Le "paure" della società veneziana: le calamità, le sconfitte, i nemici esterni ed interni
Un vecchio cliché storiografico duro a morire collega la decadenza di Venezia alle scoperte geografiche e allo spostamento dei grandi traffici dal Mediterraneo all'Atlantico: quante volte è stato citato il doloroso sgomento dei Veneziani, trasmessoci dalle pagine di Marin Sanudo e Gerolamo Priuli, alla notizia che i Portoghesi hanno portato a Lisbona immensi carichi di spezie eliminando la secolare intermediazione medio-orientale della Serenissima; le più recenti ricerche storiche, riallacciandosi alla coscienza dei contemporanei, concordano nell'individuare negli ultimi decenni del '500 e nei primi del '600 l'effettivo declino di Venezia come impero commerciale e potenza marittimo-militare di media dimensione.
Il '500 è ancora un secolo di relativa prosperità e potenza e la "renovatio urbis" di Andrea Gritti, e le splendide costruzioni private e pubbliche degli anni successivi ci consegnano il volto di una città ricca, capace di reagire alle sconfitte politico-militari e ai disastri naturali: il ripiegamento della nobiltà dai traffici agli investimenti fondiari in Terraferma, il declino marittimo, l'arretramento nei confronti della Spagna in Italia e dei Turchi in Oriente vanno di pari passo con una vita politica, sociale, artistica ancora vitale. Il fantasma della decadenza avvolge lentamente, con l'inesorabile ma impalpabile sinuosità delle ombre serali, un organismo politico ancora oggetto di ammirato stupore da parte di politici, viaggiatori, storici d'ogni angolo d'Europa. Eppure se proviamo a ricordare gli eventi politico-militari di cui Venezia è protagonista dagli inizi del '500 alla seconda metà del '600, il bilancio è quasi tragico e offre una catena impressionante di sconfitte e umiliazioni: 1500, sconfitta navale allo Zonchio coi Turchi; 1509, disastro di Agnadello, che mette in forse per un attimo l'esistenza stessa della Repubblica; 1526-27, infausto esito della lega di Cognac; 1538, nuova sconfitta navale della Prevesa; 1570-73, guerra di Cipro con perdita dell'isola, nonostante la grande vittoria cristiana di Lepanto; ultimi decenni del '500-primi del '600, inutile lotta contro gli Uscocchi; 1626, pace di Monzon tra Francia e Spagna all'insaputa della Repubblica, pur alleata della Francia; 1630, sconfitta di Valeggio; 1645-1669, venticinquennale guerra con finale cessione di Candia. In mezzo a questa sequela di avvenimenti politico-militari negativi proviamo ad inserire due pesti micidiali e devastanti, nel 1576-77 e nel 1630-31, per non parlare di tante altre minori, ripetute carestie, terremoti, acque alte, incendi: ecco il panorama di una città e di una popolazione che tante volte, e spesso in tragica concatenazione temporale, vivono nell'angoscia e nel terrore. Tra il 1569 e il 1577 si situa un tornante della storia di Venezia in cui davvero la paura per il destino individuale di ogni cittadino diventa tutt'uno con quella per la sorte collettiva della Repubblica: il grande incendio dell'Arsenale del 13-14 settembre 1569, la guerra di Cipro (1570-73), la grande acqua alta del 12 ottobre 1574, la tremenda peste del 1576-77, la cometa del 1577, il disastroso incendio del palazzo Ducale del 20 dicembre 1577: una serie di disastri naturali e civili da cui scaturisce un profondo allarme sociale che si prolunga per il resto del secolo ed esplode nel primo trentennio del '600 nella "grande paura" del tradimento e della caduta della Repubblica.
Vediamole un po' più da vicino queste paure dei Veneziani del '500 e '600, seguendo nelle linee maestre le indicazioni metodologiche di Delumeau, al cui libro questo saggio deve la sua ispirazione (1).
Alcune calamità naturali paiono ai contemporanei particolarmente spaventose perché rompono equilibri consolidati, percepiti come un patrimonio connesso ai valori etico-religiosi che reggono la società: spesso la loro presunta straordinarietà è solo frutto di una memoria storica che ai più pare immersa nella lontananza delle generazioni e che invece l'analisi dello storico rivela di spessore esiguo. Cominciamo da quel fenomeno frequente negli ultimi anni che fiumi di inchiostro, e di denaro, ha fatto versare, per la sua presunta eccezionalità, l'acqua alta: tra gli inizi del '500 e la metà del '600 si registra nel 1559 (2 novembre), 1574 (12 ottobre), 1600 (18 dicembre: particolarmente eccezionale, con rottura dei Lidi e un milione di zecchini di danni), 1609, 1660. A questo evento così connaturato con la struttura fisico-geografica di Venezia si possono accostare alcuni fortunali di eccezionale violenza, come quelli del 1º luglio 1540, del 27 giugno 1596, del 4 novembre 1613 e del 9 agosto 1659 (davvero terribile, con l'affondamento di 500 gondole e l'abbattimento di 800 camini), i terremoti, tra i quali si segnalano quelli del 26 marzo 1511, che danneggia molte case e il campanile di S. Marco, del 7 e 12 luglio 1522, del 17 novembre 1570, del 5 maggio 1622 e del 19 marzo 1624, alcune gelate fuori del comune, come nel 1549, quando si può andare a piedi dalle Zattere alla Giudecca, e nel 1598 (2).
Se per gli eventi atmosferici, sia pure eccezionali, il riferimento e l'acquiescenza all'onnipotente volontà divina placano facilmente gli animi dei Veneziani, spesso con l'ausilio di tempestive pratiche religiose, un'inquietudine più profonda ed ambigua serpeggia di fronte ad un fenomeno celeste storicamente non ignoto, ma da sempre circonfuso da un alone di mistero, com'è l'apparizione di una cometa. La nuova stella che brilla su Venezia dal 1572 al 1574 e soprattutto la cometa che compare l'8 novembre 1577 suscitano preoccupazioni tra la gente comune e un vivace dibattito tra i dotti: i temi consueti dell'influenza degli astri sugli uomini, del libero arbitrio e della predestinazione si caricano di profonde suggestioni a causa dei recenti avvenimenti politico-religiosi, la Riforma, la guerra di Cipro, la notte di S. Bartolomeo, la morte improvvisa del re di Francia Carlo IX. Annibale Raimondo, Guglielmo Gratarolo, Giacomo Marzari, il teologo agostiniano Angelo Rocca, Antonio Glisente, Giuseppe Valdagno, per citare solo alcuni dei più combattivi polemisti, fanno prevalere l'accettazione dell'astrologia, depurata di ogni accento deterministico ma aperta a insistite polemiche con le più radicali posizioni anti-astrologiche di Pico della Mirandola (3). La cometa compare quando da poco è cessata la terribile peste e questo evita il facile gioco di attribuirle un significato di preannuncio di questo biblico flagello: precede invece di poche settimane lo scoppio dell'epidemia il parto mostruoso di un'Ebrea nel ghetto (due gemelli congiunti all'ombelico, 26 maggio 1575), che offre lo spunto a due anonimi Veneziani per rinfocolare un'ostilità antisemita già potentemente alimentata dalla recente guerra coi Turchi (4).
La somma di tutte le paure popolari, anzi, si potrebbe dire, la concreta materializzazione delle paure naturali e cicliche, è la peste che colpisce Venezia in modo traumatico per ben due volte nell'arco di poco più cinquant'anni, nel 1576-77 e 1630-31. È una tragedia di immense proporzioni che falcia rispettivamente il 25 ed oltre il 30% della popolazione nel giro di poche settimane; anche a Venezia si registrano esempi di quella "lacerazione disumana", quello sconvolgimento dei fondamenti psichici sia individuali che collettivi, insomma quel "disintegrarsi dell'uomo medio" che Delumeau ha indicato come il tratto comune delle grandi epidemie di peste nell'Europa moderna. Fuga precipitosa di nobili e persone "commode" nelle ville di Terraferma, brusco allentamento di legami affettivi e familiari, scene allucinanti di disperazione e dolore nelle case sequestrate e nei lazzaretti, sensibilità religiosa che accanto alle tradizionali pratiche espiatorie e di culto collettivo vede affiorare toni esaltati ed accesi ai confini dell'ortodossia e della superstizione: questi i caratteri della paura durante la peste cinquecentesca. Se nel 1576-77 l'angosciosa paura della morte, suggellata da una rassegnata sfiducia nella medicina ufficiale che ha così clamorosamente fallito nei suoi massimi esponenti Gerolamo Mercuriale e Gerolamo Capodivacca, partorisce una diffusa credulità nella medicina alternativa degli "antidoti", dei "ricordi", dei "preservativi" di ciarlatani e di medici in caccia di denaro e di gloria, nel 1630-31 affiora persino una fiammata di quella paura degli untori che dopo il processo della "Colonna infame" dall'epicentro milanese dilaga nell'Italia del Nord. È solo un attimo, invero, intorno al 2 agosto 1630, quando un proclama dei provveditori alla sanità mette in guardia contro "persone di intentione così perversa et scelerata che con polveri ed empiastri vanno a posta procurando di attaccar il male contagioso per le città con diabolichi fini": la storia delle unzioni veneziane finisce in una bolla di sapone e se a Milano, nella terrea estate del 1630, acquistano credito incredibili storie sul diavolo in persona umana, Venezia ignora, o per lo meno relega in secondo piano, quell'ossessiva caccia agli inganni del "principe di questo mondo" che attanaglia i cuori di tanti uomini dell'Europa moderna (5). Se in tempo di peste spuntano come funghi empirici e ciarlatani ad offrire "antidoti", in tempo di buona salute c'è chi offre rimedi sicuri per una lunga vita, come il medico Tommaso Rangone di Ravenna che muore il 13 settembre 1577 a soli 94 anni, dopo aver illustrato in numerosi opuscoli dedicati al doge e ad altri patrizi un metodo per vivere sani sino a 120 anni (6); e a testimoniare di una società in cui la bramosia dell'arricchimento è più forte di tutte le paure, e anche del rischio del ridicolo, si può ricordare quel momentaneo vortice di follia collettiva che coglie tra il 1589 e il 1590 i patrizi veneziani di fronte alle mirabolanti offerte dell'alchimista e negromante Marco Bragadin, che promette di mettere a disposizione di privati e della Repubblica il segreto di "cavare l'anima dell'oro" dal mercurio e di moltiplicare il metallo prezioso. Viene accolto trionfalmente sulle lagune e per alcuni mesi abbindola vari gentiluomini e lo stesso consiglio dei dieci prima di fuggire e trovare la morte sul rogo a Monaco di Baviera (7).
