Le Paleoscienze. La conoscenza del corpo umano nella preistoria
La conoscenza del corpo umano nella preistoria
Il nostro corpo rappresenta certamente una fra le più remote forme di conoscenza per gli esseri umani, anche se ‒ specie nelle fasi più antiche ‒ non è ancora possibile parlare di scienza, ma di qualcosa che somiglia più a un'atavica 'percezione' che a un quadro ordinato di nozioni.
Stiamo parlando delle nostre caratteristiche somatiche e della consapevolezza che ognuno di noi possiede in merito a esse, perlopiù in modo istintivo: dai tratti del volto alla mimica facciale, dalla silhouette del profilo corporeo al modo di camminare, ai dettagli del palmo della mano. Su questa consapevolezza ‒ che è innata, ma è anche in larga parte acquisita nelle prime fasi della vita attraverso il rapporto con la madre e poi con le altre figure parentali ‒ si basa e si è sempre basata la nostra identità come specie. La scuola di pensiero che fa riferimento al 'concetto di riconoscimento della specie' (Recognition Concept of Species) lo asserisce con particolare convinzione, nel momento in cui considera fondamentale il riconoscimento intraspecifico fra gli individui. Le specie animali (dei mammiferi, in particolare), e l'uomo tra esse, sono in questo modo definite in virtù di un comune 'sistema di fertilizzazione'. Questo, a sua volta, si fonda su un insieme di segnali scambievoli tra i due sessi che sono manifestati, più che dai comportamenti, dallo stesso aspetto esteriore (fenotipo) degli individui.
Per quanto inconsapevolmente, dunque, abbiamo una conoscenza profonda del nostro corpo e, per estensione, delle caratteristiche somatiche proprie della nostra specie, particolarmente riguardo ai marcatori di dimorfismo sessuale.
Un esempio piuttosto eloquente può essere rappresentato da una fra le più antiche raffigurazioni antropomorfe prodotte dall'uomo al termine del Paleolitico (intorno a 10.000 anni fa) nel Sahara centrale: una delle immagine di arte rupestre della fase stilistica delle Teste Rotonde. Si tratta di due profili umani disegnati a tratto continuo, in rosso cupo, sulle pareti di arenaria di un riparo sottoroccia del Tadrart Acacus, massiccio montuoso che si erge tra le dune del deserto sudoccidentale della Libia, noto per gli straordinari documenti archeologici messi in luce da Fabrizio Mori a partire dagli anni Cinquanta del XX secolo. Le due figure di Ghrub I (così si chiama il sito) sono dipinte con estrema semplicità e con evidenti semplificazioni, forse di natura simbolica o allusiva (la testa quasi surreale, le dita in negativo, ecc.). Eppure riconosciamo immediatamente che si tratta di un uomo e di una donna. All'artista preistorico è bastato accennare al diverso sviluppo delle spalle e alla maggiore rotondità dei fianchi nell'individuo più minuto, per farci capire chi stava rappresentando, senza ricorrere a dettagli anatomici più espliciti, ma anche (in qualche modo) facendoci sapere che ne era a conoscenza.
Sembra evidente, dunque, che fra i più remoti interessi conoscitivi degli esseri umani vi sia stato il corpo, proprio e altrui, soprattutto in rapporto al sesso, ossia (almeno in parte) alla funzione riproduttiva. Una seconda, importante fonte di conoscenza del corpo umano da parte dell'uomo o, per meglio dire, della donna è il parto. Non abbiamo testimonianze dirette di ciò nella preistoria più antica, ma possiamo dedurne l'importanza in base ad alcune considerazioni anatomo-comparative.
È probabile che sin dall'acquisizione della postura eretta e della locomozione bipede fra gli ominidi, intorno a 4 milioni di anni fa, e ancor di più con la comparsa sulla scena del genere Homo, intorno a 2 milioni di anni fa, il parto abbia iniziato a rappresentare un problema (oltre che un momento di grande pressione selettiva). Le modificazioni a cui è andato incontro lo scheletro dei primi ominidi in rapporto alla nuova funzione locomotoria hanno avuto infatti come fulcro le ossa del bacino, che più di altri elementi scheletrici hanno 'dovuto' assumere un nuovo assetto tridimensionale. Senza entrare in dettagli, il bacino umano è più corto, più largo e più compatto rispetto a quello delle scimmie antropomorfe; inoltre, ha acquisito un diverso orientamento rispetto alla colonna vertebrale, per un verso, e agli organi interni dell'apparato riproduttivo femminile, per l'altro. Per questo insieme di fattori, il feto a termine deve subire una doppia rotazione e una brusca flessione della nuca e del tronco, in modo da seguire, una volta impegnato il canale del parto, la traiettoria angolata disegnata dalle ossa pelviche e venire alla luce. Infine, il parto nella nostra specie è di norma 'ventrale', ossia con la faccia del neonato che guarda in direzione opposta a quella della madre, supina, mentre negli altri primati è 'dorsale'. Tutto ciò ‒ unito al fatto che il nostro neonato ha un notevole sviluppo cerebrale e un cranio molto voluminoso ‒ rende più che evidente come il parto nella nostra specie sia un evento molto doloroso, difficile e delicato.
