Le politiche energetiche nei Paesi consumatori
Un nuovo paradigma energetico
Nel 21° sec. si è configurata un’improvvisa e inaspettata svolta negli equilibri energetici mondiali. L’ultimo quindicennio del secolo precedente era stato caratterizzato da un considerevole ottimismo tecnologico e da una relativa abbondanza di offerta, che si era tradotta in prezzi del petrolio estremamente bassi, sino a toccare un livello minimo alla fine del 1998. Da allora e sino alla metà del 2008, il prezzo del petrolio ha subito un progressivo aumento, moltiplicandosi in termini nominali per un fattore superiore a dieci (fig. 1). Poiché i prezzi delle altre fonti fossili di energia (carbone, gas) sono più o meno direttamente legati a quello del petrolio, la tendenza si è generalizzata.
Quello che è stato definito un nuovo paradigma energetico è strettamente legato al mutamento degli equilibri economici mondiali. Stimolato inizialmente dalla rapidità della crescita nei Paesi emergenti dell’Asia (e in minor misura in Russia e in America Latina), l’aumento del prezzo del petrolio ha rafforzato lo spostamento degli equilibri economici, aggiungendo i Paesi produttori del Golfo alle aree di rapida crescita e offrendo più solide basi finanziarie allo sviluppo della Russia; contemporaneamente, ha aggravato lo squilibrio di bilancia commerciale degli Stati Uniti, contribuendo a indebolire il dollaro; a sua volta, ciò ha ulteriormente stimolato l’aumento del prezzo del petrolio.
D’altronde, il nuovo paradigma energetico è anche parte integrante di uno spostamento delle ragioni di scambio di quasi tutti i prodotti primari. L’aumento dei prezzi relativi non è limitato al petrolio, ma ha investito anche i metalli, i principali prodotti agricoli e alcuni di quelli intermedi, quali l’acciaio e il cemento. Invertendo una linea di tendenza che era ritenuta secolare, le ragioni di scambio tra i prodotti ad alto contenuto di tecnologia e quelli primari si sono spostate a vantaggio di questi ultimi.
La concorrenza industriale e la diffusione delle conoscenze portano ormai a una rapida riduzione dei prezzi dei prodotti a maggiore contenuto tecnologico, facilitandone così la diffusione: a sua volta, la rapida adozione di questi ultimi consente un rapido aumento della produttività.
In passato, si è ritenuto che il progresso tecnologico avrebbe consentito di ridurre il vincolo della limitatezza delle risorse naturali: l’introduzione di nuovi materiali e/o di nuove tecniche di esplorazione e produzione avrebbe reso le materie prime sempre più abbondanti. Negli anni più recenti, tale ottimismo tecnologico è stato tuttavia incrinato dall’evidenza del fatto che le risorse naturali – tra le quali dobbiamo includere l’ambiente e l’atmosfera – tendono a essere sempre più scarse.
La preoccupazione per l’ambiente e per il cambiamento climatico egemonizza il dibattito sulla definizione delle politiche dei principali Paesi industriali. La questione dell’energia è stata considerata e affrontata principalmente in funzione del pericolo di un rapido aumento della temperatura media del pianeta. In questo senso è emblematica la dichiarazione conclusiva del summit G8 di Hokkaido Toyako (G8 Hokkaido Toyako summit leaders declaration, 2008; http://www.mofa.go.jp/policy/economy/summit/2008/doc/doc080714_en.html, 5 luglio 2010) dove, nel capitolo Environment and climate change, è stato affermato l’obiettivo di una riduzione del 50% entro il 2050 nelle emissioni di CO2. Tale obiettivo, che avrebbe enormi implicazioni per le politiche energetiche (International energy agency 2008), non è stato confermato nella Conferenza sui cambiamenti climatici di Copenaghen nel 2009. Anche a causa della crisi economico-finanziaria sopravveniente, in quell’occasione è stata riaffermata l’urgenza della riduzione delle emissioni, prefigurandone tuttavia la realizzazione senza quantificarne la diminuzione, pur finalizzata a non consentire un aumento di temperatura atmosferica media superiore a 2 °C.