Tra le paure naturali che affliggono periodicamente Venezia c'è in prima linea quella degli incendi, molto frequenti in una città ancora ricca di abitazioni in legno e nei cui palazzi la legna sta spesso vicino a stufe e altre fonti di calore: dagli inizi del '500 alla metà del '600 le fonti ricordano 13 incendi importanti e tra questi almeno due, quelli del 1569 in Arsenale e quello del 1577 in palazzo Ducale, così imponenti e disastrosi da colpire la fantasia dei Veneziani, che non accettano facilmente la naturalità degli eventi e sospettano dolo e vile tradimento. Nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1569 un gigantesco incendio distrugge l'Arsenale: l'esplosione è tremenda, cadono case alla Giudecca, a Mestre e Marghera, il tuono e il rimbombo si sentono sino a Padova, Vicenza, in Friuli e a 200 miglia in mare; il bilancio finale, di 20 morti, mezzo milione di ducati di danni, varie galere e materiale bellico distrutti, è forse meno disastroso delle prime previsioni, ma l'impressione nell'opinione pubblica è enorme: alcuni pensano addirittura che lo spaventoso incendio sia uno dei primi "segni" di quella fine del mondo prevista per questo giorno da un "pronostico" largamente diffuso nei giorni precedenti (8). Il pensiero di molti corre subito al "trattato", cioè ad una congiura per sorprendere la città, ed il consiglio dei dieci mobilita patrizi ed arsenalotti per immediate misure di sicurezza; se per l'idea di un complotto internazionale i sospetti si concentrano sui Turchi e sul marrano Giovanni Miquez, duca di Naxos, già bandito da Venezia, potente favorito di Solimano e Selin e capo di una rete spionistica in Occidente, altrettanto concreta appare a qualcuno la pista interna, ricordando il breve ma violento tumulto degli arsenalotti (provocato dalla soppressione della paga del sabato pomeriggio) che ha preceduto l'incendio e anche alcuni cartelli anonimi affissi in città per denunciare malefatte e oppressioni della classe dirigente: in realtà le ricche taglie promesse dal consiglio dei dieci risvegliano l'appetito di una schiera di furbi banditi o liberi cittadini, pronti a mirabolanti rivelazioni, ma non approdano ad alcun concreto indizio sugli autori dell'attentato (9). Altrettanto micidiale e sconvolgente l'altro incendio del 20 dicembre 1577 in palazzo Ducale (segue a quello, meno rovinoso ma pur grave dell'11 maggio 1574) che devasta numerose sale e minaccia per un attimo di estendersi alla Zecca e alla Libreria; anche stavolta alla paura per l'incolumità della vita e dei beni si accompagna quella del "trattato": se in questo caso l'ipotesi di un sabotaggio di "principe maligno e inimico", cautamente avanzata dal patrizio Francesco Molino, ottiene credito meno duraturo, ampio e sincero è il cordoglio per la perdita di tanti documenti, tra i quali i protocolli dei notai, e di alcuni dei più fulgidi capolavori della pittura rinascimentale (Bellini, Tiziano, Pordenone, Tintoretto) (10).
I poveri, numerosi, invadenti, sono una presenza inquietante a Venezia; la carestia, questa "ossessione" degli uomini del '500 e '600, come la chiama giustamente Delumeau, inquieta più volte i Veneziani, quelli poveri, che si vedono drammaticamente sospinti verso le soglie dell'inedia e dell'accattonaggio, e quelli ricchi che temono le reazioni sociali e politiche di queste masse imponenti di emarginati che nulla hanno da perdere. Benché Venezia si sforzi di assicurare regolari rifornimenti granari ed anticipi, nel 1527 e 1529, le legislazioni di molti Stati europei sul pauperismo, gli spettacoli angosciosi di folle di miserabili vaganti per le calli si susseguono: nel 1527-28 i poveri stazionano addirittura tra i colonnati del palazzo Ducale, importunano i nobili che entrano per le riunioni, invadono le chiese, battono di notte alle porte delle case invocando un pezzo di pane e al mattino ingombrano la piazza con i loro cadaveri, nel 1539 sostano in massa su barche sotto i ponti mentre, fatto a Venezia assai raro, davanti ai fonteghi delle farine si verificano tumulti; nel 1591 la carestia morde la città con tanta durezza che gran parte della popolazione è costretta a cibarsi quasi esclusivamente di miglio.
I nobili e le persone "commode" cominciano ad aver paura di queste folle e per tutto il '500 e '600 si susseguono misure per disciplinare la "povertà" ed eliminare i vagabondi e i "pitocchi": se nel 1527-29 si distingue tra poveri incapaci, meritevoli di aiuto, e abili e disoccupati, inviati a forza sulle flotte, nel 1572 il consiglio dei dieci assimila alla nozione di delinquenti tutti "gli huomini vagabondi et otiosi, così terrieri come forestieri, che non cavano il loro vitto e vestito o da sue entrate o da qualche esercitio o arte" ed espelle senz'altro zingari, mendicanti e "furfanti" stranieri o falsi (11).
Misure repressive ma anche un'efficace legislazione assistenziale, parte in linea con la tendenza alla "grande reclusione" prevalente in Europa, parte centrata su quella peculiare istituzione veneziana che sono le Scuole grandi, esorcizzano la paura dei poveri: non altrettanto sicura ed efficace sembra ai Veneziani e agli osservatori stranieri la reazione nei confronti dei "bravi" e banditi che infestano la capitale e la Terraferma negli ultimi anni del '500 e nei primi decenni del '600. Come mostrano le ricerche di Povolo, intorno al 1580, dopo la guerra di Cipro e le due crisi agrarie del 1559-60 e 1569-70, si verifica un pericoloso "rigurgito del fuoriuscitismo" e la crescita della criminalità comune prosegue ininterrotta per tutta la prima parte del XVII secolo; una più dura politica repressiva, il ricorso sistematico alle taglie in denaro e alle "voci liberar banditi" si rivelano rimedi solo parziali ad un fenomeno che affonda le radici in un diffuso disagio sociale (12).
La vita dei Veneziani è percorsa dall'incubo delle bande armate e dei "bravi", al soldo di signorotti feudali o di avventurieri che sciamano sempre più numerosi in una città attraente per ricchezza e opportunità di maneggi ed imbrogli; è ben vero, scrive Derosas, che nel corso del '500 si registra un generale "raggelamento nei costumi sociali", un restringimento dei "confini dell'illecito" e del diverso (poveri, prostitute, Ebrei) (13), ma la frotta di spostati, banditi, "bravi" che si aggira sulle lagune genera insicurezza e paura.
La minaccia turca diventa corposa e incombente per Venezia dalla metà del '400: dalla caduta di Costantinopoli in poi l'avanzata ottomana, discontinua ma incessante nei tempi lunghi, proietta un'ombra sinistra sui destini dei possedimenti in Levante. Nel 1472, 1477-78, 1499 terribili incursioni turche seminano il terrore in Friuli e il panico arriva sino a Treviso e Mestre: la pace del 1503, dopo umilianti sconfitte navali veneziane, è accolta, scrive il Priuli, senza "dimonstration alchuna di festa, né di campane, né di fochi" e i Veneziani, incuranti delle potenze cristiane, "della potentia turchesca tremavanno, perché cum veritade il signor Turcho poteva comandare al Stato Veneto" (14). In realtà i rapporti veneto-turchi non sono mai improntati esclusivamente, come vuole una tradizione storiografica parte creata da Venezia stessa parte costruita nell'800, da antagonismi e scontri; per tutto il '500 e '600 lunghi periodi di pace e di buoni rapporti politici e commerciali si alternano alle fiammate belliche e del resto i commerci dei mercanti veneziani non si interrompono del tutto neppure durante i conflitti militari (15): c'è addirittura un momento, nei giorni bui dopo Agnadello, in cui Venezia cerca l'aiuto ottomano contro Giulio II; anche negli anni dell'Interdetto i Turchi si fanno avanti ad offrire aiuti alla Serenissima contro gli Spagnoli, ora i veri e più temuti nemici (16).
