Le Paleoscienze. Le origini delle attivita cognitive
Le origini delle attività cognitive
I dati archeologici sono discontinui nel tempo e nello spazio, specie per quanto riguarda le epoche più antiche, le cui testimonianze soltanto in casi eccezionali si sono salvate dalla distruzione operata dagli agenti naturali. Anche quando gli oggetti e le tracce di attività lasciati dall'uomo preistorico si sono in parte conservati, si tratta quasi costantemente di manufatti litici e, meno frequentemente, di reperti ossei. Soltanto eccezionalmente ci sono giunti oggetti di legno o di altri materiali organici deperibili, oppure tracce di attività non direttamente riconducibili alla vita quotidiana. L'ampiezza delle lacune presenti nella nostra documentazione, che forse sarebbe più opportuno definire delle voragini, appare in tutta la sua evidenza quando una concatenazione di eventi eccezionali permette la sopravvivenza di qualcosa di più e di diverso.
Per questi motivi, lo studio delle più antiche manifestazioni del pensiero razionale e scientifico deve procedere facendo uso di un gran numero di testimonianze in quanto i grandi numeri assicurano la possibilità di un trattamento statistico: è il caso, per esempio, delle osservazioni sulle materie prime e sulla loro circolazione nel corso delle varie fasi del Pleistocene (periodo geologico tra 1.600.000 e 10.000 anni fa). In altri casi, si devono utilizzare tutte le potenzialità di uno di quei pochi, eccezionali ritrovamenti, che grazie all'insolita conservazione di dati abitualmente distrutti, permettono improvvisamente di gettare uno sguardo nuovo in una piccola finestra del tempo. In un caso come nell'altro, le informazioni desunte sono da considerarsi come minime rispetto a una complessità che continua per lo più a sfuggire. Nel seguito saranno presentati e discussi diversi aspetti delle testimonianze preistoriche più antiche: quelle riferibili al Paleolitico Inferiore e Medio, e quelle degli inizi del Paleolitico Superiore, cioè quanto è databile all'incirca tra 2.500.000 e 35.000 anni fa. Per la cronologia di questi e di altri periodi paletnologici, i cui limiti variano per le varie culture nelle varie regioni, ci si può riferire orientativamente alla tab. 1.
Nei limiti del possibile, sarà precisata la cronologia, mentre pochi riferimenti saranno fatti al tipo umano responsabile dei dati esaminati. Questo, perché non è per ora evidente una connessione univoca tra caratteristiche paleontologiche e produzione tecnica, vale a dire che non si sa sempre 'chi', tra i diversi tipi umani presenti, 'ha prodotto cosa'. Questo vale sia per le fasi più arcaiche, cioè per il Paleolitico Inferiore, prima di circa 250.000 anni fa, durante le quali si alternarono specie diverse, che la moderna ricerca antropologica sta ancora provvedendo a classificare, sia per gli ultimi 100.000 anni e più dell'arco cronologico in esame, durante i quali comparve la cosiddetta 'umanità moderna', che ha finito col sostituire le altre specie. Questo processo terminò particolarmente tardi nell'Europa occidentale, dove la conformazione geografica portò a un imbottigliamento degli ultimi gruppi neandertaliani ‒ vissuti fino a 30.000-25.000 anni fa nel sud della penisola iberica ‒ di fronte all'avanzare dei 'moderni', venuti molto tempo prima dall'Africa, via il Medio Oriente. Non sempre né dovunque è possibile attribuire con certezza all'uno o all'altro tipo umano le evidenze archeologiche.
Gli esempi via via presentati saranno tratti, per lo più, dal repertorio archeologico europeo; questo, non perché il nostro continente sia caratterizzato da culture che abbiano espresso più di altre forme di pensiero razionale e scientifico, ma semplicemente perché si tratta della parte del mondo dove prima sono cominciate, e maggiormente si sono concentrate, le ricerche archeologiche: inevitabilmente, la documentazione disponibile è superiore, per precisione e vastità, a quanto disponibile altrove. Solo per i più antichi ominidi, vissuti in Africa, l'evidenza viene esclusivamente da fonti più distanti.
Lo sviluppo della specie umana è caratterizzato da un progressivo aumento della massa cerebrale rispetto a quella del resto del corpo. A scopo comparativo, ricordiamo che il 'quoziente di encefalizzazione' varia, a seconda del metodo di calcolo adottato, da circa 2 in uno dei più antichi ominidi, l'Australopithecus afarensis, a circa 6 oppure 8 nell'Homo sapiens. Il concomitante sviluppo dei processi mentali, tuttavia, non si fossilizza se non, indirettamente, nei manufatti e in altri reperti prodotti dall'uomo; è l'analisi di questi ultimi a fornire dati più circostanziati.
Secondo studi condotti da Th. Wynn su manufatti di uno dei più antichi siti dell'Africa orientale, quello di Olduvai, databili tra 1,9 e 1,65 milioni di anni fa, la capacità di organizzazione dello spazio indicata dalle loro caratteristiche tecniche e tipologiche è molto limitata. In pratica, bastava per lo più padroneggiare concetti assai semplici, quali quelli di 'prossimità' tra due ritocchi effettuati sullo stesso oggetto di pietra scheggiata, e di 'paio', cioè di elementi disposti l'uno a fianco dell'altro. Soltanto nel caso dei raschiatoi, caratterizzati da una serie contigua di ritocchi lungo il margine di una scheggia di pietra, vi è traccia di operazioni più complesse: ogni azione di ritocco doveva essere coordinata non solamente con quella immediatamente precedente, ma anche con tutte le altre che avevano portato a delineare il margine stesso, il che implica la nozione di 'direzione'. Tuttavia, il risultato poteva essere raggiunto anche con una serie di osservazioni e di successive correzioni; in questo senso, si tratterebbe di una forma di intelligenza qualitativamente non diversa da quella delle moderne scimmie antropomorfe.