La questione energetica, caratteristica dell’inizio del 21° sec., è pertanto strettamente legata alle questioni ambientale e del cambiamento climatico, ma anche al tema annoso e complesso del sottosviluppo, la cui fine si profila per la prima volta possibile in quasi tutto il mondo, a eccezione forse dell’Africa subsahariana. Quest’ultimo obiettivo, tanto auspicato e ricercato, solleva nuove sfide, alle quali i sistemi politici nazionali e quello internazionale non sono forse pronti a far fronte.
Il petrolio e il futuro dell’energia
Il petrolio rimane la principale fonte primaria di energia a livello globale e tutte le previsioni indicano che continuerà a esserlo per i prossimi decenni almeno fino alla metà del secolo corrente.
È possibile formulare ipotesi in base alle quali il petrolio potrà essere gradualmente sostituito nella seconda metà del 21° sec., ma si tratta appunto di ipotesi su un futuro che in buona sostanza non è prevedibile. Se ci limitiamo alla prima metà del secolo, non esiste scenario fondato su ipotesi credibili che prospetti una stabilizzazione dei consumi di petrolio.
Lo scenario di riferimento dell’International energy agency (IEA), pubblicato nel World energy outlook 2009 e basato sull’ipotesi che la crisi economico-finanziaria che ha segnato il biennio 2008-2010 comporti soltanto una sospensione provvisoria dell’aumento dei consumi di energia fossile (culminata nel 2009 con il primo significativo calo dal 1981), prevede che la domanda globale di petrolio cresca in media tra il 2007 e il 2030 a un ritmo dello 0,9% all’anno: più lentamente della domanda di carbone (1,9%), gas (1,5%) ed energia idroelettrica (1,8%), ma comunque mostrando un continuo aumento. Si prevede che il contributo delle biomasse aumenti dell’1,4% all’anno, mentre quello di altre fonti rinnovabili, partendo da una base molto modesta, crescerebbe del 7,3% all’anno.
Questa situazione prospettata condurrebbe, tuttavia, a una concentrazione di gas serra in atmosfera tale da determinare un aumento di temperature ben superiore ai 2 °C. È stato pertanto sviluppato uno scenario alternativo (scenario 450) in cui sono previste azioni ispirate a una politica energetica radicale e coordinata su scala regionale per stabilizzare i gas serra a 450 ppm di CO2 equivalente.
È inevitabile, a ogni modo, iniziare la discussione del nuovo paradigma energetico mondiale dal petrolio, e chiedersi quali siano le cause sottostanti allo straordinario aumento di prezzi verificatosi tra il 1998 e il 2008.
Fino all’inizio del secolo corrente, le compagnie petrolifere internazionali hanno costantemente sostenuto che la disponibilità globale di petrolio fosse abbondante e che il progresso tecnologico avrebbe consentito di estrarlo a costi decrescenti. Il prezzo medio di circa 18 dollari al barile, registrato nel corso dell’ultimo decennio del 20° sec., era ritenuto insostenibile: nel lungo periodo la concorrenza avrebbe portato a prezzi inferiori.
Secondo la dottrina delle compagnie petrolifere, solo il rifiuto di alcuni (pochi) produttori di aprire le porte alle compagnie internazionali – insistendo in un atteggiamento di nazionalismo ormai superato dagli eventi e dall’affermazione del concetto di ‘fine della storia’ – ritardava l’inevitabile riduzione di prezzo. Tuttavia il mercato avrebbe forzato anche i più chiusi tra i Paesi produttori ad aprire le porte, seguendo l’esempio di Russia, Venezuela e Algeria. La resa di Arabia Saudita e Messico, si diceva, sarebbe stata soltanto questione di tempo.