Eppure ogni tanto, ad intervalli quasi decennali, l'incubo dei Turchi si riaffaccia; quando il Sultano decide di riprendere la sua espansione a Occidente predando una fetta dei domini in Levante, Venezia trema, si arma, resiste, lotta, di solito perde e si rassegna ad arretrare, in una lunga secolare vicenda che si conclude solo alla fine del '600. La paura dei Turchi è paura di un nemico lontano, potente, invincibile, barbaro e forse, insinua qualcuno, invincibile proprio perché barbaro. Il mito della potenza turca si traduce in paura dell'onnipotente spionaggio turco prima ancora dell'attacco all'isola di Cipro: in effetti, come ho mostrato in una recente ricerca (17), i Turchi dispongono in terra veneta di un buon servizio informativo, indirettamente testimoniato dalle frequenti catture di spie a Cipro, Corfù, in varie isole e città del Levante e nella stessa Venezia, ma la fantasia popolare e anche, conviene sottolinearlo, la classe dirigente veneziana, esagerano l'ampiezza e l'efficacia di questa rete spionistica. Così è voce comune che si debba a sabotaggio dei servizi segreti turchi il gigantesco incendio dell'Arsenale del 1569 e l'opinione pubblica sfoga il suo rancore per il proditorio attacco turco a Cipro individuando nelle mene di Giovanni Miquez l'origine del progetto aggressivo del Sultano e addebitando agli Ebrei una responsabilità generale di tradimento che ben si concilia con la tradizionale immagine anti-semita del "perfido" ebreo amico degli infedeli. La vittoria di Lepanto dissolve, solo per un attimo, l'incubo turco che però la pace del 1573, che sanziona la cessione di Cipro, ripropone per intero nella sua drammaticità; tra il 1574 e il 1576 il consiglio dei dieci persegue tenacemente l'eliminazione fisica di Mustafà dei Cordovani, "spia importante et astutissima di Mehemet bassà" (18), e riesce finalmente a farlo avvelenare segretamente; negli anni 1580-90, nonostante la pace ufficiale, si susseguono in Levante gli arresti e i processi a presunte spie turche (19). Se nei lunghi anni dalla guerra di Cipro a quella di Candia la paura del Turco sembra attenuarsi, tanto nella coscienza popolare quanto nelle riflessioni della classe dirigente, è perché la Repubblica, in evidente crisi economica e militare, patisce i colpi micidiali della pirateria uscocca e si dibatte con rabbia e penose lacerazioni interne di fronte alle mire aggressive degli Spagnoli.
Il 23 maggio 1613 gli Uscocchi catturano Cristoforo Venier, gli mozzano il capo, ne divorano il cuore e intingono il loro pane nel suo sangue: negli ultimi anni del '500 e nei primi decenni del '600 la vera angoscia dei Veneziani che vanno per mare, o che al mare comunque affidano le loro fortune economiche, sono questi terribili pirati che depredano il naviglio in quell'Adriatico che Venezia si ostina, a fronte delle crescenti ripulse spagnole, a considerare suo esclusivo dominio; questo degli Uscocchi è un incubo che agita per decenni i sonni dei Veneziani, impotenti a fronteggiare un nemico subdolo e spietato: nel 1586 il governo tira fuori le galere grosse dall'Arsenale dove sono state riposte dopo la vittoriosa giornata di Lepanto, per usarle contro gli Uscocchi, una decisione, ricorda Tenenti (20), che ben illumina la reale portata della minaccia uscocca per la vita marinara veneziana e aiuta a comprendere quel sentimento di angoscia che coglie i Veneziani ogni qualvolta, in questi anni agitati, una nave mercantile salpa verso l'Oriente o se ne attende, con trepidante incertezza, la felice ricomparsa sulle lagune.
Con il volgere del nuovo secolo alla tradizionale paura dei Turchi e degli Uscocchi si sovrappone quella, più complessa e sfuggente, degli Spagnoli: è soprattutto nei primi decenni del '600 che Venezia avverte come sempre più soffocante l'egemonia spagnola in Italia, che sembra persino prevedere, nelle più funeste previsioni, un assoggettamento della Repubblica alla corona iberica. Il timore di una potenza che alle poderose forze militari, ai vasti domini in Italia, alle risorse finanziarie sempre cospicue nonostante i ripetuti fallimenti, può aggiungere il fondamentale appoggio della Chiesa cattolica, si colora a Venezia di un tratto fortemente ambiguo, perché la divisione tra giovani e vecchi, che solca il patriziato negli anni a cavallo del secolo, passa proprio sul terreno dei rapporti con la Spagna, e dunque, come mostra la vicenda dell'Interdetto, l'esistenza dichiarata a Venezia di un partito filo-spagnolo introduce un forte elemento di sospetto nei rapporti interni tra i patrizi: l'incubo della quinta colonna, dello spionaggio, del tradimento, già forte nella Venezia cinquecentesca, trae poderoso alimento da questa frattura nella classe dirigente e genera quel clima di generale sospetto in cui maturano la congiura di Bedmar e la svolta "repressiva" degli anni 1605-1620. È il caso di ricordare che proprio negli anni 1593-1612 Venezia procede alla costruzione di quella fortezza di Palma la cui funzione pubblicamente anti-turca ma anche, data la posizione geografica, anti-imperiale (e gli Imperiali sono in questi anni alleati naturali della Spagna), risulta ovvia a molti osservatori contemporanei.
La paura del tradimento e del colpo di stato ha radici antiche nella storia di Venezia: il consiglio dei dieci è nato dall'imperiosa esigenza di reprimere ogni attentato alla sicurezza dello Stato dopo le clamorose "congiure" di Baiamonte Tiepolo (1310) e Marin Faliero (1355). Mano a mano che nel '400 la politica estera veneziana oltre al tradizionale scacchiere orientale investe sempre più la penisola italiana e si fa più complessa e articolata, crescono le preoccupazioni per il segreto di stato, difficile da mantenere in uno Stato fondato su magistrature composte di molti patrizi e dunque facilmente violabili dagli agenti degli spregiudicati principi rinascimentali: la storia del '400, ha ben documentato Queller, è costellata di violazioni del segreto, corruzione, piccoli e grandi tradimenti, interventi repressivi e reiterati provvedimenti legislativi per tutelare una riservatezza delle decisioni pubbliche sempre più in pericolo (21). Nel corso del '500 il crescente timore per i comportamenti trasgressivi di alcuni nobili che, per avidità di denaro, leggerezza o addirittura cosciente tradimento, rivelano ad ambasciatori, agenti o spie nemiche, le più importanti delibere del senato, sbocca il 20 dicembre 1539 nella nomina di tre inquisitori contro la propalazione dei pubblici segreti, specialmente incaricati di estirpare la mala pianta della violazione del segreto di stato: ironia della sorte, a soli tre anni dalla loro istituzione, nel 1542, scoppia lo "scandalo dei segretari": Costantino e Niccolò Cavazza, segretari del senato e del consiglio dei dieci, hanno rivelato all'ambasciatore francese Guglielmo Pellicier le istruzioni della Signoria ad Alvise Badoer, incaricato di negoziare coi Turchi la pace del 2 ottobre 1540 (22).
Non è un caso isolato e tra il 1553 e il 1620 si annoverano ben 9 episodi di "tradimento", quasi sempre sotto forma di rivelazione di segreti di stato a potenze straniere. Comincia nel febbraio 1553 il procuratore Marco Molin, che rivela a monsignor San Sirge segreti di stato (23); nel 1562 Zaccaria Dolfin, vescovo di Lesina e nunzio apostolico a Vienna, usa il fratello Alvise per operare "cose importanti a maleficio della Repubblica nostra" (24); nel 1587 è condannato a morte Daniele Malipiero per aver trasmesso al nemico segreti di stato (25). Del 1591 è uno dei casi più clamorosi e controversi di questa lunga catena di tradimenti; l'ambasciatore a Costantinopoli Girolamo Lippomano, membro di una delle più influenti famiglie della città e al culmine di una brillante carriera politica, è accusato di passare informazioni riservate alla Spagna. Per ordine segreto degli inquisitori di stato Lorenzo Bernardo va a Costantinopoli, lo preleva e riporta a Venezia, ma all'altezza del porto di S. Niccolò di Lido Lippomano cade in mare e annega: disgrazia, suicidio per evitare l'onta del processo, o macabra messa in scena degli inquisitori, come insinua l'ambasciatore spagnolo, che l'avrebbero prima strozzato o avvelenato e poi gettato in mare? (26) L'ipotesi più probabile è quella del suicidio, ma in ogni caso l'imbarazzo del consiglio dei dieci di fronte ad un caso così inaudito di tradimento ai livelli più alti della gerarchia politica veneziana è evidente: le delibere sulla vicenda sono registrate nelle parti secrete con ben quattro anni di ritardo (27).
Altri tradimenti più o meno grandi si susseguono negli anni seguenti: nel 1599 (6 luglio) è condannato a morte Francesco Bembo per corrispondenza politica col granduca di Toscana, nel 1601 Iseppo Donà congiura con gli Spagnoli per sorprendere Brescia e viene impiccato (28).
Nel 1607-12 altro clamoroso e sconcertante tradimento, ancora una volta protagonista un esponente di primo piano del patriziato: Angelo Badoer, membro di una delle "case vecchie" e deciso filo-pontificio durante l'Interdetto, prima si abbocca senza autorizzazione nella chiesa dei Frari col nunzio pontificio Berlinghiero Gessi (1607), poi diviene l'informatore dell'ambasciatore Bedmar che chiede per lui a Madrid una pensione di 2.000 ducati annui: condannato al bando perpetuo con taglia sulla testa e alla privazione della nobiltà, si sottrae con la fuga alla punizione, ripara in Francia e poi in altri paesi d'Europa, alternando disperati quanto vani tentativi di ottenere l'assoluzione a ostentate collaborazioni coi nemici della Repubblica, spagnoli e pontifici. Gli inquisitori di stato per parte loro non perdonano all'illustre patrizio un così sfacciato tradimento e cercano più volte di farlo assassinare da agenti segreti: alla sua morte, avvenuta a Roma nel 1630, il senato rifiuta di aprire e brucia una lettera sigillata che egli ha indirizzato alla sua ex patria (29).
