Le Origini: Testi latini, italiani, provenzali e franco-italiani – Introduzione
Il presente volume vuole offrire un quadro quanto più possibile preciso della cultura letteraria italiana nei secoli tra il VI e il XIII; nei secoli, cioè, che la storiografia illuministica e quella romantica, pur movendo da posizioni diverse e talora contrastanti, avevano concordemente raffigurati come secoli tenebrosi della trionfante barbarie.
Origini illuministiche - ma le premesse sono nel pensiero umanistico e nella storiografia protestante - ha la nozione di medio evo come età di decadenza e dissolvimento: l'età nella quale lo spirito umano si estenua e ristagna in una squallida miseria, e ogni luce di civiltà si spegne e scende sul mondo la caligine densa dell'ignoranza e della barbarie. La notte medievale: che sta tra il pallido crepuscolo della civiltà antica, nei «bassi tempi» imperiali, e l'alba della rinascita, agli esordi della civiltà moderna.
Contro la valutazione illuministica del medioevo sta il giudizio positivo dei romantici: che il medioevo pongono come un periodo non di desolato squallore e di torpida inerzia e insomma di mortificazione dello spirito umano, ma anzi di vigorosi fermenti e di creazioni feconde; tanto che nel medioevo sarebbero da riconoscere le vive sorgenti della moderna civiltà europea.
Tuttavia, in un dato essenziale la nozione romantica concorda e anzi si identifica con la nozione illuministica: nel secolo V (o IV o VI o VII: i termini cronologici variano, com'è noto, da autore ad autore), per l'avvento irresistibile della barbarie, il mondo occidentale sarebbe ridotto allo stato di natura: alla condizione del mondo umano primitivo e selvaggio.
È fondamentale, nella visione romantica - e vi si riconosce chiaramente l'eredità del pensiero vichiano -, questo mito del primitivo come fonte di vita vera; l'idea cioè che ogni civiltà vera ed autentica non può nascere se non da un «ricominciare da capo»; che ogni civiltà, in altre parole, compiuto il suo ciclo vitale, deve necessariamente dissolversi.
Decrepita, esausta, inaridita e isterilita, la civiltà greco-romana, nel momento in cui anche il grande edificio politico dell'Impero crolla; e perciò necessariamente quelli che sono, nel V secolo, solo detriti di una cultura ormai senescente e stanca, vanno travolti e dispersi nell'oblio delle cose morte. Se mai potranno costituire solo l’humus in cui mettano radici i nuovi germi di vita: i germi fecondi, generosamente disseminati dalle forze nuove che s'affacciano alla storia: le forze trionfanti del Cristianesimo e del Germanesimo. È quindi comune alla nozione illuministica e a quella romantica di medioevo l'idea di una fine della civiltà antica; di una frattura profonda tra mondo antico e mondo moderno. E comune, in particolare, l'idea dell'esaurirsi e dello spegnersi, a un certo momento, della tradizione letteraria classica: e di questo esaurirsi concordemente si pone come segno e documento il latino medievale, sia quello dei testi letterari, sia - e anche meglio - quello delle carte e dei diplomi.
Del tutto remoto e indipendente dal latino vero della tradizione è apparso ai vecchi filologi e ai vecchi storici il latino dei bassi tempi e dell'alto medio evo: il latino delle scritture medievali sarebbe il latino del volgo, che si sostituisce al latino letterario, del resto già imbarbarito e corrotto - per le vicende della sua storia interna - quando sull'Impero si rovescia l'alluvione barbarica. Nel '600 il grande Du Cange, preludendo con una mirabile trattazione De causis corruptae eloquentiae al suo Glossario della media e infima latinità, affermava che, venute meno, nel tumulto delle armi, le scuole, custodi e conservatrici della buona latinità, resta, nei secoli V e VI, vivo solo il latino della plebe, «qui nullis vel grammaticae vel ortographiae legibus astringitur». Nessuno più, nel secolo VI, conosce l'altro, il vero latino; nemmeno coloro che dovrebbero essere particolarmente addestrati a maneggiarlo: i redattori dei documenti ufficiali, i ministri dei sovrani barbarici. Nelle Leges, nei diplomi, nei placiti dei re merovingi pubblicati dal Mabillon, il Du Cange riconosce melanconicamente la prova di un «latinitatis interitus», della morte del latino vero: «profligatam ac paene extinctam eius aevi latinitatem». E il giudizio del Du Cange resta sostanzialmente confermato dalle proposizioni e formulazioni dei filologi dell'Ottocento e del primo Novecento. Così il Pirson nel 1909, indagando il latino delle Formulae merovinge e carolinge (cioè dei modelli di atti pubblici e privati che si raccoglievano nei manuali usati dai cancellieri delle curie regie e signorili e dai notai redattori pubblici di atti privati), rilevava che le Formulae «sont libellées en un style tellement corrompu qu'elles en deviennent parfois inintelligibles»; e concludeva che, dunque, «la culture intellectuelle de ces temps barbares n'exigeait pas davantage». Ancora nel 1925 il Brunel, esaminando il latino delle carte merovinge, dopo avere riconosciuto che non è legittima una distinzione tra latino delle carte e latino dei testi letterari, affermava che la latinità merovingia denuncia in modo patente l'interrompersi della tradizione culturale di cui il latino classico è lo strumento: in seguito alle invasioni barbariche, «la connaissance du latin décline», in Francia, «d'une façon presque universelle»; «entre un évèque lettré et un clerc de la chancellerie royale, la culture linguistique est la même ...: même état phonétique, même barbarie dans la morphologie et la syntaxe».
Già al Du Cange il latino dell'alto medio evo era apparso grossolano travestimento della lingua familiare, parlata, dei singoli scrittori, dalla quale il latino letterario era, ormai, del tutto distaccato e isolato; e col Du Cange sostanzialmente concordano i filologi della scuola storica.
Ora, è senza dubbio vero che nel latino delle carte - o, meglio, di alcune carte - medievali abbondano sgrammaticature e spropositi d'ogni genere ed entrano larghissimamente i modi delle parlate correnti; ma è altrettanto vero che, in tutti i testi, anche nei più corrotti, anche nei più grossolani, anche in quelli di ordine assolutamente pratico e remoto da ogni intendimento, comunque, letterario, sempre si trovano forme regolari, precise e spesso eleganti. La struttura generale dell'elocuzione dimostra in modo evidentissimo l'intenzione del redattore di usare il latino della tradizione classica.
