Le poleis greche di Magna Grecia e Sicilia: una storia che ci riguarda
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Una volta fondate, le città greche di Sicilia e Magna Grecia recitano da protagoniste nella storia dei territori colonizzati, nel rapporto a volte conflittuale, ma comunque proficuo con altre realtà culturali, nella speciale interpretazione di sviluppi politici che interessarono anche la madrepatria, nell’attivarsi di dinamiche innovative, percepibili, in alcune aree almeno, fino e oltre la prima guerra punica. Tanto da partecipare anch’esse attraverso memorie storiche e monumenti alla definizione della nuova Italia.
La storia delle città greche fondate in Italia ci riguarda molto da vicino, non c’è dubbio. Ci riguarda perché i Greci qui giunti a partire dall’VIII secolo hanno costituito un ingrediente essenziale nel progressivo farsi di un’identità che non ha potuto né voluto prescindere da essi anche quando si è avviato e concluso il processo unificante sotto il dominio di Roma.
Tra l’età arcaica e l’età classica la geografia umana dell’Italia meridionale e della Sicilia è molteplice e varia; non solo: essa cambia con l’attuarsi di dinamiche storiche complesse che fanno di questa vasta regione una declinazione sotto molti aspetti particolare, e particolarmente vitale, nella storia del Mediterraneo colonizzato dai Greci. Solo un assunto pregiudiziale, invero ormai superato dalla critica, guarda a questa come a grecità periferica e dunque in qualche modo deteriore rispetto alla presunta purezza delle città della madrepatria. Proprio nel contatto più o meno amichevole con le realtà etnicamente diverse essa ha invece trovato motivo di cambiamento, se non di maturazione, costituendo insieme a esse capitoli nuovi nella storia “d’Italia”.
Il primo, e forse più arduo, elemento è costituito dalle popolazioni indigene, come tali preesistenti all’arrivo dei Greci. Senza voler entrare qui nel dibattuto e forse irrisolvibile problema dell’etnogenesi della penisola e della Sicilia, resta che anche in Italia l’inizio dell’età del Ferro – e con essa la colonizzazione – segna un passaggio essenziale non solo nella cultura materiale, ma anche nelle modalità di popolamento. Ora, difficile dire cosa viene prima e cosa dopo, e, soprattutto, scandire la catena delle cause; sta di fatto che è proprio con l’VIII secolo e dunque con l’avviarsi dei processi insediativi da parte dei Greci che si colgono segni di cambiamento nel popolamento “originario”, da leggersi facilmente come reazione ai meccanismi avviati dall’innesto ellenico in grande stile (grande rispetto ai numeri di allora). Una carta dell’Italia preromana potrebbe mostrare quanti colori e popoli (ethne) vi fossero; certo, non va dimenticato che di essi spesso ricostruiamo nome e localizzazione a partire da una geografia greca che in questi popoli ha voluto riconoscere scansioni o differenze (di origine, di cultura, di nomoi), lì dove la cultura materiale mostra un panorama assai più sfumato e non sempre evidente. Anche la lingua, sensore più di altri oggettivo nel riconoscere gruppi culturalmente diversi, è scritta in alfabeti mutuati e derivati da quello greco (quello latino compreso), rendendo non sempre agevole l’esatta localizzazione sul territorio.
Non basta: svolgono un ruolo di rilievo e per più versi decisivo gli Etruschi che pur stanziati nelle lontane terre dell’attuale Toscana incrociano le vicende dei Greci anche in luoghi sorprendenti (l’alto Adriatico di Spina e Adria, per esempio), facendosi ovunque mediatori importanti di modelli e valori propri del mondo ellenico. I Fenici, infine, che insediati stabilmente in Sardegna e in Sicilia occidentale, si fanno progressivamente promotori e interpreti delle ambizioni cartaginesi nei mari e nelle terre d’Italia.
Difficile e forse improprio, dunque, parlare di grecità occidentale come entità statica e sempre uguale a se stessa, là dove sin dalle prime generazioni coloniali essa ha mostrato capacità di innovare e di cambiare, di interpretare cioè il bagaglio metropolitano alla luce degli stimoli della terra straniera. E questo non si verifica solo al momento dei primi insediamenti, ma matura con il maturare delle molteplici esperienze storiche delle colonie che, al pari delle città di Grecia propria, vivono un’ampia gamma di esperienze politiche e sociali pur sotto la peculiare angolatura occidentale.