Ben diverso è quanto lo stesso Wynn riconosce analizzando le collezioni del sito di Isimila, in Tanzania, risalente all'incirca a 200.000 anni fa. In alcuni manufatti, una perfetta simmetria di forma è stata raggiunta con pochi, abili ritocchi, opportunamente posizionati proprio per ottenere questo risultato. Questo significa che non si è agito procedendo con una successione di errori e correzioni, bensì avendo chiaro fin dall'inizio nella mente una determinata forma, in cui singole parti si addizionavano a comporre un oggetto completo. La capacità cognitiva che permette di proiettare nello spazio concetti geometrici, visti in diverse prospettive, si riconosce invece da un altro tipo di manufatti, i 'bifacciali': si tratta di oggetti la cui forma compiutamente simmetrica è raggiunta in senso sia longitudinale, sia trasversale, sia nella terza dimensione, quella dello spessore, come si vede dalle sezioni perfettamente regolari, a partire da un ciottolo con margini taglienti ricavato mediante distacco di schegge, noto come chopping tool. Per ottenere questo risultato, chi ha scheggiato i manufatti doveva disporre della capacità di concepire lo spazio tridimensionalmente con dei punti di riferimento fissi e di paragonare varie dimensioni tra di loro operando una qualche forma di 'misurazione mentale'.
Questi e altri manufatti di tipo complesso, che non si possono imparare a fare semplicemente osservando l'attività di persone esperte (cosa invece sufficiente nel caso dei semplici manufatti olduvaiani), indicano anche che esisteva un linguaggio sufficientemente duttile e articolato da permettere l'istruzione degli individui e la trasmissione del sapere.
Il presupposto anatomico della capacità di fonazione e di un linguaggio pienamente articolato si trova nella conformazione e nelle dimensioni del cavo orale e della parte superiore del tratto respiratorio. Caratteristiche anatomiche quali quelle che riconosciamo nell'umanità attuale sono peraltro attestate anche al di fuori della specie umana moderna, in particolare nei Neandertaliani. Questo è dimostrato sia da analisi metriche dei loro resti, sia da un eccezionale rinvenimento: quello effettuato in una sepoltura contenente lo scheletro di uno di questi individui, nella grotta Kebara in Israele, dov'è stato rinvenuto un osso ioide ‒ un piccolo osso posto nella laringe ‒ non conservato altrimenti a livello fossile. L'osso ioide neandertaliano presenta caratteristiche del tutto simili a quelle moderne.
La capacità di prevedere le necessità future e di effettuare preparativi in funzione di fatti non ancora avvenuti, valutando la probabilità di un evento, le sue presumibili caratteristiche e conseguenze, è un aspetto del pensiero razionale che sta alla base di ogni elaborazione scientifica. Nella documentazione archeologica è possibile evidenziare aspetti che riflettono la scansione del tempo, nonché le mappe mentali e le capacità previsionali proprie dei gruppi umani del passato.
Le più antiche testimonianze di questa capacità si rilevano a Olduvai e a Koobi Fora, in Africa orientale. Nella maggior parte dei casi, le materie prime litiche utilizzate provengono dalle immediate vicinanze, essendo reperibili entro una distanza di 3 km; tuttavia, in alcuni dei siti di queste località, datati tra 1,9 e 1,65 milioni di anni fa, una piccola parte dei materiali scheggiati e utilizzati proviene da affioramenti situati nettamente più lontano, cioè tra 9 e 13 km di distanza. In questi casi, com'è stato sottolineato da J. Flébot-Augustins, le materie prime sono state spostate al di là del campo visivo di chi ne effettuava la raccolta, il che presuppone la capacità di stabilire una relazione tra lo spazio e il tempo e di anticipare i propri bisogni, sia pure a breve termine. Questa capacità previsionale e la concomitante scansione temporale delle proprie attività, con uno scopo da raggiungere differito nel tempo, fanno quindi parte dei meccanismi comportamentali dei più antichi ominidi. Per confronto, ricordiamo che anche tra gli attuali primati non umani si è osservato il trasporto di pietre atte a operazioni di percussione, ma su distanze che variano generalmente tra 5 e 20 m (60% dei casi osservati) e che soltanto raramente superano 500 m (5% dei casi).
A Ubeidiya, località archeologica situata a sud del Mare di Galilea in Israele, e risalente a circa 1,4 milioni di anni fa, la materia prima localmente più abbondante è il basalto. Ciononostante, per un particolare tipo di manufatto, gli sferoidi, è stato usato esclusivamente il calcare, pure se scarso in loco. Per altri strumenti, i bifacciali, si è usato soltanto in parte l'onnipresente basalto, preferendo in molti casi la selce o il calcare, per quanto più difficili da reperire. La costanza di queste scelte implica l'esistenza di una precisa capacità progettuale, proiettata oltre l'immediato.
Un eccellente esempio di questa facoltà sono i giavellotti di Schöningen, risalenti a circa 400.000 anni fa. Il sito si trova nel nord della Germania e particolari condizioni ambientali hanno permesso la conservazione del legno. Tre esemplari, lunghi circa 2 m, sono stati ricavati ognuno dal tronco diritto di un giovane peccio (Picea excelsa), ripulito di scorza e rami, e accuratamente appuntito a un'estremità. La preparazione di queste armi da getto ha comportato un processo lungo e complesso, radicato in una lunga esperienza. Con esse sono stati cacciati localmente in modo particolare i cavalli, ma lo scopo a cui erano destinate si può arguire anche da un altro ritrovamento tedesco, quello di Lehringen in Sassonia, risalente a circa 120.000 anni fa: una lancia di legno di tasso è stata trovata nella cavità toracica di uno scheletro di elefante.