Questo ha affermato nel modo più netto il Meillet, il quale, pur riconoscendo che il latino medievale si va progressivamente allontanando dai modi del latino fissati nelle scritture letterarie, assumendo un carattere sempre più popolare in conseguenza dell'abbassarsi progressivo della cultura antica, recisamente proclama che il processo d'involgarimento riguarda solo il latino corrente, parlato. Anche nell'alto medio evo, afferma il Meillet, il latino tradizionale persiste nelle scritture: né durante gli ultimi secoli imperiali né durante le grandi invasioni né subito dopo la formazione dei regni romano-barbarici, nessuno mai ha volontariamente scritto come parlava: «per scrivere bisognava aver frequentato la scuola; e per quanto in basso fosse caduto l'insegnamento, i maestri non hanno mai ignorato che si doveva restar fedeli alla tradizione del latino scritto; e chiunque ha preteso di scrivere, ha almeno tentato di scrivere nel latino tradizionale. Nei secoli VI e VII le difficoltà erano tali che anche un vescovo colto non sapeva più scrivere ormai se non in un latino fortemente alterato dalla lingua corrente; ma era il latino tradizionale che si sforzava d'impiegare, senza avere l'illusione di riuscirvi e rimpiangendo di non poter fare meglio».
Non è qui il caso di discutere il senso e il valore della definizione data dal Meillet del latino medievale, come latino classico profondamente alterato dal latino corrente; ma importa moltissimo valutare l'altra proposizione, che il latino delle scritture medievali vuol essere, nella intenzione almeno degli scrittori, riproduzione del latino tradizionale; perché questa proposizione implica il riconoscimento d'una continuità della tradizione.
Degradata e immiserita, la tradizione scolastica nell'alto medioevo: ma non spenta ed esaurita; e proprio il latino delle scritture degli infimi tempi, che era stato assunto come segno della mortificazione della cultura antica, documenta la continuità della tradizione. Appunto la presenza in tutte le scritture medievali, anche nelle più corrotte, di forme perfettamente regolari e magari eleganti, comprova che la scuola ha conservato la conoscenza del latino classico e questa conoscenza ha sempre cercato di conferire e di trasmettere: i modi scorretti e deformi rivelano solo lo scarso profitto che, in molti casi, si ricavava dall'insegnamento.
Quando le sistematiche esplorazioni dei filologi della scuola storica ebbero riportato alla luce una copiosa messe di scritture, letterarie e no, che documentano in modo imponente il pieno e sicuro dominio che molti scrittori medievali ebbero del latino vero della tradizione classica, non si credette, tuttavia, di dover rinnegare e ripudiare quello che, ormai, era dogma indiscutibile: la nozione, cioè, della fine della cultura antica, dell'esaurimento della tradizione letteraria e scolastica. I documenti, nuovamente scoperti, furono, perciò, assunti a segno di fatti singolari, episodici, eccezionali: come prova, solo, che alcuni uomini o alcuni ambienti erano prodigiosamente riusciti a conservare qualche conoscenza del grande retaggio.
E, in particolare, le scritture medievali composte in un latino terso ed elegante furono interpretate come opera di uomini che il sicuro dominio dello strumento tradizionale dell'espressione letteraria avessero attinto non già dalla tradizione scolastica, ma nello slancio, eroico quasi, di una personale conquista.
E, invece, vero proprio il contrario: le scuole - cenobiali e cattedrali - sono fedeli custodi e continuatrici, nel medio evo, della tradizione retorica classica. Anche questa proposizione rappresenta un reciso ripudio delle nozioni universalmente accettate dai filologi dell'Ottocento; i quali, partendo dall'antitesi tra spiritualità cristiana e classica, avevano ritenuto che la scuola clericale fosse impegnata solo nell'insegnamento delle divinae litterae, delle discipline ecclesiastiche, l'esegesi del Sacro Testo, la Teologia, trascurando del tutto o meglio rinnegando le humanae litterae, le discipline liberali, la letteratura profana, l'arte del dire elegante ed ornato. E appunto per via di questo contrasto, ritenuto insanabile, i filologi e gli storici dell'Ottocento hanno raffigurato copiosi testi medievali, che rivelano sicura perizia dell'elocuzione latina, come l'opera di uomini educati al gusto classico della forma non già dalla scuola clericale, bensì da maestri laici, specialmente italiani, eredi e continuatori dei retori degli ultimi secoli imperiali e in sostanza svincolati dall'ambiente culturale in cui vivevano; solitari custodi del patrimonio ideale della cultura classica, ripudiato o negletto dalle scuole ecclesiastiche. E anche si è pensato che pur nella scuola clericale avesse luogo l'insegnamento dell'eloquenza latina, ma solo in alcuni ambienti singolari: nelle scuole cenobiali irlandesi dei secoli VI-VIII, ad esempio, o nelle scuole cattedrali di Verona e di Tours. E ancora si è pensato a un rifiorire della cultura classica in determinati momenti, per l'influenza di uomini eccezionali - Carlo Magno e Ottone I -, onde la storia del classicismo medievale si raffigura come successione o alternanza di oscuramenti e di rinascite (e appunto dagli storici francesi, già nella metà dell'Ottocento, si parlò di rinascimento carolingio . . .): fino ai secoli XI e XII, nei quali si assiste alla trionfale affermazione della cultura classicistica nelle scuole francesi, specialmente della Normandia o di Chartres o di Orléans.
