e Callimaco, Ennio identifica se stesso con il grande poeta portando simbolicamente al massimo grado l’appropriazione romana della tradizione greca. Una esplicita dichiarazione di poetica è nel proemio al libro VII: come il poeta alessandrino Callimaco si difende dai propri avversari nel proemio agli Àitia, Ennio replica a chi critica la natura soprannaturale dei suoi sogni e attacca la rozza poesia latina in saturni, rivendicando il merito di aver aperto la poesia romana allo stile greco. Chiarisce poi l’origine divina della sua ispirazione, presentandosi tuttavia come dicti studiosus: poeta dotto, dedito allo studio e alla cura filologica e capace di rispondere alle aspettative di un pubblico colto ed aristocratico.
Variando nello stile dalla solennità omerizzante a registri più discorsivi, egli mira a coinvolgere il destinatario ricorrendo spesso a espedienti retorici e al fonosimbolismo: largo uso di figure di suono volte a creare suggestive impressioni foniche che rimandino alle situazioni e alle atmosfere descritte. Quanto al codice antropologico veicolato dall’opera, esso esprime la nuova cultura di importazione ellenistica segnando una distanza da quella romana tradizionale esaltata piuttosto da Nevio: accanto a valori come pìetas e virtus Ennio propone i temi dell’amicizia, della saggezza, dell’impegno filosofico e letterario; e alla celebrazione del senso civico romano, sempre teso al bene comune, affianca l’esaltazione delle qualità individuali di grandi personalità (come Fulvio Nobiliore o Scipione Africano) che rendono gloriosa la storia di Roma.