La capacità di pianificare il futuro si evince anche dall'analisi delle sequenze operative documentate nei complessi litici, cioè dal concatenamento delle fasi di scheggiatura della selce, dalla prima sbozzatura alla produzione di schegge e lame, al ritocco dei manufatti, alla loro eventuale modifica e al loro riuso oppure al loro abbandono o no sul posto. Un buon esempio è offerto da Wallertheim, sito all'aperto della media valle del Reno, risalente a circa 100.000 anni fa. Nel livello D sono stati trovati manufatti riconducibili a diverse qualità di pietra: una riolite e due diversi tipi di andesite, rispettivamente grigia e grigioverde. I manufatti di riolite sono stati portati sul posto già pronti per l'uso, ulteriormente accomodati in loco e in parte riportati via. L'andesite grigia e quella grigioverde sono invece servite per produrre sul posto lame ‒ elemento base da ritoccare per produrre svariati tipi di strumenti ‒ in parte anche ritoccate e portate altrove. La principale differenza tra le due andesiti è che quella grigioverde è stata sbozzata fuori dall'area scavata, mentre quella grigia è stata sottoposta sul posto a tutte le fasi della scheggiatura, a partire da quelle iniziali.
I tre gruppi di manufatti sono risultati contemporanei. Quelli di riolite rappresentano lo strumentario preparato in una diversa regione, in previsione di una sua futura utilizzazione, e trasportato su lunga distanza; a Wallertheim questi oggetti ormai usati e consumati sono stati in parte aggiustati, in parte sostituiti con manufatti nuovi, di andesite locale, prima di una nuova partenza.
Le distanze percorse per approvvigionarsi di materie prime litiche variano nel tempo. Nelle fasi più antiche del Paleolitico menzionate finora, per il grosso del materiale si tratta generalmente di spostamenti di corto raggio, dell'ordine di alcuni chilometri o poco più. Quando le distanze sono maggiori, oltre 20 km, le quantità rinvenute, eventualmente trasportate ivi, risultano molto ridotte e sono interpretabili come piccole scorte destinate a risolvere situazioni contingenti durante gli spostamenti, non come rifornimenti completi per un'utilizzazione generalizzata. Raggiunta una nuova località, e terminata la scorta, le risorse litiche del posto erano poi sfruttate al meglio, anche quando non erano di qualità del tutto soddisfacente.
La scala degli spostamenti e l'intensità dello sfruttamento di fonti di approvvigionamento lontane sono assai diverse in alcuni siti più tardi dell'Europa centrale ed orientale, già collegati alla presenza di gruppi umani di tipo moderno. In particolare, nei siti gravettiani della Moravia e della pianura russa centrale, risalenti a circa 30.000-25.000 anni da oggi, quantitativi importanti di selce ‒ il 50% o più di quanto ritrovato in ogni sito ‒ sono stati raccolti a distanze di 100-150 km, mentre percentuali minori, ma sempre significative, vengono da 200-300 km. In questi casi il materiale archeologico riflette una pianificazione ad ampio raggio, che comprende trasferimenti volti esclusivamente, oppure parzialmente, al rifornimento di una o più qualità di selce pregiata. Quest'ultima è poi destinata a essere utilizzata sistematicamente in un periodo successivo, forse della durata di intere stagioni, a grandi distanze dagli affioramenti naturali. La razionalità del comportamento è completa di valutazione delle distanze da percorrere, di programmazione dei quantitativi da acquisire e di previsione dei consumi differiti nel tempo.
Di fronte alla circolazione continuativa di gruppi umani su brevi, medie e lunghe distanze, rimangono da individuare i sistemi di orientamento. In molti casi, una conoscenza dettagliata di riferimenti topografici, quali le montagne, i fiumi, gli alberi, ecc., è probabilmente sufficiente a rendere conto degli spostamenti umani. In altri casi, però, punti fermi di questo tipo non bastano o non sono presenti. La colonizzazione dell'Australia, per esempio, è avvenuta circa 60.000 anni fa a partire dal Sud-est asiatico, dopo l'attraversamento di un braccio di mare la cui ampiezza minima era allora dell'ordine di 80 km. In altri termini, si è trattato di navigazione in mare aperto, ben oltre i limiti del cabotaggio in vista delle coste e di ogni tipo di riferimento topografico fisso. Non molto diversi devono essere stati i problemi di orientamento per i gruppi gravettiani a cui si è accennato precedentemente: il popolamento dell'Europa di allora era costituito da piccoli nuclei separati da vaste distese di 'deserto umano', che si stendeva per centinaia di chilometri. Eppure, vi sono tracce inequivocabili di circolazione su lunghe distanze, per rifornirsi di selce oppure per incontrare gruppi distanti assicurando, come indicano gli studi antropologici, un continuo flusso genetico. L'esistenza di precise conoscenze astronomiche non può essere dedotta direttamente dai materiali archeologici, ma dà spiegazione della capacità di attraversare il mare, così come le monotone distese steppiche delle infinite pianure centro- ed est-europee. In un caso come nell'altro, è da ritenersi che individui così attenti a tutto quanto li circondava avessero notato anche la ripetitività dell'apparente movimento di Sole, Luna, stelle e pianeti sul firmamento.
L'articolazione dello spazio finito
Accanto a questo quadro di un Universo conosciuto in dettaglio, ben articolato nella sua topografia e nel suo sviluppo stagionale, vi è l'organizzazione dello spazio su una scala più piccola, quella in cui si concentrano le attività quotidiane degli individui. Questo spazio di tipo domestico può essere modificato, oppure no, da forme artificiali, che riflettono le categorie di pensiero dei loro autori.