Il 27 agosto 1617 è la volta di Girolamo Grimani ad essere bandito per macchinazioni a favore degli Spagnoli; la sua vicenda umana e politica si snoda per alcuni anni sulla falsariga di quella di Angelo Badoer: rifugiatosi a Roma e poi a Napoli, invoca ripetutamente perdono e salvacondotti per scolparsi, ma nello stesso tempo si pone al servizio del duca di Ossuna per progetti di attacchi terrestri e navali contro Venezia: alle abili spie veneziane in Napoli non sfuggono le sue mosse e neppure la corrispondenza cifrata che tiene a Venezia con amici e familiari, e così la sua vita trascorre in un angoscioso e talvolta tragicomico alternarsi di suppliche, minacce, promesse di vendetta, reiterati tentativi di assassinio da parte di sicari veneziani, persino una sconcertante temporanea collaborazione con i servizi segreti della Repubblica e infine la morte tra rinnovate insidie degli implacabili inquisitori di stato (30).
I tradimenti si ripetono anche dopo la "grande paura" della congiura di Bedmar che pure produce, come vedremo tra poco, un clima di sospetto diffuso e un drastico rafforzamento delle misure repressive: il 27 luglio 1620 Giovanni Minotto è condannato a vita nei camerotti per aver rivelato segreti di stato, il 10 settembre dello stesso anno è impiccato Gio. Battista Bragadin, spia degli Spagnoli, il 14 dicembre 1621 viene arrestato Alvise Querini, sorpreso in casa dell'ambasciatore spagnolo con alcune donne mascherate e infine tra l'8 e il 21 aprile 1622 si consuma la tragedia di Antonio Foscarini, ingiustamente condannato e giustiziato per l'accusa, rivelatasi poi falsa, di aver svelato a scopo di lucro "gravissimi segreti" riguardanti la Repubblica (31).
Una splendida testimonianza del crescente clima di insicurezza e paura che regna nella Venezia del '500 è offerto dalla vera e propria pioggia di ricordi (raccordi o aricordi) che si riversa sul consiglio dei dieci a partire dagli anni '20 e '30, con un crescendo impressionante per tutto il secolo e nei primi decenni del successivo. Il ricordo è un memoriale, per lo più anonimo o sottoscritto tramite terza persona, consegnato direttamente in palazzo Ducale o infilato in una bocca di leone come una normale denuncia segreta, che un cittadino presenta al consiglio dei dieci su una materia di rilevante importanza per lo Stato: l'oggetto può essere dei più svariati, un brevetto industriale, uno specifico contro la peste, un nuovo sistema idraulico per bonificare le lagune, una nuova arma, un originale metodo per risparmiare denaro pubblico, aumentare le entrate dello Stato senza aggravare i contribuenti (c'è uno che arriva a promettere sino a mezzo milione di ducati d'entrata senza colpo ferire!) o sorprendere qualche "intacco" alle casse pubbliche; più spesso il ricordo tocca delicati aspetti della vita e sicurezza dello Stato: ecco allora la segnalazione di truffe, malversazioni, peculati, contrabbandi, violazione dei segreti di stato, ecco soprattutto la denunzia di trattati, cioè congiure e tradimenti contro la Repubblica, di fori e cunicoli nelle fortezze, spie e traditori, progetti più o meno fantasiosi di attacchi a sorpresa al Lido, al palazzo Ducale, alla Zecca, all'Arsenale. Gli autori sono per lo più banditi, che sperano con queste rivelazioni di ottenere la sospirata liberazione dal bando, e magari anche una lauta ricompensa, molti sono poveri diavoli, carichi di figli e di debiti (e talvolta non mancano ingenuamente di ricordarlo), che sperano con un colpo azzeccato di cattivarsi la benemerenza del governo e una buona sistemazione per tutta la vita, talvolta sono onorati cittadini, medici, avvocati, funzionari dello Stato, che sfruttano conoscenze professionali o rivelazioni ottenute casualmente per ricattare economicamente un consiglio dei dieci sempre disponibile quando si tratta di tradimenti e congiure; naturalmente non mancano gli avventurieri di professione, dediti allo spionaggio e al doppio gioco, che hanno davvero messo le mani su qualche segreto scottante e sono decisi a venderlo a caro prezzo; alcuni ricordi, invero una minoranza, sono sottoscritti da cittadini zelanti del pubblico bene che, avendo saputo, osservato, studiato qualche cosa che può prevenire danni o tradimenti alla Repubblica, si affrettano, per puro amore della patria, a farne partecipi le massime autorità dello Stato.
Esemplare il caso dell'incendio dell'Arsenale del 1569: già negli anni precedenti sono stati numerosi i ricordi che segnalano trattati per incendiarlo, ma dopo il celebre incendio si scatena una vera e propria orgia di denunce: a decine e decine piovono i memoriali, accompagnati da puntuali e talora esorbitanti richieste di compensi pecuniari o di posti sicuri nell'amministrazione dello Stato per sé e per i figli. La fantasia degli aricordanti è davvero senza limiti: non c'è luogo dell'Arsenale che non presenti falle, buchi, anfratti, ove ipotetiche spie potrebbero sistemare barili di polvere, non c'è metodo per entrarvi, via terra, via mare, via aria, travestiti, con barche, cavalli, maschere subacquee, che non sia immaginato e steso bellamente per iscritto.
Passa qualche anno e lo spaventoso incendio al palazzo Ducale del 1577 dà la stura ad un'altra ondata di ricordi, tutti centrati sugli ipotetici rischi di incendio ed esplosione che corre la prestigiosa sede del governo veneziano: incendi possono scoppiare ovunque, scrivono gli aricordanti, e ovunque astuti sabotatori possono mettere balle di polvere per far saltare tutto o parte del palazzo, soprattutto in concomitanza con la riunione del maggior consiglio, e quindi con l'eccidio di tutta la nobiltà. C'è chi immagina incendi o esplosioni nel camino, in varie sale, persino nelle latrine, nei camerotti del carcere, nel campanile, nelle fortezze del Lido, nella soffitta della Cancelleria, a Rialto, nei pozzi, nelle botteghe che circondano piazza S. Marco; i sabotatori potrebbero usare, si assicura, polvere comune, pignatte esplosive, "palle artificiate" a tempo, archibugi, cannoni, vascelli commerciali e da guerra; c'è chi illustra possibili colpi di mano durante il Carnevale, attacchi notturni e diurni alla Zecca, furti al Tesoro in ogni possibile modo, attentati al doge quando va in Bucintoro, c'è chi elenca categorie di possibili spie e traditori, chi punta senz'altro il dito contro singoli, Veneziani e non, pronti a tradimenti e congiure, c'è chi arriva a immaginare complessi attacchi combinati per terra e per mare per rovesciare la Repubblica, talvolta con una impressionante somiglianza con il progetto di golpe attribuito nel 1618 al Bedmar e all'Ossuna. È veramente incredibile la quantità e la verità dei ricordi che si succedono anche nei decenni 1577-80; quasi sempre il consiglio dei dieci non trascura gli avvertimenti dei cittadini, che siano mossi da carità di patria o da evidente brama di denaro: che si tratti di un foro nella fortezza di Legnago o di Verona o di un presunto ripostiglio in palazzo Ducale o in Arsenale in cui potrebbe essere infilata qualche mina o "palla artificiata" a tempo, gli inquisitori di stato invitano le competenti autorità a fare attenti sopralluoghi e a prendere adeguate misure precauzionali, anche se ovviamente sono rarissimi i casi in cui essi accettano ufficialmente per vero il ricordo e attribuiscono al suo autore la ricompensa richiesta (32). Tra i ricordi ve n'è uno, del 23 dicembre 1577, di Aldo Manuzio il giovane: steso in bella grafia, per puro servizio della patria e nella speranza che ne resti memoria ai posteri, precisa l'autore, elenca ben dieci modi in cui potrebbe essere assalita Venezia, attaccati o minati i palazzi, assassinato il doge, occupato o bruciato l'Arsenale (33).
Questa dei ricordi è davvero un'onda lunga nella storia di Venezia, che ha ovviamente un'altra impennata dopo il 1618, quando effettivamente Venezia corre un rischio, quanto grave è ancor oggi difficile valutare, per la sua sicurezza; intanto essi testimoniano di un clima di paura e di insicurezza in cui una folla crescente di cittadini pesca per fini di profitto individuale o per genuino amore della patria.
La "grande paura", mi permetto di applicare alla storia di Venezia il fortunato titolo di un grande libro di Lefebvre (34), regna a Venezia, fors'anche per qualche interessato incentivo del governo, negli anni dal 1606 al 1630 e raggiunge il suo culmine nel 1618, in occasione della cosiddetta congiura di Bedmar.
In un'opinione pubblica già turbata dalla divisione tra vecchi e giovani e dalle crescenti scorrerie degli Uscocchi, la contesa dell'Interdetto con la S. Sede (17 aprile 1606-21 aprile 1607) cala un ulteriore motivo di preoccupazione e sospetto; la Repubblica ricorre a mezzi energici, talvolta anche apertamente coercitivi, per indurre il clero a non rispettare l'Interdetto e assicurare piena lealtà allo Stato ma la presenza tra la classe dirigente di un partito apertamente filo-pontificio e filo-spagnolo introduce un motivo di divisione e di sospetto: ci sono ordini religiosi interi, come i gesuiti, o singoli prelati, preti, monaci e monache che disubbidiscono, ma perché scandalizzarsi, insinua qualcuno, se anche insigni patrizi non fanno mistero della loro propensione ad un accomodamento col papa e ad un buon accordo politico con gli odiati Spagnoli? Aleggia un clima di sospetto e diffidenza intorno a tutti coloro che frequentano il nunzio e l'ambasciatore di Spagna; i filo-pontifici e filo-spagnoli diventano potenziali traditori e gli inquisitori di stato, ormai saldamente insediati a capo dei potenziati servizi segreti, indagano senza esitazione sui nobili più esposti del partito filo-spagnolo e su tutti coloro che hanno qualche rapporto con la nunziatura.