Anche le colonie di Magna Grecia e Sicilia conoscono le lacerazioni della conflittualità interna che produce non solo staseis (“conflitti interni”) e violenza, ma anche dinamismo sociale, vitale tutte le volte che sa trasformare, integrandole, le molte componenti della città, compresi quegli elementi anellenici che costituiscono imprescindibile serbatoio non solo di forza-lavoro e di donne, ma anche di risorse materiali e non. In maniera leggermente attardata rispetto alle madrepatrie e meglio documentata in Sicilia che in Italia, anche queste poleis conoscono così la tirannide, assunta con la forza da personaggi spesso di estrazione aristocratica che giocano le proprie carte pensando in grande.
In queste città arrivano artisti, poeti, filosofi; queste città sono ricche, popolose, in crescita costante e spesso proprio sotto i tiranni si dotano di quei complessi monumentali che fanno dell’arte greca occidentale (architettura, scultura, coroplastica) una variante non periferica delle espressioni artistiche metropolitane.
Queste poleis hanno soprattutto grandi ambizioni di espansione per mare e per terra: gli Emmenidi di Agrigento puntano a nord, verso l’interno sicano e la costa settentrionale dell’isola, dove contano di mettersi in contatto diretto con i mercati tirrenici controllati dagli Etruschi; i Dinomenidi costruiscono la propria forza tra Gela e Siracusa e procedono con una spregiudicata strategia che mira al controllo sulle città greche di matrice calcidese e sui Siculi; le città dello Stretto si contendono egemonia e controllo di un passaggio vitale nell’equilibrio delle forze tra isola e continente. Le carte si confondono cento volte e quando, nel fatale 480 a.C., la coalizione greca guidata da Gelone di Siracusa vince sui Cartaginesi (e le alleate Reggio e Selinunte) non è solo, come vorranno i posteri, la vittoria dei Greci sui barbari (duplicata di lì a poco da Ierone contro gli Etruschi a Cuma), ma anche e forse soprattutto la superiorità di alcune colonie sulle altre, la sanzione definitiva dell’egemonia di Siracusa nei decenni a venire.
Per certi versi in Magna Grecia gli esperimenti sono ancora più originali: c’è un uomo che arriva dall’Oriente, Pitagora. Nella seconda metà del VI secolo la grande Crotone accoglie il sapiente e da lì ha inizio una vicenda che, lungi dall’essere solo crotoniate, coinvolge numerose altre poleis, Metaponto in primis, generando una sorta di rinnovamento politico che declina l’identità aristocratica tipica di queste comunità secondo le prescrizioni severe di un pensiero che è anche stile di vita e che come tale attrae, assorbendole, anche le componenti indigene. Il pitagorismo in Magna Grecia diventa così lievito della trasformazione politica, soprattutto per il crollo dei poteri più tradizionali, quale quello dell’achea Sibari, caduta nel 510 a.C. proprio per mano crotoniate.
La fine di Sibari è un evento spartiacque non solo dal punto di vista delle traballanti cronologie della storia arcaica, ma anche sulla lunga distanza di una complessiva dinamica territoriale. I profughi alla ricerca di una possibile patria, un vuoto da riempire: anche queste sono le premesse dell’ambizioso progetto pericleo che sfocia, nel 444 a.C., nella fondazione di Thurii, colonia panellenica. Anche in questo caso il panellenismo rimane più utopia che concretezza, ma gli anni Quaranta del V secolo segnano comunque l’avvio, o l’incremento, della politica ateniese in Occidente. Il tema è molto dibattuto; basti qui dire, con il linguaggio di Tucidide che ha dedicato a questa Atene pagine memorabili, che inevitabile fu non solo la guerra con Sparta, ma anche l’aprirsi per Atene delle prospettive occidentali, prima con missioni esplorative o limitate per forze e obiettivi (negli anni Trenta e Venti) e poi con la grande spedizione del 415-413 a.C. Qui la storia del Mediterraneo si salda nel segno di una grande ambizione – coltivata da Alcibiade – e di una tremenda disfatta, con la morte o la prigionia di tutti gli Ateniesi vinti. Non furono sufficienti le incerte alleanze con Leontini, Reggio e Segesta nel segno di una parentela inattuale e di ricchezze solo promesse: in fondo continuava a essere valido il principio orgogliosamente proclamato dal siracusano Ermocrate nel congresso di Gela del 424 a.C. – “la Sicilia ai Sicelioti” – a dire di un destino ancora tutto isolano, tutto coloniale. Strano paradosso: proprio nel V secolo, nel momento in cui giungono a compimento molti dei processi avviati nel periodo arcaico, il flusso quasi costante che aveva spostato uomini e cose dall’Egeo orientale verso Occidente sembra subire un brusco rallentamento o, piuttosto, un significativo cambiamento di segno. Non erano più i tempi della colonizzazione di vecchio stampo; altro era il modo di concepire modi e funzioni degli spostamenti di consistenti gruppi di uomini. Il mondo stava diventando (troppo) piccolo e le modalità innovative, per quanto violente, messe in atto dall’impero ateniese l’avevano drammaticamente dimostrato.