Una struttura di abitato può essere descritta, appunto, come una forma artificiale imposta all'ambiente di uso quotidiano, di cui erano diversificate le funzioni a seconda della posizione nello spazio così ridefinito: di questo, però, non si hanno tracce fino a una fase piuttosto avanzata del Paleolitico. Ian Kolen, dell'Università di Leida (Paesi Bassi), definisce 'fluido' il modo di organizzare lo spazio abitato ancora nel Paleolitico Medio: sembra che, per lo più, i materiali siano allora stati spostati e accumulati, creando zone di addensamento o di rarefazione dei reperti, ma senza che esista alcunché che rientri nelle categorie dell'organizzazione architettonica dello spazio ‒ anche in forme molto semplificate, che comprendano un 'dentro' e un 'fuori' ben definiti.
Le prime incontrovertibili strutture di abitato sono documentate intorno a 29.000-27.000 anni fa. Un esempio particolarmente significativo è fornito dall'abitazione II di Dolni Vestonice, un sito all'aperto in Moravia (Repubblica Ceca), per il quale esistono datazioni col metodo del carbonio radiattivo (14C) tra 29.000 e 25.000 anni da oggi. Si tratta di un'abitazione circolare di circa 5 m di diametro; per metà essa è delimitata da un muretto di pietre attraversato da buche nelle quali erano originariamente infissi i sostegni di una qualche sovrastruttura ora scomparsa; l'altra metà è invece costituita da una depressione semicircolare, scavata nel fianco del pianoro digradante su cui si appoggia la struttura stessa; al centro vi era una struttura di combustione semisotterranea e in parte coperta, fatta di materiale argilloso cotto al fuoco e definita come 'forno'.
Questa struttura, così come altre, sia pure meno elaborate, di questo e di altri siti, è la trasposizione nel repertorio archeologico di un concetto astratto, alla base di elaborazioni in campo matematico e geometrico: quello di 'dentro' contrapposto a 'fuori', di 'interno' rispetto a 'esterno'. Nell'esempio descritto è anche esplicitata una gestione consapevole del volume pieno, da modificare con un'operazione di sottrazione che lo trasforma in volume vuoto.
Il concetto di volume e la contrapposizione tra 'vuoto' e 'pieno' si manifestano in maniera evidente anche con le fosse sepolcrali, di cui si conoscono esempi scavati all'interno di grotte. La costruzione di queste grotte implica la valutazione di un volume, la realizzazione di una cavità di forma sufficientemente regolare (tramite l'uso di strumenti litici, lignei oppure ossei, che peraltro non ci sono noti in dettaglio) e il successivo riempimento di questo contenitore con il corpo del defunto e con materiale di copertura. Fosse sepolcrali databili alla prima metà dell'ultima glaciazione, che hanno restituito resti di Neandertaliani, sono note da scavi accurati sia nel Vicino Oriente (Kebara, circa 60.000 anni da oggi), sia in Francia (Roc de Marsal, La Ferrassie, La Chapelle-aux-Saints). A partire da circa 27.000 anni fa, nell'Europa centro-occidentale se ne trovano altri esempi, ma con resti di individui di tipo moderno, quali quelli conosciuti nelle inumazioni dei Balzi Rossi di Grimaldi, presso Ventimiglia.
L'articolazione dello spazio e del volume si traduce anche visivamente, intorno a 30.000 anni fa o poco più, in un pannello dipinto della Grotta Chauvet, nel sud della Francia. Nell'esempio qui in esame, che fa parte del cosiddetto 'pannello dei leoni', si nota una serie di 7 rinoceronti, raffigurati affiancati, di profilo. Uno degli animali è rappresentato quasi in modo completo, mentre gli altri sono suggeriti dalla linea del dorso e dal profilo dei grandi corni arcuati verso l'indietro. La composizione dà l'impressione di un gruppo di rinoceronti affiancati parallelamente l'uno all'altro e via via più lontani dall'osservatore. J. Clottes fa notare che l'effetto prospettico è ottenuto con due diversi artifizi: la schiena degli animali più distanti è progressivamente più lunga, in modo che l'uno non copra l'altro; sono così raffigurati animali sempre più grandi, il che è contrario a una prospettiva reale; i corni, viceversa, sono in prospettiva decrescente, con quelli dell'animale in primo piano più grandi rispetto a quelli degli animali progressivamente più distanti; quest'ultima raffigurazione è scientificamente corretta e confacente alle leggi prospettiche della pittura, quale si è manifestata negli ultimi secoli della storia europea. L'insieme fornisce un senso vigoroso di volume e di movimento.
Una conoscenza capillare delle risorse del territorio è evidente, ancora una volta, da quella classe di manufatti che meglio è sopravvissuta: l'industria litica. Fin dalle fasi più antiche, è presente la ricerca di pietre che, se percosse, danno luogo a una fratturazione concoide che dà la possibilità di produrre margini taglienti; ulteriori ritocchi permettono di modificare questi ultimi, che assumono un andamento adatto a operazioni diversificate. Un'ampia varietà di materiali litici è stata utilizzata nella cosiddetta 'Età della Pietra' (comprendente il Paleolitico, il Mesolitico e il Neolitico): oltre alla selce, al basalto, al calcare, alla riolite e all'andesite menzionati sopra, fanno parte del repertorio archeologico il quarzo, la quarzite, l'ossidiana, il legno silicizzato e svariato altro materiale. Con il passare del tempo, però, e con lo svilupparsi di tecniche di scheggiatura sempre più complesse, alcuni tipi di pietra poco adatti (quali calcare e basalto) caddero in disuso, per tutto o per parte dello strumentario, e sforzi importanti furono messi sistematicamente in opera per trovare materiali realmente soddisfacenti.