Il 2 dicembre 1606 si scopre una congiura di religiosi per assassinare il doge, il 17 febbraio 1607 anche un frate bergamasco si prepara a uccidere la massima autorità dello Stato: l'allarme ai vertici della Repubblica è grande e a smentire quei nobili ed osservatori stranieri che minimizzano il pericolo, sopraggiunge, il 5 ottobre 1607, l'attentato a Paolo Sarpi seguito, il 20 febbraio 1609, da un altro fallito tentativo di eliminare il servita simbolo dell'autonomia religiosa e politica di Venezia. Gli anni 1607-18 segnano una netta svolta nel clima politico di Venezia, dove ormai il sospetto verso la Spagna, i suoi ambasciatori, i suoi fautori tra il patriziato ed il popolo è regola d'azione del senato e del consiglio dei dieci: lo spionaggio della Spagna è un vero e proprio incubo degli inquisitori di stato, in verità non a torto, perché la corrispondenza dell'ambasciatore spagnolo con Madrid conferma il largo impiego di denaro per ottenere informazioni riservate dai patrizi che entrano nelle principali magistrature e per stipendiare un nugolo di spie in tutta la Repubblica (35). Del resto i servizi segreti di Venezia, mai così attivi come in questi anni, mettono a segno dei buoni colpi oltre la citata scoperta del tradimento di Angelo Badoer; un piccolo esercito di spie sorveglia la casa del nunzio, dell'ambasciatore spagnolo, dei nobili e novellisti sospetti: dal 1612 gli inquisitori di stato dispongono di una spia doppia, Alessandro Grancino, contemporaneamente al servizio della Spagna e di Venezia, e riescono a smascherare una rete di spionaggio che fa capo al portoghese Antonio Meschita (36). All'attenta sorveglianza degli agenti veneziani non sfuggono i conventi, ove facilmente si possono insinuare frati stranieri o dare convegno nobili e spie spagnole, le chiese, gli alberghi, le osterie, tutti i luoghi di assembramento (Rialto, piazza S. Marco): i ricordi di zelanti cittadini e qualche denuncia segreta infilata nelle bocche di leone aiutano di tanto in tanto l'azione investigativa degli inquisitori.
Durante la guerra con gli Arciducali (autunno 1615-settembre 1617) cresce il timore di dover combattere davvero su due fronti, uno esterno e l'altro interno; il 24 luglio 1617 il maggior consiglio è colto da "timor panico alla vista di alcune barche in mar", credendo siano la flotta spagnola, e il 2 agosto successivo si diffondono timori di attacchi uscocchi a Malamocco e Chioggia: in questo clima di paura diffusa di un nemico, gli Spagnoli, potente, subdolo, appoggiato da una quinta colonna interna alla stessa nobiltà, matura nel 1618 la cosiddetta congiura di Bedmar.
Mito o realtà? Vera congiura, con reale pericolo per Venezia, o invenzione dei Veneziani? La polemica sulla pretesa congiura dell'ambasciatore spagnolo Alfonso de la Cueva y Benavides, marchese di Bedmar, inizia tra i protagonisti e gli osservatori stranieri sin dai giorni stessi degli eventi e prosegue sino ai nostri giorni, spesso al servizio di risentimenti nazionalistici o di preconcetti miti storiografici. Decisi i Veneziani ad asserire reale la congiura sin dal maggio 1618, altrettanto deciso il Bedmar, e con lui l'ambasciatore francese e non pochi osservatori stranieri, a negare ogni responsabilità sua e degli Spagnoli; la "querelle" degli storici inizia pochi anni dopo: a Battista Nani, storico ufficiale, che difende la versione veneziana, si contrappongono Pietro Giovanni Capriata e César Vichard (poi Abbé de Saint-Réal), l'uno convinto della "vanità" del fatto, l'altro autore di una versione apertamente romanzesca degli eventi (37). Agli inizi dell'800 il francese de Chambrier definisce senz'altro favola la congiura e il connazionale Daru, nella sua Storia di Venezia ispirata a furenti rancori democratico-rivoluzionari e feconda creatrice del nascente "anti-mito" di Venezia regno dell'oppressione e dell'arbitrio aristocratico, rincara la dose e accredita addirittura la tesi di una congiura di Venezia per consentire al viceré di Napoli conte d'Ossuna la creazione di un regno indipendente nel Sud: poi Venezia avrebbe fatto abortire il piano cogliendo l'occasione per eliminare gli incauti avventurieri coinvolti nel colpo di mano (38). Nel frattempo della congiura si sono impadroniti romanzi e drammi, dalla Venice preserved di Thomas Otway (London 1685), più volte tradotta e ripresa in Italia (39), al Manlius di Antoine de Lafosse (1698), al Bianche et Moncassin ou les Venitiens di Arnault (40), a La congiura del 1618 in Venezia di A. Gauno (41), a Il Marchese di Bedmar o Venezia e gli Spagnoli del 1618 di Giuseppe Revere (Milano 1847, Firenze 1861) (42). Nel clima infuocato del Risorgimento il primo a tornare sull'argomento è il grande storico tedesco Ranke, che considera solo parzialmente vera la congiura, amplificata oltre il vero (43); nel segno di una violenta reazione alle offese francesi al "mito" di Venezia Romanin difende con assoluta convinzione la realtà del colpo di mano spagnolo, ma di lì a qualche anno già il Raulich avanza l'idea che "ai Veneziani resti il torto di avere esagerata la responsabilità dei due ministri spagnoli, considerandoli iniziatori e principali artefici della congiura", anche se a Bedmar imputa la colpa di avere "se non promossa, incoraggiata e aiutata la trama contro Venezia", e la Zambler definisce senz'altro la congiura un "chimerico progetto", però incoraggiato da Bedmar e Ossuna (44). Con Alessandro Luzio, forte di nuove fonti dell'Archivio Gonzaga e di documenti spagnoli, torna recisa la negazione della realtà della congiura; "le macchinazioni briache, fanfaronesche di pochi scherani, di pochi avventurieri francesi serviron di pretesto per spegnere il focolare dell'infezione morale, che s'annidava nella casa dell'ambasciatore spagnolo" e la Repubblica "gonfiò in cospirazioni mostruose" queste "fanfaronate" e "ragazzate" "perché questa montatura giovava ad un gran colpo politico, rapidamente intuito e con meravigliosa destrezza eseguito": la congiura dunque non è esistita, ma Venezia ha profittato delle mene di pochi avventurieri sprovveduti per dare un esempio terrificante alle indocili milizie straniere, rendere un servizio ai Turchi, assestare un colpo decisivo all'inviso Bedmar (45). Tesi così nette e radicali accendono il dibattito storiografico: il Chiarelli denuncia l'"esaltazione" e il "tono apologetico" di Luzio e, confutando la fantasiosa tesi di Serafino Riva che la congiura sia stata niente meno che un complotto di nobili veneziani, d'accordo con Sarpi e Wotton, per introdurre la Riforma a Venezia e liberare l'Italia dal dominio spagnolo, ribadisce almeno la "responsabilità spirituale" di Bedmar che ha avvelenato l'ambiente veneziano (46); ancora una volta certo della congiura si mostra il de Rubertis, riprendendo analoghe convinzioni del Battistella, che presta intera fede alle fonti veneziane (47).
La questione ha forse trovato una sistemazione conclusiva grazie alle ricerche di Giorgio Spini a Simancas; Bedmar, egli sostiene, è un passionale, ingenuo, imprudente nel parlare, ossessionato dall'idea fissa di una guerra punitiva contro Savoia e Venezia, che organizza a Venezia un'imponente rete spionistica, alimentando un clima di sospetto contro di sé e gli Spagnoli tutti, finché non gli esplode tra le mani il "caso Badoer": "dall'affare Badoer nasceva così negli ambienti veneziani la leggenda di una trama infernale degli Spagnoli contro la Serenissima [...> nasceva in altre parole la leggenda della congiura spagnola del 1618" (48). Venezia, "universale Mecca di avventurieri e di gabbamondo", si sente davvero minacciata nella sua sicurezza dalla campagna navale dell'Ossuna in Adriatico e dai suoi progetti di prendere la città, ma ciononostante non prende sul serio il piano di Alessandro Spinosa e Jacques Pierre per lo sbarco di Uscocchi e l'incendio dell'Arsenale e della Zecca, del cui passaggio alla fase concreta non c'è alcuna traccia; Bedmar ha solo una partecipazione "vaga ed umbratile" ai maneggi di Jacques Pierre per un ammutinamento delle truppe olandesi al Lido e Ossuna per parte sua è ancora più freddo e distaccato da questi piani sconclusionati e irrealistici. E dunque se è falsa la "tesi di chi volle vedere in tutta la faccenda niente altro che una macchinazione dei Veneziani ai danni del Bedmar e della Spagna" o un tentativo di "coprire una vergognosa connivenza con i Turchi", è però chiaro "che di congiura spagnola contro Venezia non è possibile parlare in alcuna maniera, neppure nel senso più limitato di questa parola" e che "il romanzesco castello della così detta congiura si riduce alle gradassate ed alle chimere di una banda di furfanti": "inconsistente nei fatti, la congiura spagnola del 1618 esistette però realmente, da una parte nelle fanfaronate del Pierre e dei suoi commilitoni, dall'altra nella paura inveterata dei Veneziani, sempre in sospetto contro le manovre della Spagna e dei suoi ministri" (49). La conclusione di Spini è illuminante: "I Veneziani dovettero passare un momento di spavento bello e buono": questo è davvero un punto significativo, che trova riscontro nei fatti di quei giorni e nel clima di paura che continua a regnare in città negli anni successivi.
Ma cosa davvero succede nei sette giorni tra il 12 e il 18 maggio 1618 e poi nei mesi successivi in cui si va rapidamente creando il mito della congiura di Bedmar?