In realtà, il classicismo è, della cultura medievale, forma generale; e la tradizione degli studi liberali classicheggianti fu preservata proprio dalla scuola clericale. Delle scuole imperiali la scuola ecclesiastica medievale eredita e accoglie tutto; programmi, metodi, ordinamenti del corso degli studi; e legge gli stessi autori - poeti e storici-; e usa gli stessi manuali e strumenti di studio (Valerio Massimo e Macrobio e Marciano Capella; Donato e Prisciano e la Rhetorica ad Herennium). L'avvento del cristianesimo non tocca né sovverte l'ordine degli studi che si inizia dalle artes liberali - prime la Grammatica e la Retorica -; al di sopra delle artes stanno gli studi superiori della Logica, Fisica, Meccanica; al di sopra ancora le divinae litterae. Dunque, nella scuola clericale, gli studi letterari han funzione solo propedeutica, di preparazione allo studio delle scienze ecclesiastiche, cui evidentemente le artes liberales sono subordinate. Appunto questa loro posizione subordinata, se pure ha condotto gli studiosi a superare la vecchia nozione dell'antitesi insanabile - nella cultura cristiana - tra humanae e divinae litterae, è valsa tuttavia a confermare l'altra nozione della sostanziale indipendenza della scuola ecclesiastica dalla tradizione classica; e specialmente è valsa da prova del fatto che, nelle scuole ecclesiastiche, gli studi letterari erano in qualche caso tollerati, ma generalmente mortificati e negletti o, addirittura, condannati.
Parole violente di implacabile, intransigente condanna delle scienze secolari e della letteratura profana furono effettivamente pronunciate da Padri e Maestri della società cristiana. Già le Costituzioni apostoliche prescrivevano ai fedeli di astenersi dalla lettura dei libri pagani: «Quid deest in lege Dei ut ad illas gentilium fabulas confugias?» E il VI Concilio di Cartagine, mentre pur consentiva ai vescovi di leggere, in determinate circostanze, i libri degli eretici, proibiva decisamente la lettura dei libri pagani: «episcopus gentilium libros non legat, haereticorum autem pro necessitate et tempore». E così, di secolo in secolo, le condanne e le proibizioni si ripetono monotone, sempre in termini pressoché identici. Tertulliano e Commodiano aspramente respingono il retaggio della cultura pagana; e Gregorio Magno, in una celebre lettera al grammatico Desiderio, pronuncia recisa sentenza contro la letteratura classica. Parole dure dicono anche i Maestri che pur appaiono, della cultura e della letteratura classica, pienamente partecipi: il vescovo papiense Ennodio, che pure scrive esattamente come i retori pagani, che, dunque, ha perfettamente assimilato l'arte secolare dello scrivere ornato, recisamente proclama: «ego ipsa liberalium studiorum nomina detestor». E Alcuino - uno, cioè, dei promotori della rinascita carolina - solennemente dichiara che la vera sapienza è solo «in evangelica veritate», non «in Vergilii mendaciis»; e che solo sulla poesia della Cantica deve meditare la gioventù cristiana, non sui carmi «falsi Maronis»; e se pur riconosce a Virgilio un'autorità «haud contemnenda», Virgilio presenta pur sempre come un falsatore, e l'antica poesia come fonte di gravi tentazioni.
Si sono, certo, rilevate posizioni di Padri meno intransigenti e più temperati, come Lattanzio, Agostino, Cassiodoro e Isidoro: che pur avvertendo il dissidio profondissimo tra spiritualità cristiana e cultura pagana, ammettevano tuttavia - e fermamente - che, nel campo puramente culturale, il cristianesimo potesse e dovesse accogliere, utilizzare, l'eredità del pensiero antico. Specialmente esplicito nel riconoscimento della legittimità e anzi della necessità dell'uso della scienza secolare fu san Gerolamo; molto largo nel far posto alla sapienza antica entro il quadro degli studi ecclesiastici fu Cassiodoro. Ma anche si è rilevato che questo atteggiamento temperato o, addirittura, liberale di alcuni Padri rispetto alla cultura profana non è accolto, dal mondo medievale, senza restrizioni o proteste.
Senonché non è questo il problema. Non si tratta di rilevare le posizioni più o meno ferme, più o meno incerte o contraddittorie dei Padri. Piuttosto importa riconoscere che gli atteggiamenti rigoristici e negativi sono, da un punto di vista teorico, superati dal neoplatonismo agostiniano, che domina la tradizione culturale dell'occidente cristiano per lunghi secoli. Il neoplatonismo agostiniano salva la poesia classica in quanto riesce a darle un posto nella gerarchia dei valori, ponendo «gradus eruditionis ab inferioribus ad superiora». False e illusorie le favole dei poeti: ma solo esse possono soddisfare le esigenze della parte debole e imperfetta della nostra umanità, rendere accessibile alla nostra miseria le verità eccelse. Perciò, appunto, nell'ordine agostiniano degli studi il primo posto spetta agli studi letterari. È l'insegnamento del De ordine: bisogna incominciare dallo studio dei poeti: e grandi poeti sono, soltanto, i poeti pagani: gli auctores. L'insegnamento del De ordine è devotamente accolto dai maestri medievali, che fedelmente lo riecheggiano. Così, insegna Alcuino che le arti liberali son le colonne su cui poggia il tempio della Sapienza; e che «nec aliter nisi his septem columnis» si attinge la scienza divina. E fondamento e origine delle arti liberali è la Grammatica, cioè lo studio dei poeti e degli storici antichi, come insegnano Isidoro («grammatica est . . . origo et fundamentum liberalium artium»), Cassiodoro («fundamentum pulcherrimarum litterarum, mater gloriosa facundiae, quae cogitare novit ad laudem, loqui sine vitio»), Teodolfo d'Orléans (la Grammatica sta alle radici dell'albero che raffigura le sette arti liberali), Onorio di Autun («la Grammatica è la prima delle dieci città attraverso le quali si snoda l'itinerario che dalla Babilonia dell'ignoranza porta alla Gerusalemme della vera Sapienza»), Alano de Insulis («la Grammatica costruisce il timone del carro della Prudenza, che, trainato dagli alati cavalli simbolo dei sensi esterni, vola al firmamento»). E del resto, anche alcuni Padri, che pur figurano tra gli intransigenti negatori della letteratura e cultura profane, aderiscono alle posizioni del De ordine. Anche Gregorio Magno, ad esempio; che pur avendo nella lettera a Desiderio rinnegato e respinto gli studi liberali e specialmente letterari, la formula agostiniana riecheggia in un luogo delle In primum «Regum» expositiones, quando proclama «saecularem scientiam omnipotens Deus in plano anteposuit ut nobis ascendendi gradum faceret, qui nos ad divinae scripturae altitudinem levare debuisset»; e mostra che Mosè si preparò ad essere interprete della parola rivelata, informandosi compiutamente della scienza egiziana; e che Paolo fu il primo, per dottrina, degli Apostoli, «quia, futurus in caelestibus, terrena prius studiosus didicit». Le stesse cose dice Carlo Magno in una lettera con cui esorta i monaci a coltivare gli studi delle lettere per poter penetrare «facilius et rectius scripturarum misteria»; le stesse anche i padri del Concilio romano dell'826; i quali, disponendo si stabiliscano negli episcopii e nelle pievi maestri e dottori che «assidue doceant studia litterarum liberaliumque artium », la prescrizione giustificano affermando che «in eis (cioè nelle lettere e arti liberali) maxime divina manifestantur et declarantur mandata».