Il tipo di pietra maggiormente utilizzato, attraverso le epoche e i continenti, è stato comunque la selce, nelle sue quasi infinite varietà. In Natura la selce si trova sia in giacitura primaria, all'interno di formazioni carbonatiche e come inclusi di rocce calcaree (arnioni e liste di selce), sia in posizione secondaria, generalmente sotto forma di ciottoli più o meno grandi trasportati dai corsi d'acqua e rideposti durante le alluvioni. La disponibilità di selce è molto variabile tra una regione e l'altra e dipende dalla storia geologica locale: a tratti è onnipresente, altrove manca completamente.
Facendo un bilancio complessivo, tuttavia, si può dire che ben poco delle potenziali risorse di selce è mai sfuggito ai gruppi umani preistorici. Anzi, si nota talora che gli stessi affioramenti sono stati riscoperti più volte, a distanza di molti millenni, da gruppi umani diversi. Un esempio tra i tanti è Bagaggera, a nord del Po e non lontano da Como, dove la selce è presente sotto forma di ciottoli pur trovandosi in un'area in cui essa è generalmente rara: dalle ricerche di M. Cremaschi risulta che questa risorsa non sfuggì ai gruppi umani che, circa 60.000 anni fa, vennero ripetutamente sul posto, successivamente abbandonato in corrispondenza di una prima oscillazione molto fredda dell'ultimo glaciale. Trentamila anni più tardi, arrivarono altri gruppi, di nuovo alla ricerca di selce.
Dalle coste alle montagne, dalle pianure agli altopiani, dovunque si siano inoltrati i cacciatori-raccoglitori preistorici, questo scenario si ripete costantemente e la selce, purché di buona qualità, fu sempre trovata e utilizzata. Per questo motivo si è talora parlato degli uomini paleolitici come dei 'primi geologi'. Osservazioni accumulate durante millenni, intorno a una risorsa fondamentale per la vita di allora ‒ la cui importanza è paragonabile a quella dell'energia elettrica nella nostra società ‒ devono avere portato a una classificazione delle forme del paesaggio e delle caratteristiche delle rocce tali da essere una guida sicura alla scoperta della selce, anche in regioni di nuova occupazione. Questa roccia sembra essere stata cercata ‒ quasi a colpo sicuro ‒ là dove vi erano effettive probabilità di trovarla, in base a un patrimonio tradizionale di conoscenze e di osservazioni, ordinate secondo la logica di una prospezione mineraria.
Questo risulta chiaramente anche dalle ricerche effettuate in Egitto da P.M. Vermeersch e dai suoi colleghi dell'Università di Lovanio. Nella media valle del Nilo il fiume scorre per lunghi tratti tra formazioni alluvionali che inglobano, oltre a ciottoli di rocce eruttive e di quarzo, anche ciottoli di selce impura (chert in inglese), che peraltro si adatta molto bene alla scheggiatura. La ricerca di questa selce si è protratta per tutto il Paleolitico (da 2.500.000 a 10.000 anni fa circa). In molti casi ci si è accontentati di raccogliere quanto affiorava dal suolo nelle aree abitualmente percorse. In altri punti, però, questi depositi ciottolosi, pur visibili lungo le scarpate erose dal fiume, sono coperti e nascosti da altri sedimenti. Presso Nazlet Safaha e Taramsa è documentato lo scavo di pozzetti di forma più o meno circolare od ovulare oppure di trincee dall'andamento ramificato del tutto irregolare, lunghe anche decine di metri. Dopo avere asportato i depositi superficiali privi di selce, si è scesi fino a profondità di 1,60-1,70 m, estraendo i ciottoli, selezionando quelli di materiale selcifero e ributtando nelle trincee stesse quelli di diversa composizione. Le trincee non sono state approfondite oltre il tetto di un sottostante deposito privo di selce. Non sono stati ritrovati gli strumenti utilizzati in questa operazione ‒ effettuata su sedimenti peraltro poco concrezionati ‒ ma la selce è stata sistematicamente estratta su centinaia di metri quadrati. Si trattava comunque di un'attività intermittente, anche se ripetuta nel tempo, durante un lungo arco cronologico situato intorno a 60.000 anni fa, nel Paleolitico Medio.
Non lontano da questa località, a Nazlet Khater, altri gruppi umani hanno di nuovo sfruttato lo chert molti millenni dopo, intorno a 33.500-32.000 anni fa. Sono state scavate trincee larghe circa 1 m e profonde intorno a 2 m, spesso con un andamento subparallelo. In altri punti sono stati invece scavati pozzetti verticali, che in alcuni casi si allargano alla loro base con una sezione a campana. A partire da questi pozzetti, oppure dalle trincee, sono poi state scavate gallerie sotterranee suborizzontali che attraversavano per decine di metri di lunghezza, e su tutto il suo spessore, lo strato di ciottoli selciferi compreso tra sedimenti che invece ne erano privi. Alla fine di queste vere e proprie operazioni minerarie, protrattesi durante secoli, gli affioramenti di selce sono stati totalmente esauriti su tutta la loro estensione, la cui lunghezza era originariamente di circa 800 m.
A Nazlet Khater sono stati trovati anche gli strumenti adoperati e i resti di uno dei minatori preistorici, qui deceduto e sepolto. Per smuovere il suolo e scavarlo erano state usate accette di pietra scheggiate sulle due facce, nonché corna di gazzella e di antilope. Autori di tutto questo, e chiaramente consapevoli della realtà geologica, erano individui dalle caratteristiche psicofisiche simili a quelle dell'uomo moderno.