È stata più volte richiamata l'attenzione su questi aspetti e sui cambiamenti anche a livello d'interazione sociale che questa condizione ha comportato nella storia dell'uomo. Tra i primati, la madre scimpanzé, per esempio, può aiutare a nascere il proprio figlio: data la posizione dorsale del neonato, può vedere il volto del piccolo mentre nasce e aiutarlo a respirare, pulendogli il naso e la bocca, oltre che intervenire sul cordone ombelicale. Il parto in questa specie non è un evento traumatico e può essere, ed è, un fatto solitario. Il nostro caso è ben diverso e in tutte le culture umane le donne hanno bisogno di aiuto nel momento del parto, che diventa un fatto 'sociale', con evidenti ricadute in materia di conoscenza del corpo proprio e altrui, oltre che riguardo a un tipo di assistenza (e di competenza) che oggi definiremmo 'parasanitaria'.
Un'altra conoscenza antica del corpo umano riguarda la consapevolezza dei nostri limiti biologici, come primati arboricoli adattatisi all'ambiente di savana, nell'atto di affrontare nuovi habitat (durante la prima diffusione extraafricana) e nuove nicchie ecologiche (incrementando progressivamente il contenuto di proteine animali nella dieta). Sembra inevitabile che questa consapevolezza abbia giocato un ruolo attivo nel momento in cui l'uomo si è provvisto di 'protesi', o, meglio, di oggetti naturali e artificiali per fronteggiare l'ambiente intorno a sé: utilizzando strumenti di pietra, di legno o d'osso (a partire dalla comparsa del genere Homo) oppure (e non sappiamo bene da quando) coprendo il corpo semiglabro con pelli di animali.
Un altro diaframma tra noi e l'ambiente è rappresentato dal gruppo sociale e, per esempio, dagli interventi di assistenza su un corpo danneggiato che il gruppo può fornire, garantendo la sopravvivenza di un individuo menomato. Il caso più noto è quello di Shanidar 1, un uomo di Neandertal del Vicino Oriente (Iraq) vissuto circa 50.000 anni fa. Lo scheletro rappresenta l'ominide forse più gravemente traumatizzato di cui abbiamo evidenza fino a tempi recenti, in quanto mostra una quantità di fratture e di rimodellamenti degli elementi ossei un po' in tutto il corpo: sul cranio e a carico degli arti superiore e inferiore del lato destro. Siamo di fronte a un quadro paleopatologico che non può essere interpretato in modo univoco, come ha sottolineato Erik Trinkaus, ma che indica uno o più eventi traumatici tra loro in relazione di causa-effetto. In ogni caso, appare evidente che l'individuo sopravvisse a lungo a queste gravi menomazioni ‒ privo, com'era, dell'avambraccio destro, fortemente claudicante e con una evidente deformazione del volto sul lato sinistro. Gli individui intorno a lui, i componenti della banda di cacciatori-raccoglitori di cui Shanidar 1 faceva parte, si preoccuparono della sua sopravvivenza, oltre che di curare, in qualche misura che non sappiamo precisare (ma è stata anche ipotizzata un'amputazione dell'avambraccio), le ingiurie sofferte dal corpo del loro compagno.
Intenzionali sono invece le lesioni ossee riconducibili all'intervento umano rappresentate dalle tracce di trapanazione del cranio o anche di rimozione di una sua porzione ossea. In qualche modo, esse documentano le conoscenze anatomiche e la notevole abilità dei 'chirurghi' preistorici. Si tratta di una pratica conosciuta già dalla fine del Pleistocene, circa 10.000 anni fa, e molto comune a partire dal Neolitico (cioè circa dal VI millennio), considerato l'elevato numero dei reperti risalenti a circa 5000 anni fa rinvenuti in Europa, in Asia, in Africa, in tutto il continente americano e anche in Oceania.