Sempre dunque, di secolo in secolo, in ambienti diversi, risuonano le stesse parole d'accettazione e di giustificazione della scienza e dell'arte profana: parole, anzi, che affermano la necessità dell'uso di quella scienza.
Ma questo laborioso travaglio di discussioni, di polemiche, di preoccupate cautele, di riserve, di limitazioni, resta nel campo puramente speculativo e teorico; né ha effetti rilevanti sulla prassi della scuola: la quale, mentre i Padri giudicano o condannano, continua, senza incertezze, la sua attività, per le vie fissate dalla tradizione imperiale. Sempre e dovunque: nel secolo VII come nel IX o nel X, a Tours come a Bobbio, a York come a Verona o a Pavia, a San Gallo come a Montecassino o a Fulda, a Modena o a Bologna come a Orléans o a Chartres, la scuola ecclesiastica è impegnata nell'insegnamento della grammatica e della retorica, cioè del latino classico. Appunto per l'esigenza dell'apprendimento del latino gli auctores entrano trionfalmente nelle scuole clericali e si studiano propter florem eloquentiae, anche se accanto ad essi sono assunti, come modelli di stile, i poeti paleocristiani, Giovenco, Sedulio, Prudenzio. La Grammatica è origine e fondamento di ogni scienza, e anche delle scienze ecclesiastiche. Senza grammatica non c'è scienza; la grammatica consiste nello studio degli auctores pagani, perché solo rifacendosi agli auctores si penetrano i segreti dell'elocuzione, della tecnica dell'espressione codificata dai grammatici e dai retori; e solo chi abbia attinto il pieno possesso del latino può accedere alla lezione e all'interpretazione dei libri rivelati.
A rilevare il posto altissimo che il medio evo assegna allo studio del latino tradizionale, basterà ricordare che Dante pone il maggiore dei grammatici, Donato, in Paradiso, nel cielo del Sole, tra gli spiriti sapienti: tra i grandi Maestri e Dottori della Chiesa.
Dunque il sicuro dominio del latino della tradizione classica non è fatto particolare di alcuni uomini singolarmente dotati o di alcuni ambienti isolati ed eccezionali: è fatto essenziale di tutta la cultura medievale. Né quel dominio è risultato di singolari, personali conquiste: è, anzi, conferito dalla scuola, in obbedienza alle istanze supreme del suo ideale programma, definito e giustificato in teoria e sempre osservato nella pratica.
E allora perché, se l'insegnamento del latino classico è l'impegno primo ed essenziale della scuola, il latino delle scritture medievali, specialmente delle scritture d'ordine pratico, pur sempre maneggiato da uomini che nella scuola si sono formati, appare così di frequente mostruosamente scorretto, inosservante di ogni regola, di ogni disciplina?
Non c'è dubbio che il latino delle scuole medievali è un latino meticolosamente regolato da canoni rigorosi e severissimi; ma è anche vero che la scuola ha carattere strettamente professionale, prepara gli abbreviatores e i notarii, i redattori, cioè, delle epistole e degli atti ufficiali. La scuola insegna a dictare, a comporre le epistole, i diplomi; e appunto all'epistolografia e all'attuaria trasferisce quel complesso di regole che i retori antichi avevano stabilito per l'eloquenza forense e politica (l'epistola è un discorso, in sostanza, rivolto a persona lontana), e riguardano il colorito dello stile (cioè le figure), l'elezione delle parole, le clausole o cadenze delle proposizioni e dei periodi. Specialmente osservata, nella scuola e dagli scrittori, è la distinzione, posta dagli antichi retori, dei tre stili, sublime, medio, umile; ciascuno dei quali si deve usare non ad arbitrio, ma secondo l'importanza dell'argomento che si tratta e la qualità delle persone cui ci si rivolge. La scelta dello stile non è riservata alla discrezione degli scrittori, che devono attenersi al criterio di convenienza, di congruenza della forma alla materia. Esplicito su questo punto Cassiodoro, la cui prefazione alle Variae abbiamo ristampata nel «proemio» ai testi accolti in questo volume: appunto perché illumina sulla valutazione che occorre dare della lingua e dello stile dei testi stessi. Diversa assai, nel grado e nel tono, la latinità dei testi che nella nostra silloge presentiamo: elevata, nobile, elegante o pomposa spesso, spesso non remota dal tono dei grandi modelli; ma spesso anche dimessa, pedestre, volgare, incondita. Ma non sempre, quasi mai anzi, le differenze di tono e di grado vanno riferite al diverso grado di cultura letteraria degli autori. Non alle diverse possibilità dei redattori occorre riferirsi per spiegare i differenti toni della latinità delle carte e dei testi; non all'ignoranza degli scrittori: in generale la varietà del tono dipende dalla varietà degli stili consapevolmente impiegati: «Necesse fuit stilum non unum sumere» dice Cassiodoro; e ancora il Petrarca riecheggia: il vario stile. E molte sono le scritture che appaiono, nell'esordio, tese ed elaboratissime; e s'abbandonano poi a modi agevoli e piani e spesso dimessi e pedestri: e pur sono, il prologo e il corpo del testo, opera dello stesso autore . . . Allo stesso modo, dalla stessa cancelleria, a opera magari dello stesso dettatore, possono uscire scritture solenni e togate e scritture pedestri.