In altre situazioni, però, la selce, o un'altra pietra altrettanto adatta, semplicemente non esisteva. In questo caso, nella fase più avanzata del Paleolitico ‒ il Paleolitico Superiore, circa tra 37.000 e 10.000 anni fa ‒ la soluzione era di percorrere distanze anche molto grandi per approvvigionarsi. In epoche più antiche, invece, si cercavano alternative, in modo talora ingegnoso. Così, a Fontana Ranuccio presso Anagni, nell'Italia centrale, circa 450.000 anni fa si è sopperito alla scarsità di selce, presente sì in noduli o blocchetti, ma di misura generalmente inadeguata a preparare strumenti di grande taglia, scheggiando non soltanto la lava, ma anche spesse diafisi di elefante, per ottenere i bifacciali. Molto più tardi, nell'ultimo glaciale, in una zona altrettanto carente di risorse adatte, il Salento (ma anche sulla costa laziale e su quella ligure), le schegge di selce sono state talora sostituite dalle spesse conchiglie di un bivalve marino, la Callista chione. Come nota S. Vitagliano, allora si è spesso approfittato della forma naturale della conchiglia ‒ più o meno triangolare ‒ per ritoccare accuratamente il lato leggermente arcuato opposto all'umbone, ottenendo quello che, in una terminologia mutuata dall'industria litica, sarebbe un raschiatoio trasversale convesso.
Più tardi nella preistoria, a partire da 30.000 anni fa, nel Paleolitico Superiore, l'alternativa da ricercare è stata, in Italia, quella all'avorio di mammut, frequentemente usato oltralpe per ornamenti e figurine, ma difficilmente reperibile in un ambiente mediterraneo e specificatamente nella penisola italiana. L'alternativa a questa materia di tessitura omogenea, che permette di ottenere superfici lisce e brillanti, è stata trovata, ancora una volta, in una risorsa locale: le pietre tenere e colorate quali la steatite, il serpentino, la clorite, che si trovano in associazione con rocce metamorfiche in alcuni tratti delle nostre catene montagnose. Queste materie prime sono state sperimentate, le tecniche di lavorazione sono state adattate in conformità alle loro caratteristiche litologiche e si sono ottenute statuine e pendagli di sicuro effetto estetico. Tra l'altro, la rarità di queste pietre tenere, specie al di fuori di massicci montagnosi allora non percorribili perché coperti da ghiacciai, implica, ancora una volta, il possesso da parte dei Paleolitici di un occhio sicuro e metodico nel controllare i greti dei torrenti dove si poteva reperire la steatite e materiale di altro genere sotto forma di minuti ciottoli.
Gli esempi finora menzionati trattano di sostituzioni, ingegnose e riuscite, di selce o di avorio con altre sostanze meno usuali. La sperimentazione paleolitica, però, va ben oltre le situazioni di carenza, come dimostrato dagli studi di L. Meignen all'Abri des Canalettes, nella Francia meridionale.
Questo sito è stato utilizzato ripetutamente tra la primavera e l'inizio dell'autunno, intorno a 75.000 anni fa, in pieno Paleolitico Medio, al termine di una fase climatica relativamente temperata. L'ambiente immediatamente circostante era ricco di alberi, e in esso si trovano abbondanti tracce di focolari. Oltre al legno, però, è stata usata anche la lignite, reperibile in alcune vallate distanti oltre 10 km, dove affiora dalle marne sotto forma di banchi nerastri. Questa lignite era impiegata in modo assai sofisticato, sfruttandone l'elevato potere calorifico e la capacità di bruciare a lungo senza fiamme. L'utilizzazione ottimale richiedeva l'accensione di un fuoco di altra legna e l'introduzione della lignite soltanto in un secondo momento, quando il primo combustibile era ridotto a braci; si otteneva allora una combustione senza fiamme, seguita da una lunga fase di incandescenza, adatta sia alla produzione di calore, sia alla cottura indiretta.
L'uso della lignite all'Abri des Canalettes implica che le possibili applicazioni di materiali sconosciuti erano sperimentate in modo sistematico, anche attraverso processi lunghi e complessi. Lungo le centinaia di migliaia di anni del Paleolitico emergono peraltro, qua e là, indizi del fatto che anche le materie più usuali erano utilizzate razionalizzandone le qualità e talora inventando altri sistemi che permettevano nuove applicazioni. Così, la punta dei giavellotti di Schöningen è stata ricavata dalla base del tronco, là dove il legno, prossimo alle radici, ha una durezza superiore a quella riscontrabile nel resto del tronco. Il centro di gravità di ogni arma, poi, è spostato verso la punta, a un terzo della lunghezza complessiva, esattamente come nei giavellotti moderni. In altri termini, vi è dietro questi oggetti una lunga fase di sperimentazione e di affinamento di materiali e di forme, fino ad arrivare a un modello che coniuga la massima durezza nel punto di impatto con la massima efficacia balistica.
Anche la ceramica, abitualmente ritenuta una scoperta del Neolitico (circa 8000-5500 anni fa), in realtà era già stata inventata nel Paleolitico Superiore. Ve ne sono parecchi esempi, in particolare nei due siti gemelli di Pavlov e Dolni Vestonice in Moravia, tra 29.000 e 25.000 anni da oggi: è stato cotto un impasto di löss ‒ un sedimento di origine eolica che forma una coltre di grande spessore in molte pianure eurasiatiche ed è piuttosto argilloso ‒ e acqua, probabilmente all'interno di forni come quello descritto per l'abitazione II di Dolni Vestonice. Solo che, come è ben comprensibile tra gruppi che si spostavano frequentemente e non immagazzinavano derrate, non si trattava di fabbricare vasellame fittile. Invece, sono state create figurine umane e animali ‒ la maggior parte delle quali, peraltro, è stata volutamente sottoposta a shock termico all'atto della cottura, utilizzando il fuoco stesso per fare scoppiare i pezzi e distruggerli secondo modalità che paiono strettamente legate ad attività rituali.