Alla vigilia dell’intervento americano in ῾Irāq era ancora diffusa la convinzione che a questo sarebbe seguito un periodo di forte debolezza dei prezzi e di difficoltà per i Paesi produttori; al punto da ritenere, da parte di alcuni, che tale intervento fosse principalmente finalizzato a provocare un crollo dei prezzi, e perfino l’uscita dell’Irāq dall’OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries).
Alla luce dei fatti, appare con evidenza che, seppure quell’avventura militare avesse avuto miglior successo, non si sarebbe registrata debolezza dei prezzi. La principale sorpresa nel 2004 e negli anni successivi si è avuta, infatti, dal lato della domanda, non da quello dell’offerta. Quest’ultima è aumentata quasi in linea con le previsioni, grazie al fatto che i principali produttori arabi del Golfo hanno compensato le riduzioni dovute al declino di alcune aree (principale fra tutte il Mare del Nord) e a fattori politici (principalmente in Nigeria e in Venezuela, oltre che ovviamente in ῾Irāq) e naturali (gli uragani nel Golfo del Messico). Al contrario, nell’anno 2004 la domanda si collocava a un livello molto superiore al previsto, principalmente per un’impennata delle importazioni cinesi che hanno avuto la tendenza ad aumentare anche negli anni successivi.
È opportuno rilevare che tutti gli scenari energetici globali si basano sull’ipotesi di un rallentamento della crescita dell’economia cinese, più o meno significativo, ma comunque imminente. Tuttavia, questa ipotesi finora non ha trovato riscontro nella realtà: anno dopo anno, l’attesa di tale rallentamento è stata smentita, mentre la domanda di energia di quel Paese è aumentata rapidamente. La quota della Cina sul consumo mondiale di petrolio, che era inferiore al 3% fino al 1985, è salita al 4% del 1995 (a causa di un aumento dei consumi cinesi di petrolio pari al 25%) e all’8,5% del 2005 (a causa di un aumento del 112%), per stabilizzarsi intorno al 9% negli anni successivi. Le previsioni IEA indicano per la Cina e l’India un incremento annuo del consumo di petrolio tra il 2008 e il 2030 rispettivamente del 3,5% e del 3,9%, contro una media mondiale dell’1% (pur ipotizzando un significativo rallentamento della crescita economica di questi due Paesi).
È anche da notare che, a consuntivo, la capacità di previsione della domanda di petrolio (e di energia in generale) è assai peggiore della capacità di previsione dell’offerta. Ciò per molti versi è sorprendente, visto l’utilizzo di sofisticati modelli econometrici per simulare il comportamento della domanda. Le previsioni della domanda per ogni singolo anno sono più volte riviste dalle agenzie o dalle organizzazioni internazionali (quali l’IEA o l’OPEC), e risultano a consuntivo talvolta decisamente diverse da quelle che erano all’inizio dell’anno. Ancor meno, ovviamente, possiamo confidare negli scenari a lungo termine.
A fronte del continuo aumento della domanda, in particolare nei Paesi emergenti, le prospettive dell’offerta di petrolio sono alquanto incerte. Lungi dall’essere abbondante e a costi marginali decrescenti, come previsto ancora all’inizio del 21° sec. dalle principali compagnie internazionali, l’offerta di petrolio non tiene il passo con la domanda.
Il dibattito prosegue tra due scuole di pensiero, quelle cosiddette del peak oil e degli ottimisti delle risorse. La prima si ricollega al lavoro di un geologo statunitense, Marion King Hubbert (1903-1989), che nel 1956 previde correttamente per la produzione degli Stati Uniti (considerando 48 Stati, con l’esclusione di Alaska e Hawaii) un picco alla fine degli anni Sessanta, con successivo declino a causa dell’esaurimento delle risorse. Tale scuola, basandosi su una relazione tra la curva delle scoperte di nuovi giacimenti e la curva della produzione, afferma in sostanza che dopo circa trent’anni dal momento in cui le scoperte iniziano a ridursi, anche la produzione deve declinare.
