Le origini di Roma
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Se incertezze permangono sulla storia delle origini di Roma, dovute alle difficoltà di interpretazione dei dati archeologici e all’attendibilità delle testimonianze letterarie a noi giunte, di epoca decisamente posteriore al momento che ci interessa, tuttavia si può affermare con relativa certezza che il Lazio preromano fosse composto da una serie di comunità (oppida) – tra cui doveva primeggiare Alba Longa – caratterizzata da culti, produzioni manifatturiere, riti funebri comuni.
Le origini di Roma e i primi secoli della sua storia hanno rappresentato a lungo, e rappresentano tuttora, un oggetto di ricerca in grado di appassionare come pochi altri generazioni di studiosi o di semplici curiosi della materia.
La cultura medievale e poi, ancor più, il pensiero umanistico e rinascimentale – il caso letterario più famoso è forse quello dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio di Niccolò Machiavelli – videro in Roma arcaica e nella sua storia narrata dagli antichi uno straordinario repertorio di modelli di comportamento, una realtà politico-sociale in cui si sarebbero concentrati eccezionali esempi di moralità degni di essere imitati dai posteri.
Nelle epoche successive l’interesse per i primordi di Roma si è in parte trasformato. Gli specialisti della materia hanno iniziato ad indagare prevalentemente se, e in che limiti, la storia di Roma arcaica che ci è stata tramandata sia attendibile: se, cioè, i racconti che gli autori antichi ci hanno lasciato sui primi tempi dell’Urbe ce la rappresentino per come realmente fu.
La gran parte delle informazioni che possediamo sui primi secoli di Roma, che sono di tipo letterario, sono state raccolte, infatti, da scrittori vissuti molti secoli dopo rispetto agli eventi di cui si occupano. Le due principali opere storiche antiche che parlano di Roma arcaica, cioè i primi libri della Ab Urbe condita di Tito Livio e la Rhomaiké Archaiología di Dionigi di Alicarnasso, sono apparsi ai tempi dell’imperatore Augusto, poco prima dell’anno zero. Gli altri scrittori (storici, ma anche eruditi, poeti, filosofi) che ci parlano estesamente dei primi tempi di Roma non sono vissuti prima del II-I secolo a.C. Gli stessi autori antichi affermano, poi, a più riprese che la loro ricostruzione storica si è potuta basare solo in minima parte su testimonianze scritte, sia perché nella Roma arcaica la scrittura era poco impiegata, sia perché durante il saccheggio gallico subito da Roma nel 390 a.C. gli archivi dello stato romano, dove erano depositati gli annali della storia della città scritti dai pontefici, sarebbero andati per lo più distrutti.
Le difficoltà in cui gli antichi dovettero incorrere per produrre la loro storia di Roma arcaica sono parse sufficienti per indurre molti studiosi, a partire dal XVII-XVIII secolo, a considerare le opere di Livio e degli altri autori come poco più che invenzioni a tavolino, storicamente inattendibili e imbevute di contenuti favolosi e moraleggianti che ben poco dovevano avere a che vedere con gli eventi reali dei primi secoli della città.
Questo punto di vista, detto ipercritico, ha trovato eco e successo tra gli studiosi di Roma antica fino agli anni Sessanta-Settanta del Novecento. In quel periodo, la scoperta di numerose vestigia archeologiche di età arcaica a Roma e in altri centri laziali ha evidenziato in molti casi dei forti elementi di convergenza con quanto affermano le fonti scritte antiche. Si è scoperto, ad esempio, che alla fine del VII secolo a.C. la zona del Foro romano fu pavimentata, proprio quando gli autori latini raccontano della costruzione di botteghe in quell’area, e che sempre nel Foro fu costruito un edificio in muratura proprio dove le fonti antiche collocano la casa del re, la regia. Più recentemente altri scavi hanno mostrato come le attività edilizie ascritte dalle fonti ai primi re di Roma possono trovare interessanti elementi di confronto grazie ad alcuni significativi rinvenimenti realizzati alle pendici settentrionali del Palatino, nel Comizio e lungo la Sacra Via.