Perfino alla selce sono state in qualche modo apportate delle migliorie, a partire da poco prima di 20.000 anni fa, per potere applicare particolari tecniche di ritocco a pressione nel Solutreano dell'Europa occidentale e per effettuare la scheggiatura di lamelle per pressione in Siberia. Si tratta di portare la selce a una temperatura tra 250 e 350 °C evitando qualsiasi shock termico e, dopo una permanenza a queste temperature, di farla raffreddare molto progressivamente. Il procedimento completo dura alcune ore, avendo cura di tenere i pezzi trattati in un 'bagno' di sabbia, carbone di legno o altro, che serve a diffondere regolarmente la temperatura; al termine, la selce si è ricristallizzata in modo omogeneo e può essere lavorata con maggiore prevedibilità e maggiore precisione.
Gli strumenti musicali
La capacità di creare suoni e musica è anch'essa il risultato, per certi versi, di una forma di sperimentazione. Gli esseri umani moderni possono produrre una vasta gamma di suoni facendo vibrare le loro corde vocali o modulando il passaggio dell'aria attraverso le labbra e la bocca. I dati anatomici, indicando chiaramente nei Neandertaliani una capacità di fonazione piuttosto simile a quella moderna, lasciano presumere che le capacità musicali, quali si esprimono nel canto, non fossero precluse ai nostri immediati predecessori sul continente europeo. Diverso è il problema di produrre e combinare suoni al di fuori del proprio organismo, con l'ausilio di un manufatto.
Sono gli strumenti musicali a indicare questa capacità di riconoscere e organizzare i suoni. Un caso relativamente semplice è quello degli strumenti a percussione, che non è peraltro agevole individuare in modo inequivocabile tra i materiali archeologici. Gli strumenti a fiato sono meglio riconoscibili, avendo una tipologia più specifica. Di essi, i più antichi noti con sicurezza non risalgono a oltre 40.000 anni fa, sia a Geissenklösterle in Germania, sia a Istállöskö in Ungheria. Nel primo caso sono stati trovati due esemplari di flauto, uno dei quali sufficientemente completo, ottenuti da un radio di cigno, ossia sfruttando una caratteristica naturale delle ossa di uccello, quella di essere internamente cave. Nell'esemplare in migliori condizioni sono conservati tre fori, praticati dopo che la superficie ossea era stata accuratamente preparata: si tratterebbe di un flauto diritto. Nel sito ungherese si è invece utilizzato il femore di un giovane orso, che presenta due fori su una faccia e uno sull'altra, a metà tra i precedenti, anche in questo caso con tracce di preparazione preliminare alla perforazione. Quest'ultimo strumento è stato considerato come un possibile flauto traverso; è stato anche utilizzato da I. Soproni per produrre facilmente una varietà di suoni musicali, anche in assenza di bocchino.
È in corso un dibattito nel mondo archeologico per stabilire quali animali trovati nei più antichi siti archeologici siano stati direttamente cacciati dall'uomo e quanti siano invece morti per altre cause. Per quanto riguarda l'Europa, studi recenti tendono peraltro a dimostrare che già nei più antichi insediamenti del nostro continente almeno una parte degli erbivori era stata uccisa dai cacciatori preistorici. Quale che sia l'origine delle carcasse, vi sono comunque ampie prove dell'intervento dell'uomo nell'averle prodotte. Le tracce di macellazione sono principalmente di due tipi: tagli effettuati con i margini di strumenti litici che raggiungono la superficie delle ossa nello staccare le pelli, disarticolare le parti scheletriche, asportare le masse muscolari, sezionare i tendini; oppure colpi ben assestati per spaccare le ossa lunghe e recuperarne il midollo. Il primo tipo di tracce di intervento umano è peraltro più difficile da documentare, perché le osservazioni sono possibili solo quando la superficie delle ossa è molto ben conservata.
Nei Colli Berici (Veneto), la Grotta di San Bernardino presenta una sequenza di livelli che hanno iniziato a depositarsi circa 200.000 anni fa, continuando poi ad accumularsi per oltre 100.000 anni. L'analisi delle superfici delle ossa di erbivori, fatta da G. Malerba e G. Giacobini, indica una serie di operazioni volte appunto al recupero delle parti da consumare. Sono presenti anche, su ulne e metatarsi di castori, tracce probabilmente legate all'asportazione della pelliccia dell'animale. A Wallertheim, località situata nella vallata di un affluente del Reno, così come a Mauran, nel sud della Francia, lo studio effettuato da S. Gaudzinski su resti di bisonti ha permesso di individuare una tecnica ben collaudata messa in opera agli inizi dell'ultima glaciazione. Omeri, radî, femori e tibie erano percossi sulla faccia mediana immediatamente sopra o sotto l'estremità articolare, nel punto in cui l'osso è più fragile e si apre mettendo così a nudo il midollo, sostanza molto ricercata perché ricca di grassi, altrimenti poco reperibili nella dieta basata sulla caccia e sulla raccolta di vegetali spontanei.