A questa impostazione maltusiana, gli ottimisti delle risorse oppongono numerosi argomenti, basati sull’esperienza di giacimenti rimasti in produzione molto più a lungo di quanto originariamente previsto, e sul progresso della tecnologia, che consente di comprendere meglio le dimensioni di ciascun giacimento (portando generalmente a un costante aumento nella stima delle riserve) e di migliorarne il tasso di recupero (ovverosia la percentuale della risorsa totale contenuta nel giacimento che si riesce a produrre, portandola in superficie).
Non è questa la sede per entrare nei dettagli di tale dibattito. È sufficiente richiamare il fatto che il dissenso non è più tanto sull’esistenza di un limite superiore alla produzione, quanto sulla forma probabile della curva di produzione negli anni e decenni a venire. Secondo i sostenitori dell’approccio maltusiano, una volta raggiunto il picco, il declino potrebbe essere relativamente veloce. In tal caso, avremmo un rapido aumento del deficit, con una domanda in continua crescita da un lato e un’offerta in continua diminuzione dall’altro. Per gli ottimisti delle risorse, invece, è più probabile che l’offerta si attesti su un plateau ondulato: in altre parole che oscilli per un certo periodo di tempo (uno o due decenni) intorno a un punto di massimo, per poi iniziare a declinare lentamente. Questo scenario è certamente ben diverso dal precedente, ma propone in ogni caso l’imminenza di un deficit crescente tra una domanda in continuo aumento e un’offerta che nel migliore dei casi ristagna o aumenta di poco.
I dati ci dicono che un massimo nella produzione dei Paesi non OPEC (ossia i Paesi consumatori che dipendono in larga misura dal petrolio senza essere rilevanti produttori di tale energia) sembra essere stato raggiunto. Dal 2004 a oggi la produzione di tali Paesi è aumentata pochissimo, e certamente in misura molto inferiore alle aspettative (principalmente perché il declino di molte aree mature, come il Mare del Nord, è stato più rapido del previsto).
Il destino della produzione globale è dunque sempre più nelle mani dell’OPEC. Tra i Paesi aderenti all’organizzazione, il principale produttore, l’Arabia Saudita, ha realizzato un massiccio programma di investimenti che ha portato la sua capacità produttiva a 12,5 milioni di barili al giorno nel 2010, con l’obiettivo di mantenere un margine di capacità inutilizzata pari a 1,5-2 milioni di barili al giorno (per far fronte a eventuali emergenze globali). Per il prossimo decennio, le prospettive di aumento della capacità produttiva sono principalmente legate all’Irāq e al futuro dei contratti che il governo di quel Paese ha concluso nel corso del 2009.
Bisogna anche considerare che le preferenze dei Paesi produttori sono spesso (non sempre) diverse da quelle delle compagnie petrolifere. Queste ultime tendono alla massimizzazione del risultato finanziario, che si ottiene accelerando al massimo lo sfruttamento del giacimento entro i limiti dettati dalla buona pratica tecnica. Ciò porta generalmente al raggiungimento di un picco per il giacimento entro due o tre anni, seguito da una fase di due o tre anni di produzione al massimo livello, e poi dal declino. Al contrario, l’Arabia Saudita ha esplicitamente annunciato di non volere in alcun caso superare la soglia di 15 milioni di barili al giorno di capacità produttiva, con l’obiettivo di mantenere il livello massimo della produzione almeno per 50 anni: in altre parole un ritmo di sfruttamento della risorsa molto inferiore a quello preferito dalle compagnie internazionali.