Ma anche le scritture medievali di tono umile e medio servono a documentare il rigoroso imperio della tradizione classicistica; né possono essere assunte a segno di un rilassamento o indebolimento della tradizione stessa. In realtà, quando si tratti di testi riguardanti una materia dello stesso grado o della stessa importanza, si rileva in tutte le scritture medievali un'impressionante uniformità stilistica; sia nelle scritture uscite dalla penna di grandi scrittori, sia nei documenti redatti da modesti ufficiali di piccole curie signorili ; e Paolino d'Aquileia, ad esempio, nel secolo Vili, non usa un latino diverso da quello che si trova impiegato, sempre nel secolo Vili, dai notai della cancelleria vescovile aquileiese, per trattare una materia grave; grandi scrittori, autorevoli funzionari palatini, modesti dettatori delle piccole cancellerie usano tutti egualmente lo strumento della espressione loro conferito dalla tradizione scolastica, che, per variare di tempi e di luoghi, ha sempre una evidente fondamentale unità. Naturalmente l'uso di un latino meno severamente impegnativo, se va riferito, in teoria, alle leggi retoriche dei tre stili, in pratica può e deve essere riportato a un'esigenza di comodità, vivamente sentita da un mondo impegnato a impiegare nella scrittura sempre, anche per le più elementari necessità della vita quotidiana, una lingua del tutto artificiale, remotissima dalla coscienza linguistica attuale.
In realtà il latino medio e dimesso, appunto perché più agevole e semplice, consente movimenti più liberi e sciolti, realizzazioni più facili e pronte: consente, in particolare, allo scrittore di riferirsi con più disinvoltura ai modi della parlata corrente. Donde, in pratica, una specie di compromesso tra la necessità di usare la lingua, del tutto artificiale, della tradizione e il bisogno di ridurre al minimo questa artificialità, nei casi, almeno, in cui l'impegno di impiegare l'elocuzione solenne e togata possa, giustificatamente, apparire meno imperioso. Si manifesta, così, più vivamente in determinati momenti e in particolari ambienti, il bisogno di radicali innovazioni, la coscienza degli impedimenti che la tradizione tirannica pone alla libera e sciolta espressione del pensiero; nonché della volontà di evadere dalle angustie della tradizione stessa. Di queste tendenze innovative bisogna appunto tenere strettissimo conto quando si tratta di valutare la latinità dei secoli, specialmente, VI, VII, IX, X; latinità che appare, ed è effettivamente, ribelle ai moduli tradizionali. Ma è ribellione che non nasce dall'ignoranza di quei moduli, bensì dalla cosciente volontà di cambiare lingua. Ed è senza dubbio di grande rilievo il fatto che i più importanti tentativi di evasione muovano da uomini appartenenti al mondo dell'alta cultura, che hanno pieno possesso dello strumento tradizionale dell'espressione.
In altri termini, l'inosservanza dei canoni della retorica e della stessa grammatica o l'indifferenza verso quei canoni, vanno assunte non come segno di ignoranza o documento della mortificazione della tradizione: bensì come espressione di consapevoli esigenze innovative. Basterà citare Gregorio Magno; il quale sdegnosamente proclama nelle Expositiones in librum Iob (e non importa che egli riferisca la sua ribellione al sentimento religioso): «. . . ipsam loquendi artem quam magistri disciplinae exterioris insinuant, servare despexi. Nam . . . non metacismi collisionem fugio, non barbarismi confusionem devito, situs motusque et praepositionum casus servare contemno ...» Dispetto e disprezzo: non ignoranza delle regole di grammatica, come già bene aveva visto il Comparetti. Disprezzo e dispetto che nascono dal ritenere vehementer indignum «restringere sub regulis Donati» i «verba caelestis oraculi».
Riflesso di una cosciente volontà, dunque, di innovare la lingua, le scritture che la vecchia critica poneva come segno dell'esaurirsi e della mortificazione della tradizione scolastica. Ma riprova altresì della vitalità della tradizione classicistica, anzi del suo imperioso dominio. Perché quei tentativi non hanno successo; determinano anzi pronte, immediate repressioni e reazioni, che subito ristabiliscono pienamente l'autorità della tradizione: cui tutti, anche se in qualche momento riluttanti, si sottomettono.
Anche i riformatori che più apertamente esprimono la volontà di innovare, in pratica all'impero della tradizione soggiacciono. Anche Gregorio esprime il suo disprezzo e la sua condanna della tradizione grammaticale e retorica usando una elocuzione che apertamente denuncia il dominio pienissimo che su di lui esercita quella tradizione. E i dettatori curiali dell'età merovingia non intendono innovare se non la lingua che deve servire agli usi pratici dell'amministrazione, dei tribunali, della predicazione, dell'attuaria: innovare cioè in un campo in cui anche la scuola, custode del rigorismo purista, si adatta a essere meno intransigentemente severa.
Timidi, dunque, o almeno cauti e sempre retti da un vigile senso di rispetto alla tradizione i moti innovativi, anche quelli che si manifestano nei momenti di crisi, nei secoli VI e VII e nei secoli IX-X. E, d'altra parte, ripetiamo, ai tentativi d'innovazione rispondono subito reazioni assai energiche: dopo la crisi merovingia, la restaurazione carolingia; dopo la crisi del secolo IX-X, la reazione ottomana e il trionfale moto classicistico delle scuole, specialmente francesi, nel secolo XI. Questi momenti di violenta reazione sono i momenti umanistici della storia letteraria e culturale del medioevo; durante i quali severamente si giudicano le scritture che in certo modo avevano risposto alla esigenza di una semplificazione della lingua scritta tradizionale, di una liberazione della lingua dal peso di vincoli troppo impegnativi: e sono i momenti in cui la vecchia critica aveva creduto di poter cogliere come il presentimento o il preannuncio del Rinascimento.