La ripetitività e la precisione dei gesti implicano una sicura conoscenza dell'organizzazione tridimensionale delle parti molli dei corpi e delle caratteristiche organolettiche, nutritive ed ergonomiche delle singole parti. L'anatomia era quindi conosciuta con esattezza anche per quanto riguarda le parti interne degli organismi, nascoste alla vista. Questo vale anche per il corpo umano, come si vede dalla sepoltura neandertaliana di Kebara in Israele, risalente a circa 60.000 anni da oggi e scoperta pochi anni fa. L'inumato era stato deposto in una fossa, probabilmente con un elemento di copertura che lo ha protetto, assicurando un'ottima conservazione delle ossa, eccetto che nella parte terminale delle membra inferiori, distrutte da fenomeni fisico-chimici naturali e da precedenti scavi. La colonna vertebrale è integra, compreso l'atlante, e, come è stato detto in precedenza, è stato perfino ritrovato, per la prima volta in un Neandertaliano, lo ioide, piccolo osso della faringe. Viceversa, manca completamente il cranio; il fatto che la mandibola sia presente e che si trovi in una posizione indisturbata, così come le altre parti dello scheletro, significa che l'asportazione del cranio è avvenuta, con cautela, riaprendo la sepoltura quando i tessuti molli si erano già decomposti. Di questo vi è anche traccia nel fatto che è stato scoperto, isolato tra i denti della mandibola, il terzo molare superiore destro, che quindi si era staccato ed era sceso prima del prelievo del resto del cranio. Questo intervento, differito nel tempo, è pertanto frutto di una perfetta conoscenza sia dell'anatomia umana, sia dei tempi e dei modi dei processi di decadimento delle parti molli.
A partire da circa 35.000 anni fa, con le prime manifestazioni di arte iconica ‒ tutte concentrate in Europa ‒ è anche possibile farsi un'idea diretta di come fossero rappresentate la struttura e la funzione del corpo alla fine del Paleolitico. Tra le più antiche testimonianze, troviamo una statuina d'avorio, da Hohlenstein-Stadel in Germania, risalente a circa 32.000 anni fa. Quest'oggetto, alto una trentina di centimetri, rappresenta un antropomorfo in piedi: il corpo, cioè, è inequivocabilmente umano, mentre la testa, e forse gli arti superiori, sono quelli di un felino, molto probabilmente un leone. Al di là del significato simbolico e ideologico dell'oggetto, interessa qui sottolineare la composizione di parti di esseri diversi in un tutt'uno funzionale. In altri termini, questa figura composita è l'espressione di un sistema classificatorio in cui è sottesa l'equivalenza funzionale delle parti anatomiche di esseri umani e animali, tanto che teste e arti possono essere legittimamente scambiati tra specie diverse.
Questo esempio non è un unicum, in quanto nella Grotta Chauvet, in Francia, è stato dipinto, intorno a 30.000 anni da oggi, un altro essere composito che, come il Minotauro della tradizione greca, ha una testa bovina ‒ di bisonte, per la precisione ‒ sopra un corpo in posizione eretta che sembra umano. In epoche successive, si arriva anche a sganciare completamente le parti anatomiche da qualsiasi verosimiglianza zoologica, pur costruendo una creatura in qualche modo organica, grazie alla corretta giustapposizione di parti comunque funzionali. Questo è il caso di una figurina di steatite trovata in una delle grotte dei Balzi Rossi in Liguria e databile a circa 25.000 anni fa: la testa, triangolare e regolarmente bombata, con piccole corna e un'ampia bocca priva di denti, si sovrappone a un corpo a forma di clessidra; questo termina senza alcun accenno a membra inferiori, ma è affiancato da due piccole braccia costituite ognuna da una sorta di rotolino appuntito. L'essere così rappresentato non corrisponde in alcuna delle sue parti a modelli reali, ma è comunque rispettata la tipologia generale di un corpo, con le sue parti costituenti e funzionali. Non a caso, questa creatura si contrappone specularmente a un'altra figura, quella di una donna ben riconoscibile come tale, a cui è unita all'altezza della testa, delle spalle e della parte inferiore del corpo.
La classificazione tipologica e funzionale dell'anatomia umana e animale ‒ una sorta di anatomia comparata ante litteram ‒ si esprime anche in gruppi di raffigurazioni che è possibile ordinare in una sequenza, con il passaggio progressivo da una rappresentazione propriamente umana a una progressivamente deformata, fino a giungere a un essere totalmente animale o mostruoso. In questi casi sono presenti costantemente una corrispondenza e un parallelismo precisi tra l'anatomia umana e quella non umana. Gli esempi più chiari sono quelli forniti dal gruppo di 15 statuine trovate ai Balzi Rossi, di cui si è citato sopra un singolo esemplare, nonché da un lotto di statuine, all'incirca coeve, di Kostenki I nella pianura russa, o ancora dal cosiddetto 'pannello delle donne bisonti' della grotta di Pech-Merle, nel sud-ovest della Francia: come indica bene il nome attribuito a questa zona dipinta della cavità francese, si rileva il progressivo mutamento di figure femminili in bisonti (o viceversa), con un sottile gioco di richiamo tra le forme.
Più tardi ancora, alla fine del Paleolitico e ormai fuori dall'arco cronologico qui trattato, si giungerà anche a raffigurare graficamente, su figure umane, parti interne del corpo, quali l'utero, oppure l'ano, o anche le costole, mentre in qualche altro caso si rappresentano animali con parti scheletriche ben in vista, nonostante essi non siano affatto scarnificati. In questi casi, come in quelli precedentemente descritti, la conoscenza dell'anatomia non è superficiale, ma corrisponde invece alla comprensione dei principî generali che regolano la costituzione e il funzionamento degli esseri viventi.
I dati desumibili dal contesto archeologico, per quanto insufficienti, indicano chiaramente la presenza di facoltà cognitive e di capacità di razionalizzazione e di rielaborazione dell'esperienza quotidiana. In alcuni settori, quali la conoscenza geologica o quella anatomica, verso la fine del periodo trattato si può pensare a una forma di conoscenza sistematica e organizzata, propriamente scientifica. La maggiore quantità di dati disponibili per gli inizi del Paleolitico Superiore fanno sì che gran parte di queste elaborazioni appaiano, a distanza di molti millenni, caratteristiche degli uomini anatomicamente moderni. Vi sono però evidenze più antiche che, per quanto più difficili da osservare, indicano l'importante contributo di specie umane diverse da quella attuale.
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