Progetti di prendere Venezia con un attacco a sorpresa dal mare, l'incendio dell'Arsenale e della Zecca, l'assalto al palazzo Ducale da parte di complici interni, sono più volte comparsi tra i ricordi presentati al consiglio dei dieci e agli inquisitori di stato: invenzione di qualche furbastro alla caccia di denaro pubblico oppure, in qualche caso, progetto davvero maturato nella mente di qualche avventuriero straniero e carpito da zelanti cittadini in incontri occasionali in osteria, albergo o nelle piazze? Di certo il corsaro Jacques Pierre, abbandonato, con o senza una preventiva intesa, il servizio del viceré di Napoli conte d'Ossuna, si trasferisce a Venezia e viene assunto, nonostante le perplessità di parecchi patrizi, nella flotta della Repubblica, dando come pegno della sua fedeltà preziose informazioni sui progetti anti-veneziani del suo ex padrone. Egli sottopone all'Ossuna e al Bedmar alcuni piani, alquanto avventurosi e fantastici, per un colpo di mano contro Venezia, fondato sull'ammutinamento delle milizie olandesi acquartierate al Lido, l'attacco combinato ai punti chiave della città, la presa del palazzo Ducale e il contemporaneo appoggio di truppe spagnole dalla parte di Milano, grazie anche all'occupazione per tradimento della fortezza di Crema. Di lì a qualche giorno, a congiura repressa, il Meschita, capo di un'agenzia di spionaggio spagnola, ridimensiona i progetti del Pierre: alcuni capi militari avrebbero semplicemente meditato di incendiare l'Arsenale e profittare del caos per svaligiare le case dei ricchi.
È probabile che Bedmar e Ossuna, pur secondando entro certi limiti il piano di Pierre, ma senza quell'intervento della flotta spagnola che solo può dare concrete prospettive di successo, si ripromettono comunque di dare una lezione a Venezia: in ogni caso la delazione di due complici, Baldassare Juven e Moncassin, consente agli inquisitori di stato, già sospettosi del Pierre e allertati dalle rivelazioni della spia doppia Bernardo Drusi, di sventare rapidamente la congiura. Pierre viene annegato direttamente in mare, altri complici sono arrestati, strangolati in prigione e appesi per un piede alle forche tra le due colonne di S. Marco, mentre anche il "trattato" contro Crema fallisce; le interessate asserzioni del Bedmar e dell'ambasciatore francese e il mito creato intorno a questa congiura amplificano a centinaia le vittime della repressione: in realtà si tratta di poche persone e il governo, passato il momento di panico e ottenuto con un'energica azione diplomatica a Madrid il ritiro dell'inviso Bedmar, si affretta a minimizzare l'affare. La paura di molti Veneziani in questi giorni è però reale e profonda: si collocano guardie un po' ovunque, un nobile ed un popolano coordinano la sorveglianza nelle contrade, si tengono d'occhio tutti i forestieri e solo il 26 ottobre si espone il SS. Sacramento nelle chiese, si recitano Te Deum e si tiene una processione per ringraziare Dio della scoperta del tradimento (50). Testimonianza eloquente del clima dei mesi successivi la scoperta della congiura è un episodio accaduto il 3 novembre, quando basta qualche grido di "Spagnoli!" per mettere in fuga il popolo e suscitare un tumulto in piazza: ancora il 20 dello stesso mese il palazzo Ducale, la Zecca e la torre dell'Orologio sono guardati notte e giorno.
Poveri noi! Che vegnirà i Spagnoli! è un proverbio che, assicura l'ambasciatore mediceo a Venezia, comincia ora a circolare tra il popolo (51), a sanzionare il permanente clima di paura e diffidenza che per vari anni regna nei confronti degli Spagnoli. Gli inquisitori di stato rafforzano i servizi segreti: tra il 1620 e il 1622 Gerolamo Vanni organizza un ramificato servizio informativo intorno e dentro la residenza dell'ambasciatore mentre spie d'ogni ceto sociale braccano gli Spagnoli e i loro seguaci in ogni angolo della città (52). Mai come in questi giorni piovono numerose nelle bocche di leone le denunce segrete contro i traditori al soldo della Spagna: facilmente si crede alle accuse contro Antonio Foscarini, vittima illustre di questo clima di sospetto e delazione che regna per qualche anno a Venezia. Del resto a tener deste le paure degli inquisitori di stato provvedono, negli anni seguenti, nuove rivelazioni su progettati colpi di mano contro Venezia: il 20 giugno 1630, ad esempio, fra Giuseppe da Messina segnala il piano di un certo don Giovanni Battista Fabio per sorprendere con vascelli armati Malamocco e S. Giorgio e di lì assaltare la Zecca e il palazzo Ducale (53) e nello stesso anno il medico dalmata Fasaneo, fattosi turco per alcune controversie sulla monacazione delle figlie, tiene in allarme le autorità col suo progetto di armare una flotta in Adriatico e consegnare agli Spagnoli alcune città delle Dalmazia (54).
Il mutamento di clima nella vita sociale e politica di Venezia nella seconda metà del '500 e nei primi decenni del '600 si coglie in numerosi aspetti, anche sul piano istituzionale. I tre inquisitori contro la propalazione dei pubblici segreti a partire dagli anni '80 diventano una magistratura fissa all'interno del consiglio dei dieci, tra il 1592 e 1596 prendono il nome di inquisitori di stato (55) e assumono ufficialmente il controllo della polizia politica: diventano ben presto il simbolo, rispettato e temuto, di un potere repressivo vigile e spietato, che agisce con prontezza e segretezza per sventare i tradimenti contro lo Stato, individuare i ribelli e nemici della patria, estirpare i perturbatori della quiete pubblica. Il loro potere e la loro competenza crescono progressivamente nel corso del '600 nell'ambito di una concezione della sicurezza pubblica sempre più ampia e sfuggente che abbraccia la società tutta, sin nella sfera privata.
Il loro mito ingigantisce, grazie anche agli stessi Veneziani, spesso fieri di esaltarne la tremenda efficienza agli occhi degli stranieri: nel '700 affiorano critiche e opposizioni alla loro arbitraria onnipotenza e la critica illuministica, riflessa anche in numerosi appunti di viaggiatori, sbocca nei feroci attacchi dell'età giacobina, che consegna alla fantasia degli scrittori romantici dell'800 l'"anti-mito" di una Venezia seicentesca e settecentesca in balia di tre onnipotenti triunviri, padroni della vita dei cittadini con i tremendi strumenti delle spie, dei sicari, dei veleni, dei Piombi.
La Venezia seicentesca non è certo quella immaginata da Arrigo Boito nella Gioconda, uno Stato ove il doge è "un vecchio scheletro coll'acidaro in testa; sovr'esso il Gran Consiglio, la Signoria funesta; sovra la Signoria, più possente di tutti, un re: la spia" (56), ma è pur vero che tra la fine del '500 e la metà del '600 gli inquisitori di stato perfezionano un imponente apparato spionistico che resiste, nonostante la decadenza economico-politica, anche nel '700. Se nel '400 e nella prima metà del '500 il consiglio dei dieci ha curato, con ingente spiegamento di uomini e mezzi, un servizio segreto prevalentemente orientato all'estero, in particolare in quel Levante ove preminenti sono gli interessi politico-militari della Repubblica, ora gli inquisitori di stato rivolgono particolari cure all'interno: stipendiano in gran numero confidenti di tutti i ceti sociali per spiare il comportamento politico, ma anche sociale e morale, di patrizi, plebei, forestieri, ecclesiastici, fanno largo uso dei ricordi e delle denunce segrete, infilate nelle bocche di leone o recapitate direttamente alla "bussola" del loro ufficio in palazzo Ducale, assoldano sicari per eliminare col veleno o altri mezzi traditori, spie, disertori, continuando una prassi già largamente collaudata nel '400, il secolo d'oro dell'assassinio politico, a Venezia come nel resto d'Italia. Benché molti documenti degli inquisitori siano andati perduti resta imponente la serie di assassini, tentati o effettivamente perpetrati, dai servizi segreti veneziani sotto la diretta supervisione degli inquisitori.
Crescono la paura e l'inquietudine e dunque si rafforza nella classe dirigente l'aspirazione all'ideale di una vita sociale pacifica e ordinata, senza scosse o turbamenti: nel 1566 e poi nel 1569, 1578, 1619 il consiglio dei dieci elegge tre provveditori sopra il quieto e pacifico vivere della città, il 20 luglio 1617 sono nominati i capi di contrada sopra il pacifico viver. Il buon cittadino deve vivere "quieto", evitare disordini, non interessarsi di politica; si diffida perciò dei gruppi, delle "sette", anche di 5-6 persone: il 27 febbraio 1568 si vietano i ridotti, il 2 dicembre 1568, quando ormai la proibizione è caduta in dimenticanza, gli esecutori alla bestemmia sono incaricati di tener almeno nota di quelli esistenti, che sono poi nuovamente vietati il 29 dicembre 1628. Il ripetersi di casi di rivelazione di segreti di stato a favore di potenze straniere e la constatazione che alcune ambasciate, in particolare quella di Spagna, hanno organizzato a Venezia una capillare rete spionistica capace di arrivare al cuore delle più esclusive magistrature dello Stato, inducono il senato ed il consiglio dei dieci a inasprire le vecchie disposizioni che vietano tassativamente ai nobili qualsiasi contatto coi diplomatici stranieri accreditati a Venezia: almeno negli anni seguenti la congiura di Bedmar il divieto è applicato con tale rigore da costringere gli ambasciatori, le loro famiglie e i loro funzionari a vivere in un vero e proprio isolamento fisico-sociale (come "appestati", sbotta risentito uno di loro).