Così, dunque, se obbiettivamente considerata, la storia del latino nel medioevo smentisce nel modo più reciso la nozione, illuministica e romantica, di una frattura nella tradizione culturale e letteraria e rivela luminosamente la ininterrotta continuità della tradizione classicistica. Né la scuola è ambiente isolato e chiuso in se stesso, senza influenze rilevanti sugli svolgimenti della civiltà. Invano fin dal 1855 il Martin delineava il quadro di una civiltà medievale che si esprime in due letterature distinte e separate dall'oggetto e dalla lingua, la dotta o latina, la volgare o romanza, dialettica e teologica la prima, poetica la seconda; invano pochi anni più tardi Gaston Paris raffigurava con nettezza di segno il mondo clericale melanconicamente isolato dal fervido rigoglio della nuova vita che sorge nel mondo popolare e laicale: «Je ne dis rien ici des clercs, de ceux qui savaient le latin, l'écrivaient et le parlaient entre eux; ceux-là restèrent sans influence sur la poésie vulgaire ...».
Se la dottrina dei mondi separati, clericale e laicale, salva il mito romantico della vera poesia, in realtà nessuna delle formule proposte dai filologi della scuola romantica e positiva è più infondata e arbitraria della nozione d'un isolamento del mondo clericale dal resto della società; e dell'altra, correlativa, nozione delle letterature volgari, romanze e germaniche, assolutamente indipendenti dal classicismo scolastico. La scuola, che pur è ambiente nettamente clericale, esercita validissima influenza sul mondo laicale signorile; e, inversamente, il mondo clericale è apertissimo ad accogliere esigenze, interessi, ideali aspirazioni della società aristocratica laicale. Lungi dall'essere due mondi separati, l'ambiente clericale e l'ambiente signorile non solo comunicano strettissimamente tra di loro e influiscono l'uno sull'altro; ma costituiscono effettivamente un unico ambiente, in cui ha luogo una perfetta unità di gusti, di ideali atteggiamenti, di interessi.
L'ambiente aulico è il luogo d'incontro del mondo clericale e del mondo signorile; e per la presenza del clero palatino - non solo funzionari della cancelleria, ma anche ministri delle cappelle - che vi svolge opera di divulgazione letteraria e scientifica, le corti diventano centri di cultura e di studio. E basti pensare all'aula aquisgranese di Carlo Magno, dove operano i dotti più illustri del tempo; già prima, del resto, l'aula merovingia aveva accolto Venanzio Fortunato, e l'aula longobarda di Desiderio, Paolo Diacono; e la tradizione continua alle corti dei successori di Carlo Magno, e poi nell'aula ottoniana.
D'altra parte, i figli dei principi frequentano la scuola clericale da cui derivano non solo una sia pur elementare cultura letteraria, scientifica, giuridica, ma anche quella che noi chiameremmo «la buona educazione». La scuola conferisce i precetti del vivere retto e corretto, onesto e dignitoso; e in primo luogo suggerisce alla società feudale il gusto di una vita raffinata ed elegante, illuminata dalla cultura e dall'arte; ed è gusto che si compone e si fonde con l'ideale eroico della prodezza, proprio del mondo aristocratico. Appunto da questa sintesi dell'idealità clericale della civilitas o humanitas - in cui si riflette, dunque, l'eredità spirituale della tradizione classica - e della esigenza signorile della prodezza, nasce la concezione del mondo e della vita che è originale creazione del mondo medievale: ed è l'essenza della nuova civiltà cavalleresca- cortese, in cui sono da riconoscere le sorgenti della civiltà moderna.
La civiltà nuova non è, come immaginavano i romantici, creazione di energie fresche e ingenue, liberate dalla dissoluzione della civiltà antica, ma innovazione e originale rielaborazione dell'ideale patrimonio della tradizione classica, custodito gelosamente dalla scuola e interpretato al lume del messaggio cristiano. Ed è opera di uomini che appartengono per lo più al mondo laicale - come ha riconosciuto la storiografia romantica e positiva - ma che del patrimonio e delle esperienze culturali della tradizione classica sono stati resi pienamente partecipi dall'opera assidua dei chierici. Ancora: la nuova civiltà o cultura cavalleresca-cortese si realizza ed esprime nelle grandi letterature volgari d'oc e d'oil, di Provenza e di Francia, sorte nell'XI secolo da movimenti spirituali suscitati da ristretti gruppi o cenacoli di uomini formatisi nella scuola, cioè nello spirito della tradizionale cultura classicistica. Questi, mentre ardiscono adoperare i volgari per fare della letteratura con intendimento puramente artistico, e non più solo il latino (già da secoli i volgari eran adoperati per esigenze d'ordine pratico), il patrimonio culturale della tradizione usano pienissimamente, e ai volgari applicano accortamente la tecnica dell'elocuzione appresa alle scuole di retorica.
Così, pur profondamente innovando, le letterature d'oc e d'oil continuano senza frattura la storia letteraria e culturale del medioevo latino: la continuano sia nella scelta dei temi poetici, sia nei modi tecnici e formali, sia negli atteggiamenti del gusto.
Dalla tradizione letteraria mediolatina e dalla cultura classicistica della scuola clericale, le letterature romanze strettamente dipendono. Occorre appena notare che asserire questa dipendenza non significa porre (come hanno fatto alcuni storici della scuola positiva) la letteratura e la cultura mediolatina come antecedente necessario o fattore determinante della fioritura letteraria volgare: significa solo riconoscere in esse il fondamento della formazione culturale e letteraria dell'artista o degli artisti iniziatori del gran moto spirituale donde nascono le nuove letterature.
In conclusione, attraverso due secoli di studi perseguiti secondo indirizzi e da posizioni ideali e con metodi via via diversi e, da un certo momento, contrastanti, si è venuta definendo la nozione di medioevo e di storia della cultura medievale. Si è posta prima la nozione di frattura, di soluzione di continuità tra cultura antica e civiltà medievale; si è poi parlato di un mondo medievale in cui solo eccezionalmente trovan posto la cultura e gli studi; si è, quindi, raffigurata una civiltà di mondi distinti e separati: il mondo ecclesiastico e il mondo - esiguo e ristrettissimo mondo - della cultura secolare e profana: il mondo dei maestri laici immaginati precursori dell' Umanesimo.
Contro queste interpretazioni sta la nozione moderna dell'ininterrotta continuità della cultura classica nel medioevo, del classicismo come fatto generale di tutta la cultura e della perfettissima unità di questa cultura, che è sintesi delle idealità della tradizione classica, della spiritualità cristiana e delle istanze eroiche della nuova aristocrazia di origine germanica.