Mentre Atene arretrava, un’altra grande potenza si faceva di nuovo avanti in Sicilia; e forse la coincidenza non fu casuale. Proprio alla fine del V secolo, infatti, Cartagine dopo la lunga pausa seguita alla sconfitta di Imera torna in grande stile nell’isola, con il solito pretesto di aiutare una città amica e poi, in breve tempo, con altre e più strutturate intenzioni.
Proprio sui progetti di Cartagine si gioca la storia della Sicilia nel IV secolo a.C., fino a quando Siracusa passa il testimone a Roma, che conduce la partita con la presenza punica nel Mediterraneo disponendo di ben altri mezzi e prospettive.
Sulla paura del nemico fa leva anche Dionisio, bravo comandante (a lui si deve l’introduzione massiccia nell’esercito di mercenari e di poderose macchine da guerra) e politico acuto, quando nel 406 viene scelto come “stratego con pieni poteri” per fonteggiare i Cartaginesi che, sbarcati nell’isola pochi anni prima, avevano già abbattuto Selinunte, Imera e Agrigento, cioè le più importanti colonie della grecità isolana. Il potere di Dionisio ha molti nomi – dynasteia, tirannide, strategia –, attraversa quarant’anni, annuncia un mondo nuovo. Il motivo antipunico rimane costante, ma nei fatti non sa andare oltre la spartizione dell’isola tra le due potenze: di là, nella parte occidentale, l’eparchia punica, di qua le città greche sotto l’egemonia di Siracusa; ma il modo spregiudicato con cui questa egemonia acquista le sembianze di un potere territoriale in cui le identità cittadine vengono sacrificate alla supremazia della “capitale” già annuncia le grandi novità dell’ellenismo. Non solo: Dionisio immagina un potere transmarino, cerca di andare oltre: oltre lo Stretto anche grazie al patto di ferro con la città amica Locri Epizefirii per unificare sotto il suo nome le città greche di Italia che proprio contro di lui e i Lucani si riuniscono in lega; oltre il limite superiore della grecità in Italia, fino a depredare il santuario di Pyrgi; oltre l’Adriatico, fino a fondare remote colonie sulla costa dalmata. Quasi una prefigurazione di ben altre diabaseis (“traversate”) che avrebbero fatto Roma padrona della Grecia.
Morendo, il tiranno lascia una difficile eredità mal gestita dal figlio Dionisio II e dal cognato Dione: anni spesi in feroci lotte politiche e in utopie inefficaci che in qualche modo aprono la strada prima a Timoleonte e poi ad Agatocle. Timoleonte è per certi versi un uomo del passato, non solo perché viene mandato dalla lontana madrepatria Corinto per risolvere le questioni interne alla colonia, ma soprattutto per tutte le parole sbandierate per risolvere in un sol colpo la lotta contro Cartagine e contro la tirannide: accordo, ricolonizzazione, alleanza militare tra le città greche, libertà.
Ma nonostante la vittoria del Crimiso, la Sicilia resta comunque divisa in due; e nonostante i tentativi di riforma, Siracusa resta così tormentata da lasciare spazio all’ascesa di un uomo nuovo, figlio di vasaio e grande soldato, Agatocle. Anche il potere di Agatocle cavalca capacità militare e slogan antibarbarici, ma egli osa di più, portando flotta ed esercito sul terreno stesso del nemico, in Africa, donde però torna sostanzialmente sconfitto, e giungendo a controllare Corcira, isola che torna a svolgere un ruolo chiave tra Oriente e Occidente pur nell’inedita veste di dote per la figlia del tiranno; il quale nel frattempo è diventato basileus, allineandosi a tutti diadochi che nel 306 a.C., uno dopo l’altro, si fregiano di un titolo dai molti echi e dai molti onori, inaugurando l’ellenismo dei regni.
L’Occidente greco, però, non ha nel suo destino un regno, ma la repubblica romana che nel frattempo si è già affacciata in quella che era stata Magna Grecia, martoriata dall’aggressività delle popolazioni locali, Lucani e Sanniti. Anche dopo la morte di Dionisio, la lega italiota continua a svolgere un ruolo attivo soprattutto per dar forza a un elemento greco sempre più in declino.
Anche in Italia si guarda alla Grecia metropolitana: Taranto, nel frattempo diventata città egemone della lega, nella seconda metà del IV secolo chiede aiuto prima ad Archidamo spartano, poi ad Alessandro il Molosso e poi – ma siamo già nel 280 a.C. – all’epirota Pirro, a partire dal quale la storia dei Greci di Italia è ormai storia di Roma.