Non solo i diplomatici ma anche i forestieri in genere, sempre numerosi in una città come Venezia meta già allora di mercanti, spie, avventurieri, nobili e uomini colti in viaggio per il Grand Tour italiano, vengono visti con crescente sospetto, soprattutto in concomitanza con i più clamorosi casi di spionaggio e tradimento. Cominciano a fioccare le restrizioni: dal 1524 è genericamente illecito far compagnia con forestieri, il 3 settembre 1545 il consiglio dei dieci istituisce l'obbligo di un "bollettino" e di un registro per tutti gli alloggi della città e il 27 settembre 1569, dopo l'incendio dell'Arsenale, riserva ai sudditi il permesso di tenere "albergarie" (57). Il 13 gennaio 1583, constatata la scarsa applicazione delle precedenti disposizioni, lo stesso consiglio giunge ad un provvedimento più radicale: ogni individuo "di aliena dition" ha l'obbligo, al suo arrivo in città, di farsi annotare in un registro degli esecutori contro la bestemmia e di esibire ad osti ed albergatori un apposito "bollettino" da essi rilasciato (58). I forestieri sono anche oggetto delle crescenti attenzioni dei confidenti degli inquisitori, alcuni dei quali bazzicano in permanenza intorno agli approdi delle barche provenienti da Chioggia e Mestre, nei principali alberghi, a Rialto, in piazza S. Marco (59) e spesso ottengono notizie riservate allungando qualche mancia a facchini e gondolieri o direttamente ai servi degli ospiti più illustri.
Passata la "grande paura" del 1618 e degli anni immediatamente successivi il clima di sospetto e di diffidenza si va gradatamente allentando, anche se ormai lo stretto controllo degli inquisitori di stato sulla sicurezza e l'ordine pubblico non viene più meno. Venezia non diventa quel cupo e dispotico "stato di polizia" dipinto da illuministi e democratici del 1797, ma è certo una città in cui la vigilanza del governo sul comportamento politico dei cittadini, nobili e non, dispone di mezzi continui, capillari e perciò efficaci: la paura del tradimento, che regna così a lungo tra '500 e '600, lascia una traccia permanente nelle istituzioni e nella vita civile e come un'"onda lunga", sia pure sempre più smorzata, si proietta sino ai più tranquilli anni del secondo '600 e del '700.
1. Jean Delumeau, La paura in Occidente (secoli XIV-XVIII), Torino 1979, in part. pp. 8, 36-37, 53, 353-388.
2. Traggo queste notizie sulle calamità naturali e i più eccezionali eventi atmosferici a Venezia nel '500 e '600 dalle cronologie posposte ai volumi: AA.VV., La civiltà veneziana del Rinascimento, Firenze 1958 e AA.VV., La civiltà veneziana nell'età barocca, Firenze 1959.
3. Un'analisi dettagliata delle polemiche sulla cometa del 1577 in Clarisse D. Hellman, A Bibliography of Tracts and Treatises on the Comet of 1577, "Isis", 22, 1934-35, pp. 41-68, Paolo Ulvioni, Astrologia, astronomia e medicina nella Repubblica Veneta tra Cinque e Seicento, "Studi Trentini di Scienze Storiche", 61, nr. 1, 1982, pp. 1-69 e Paolo Preto,
Le grandi aure di Venezia nel secondo '500: le paure naturali (peste, carestie, incendi, terremoti), in Crisi e rinnovamenti nell'autunno del Rinascimento a Venezia, a cura di Vittore Branca - Carlo Ossola, Firenze 1991, pp. 193-204.
4. Discorso sopra gli accidenti del parto mostruoso nato da una hebrea in Venetia nell'anno 1575 adi XXVI di maggio, s.l., s.d. (ma giugno 1575), in Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Misc. 1836.5; Nova et ridicolosa espositione del mostro nato in Ghetto. Con il lamento di suo padre per la morte di quello; et quello vogli pronosticare agli hebrei non lo havendo potuto circoncidere, Venetia 1575, ivi, Misc. 2088.48.
5. Paolo Preto, Peste e società a Venezia nel 1576, Vicenza 1978; Id., La società veneta e le grandi epidemie di peste, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/II, Il Seicento, Vicenza 1984, pp. 377-406; AA.VV., Venezia e la peste. 1348-1797, catalogo della mostra, Venezia 1979; Paolo Preto, Epidemia paura e politica nell'Italia moderna, Bari 1987; Paolo Ulvioni, Il gran castigo di Dio. Carestie ed epidemie a Venezia e nella terraferma, Milano 1989.
6. Tommaso Rangone, De vita hominis ultra CXX annos protrahenda, Venetiis 1553; Id., Come l'huomo può vivere più de CXX anni, Venetia 1556; Id., De vita Venetorum semper commoda. Consilium ad serenissimum Hieronymum Priolum Venetiarum etc. ducem, Venetiis 1565; Id., Consiglio [...> come i Venetiani possano vivere sempre sani, Vinegia 1565.
7. Ivo Striedinger, Der Goldmacher Marco Bragadin, München 1928; Hatto Kallfelz, Bragadin, Marco, in Dizionario Biografico degli Italiani, XIII, Roma 1971, pp. 691-694.
8. Compendio di me Francesco Molino de m. Marco dele cose reputerò degne di tenerne particolar memoria et che succederanno in mio tempo si della Repubblica Venetiana e di Venetia mia Patria come anco della spetial mia persona, in Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 553 (= 8812), cc. 12-13; [Anonimo>, Fondo Gradenigo Dolfin, in Venezia, Museo Correr, ms. 193, II, cc. 147r-149v.
9. A.S.V., Senato Mar, reg. 39, c. 57v; Consiglio dei dieci, parti secrete, reg. 9, cc. 48, 63-64, 158r; Senato, dispacci Milano, b. 16, 27 marzo 1570; Samuele Romanin, Storia documentata di Venezia, I-X, Venezia 1853-61: VI, pp. 267-270; Carlo Tosi, Dell'incendio dell'Arsenale di Venezia nel 1569. Due nuovi documenti, Firenze 1905; Nunziature di Venezia, IX, (26 marzo 1569-21 maggio 1571), a cura di Aldo Stella, Roma 1982, pp. 126-127; Federico Seneca, L'incendio dell'Arsenale di Venezia (1569) in una lettera di Leonardo Donà, in AA.VV., Studi forogiuliesi in onore di C.G. Mor, Udine 1983, pp. 185-196; P. Preto, Le grandi paure di Venezia, pp. 189-191.
10. A.S.V., Consiglio dei dieci, parti criminali, reg. 12, cc. 115r, 124v; Lettera intorno al palazzo Ducale e descrizione dell'incendio del 1577, pubblicate da Francesco Sansovino e riprodotte con illustrazioni dal dott. Pietro Bettio bibliotecario della Marciana, Venezia 1829; Compendio di me Francesco Molino, in S. Romanin, Storia documentata, VI, pp. 246-249 e anche in Incendio del palazzo ducale di Venezia nel 20 dicembre 1577, "Emporeo artistico-letterario ossia raccolta di amene letture, novità, aneddoti e cognizioni utili in generale con disegni intercalati al testo", 1846, pp. 324-333.
11. Brian Pullan, Rich and Poor in Renaissance Venice. The Social Institution of a Catholic State to 1620, Oxford 1971 (trad. it. La politica sociale della Repubblica di Venezia, Roma 1982); Id., The Famine in Venice and the New Poor Law, 1527-29, "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 5-6, 1963-64, pp. 141-202; P. Ulvioni, Il gran castigo di Dio.
12. Claudio Povolo, Aspetti e problemi dell'amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia. Secoli XVI-XVII, in Stato società giustizia nella Repubblica Veneta (sec. XV-XVIII), a cura di Gaetano Cozzi, I, Roma 1980, pp. 153-258; Id., Nella spirale della violenza. Cronologia, intensità e diffusione del banditismo nella terraferma veneta (1550-1610), in Bande armate, banditi, banditismo e repressione di giustizia negli stati di antico regime, a cura di Gherardo Ortalli, Roma 1986, pp. 21-51.
13. Renzo Derosas, Moralità e giustizia a Venezia nel '500-'600. Gli esecutori contro la bestemmia, in Stato società giustizia nella Repubblica Veneta (sec. XV-XVIII), a cura di Gaetano Cozzi, I, Roma 1980, pp. 433-528, in partic. pp. 444 e 448.
14. Girolamo Priuli, I diarii, in R.I.S.2, XXIV, 3, vol. II, a cura di Roberto Cessi, 1933-37, pp. 271-272, 394-395.
15. Paolo Preto, Venezia e i Turchi, Firenze 1975.
16. Ibid., pp. 36-53, 55-59.
17. Id., La guerra segreta: spionaggio, sabotaggi, attentati, in AA.VV., Venezia e la difesa del Levante. Da Lepanto a Candia 1570-1670, Venezia 1986, pp. 79-85, 93-96.
18. A.S.V., Consiglio dei dieci, parti secrete, reg. 11, cc. 7, 9, 32-36, 101-103; Vladimir Lamanskii, Secrets d'état de Venise, I, New York 1968 (ristampa), pp. 90-97; Paolo Preto, Un infortunio professionale di Melchiorre Guilandino, direttore dell'Orto Botanico di Padova, "Quaderni per la Storia dell'Università di Padova", 22-23, 1989-90, pp. 233-236.
19. A.S.V., Quarantia criminal, bb. 94, nn. 33 e 34, 99, n. 49, 108, n. 104, 111, n. 124; Miscellanea Gregolin, b. 1; P. Preto, La guerra segreta.
20. Alberto Tenenti, Venezia e i corsari, Bari 1961, pp. 117-118.
21. Donald E. Queller, Il patriziato veneziano. La realtà contro il mito, Roma 1987, pp. 365-382; sulla "paura del tradimento" v. ora P. Preto, Le grandi paure di Venezia nel secondo '500, pp. 193-204.