Appunto questa della continuità della tradizione letteraria e dell'unità della cultura medievale è la nozione che la storiografia moderna ha derivata da un laborioso superamento delle posizioni illuministiche e romantiche; ed è nozione cui è correlativa l'altra, delle letterature romanze realizzate nell'ambito della tradizione latina, naturalmente attraverso un moto innovativo della tradizione stessa che investe anche la tradizione più veramente accademica e scolastica. La letteratura mediolatina e la lingua che ne è lo strumento sono profondamente innovate, nei secoli XI-XII, ad opera di quel movimento che fu detto goliardico; ed è opera di uomini i quali - come i poeti da cui prendono inizio le letterature d'arte in volgare - si sono formati nella tradizione della scuola clericale classicheggiante; ma dai troppo gelidi schemi della scuola sanno evadere, usando con geniale libertà esperienze tecniche tradizionali e arrivando alla creazione di un latino in sostanza nuovo, più sincero e sentito.
Ma se da una parte occorre ripudiare decisamente le condanne senza appello pronunciate contro il medioevo dagli storici illuministi e accettate senza riserva dagli storiografi positivisti; d'altra parte bisogna riconoscere il tono generalmente modesto della vita culturale e la lunga sterilità dello spirito nell'età di mezzo. Per secoli, parole nuove non si dicono, per secoli non compaiono grandi personalità che possano dire grandi parole.
Per secoli, la cultura è cultura d'ambiente, la cui storia si svolge regolata e meccanica sui binari della tradizione: anche i maestri autorevoli, che di quando in quando compaiono nei centri di studio più importanti, non sono così vigorosamente originali da far luogo a movimenti innovatori, a creazioni veramente feconde.
Solo nel secolo XI la condizione muta; il patrimonio ideale di cui la scuola clericale era stata, per secoli, custode vigile e gelosa, finalmente nell'ambiente clerico-aulico si interpreta in modo attivo e diventa energia feconda. Gli auctores. pur da secoli letti, studiati seriamente, usati come modelli di stile e fonte di scienza, sono rivissuti e sentiti in modo da far luogo alla creazione di visioni e di immagini di cui si compone una nozione nuova del mondo e della vita, la concezione cavalleresca-cortese la quale si realizza ed esprime nella lirica trobadorica e nella narrativa francese.
A documentare questa raffigurazione storica serve il presente libro, che, dopo aver delineato l'importanza dei Maestri del pensiero medievale, accoglie in un quadro unitario le pagine più significative della letteratura e cultura latina d'Italia nei secoli tra il VII e il XIII, nonché i documenti a noi giunti - scoperti in gran parte della filologia più recente - della letteratura volgare a partire dalla fine del secolo VIII.
Brevi documenti, sparsi e sporadici, separati l'uno dall'altro da larghi intervalli di tempo. Si tratta di relitti casualmente preservati nella generale dispersione; e appunto come tali vanno accolti; e appunto per questo appaion componibili in una serie ordinata e coerente, che consenta di riconoscere la esistenza in Italia di una tradizione, in certa misura, letteraria dello scrivere in volgare, i cui esordi sono nell'età carolina. Abbiamo, com'è naturale, accolto solo documenti che non rivestano un valore unicamente linguistico, che non siano di ordine esclusivamente pratico; le testimonianze di ordine puramente linguistico sono considerate in questo stesso volume dal sapiente acume del Vidossi; che vi riconoscerà gli aspetti e gli svolgimenti dei singoli volgari italiani, sì da offrire un esauriente quadro dell'Italia dialettale fino ai tempi di Dante. Le pagine degli scrittori mediolatini d'Italia vogliono invece documentare la persistenza della tradizione classicistica: alcune sono di scrittori notevoli che han vissuto ricche e intense esperienze culturali e umane - Paolo Diacono, Paolino d'Aquileia, Liutprando, Pier Damiani, Alfano, Ugo Falcando, Pietro da Eboli -; altre, di letterati esperti, ma di orizzonti limitati e angusti, di un'umanità non rilevata né intensa (Giona, Agnello, il Panegirista di Berengario, il poeta dei Versus Eporedienses, Guaiferio di Montecassino); altre, di dettatori anonimi peritissimi dello scrivere ornato, maestri di una tecnica sapiente, che non serve, però, all'espressione di un vivace mondo interiore; altre ancora, di uomini vivacissimi e fervidi, ma poco colti o addirittura rozzi; altre, infine, di uomini tutti presi da interessi di ordine solamente pratico. Ma son tutte pagine, ad ogni modo, che documentano la validità della tradizione e la coscienza - altissima in qualche caso - delle esigenze dell'arte, il senso acuto della forma, l'accettazione della disciplina più rigorosa e severa, l'umile devoto ossequio al magistero degli auctores, la fedeltà all'ideale dell'elocuzione solenne, dello stile eletto e sublime.
Abbiamo anche scelto scritture - d'ordine pratico o d'intenzione anche letteraria - la cui latinità appare corrotta e depravata, per dare qualche esempio di quei tentativi di evasione dal rigorismo purista di cui si è discorso; e sono indizio non già di esaurimento della tradizione, bensì di esigenze innovative che trionfalmente si affermano nel secolo XI, in Francia prima che altrove, e preludono al sorgere delle letterature d'arte volgari. Per i secoli più remoti abbiamo fatto posto con una certa larghezza a testi di ordine pratico (scritture giuridiche e amministrative, lettere ufficiali, atti conciliari, editti, diplomi, iscrizioni) rhetorice confecti dai loro redattori che - come gli scrittori disinteressati - usano e applicano le regole del dettare apprese dalla scuola; e servono, pertanto, a documentare lo stato della coltura letteraria nei centri di studio in cui i redattori degli atti si sono formati. Le scritture cancelleresche e curiali van poste insieme con altre, prodotte nelle officine scolastiche, che hanno il carattere di esercitazioni. E proprio in queste si attua l'insegnamento più veramente letterario della scuola: in esercitazioni che spesso escono dai limiti del componimento scolastico, sono opere d'arte pura, se pur quasi sempre non veramente poetiche, perché, in generale, troppo gelidamente accademiche. Di queste composizioni si allestivano sillogi che son manuali di lettura e raccolte di modelli; accolgono i prodotti dell'officina locale, ma anche di altre officine; e circolano dall'uno all'altro ambiente scolastico, consentendo la reciproca comunicazione, lo scambio delle varie esperienze realizzate nelle varie officine. Di tali composizioni abbiamo dato esempi, limitando però la scelta ai prodotti di un singolo ambiente, la scuola di Verona, attinti sia alle sillogi veronesi dell'VIII, sia alla silloge cantabrigense (che ci ha conservato celebri carmi veronesi del secolo IX o X): in modo da rendere evidente la rapidità di circolazione dei prodotti delle varie officine e la frequenza e l'intensità dei rapporti che reciprocamente legano i vari centri di studio.