Fu il medico e antropologo francese Paul Broca a sostenere tra i primi (si era nel 1876) che gli interventi sul cranio erano stati effettuati anche su individui viventi, poiché il tavolato cranico mostrava evidenti segni di riparazione e rimodellamento, per neoformazione di tessuto osseo. La trapanazione era effettuata secondo tecniche diverse: per sfregamento, per perforazione, oppure praticando incisioni ortogonali tra loro o una serie di fori perimetrali; il segmento era poi prelevato frantumando i sottili interstizi di osso. Non tutti gli individui sopravvivevano; ma se si considera la rudimentalità della tecnica e dello strumentario, oltre che la precarietà delle condizioni igieniche, la mortalità appare sorprendentemente bassa, aggirandosi presuntivamente attorno al 25% dei casi. Una spiegazione esauriente del significato di questi interventi non è stata ancora data. La contrapposizione tra intervento 'terapeutico' ‒ probabilmente per alleviare la pressione endocranica conseguente a traumi o per guarire cefalee persistenti o anche l'epilessia ‒ e pratiche magico-rituali (o 'teurgiche', come si dice) non è necessariamente antitetica. È un dato di fatto che in tutte le culture o società prescientifiche la medicina sottende un'interpretazione magica, prendendo le mosse da un 'empirismo' che si limita alla semplice constatazione degli effetti.
Parlando di medicina empirica, fin dal momento del rinvenimento fu notato che la mummia del Similaun mostrava alcuni tatuaggi sulla pelle: un segno a croce sulla superficie interna del ginocchio destro e gruppi di linee nella regione lombare, sull'articolazione tibio-tarsica e sul polpaccio sinistro.
Tra la quantità di motivazioni psicologiche o di ordine pratico, spesso inscindibili, che spingono ancora oggi molti popoli della Terra a tracciare segni sulla pelle, gli antropologi concentrarono l'attenzione sulle pratiche terapeutiche della medicina popolare. Tra queste va considerata 'l'ipertermia indotta' a livello delle articolazioni per curare (o tentare di farlo) malattie reumatiche e artritiche, praticata fino ai nostri giorni presso le popolazioni nomadi delle steppe eurasiatiche, per mezzo di ferri arroventati. Ancora oggi, nella medicina tibetana si cerca di alleviare i dolori articolari o di trattare la sterilità incidendo la pelle e poi facendo bruciare sulle ferite delle erbe medicamentose; indipendentemente dagli effetti terapeutici, queste pratiche producono, alla fine, segni bluastri permanenti sulla pelle. I risultati delle indagini radiologiche hanno rivelato che l'uomo del Similaun presentava alterazioni degenerative artrosiche, dovute all'età e alle modalità di vita, esattamente in corrispondenza dei segni tatuati. Tutto fa supporre dunque che anche il cosiddetto 'uomo dei ghiacci' abbia fatto ricorso a tatuaggi terapeutico-lenitivi.
Testimonianze di un genere differente rispetto alle precedenti c'inducono a considerazioni che vanno al di là della pratica medica come tale, implicando problemi di ordine tecnico, di ordine funzionale e, non ultimo, di finalità estetiche. Considerazioni di questo genere riguardano, in particolare, le numerose protesi dentarie d'oro, abilmente lavorate, inventate dagli Etruschi più di 2500 anni fa. Coloro che le realizzarono non soltanto avevano una perizia tecnica non comune, ma conoscevano molto bene l'anatomia e la patologia dell'apparato masticatorio. Possono essere distinte protesi per sostituire denti mancanti e protesi per fissare denti instabili; comunque la tecnica doveva rispondere pienamente alle esigenze della masticazione. Anelli metallici saldati tra loro, oltre ad assicurare l'ancoraggio dei denti ancora presenti ma mobili, trattenevano le corone dentarie artificiali. Queste erano di forma opportuna per simulare il dente da integrare, intagliate in avorio o in osso di animale, ma potevano essere usati anche denti di bovini o quelli caduti al paziente stesso. Un recente studio ha mostrato che soltanto le donne facevano uso dei cosiddetti 'ponti', suggerendo una preoccupazione anche nei riguardi dell'estetica orale.
Alciati 1987: Alciati, Giancarlo - Fedeli, Mario - Pesce Delfino,Vittorio, La malattia dalla preistoria all'età antica, Roma-Bari, Laterza, 1987.
Campillo 1977: Campillo, Valero Domingo, Paleopatología del cráneo en Cataluña, Valencia y Baleares, Barcelona, Editorial Montblanc-Martín, 1977.
Mori 1998: Mori, Fabrizio, The great civilization of ancient Sahara. Neolithisation and the earliest evidence of anthropomorphic religions, Roma, L'Erma di Bretschneider, 1998.
Ortner 1981: Ortner, Donald J. - Putschar, Walter G.J., Identification of pathological conditions in human skeletal remains, Washington, Smithsonian Institution Press, 1981.
Spindler 1993: Spindler, Konrad, Der Mann im Eis. Die Ötztaler Mumie verrät die Geheimnisse der Steinzeit, München, Bertelsmann, 1993 (trad. it.: L'uomo dei ghiacci, Milano, Pratiche, 1998).