22. A.S.V., Consiglio dei dieci, parti secrete, reg. 5, cc. 73r-74v, 76r-77v, 79; parti criminali, reg. 5, cc. 163r- 174r; Successi de secretarii del Conseglio de Dieci et de Pregadi che rivelorono li secreti al Signor Turco l'anno 1542, in Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 2579 (= 12471); S. Romanin, Storia documentata, VI, pp. 44-47; Lettere di negozi del pieno Cinquecento, scelte ed annotate da Benedetto Nicolini, Bologna 1965, pp. 17-36, 170-177.
23. A.S.V., Consiglio dei dieci, parti criminali, reg. 8, cc. 24v-27r.
24. Ibid., reg. 9, cc. 103v-104r, 110r.
25. Ibid., reg. 15, cc. 48-49, 53r.
26. Augusto Tormene, Il bailaggio a Costantinopoli di Girolamo Lippomano e la sua tragica fine, "Nuovo Archivio Veneto", 3, t. VI, pt. I, 1903, pp. 375-431; 4, t. VII, pt. I, 1904, pp. 66-125; pt. II pp. 288-333; t. VIII, pt. I, pp. 127-161.
27. Le delibere relative all'affare Lippomano dell'anno 1591 sono infatti trascritte in A.S.V., nel reg. 13 delle parti secrete (1595), cc. 126 e ss.
28. Ivi, Consiglio dei dieci, parti criminali, reg. 20, cc. 32v-33v.
29. Rinaldo Fulin, Studi nell'archivio degli Inquisitori di stato. Angelo Badoer, Venezia 1868, pp. 1-61; Giorgio Spini, La congiura degli Spagnoli contro Venezia del 1618, "Archivio Storico Italiano", 107, 1949, pp. 20-29 (pp. 16-53); Gaetano Cozzi, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi del Seicento, Venezia-Roma 1958, pp. 78, 117, 124-127, 136; Franco Gaeta, Badoer, Angelo, in Dizionario Biografico degli Italiani, V, Roma 1963, pp. 99-101.
30. A.S.V., Inquisitori di stato, bb. 542 e 610; Consiglio dei dieci, parti secrete, reg. 16, c. 34.
31. Sandra Secchi, Antonio Foscarini. Un patrizio veneziano del '600, Firenze 1969.
32. La maggior parte dei ricordi con valenza politica si trovano in A.S.V., Capi del consiglio dei dieci, Raccordi o denunzie, bb. 1-3; Raccordi 1588, 1592, 1593, reg. 1 (unico); Ricordi o raccordi 1480-1739, b. 1 (unica); Ricordi, b. 1 (senza data ma seconda metà del XVI secolo) e in Consiglio dei dieci, parti secrete, registri e filze; qualcuno relativo a trattati e tradimenti si trova anche, in mezzo ai numerosissimi in materia finanziaria o di privilegi industriali, in ivi, Senato Terra; Savi ed esecutori alle acque; Deputati e aggiunti all'esenzione del denaro pubblico.
33. Ivi, Capi del consiglio dei dieci, Ricordi o raccordi 1480-1739, b. 1, 23 dicembre 1577.
34. Georges Lefebvre, La grande paura del 1789, Torino 1953.
35. Simancas, Archivo general, Papeles de estado, Venecia (siglos XV-XVIII), legajos 1928, 1929, 1930. Notizie sullo spionaggio spagnolo a Venezia, prima e dopo questi anni cruciali, sono frequenti nei dispacci delle altre filze della serie; cf. il mio imminente volume I servizi segreti di Venezia, in corso di stampa e Lamberto Chiarelli, Il marchese di Bedmar e i suoi confidenti come risultano dalla corrispondenza segreta del "novellista" Alessandro Granzini con gli Inquisitori di stato a Venezia, "Archivio Veneto-Tridentino", 8, 1925, pp. 144-173.
36. A.S.V., Inquisitori di stato, bb. 606-610, 636, 1213.
37. Battista Nani, Historia della Repubblica Veneta, in Degl'historici delle cose veneziane i quali hanno scritto per pubblico decreto, VIII, Venezia 1720, pp. 168-171; Pietro Giovanni Capriata, Historia di tutti i movimenti d'arme successi in Italia del 1613 al 1634, VI, Genova 1641, pp. 510 e ss. (nell'ediz. di Bologna 1639, pp. 318-319); César Vichard [Abbé de Saint-Réal>, Conjuration des Espagnols contre la République de Venise en l'année MDCXVIII, Paris 1674 (ristampe successive 1682, 1781, 1802, 1803, 1835; trad. it. Colonia 1681 e, recente, di Pietro Rapisarda, Palermo 1986).
38. N. de Chambrier, De la conjuration des Espagnols contre la République de Venise, "Mémoires de l'Académie de Berlin, Classe des Belles Lettres", 101, 1801; Pierre Daru, Histoire de la Republique de Venise, IV, Paris 1819, pp. 313-461 (trad. it. di Aurelio Bianchi Giovini, Capolago 1837).
39. Venezia salvata, ossia una congiura scoperta, recata in versi italiani da Michele Leoni, Firenze 1817; Venezia salvata, interpretazione storica e versione di Serafino Riva, Venezia 1935.
40. Trad. italiana di Pietro Andolfati, in Teatro moderno, 11, Roma 1803, rist. Livorno 1827.
41. In Florilegio drammatico, VIII, Milano 1857, fascicoli 347-348.
42. Una documentazione della fama di questa congiura è anche, ricorda Spini, il romanzo di avventure spagnolo Lamentarios del desengañado, o sea vida de d. Diego duque de Estrada, escrita por el mismo, in Memorial histórico español, XII, a cura di P. de Gayangos, da un ms. in Madrid, Biblioteca Nacional.
43. Leopold von Ranke, Über die Verschwörung gegen Venedig im Jahre 1618, Berlin 1831 (trad. it. Storia critica della congiura contro Venezia nel 1618 tratta da documenti originali e finora sconosciuti, Capolago 1834).
44. S. Romanin, Storia documentata, VII, pp. 112-160; Italo Raulich, La congiura spagnola contro Venezia (contributo di documenti inediti), "Nuovo Archivio Veneto", 3, t. VI, pt. I, 1883, pp. 5-86; Id., Una relazione del marchese di Bedmar sui Veneziani, "Nuovo Archivio Veneto", 8, t. XVI, pt. I, 1898, pp. 5-32; Amelia Zambler, Contributo alla storia della congiura spagnola contro Venezia (Studio sull'Archivio degli Inquisitori di stato), "Nuovo Archivio Veneto", 11, 1896, pp. 15-121.
45. Alessandro Luzio, La congiura spagnola contro Venezia nel 1618 secondo i documenti dell'Archivio Gonzaga, "Miscellanea di Storia Veneta, edita per cura della R. Deputazione di Storia Patria per le Venezie", ser. III, 13, 1918.
46. L. Chiarelli, Il marchese di Bedmar, pp. 144-173; Id., Tradizione e fantasia intorno alla "congiura di Bedmar", "Archivio Veneto", ser. V, 18, 1936, pp. 218-233.
47. Achille de Rubertis, La congiura spagnola contro Venezia nel 1618, secondo i documenti dell'Archivio di stato di Firenze, "Archivio Storico Italiano", 105, 1947, pp. 11-49, 153-167; Antonio Battistella, La congiura spagnola contro Venezia nel 1618 secondo i documenti dell'Archivio Gonzaga di Alessandro Luzio, "Atti del R. Ist. Veneto di Scienze, Lettere ed Arte", 78, 1918-19, pp. 413-430; Id., Ancora qualche cenno sulla congiura spagnola del 1618 contro la Repubblica di Venezia, ibid., 82, 1922-23, pp. 1007-1014.
48. G. Spini, La congiura, pp. 21, 25, 27-28; Id., La congiura degli spagnoli contro Venezia nel 1618, "Archivio Storico Italiano", 108, 1950, pp. 159-174.
49. Ibid., pp. 33-34, 36-37, 47, 161, 164, 166-168, 170-172.
50. S. Romanin, Storia documentata, VII, p. 104; A. Luzio, La congiura spagnola, pp. 176-177.
51. Firenze, Archivio di Stato, Mediceo del Principato, 3006, 3, 7 novembre 1618, 12 settembre 1620.
52. A.S.V., Inquisitori di stato, bb. 605, 609, 610, 628-633, 636, 1213, 1214.
53. Ibid., b. 605, riferte di fra Giuseppe da Messina.
54. Ivi, Senato, deliberazioni Costantinopoli, reg. 19, parte II, cc. 60-61, 83-86, 93, 100, 103, reg. 20, cc. 19, 38-39, 44, 50, 60, 88, 94-96, 102, 107, reg. 21, c. 11, e inoltre regg. 23, 24, 40, passim; Inquisitori di stato, dispacci dai baili a Costantinopoli, bb. 417, 418, 419, dispacci vari; P. Preto, Venezia e i Turchi, pp. 206-207.
55. Il Ranke indica il 1592 e il 9 marzo 1595 (Venezia nel Cinquecento, con un saggio introduttivo di Ugo Tucci, Roma 1974, p. 195), Romanin invece segnala il 29 giugno 1596 (Storia documentata, VI, p. 88).
56. Arrigo Boito, La Gioconda, musica di Amilcare Ponchielli, atto primo, scena ottava (prima rappresentazione Milano 8 aprile 1876).
57. A.S.V., Consiglio dei dieci, parti comuni, regg. 29 e 64, passim; Senato Terra, reg. 50, citato in R. Derosas, Moralità, p. 452.
58. A.S.V., Consiglio dei dieci, parti comuni, reg. 37 citato in R. Derosas, Moralità, pp. 450-452.
59. In una delle prime riferte dei confidenti conservatesi dal grande naufragio dell'archivio degli Inquisitori di stato troviamo, proprio nel 1621, l'incarico affidato a Giovanni Paolo Ferrari di frequentare nobili e stranieri che stanno a Rialto (Inquisitori di stato, b. 597).