Questi prodotti delle officine scolastiche sono di argomento sacro o profano indifferentemente; il che basta a dimostrare la validità di quanto abbiamo sopra affermato: che, cioè, la scuola clericale è solo impegnata nella trasmissione della tecnica del comporre definita dalla tradizione retorica classica; e che questa tecnica rigorosamente si applica anche nelle scritture di ispirazione religiosa e di intento edificante, anche nei testi che servono alla liturgia, nonché nella innografia e nell'agiografia. Non c'è distinzione tra letteratura sacra e letteratura profana, perché identica è la formazione letteraria, identici gli atteggiamenti del gusto e i modi dello stile. E la riprova dell'unità strettissima della cultura letteraria medievale si trova nella seconda parte del volume; là dove abbiamo collocato in uno stesso gruppo due scrittori del secolo XI, Pier Damiani e Alfano di Salerno, che la vecchia critica poneva come rappresentanti di tendenze opposte e contrastanti: assertore e interprete del gusto e della cultura classicheggiante Alfano, negatore implacabile dell'arte classica il Damiani, in nome delle sue idealità religiose, delle sue esigenze mistiche e ascetiche. Noi li abbiamo messi assieme in un unico paragrafo intitolato «i grands rhétoriqueurs del secolo XI», a significare che, se pur possa essere, per vari riguardi, diverso il mondo interiore dei due scrittori, identica quanto ai modi formali e alla tecnica è l'espressione o traduzione letteraria di quel mondo.
Ed è la tecnica regolata dai canoni severi della retorica codificati dai maestri dell'età imperiale e al mondo medievale trasmessi da Cassiodoro. Appunto per questo sta all'inizio di questo volume, dopo le pagine su Boezio e a guisa di proemio, la teoria dello stile che Cassiodoro ha formulato nella prefazione alle Variae: e che dà a tutta la tradizione letteraria medievale l'indirizzo e l'orientamento. Il presente volume segue perciò l'ordine di trattazione che della storia della letteratura mediolatina d'Italia è delineato nelle mie Origini (che fan parte della Storia letteraria vallar- diana; la seconda edizione è del 1950); ma esorbita dai limiti delle Origini, in quanto contiene anche una rassegna che tocca il secolo XIII.
Molto complesso è il quadro dell'Italia letteraria nel secolo XIII: vi si trovano gli esordi della tradizione più veramente italiana, che muove dall'ambiente della Curia fridericiana; ma anche vi si continua la tradizione dello scrivere in latino, e, insieme, si svolgono varie letterature nei diversi dialetti locali più o meno letterariamente elaborati, e una letteratura in lingua provenzale, e una letteratura in lingua francese.
Di queste multiformi manifestazioni non si considerano né la lirica siciliana né le letterature in lingue locali, che sono materia del volume curato da Gianfranco Contini. Nel volume nostro si offre invece solo il quadro, abbastanza ricco, di quella che potremmo chiamare la preistoria della letteratura italiana: della quale sono aspetti essenziali non solo la continuità della tradizione dello scrivere in latino ma anche, e più, l'imitazione e lo svolgimento delle nuove letterature d'arte nate in Francia e in Provenza nel secolo XI, riflesso, insieme, della tradizione letteraria mediolatina e del profondo rinnovamento di questa tradizione: aspetti, cioè, di un'unica realtà culturale.
Di svolgimenti culturali e letterari assai complessi il presente volume descrive, dunque, la storia; allineandone i documenti più significativi e premettendo ai singoli testi o gruppi di testi rapide ma esaurienti note, che consentiranno di collocare i testi medesimi nel processo e nel quadro della tradizione letteraria e culturale italiana fra il VI e il XIII secolo.
Non solo per la materia, così ampia e complicata, raccolta lungo il corso di otto secoli ed espressa in quattro lingue, ma anche per quanto concerne la sua struttura formale questo volume si presenta con caratteristiche sue peculiari. Basta un'occhiata al frontespizio e all'indice generale per rendersi conto del numero dei collaboratori a cui si è dovuto fare appello e della varia molteplicità dei settori, dei generi e dei testi di cui il libro è composto. A questa molteplicità di campi di studio corrisponde naturalmente una ancor maggiore varietà di problemi storici, filosofici e filologici, e, quindi, una specifica bibliografia per ogni campo e per ogni gruppo di problemi: si è ritenuto perciò opportuno far seguire le note bibliografiche alle pagine introduttive di ogni sezione o di ogni singolo autore, anzi che, come d'uso, corredarne l'Introduzione generale.
Nota ai testi
Per i testi accolti in questo volume, abbiamo seguito le edizioni più autorevoli, inserite di regola in grandi collane. In calce a ogni testo abbiamo indicato le edizioni riprodotte: nelle note sono talora discusse varianti e proposte congetture.
Le abbreviazioni sono le usuali. Per comodità del lettore, ricordiamo le sigle da noi adottate:
F. I. S. : Fonti per la storia d'Italia,
M. G. H., SS.: Monumenta Germaniae Historica, Scriptores
M. G. H., SS. LL.: Monumenta Germaniae Historica, Scriptores rerum Langobardicarum saec. VI-IX
M. G. II., SS. rer. Mer.: Monumenta Germaniae Historica, Scriptores rerum Merovingicarum
M. G. FI., Ep.: Monumenta Germaniae Historica, Epistolae
M. G. II., LL. : Monumenta Germaniae Historica, Leges
M. G. IL, P. Ae.
P. L. : Patrologiae cursus completus; Patrologia Latina,
R. I. S.: Rerum Italicarum Scriptores,
R. I. S.