I numerosi casi di convergenza tra fonti scritte antiche ed evidenze archeologiche hanno messo in crisi radicalmente le vecchie posizioni ipercritiche a cui si è sostituito un atteggiamento di maggiore fiducia nei confronti delle testimonianze letterarie, il cui valore documentario è stato corroborato, indirettamente, anche dalle ricerche compiute dagli antropologi culturali che si occupano di società orali tuttora esistenti. Nella Roma arcaica la scrittura era poco utilizzata e, quindi, il ricordo e la tradizione di eventi, istituzioni, personaggi e valori era veicolato tramite la parola. La fonte principale a cui gli autori antichi dovettero attingere quando ricostruirono i primi secoli di Roma era dunque un patrimonio collettivo altamente autorevole, stratificatosi e consolidatosi nei secoli, che fino alla tarda età repubblicana si era tramandato dalla bocca all’orecchio e che dunque non era stato tardivamente inventato a tavolino. Solo che questo patrimonio tradizionale, a causa delle modalità di produzione, selezione e trasmissione tipiche dei racconti orali che gli antropologi hanno ben evidenziato, non ha potuto conservare tutti i dati evenemenziali e puntuali che solitamente agli storici moderni interessano.
Le fonti in nostro possesso possono, tuttavia, consentirci di conoscere con buona chiarezza altri aspetti della storia e della società romana arcaica, che la tradizione orale ha portato fino agli storiografi romani di età tardorepubblicana e imperiale. L’opera di Tito Livio, ad esempio, per asserzione dell’autore stesso, si occupa innanzitutto di mostrare ai suoi lettori “quali siano state le condizioni di vita (vita), quali i costumi (mores), in virtù di quali uomini e di quali mezzi (per quos viros quibusque artibus) si sia formato ed accresciuto, in pace e in guerra, l’impero” (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, Prefazione 9).
Se scrivere sui primi secoli di Roma è questione complessa e delicata, le cose si fanno ancor più complicate quando si voglia dire qualcosa sul periodo precedente la nascita della città. Le fonti scritte che conservano tradizioni sul Lazio preromano sono, infatti, poco numerose, assai distanti cronologicamente dagli eventi che raccontano e il loro rapporto con la storia e la società di quei tempi necessita di essere costantemente confrontato con evidenze archeologiche anch’esse piuttosto scarse.
Le più antiche tracce di un insediamento stabile nel sito dove sorgerà Roma risalgono al XVI-XIII secolo a.C., periodo dal quale si può datare la frequentazione sedentaria dell’area compresa tra il Campidoglio e la zona in prossimità del Tevere dove sorgerà il Foro Boario.
In quel momento storico in Italia, e specialmente nella sua parte appenninica, esistono piccole comunità, spesso insediate su alture, che inumano i loro defunti e producono manufatti ceramici e metallici dalle caratteristiche tipologiche e stilistiche molto simili tra di loro: gli archeologi considerano queste singolari rassomiglianze nelle consuetudini e nelle forme di produzione l’indice di una sostanziale unità culturale tra quelle comunità, che avrebbero fatto parte della cosiddetta "civiltà appenninica". Una civiltà che tuttavia, tra XII e XI secolo a.C., sembra disgregarsi a favore dello sviluppo di diverse culture, caratterizzate da costumi e produzioni materiali più marcatamente distinti gli uni dalle altre e dall’insediamento in centri più grandi e popolati.
Questo processo di diversificazione delle società dell’Italia centrale coinvolge anche il territorio laziale a sud del Tevere dove, a cavallo tra XI e X secolo a.C., si manifesta il costume dell’incinerazione dei defunti, i cui resti vengono seppelliti per lo più in tipiche urne a forma di capanna e spesso accompagnati da piccoli oggetti fittili e da statuette miniaturizzate.
È molto difficile dare una spiegazione di questo interessante fenomeno archeologico che testimonia la nascita di una cultura laziale (o potremmo forse dire latina) distinta dalle altre limitrofe. Le fonti antiche, come noto, mettevano in relazione la nascita della società latina con l’arrivo nel Lazio di popoli stranieri, e in particolare dei Troiani guidati da Enea, che si sarebbero uniti a popolazioni indigene. Se sarebbe un errore ridurre questi racconti – e in particolare il più famoso tra loro, l’Eneide di Virgilio – a un fatto storico, è pur sempre vero, come mostra ancora una volta l’archeologia, che, nel momento di trapasso dalle precedenti consuetudini "appenniniche" a quelle successive, il Lazio aveva sviluppato delle relazioni quantomeno commerciali con le città micenee, che hanno lasciato alcune tracce archeologiche. Non si può, dunque, escludere che alcuni contatti con popoli provenienti dall’area egea possano avere determinato delle modificazioni culturali tra le comunità insediate nel Lazio.
A prescindere dalle modalità che portarono alla nascita della cultura laziale intorno all’XI secolo a.C., resta il fatto che in fasi posteriori, ma tuttavia antecedenti alla creazione di Roma, esistono nel Lazio degli insediamenti stabili i cui abitanti si riconoscono per l’appartenenza a un’unica identità etnica che trova il suo punto di riferimento nel santuario di Giove Laziare (Iuppiter Latiaris) sul monte Albano. Dice l’erudito Gaio Plinio Secondo, meglio noto come Plinio il Vecchio: “Ci furono [...] nel Lazio degli oppida celebri: Satrico, Pomezia, Scaptia, Politorio, Tellene, Tifata, Cenina, Ficana, Crustimerio, Ameriola, Medullia, Cornicolo, Saturnia – dove ora è Roma –, Antipoli – che ora è il Gianicolo e fa parte di Roma –, Antemne, Camerio, Collazia, Amitino, Norba, Sulmone, e con essi era costume che spartissero la carne sul monte Albano i populi di Alba: Albani, Esolani, Acciensi, Abolani, Bovetani, Bolani, Cusuetani, Coriolani, Fidenati, Foreti, Ortensi, Latiniensi, Longani, Manati, Macrali, Muniensi, Numiniensi, Ollicolani, Ottolani, Pedani, Poletaurini, Querquetulani, Sicani, Sisolensi, Toleriensi, Tutiensi, Vimitellari, Veliensi, Venetulani, Vitellensi” (Nat. Hist. 3, 9, 68-70).
La società laziale preromana appare, dunque, come composta da un insieme di oppida, cioè di città fortificate, tra cui primeggia Alba Longa all’interno della quale sono comprese altre comunità (populi) spesso identificabili per il luogo in cui i loro componenti vivono (ad esempio i Fidenati sono stanziati nella futura Fidene, mentre i Veliensi abitano il futuro colle romano della Velia).
Se diamo fiducia alla testimonianza di Plinio, il territorio romano primitivo dovette dunque definirsi dalla unione di alcuni oppida – in particolare Antipolis e Saturnia, quest’ultima collocata sul colle capitolino – con alcuni populi che precedentemente facevano parte della cittadinanza di Alba Longa.
Le tradizioni sulla nascita di Roma che si possono leggere nelle opere degli storici antichi sembrano, da questo punto di vista, convergere con il passo pliniano. Esse, infatti, collocano le vicende del fondatore Romolo e del fratello Remo nell’area del Palatino che, prima della nascita di Roma, viene descritta come una delle più marginali e periferiche del territorio di Alba Longa, in cui vivevano umili pastori come Faustolo, che avrebbe allevato di nascosto i due gemelli bambini, figli di Marte e della albana Rea Silvia, per salvarli dalla morte decretata dal malvagio Amulio, re di Alba.