Il quadro è ulteriormente complicato dalla prevedibile crescente importanza delle cosiddette fonti non convenzionali di petrolio. Si tratta di giacimenti che contengono idrocarburi non conformi alla normale definizione di petrolio (per essere considerato tale, questo deve rimanere liquido a pressione atmosferica e temperatura ambientale), ma trasformabili, mediante processi industriali, in petrolio e prodotti derivati. Questi giacimenti (principalmente, ma non esclusivamente, le sabbie bituminose dell’Alberta in Canada e il bitume dell’Orinoco in Venezuela) contengono risorse molto ampie. Il loro sfruttamento è iniziato già negli anni Novanta del 20° sec., nonostante i prezzi bassi del petrolio in quel periodo, e oggi risulta redditizio. Tuttavia, gli enormi investimenti richiesti, il problematico profilo ambientale e, nel caso del Venezuela, le tensioni tra il governo e le compagnie internazionali ne hanno rallentato lo sviluppo. È certo che l’importanza delle fonti non convenzionali andrà aumentando nei prossimi decenni, ma non si possono formulare previsioni sulla rapidità del processo. Si può dire altrettanto per le ipotesi di produzione di combustibili liquidi partendo dal gas o dal carbone, per le quali la tecnologia è nota, anche se la redditività rimane problematica.
Nei suoi scenari, Energy information administration (EIA) ha abbandonato il termine oil («petrolio») per sostituirlo con liquids, comprendente tutti i combustibili liquidi, che provengano dal petrolio in senso stretto o da fonti non convenzionali, inclusi i biocombustibili. Da un certo punto di vista, è ragionevole seguire questa metodologia, perché in futuro potremo avere combustibili liquidi (benzina, gasolio, cherosene ecc.) che non provengono affatto dal petrolio e quindi a rigore non possono essere chiamati prodotti petroliferi. Tuttavia, rimane il fatto che nel futuro prevedibile, come la stessa EIA chiarisce, la maggior parte dei combustibili liquidi continuerà a derivare dal petrolio.
In sintesi, l’aumento del prezzo del petrolio indica che i mercati non credono più all’ipotesi che la produzione possa continuare ad aumentare di pari passo con la domanda. Questa nuova convinzione crea un’ovvia aspettativa di aumento dei prezzi nel lungo periodo, sulla quale si innesca il movimento speculativo che spinge i prezzi al rialzo.
Perché le aspettative cambino in maniera durevole, è necessario che i governi dei Paesi industriali e di quelli emergenti prendano credibili misure per invertire l’andamento della domanda. In qualche modo, è necessario arrivare a un nuovo equilibrio nel quale la domanda dei Paesi industriali si riduca in valore assoluto per fare spazio all’inevitabile aumento dei consumi dei Paesi emergenti. Siamo, in altre parole, in un nuovo gioco, a somma zero.
Il ruolo delle grandi compagnie petrolifere
In questo contesto problematico, le grandi compagnie petrolifere internazionali hanno tardato a ridefinire il loro ruolo. Al di là di iniziative limitate e prevalentemente di facciata, le compagnie hanno continuato a investire nell’attività di esplorazione e sviluppo di giacimenti di petrolio convenzionale (il cosiddetto upstream), dedicando solo investimenti marginali alla raffinazione, allo sviluppo di fonti di petrolio non convenzionali e alle fonti alternative di energia. Sotto la pressione degli analisti finanziari, e motivate dall’imperativo esclusivo di sostenere e spingere il corso di borsa delle loro azioni (per ‘restituire valore agli azionisti’), le compagnie hanno badato quasi esclusivamente alla redditività a breve termine, sacrificando iniziative dai ritorni incerti o differiti. Anzi, è ben noto che quasi tutte hanno destinato una quota significativa dei loro profitti al riacquisto delle proprie azioni, quale strumento per trasferire valore agli azionisti – una politica che ha il chiaro sapore della rinuncia.
Le compagnie hanno continuato a battere sul tasto dell’accesso alle risorse, nell’attesa che un numero crescente di Paesi produttori venisse indotto oppure costretto ad aprire o riaprire le porte ai loro investimenti, e ignorando il fatto che tali Paesi possano avere priorità diverse rispetto alla massimizzazione del profitto di breve periodo.
La stessa superiorità tecnologica delle grandi compagnie, da esse tanto vantata come motivo fondamentale per rivendicare il proprio accesso privilegiato alle risorse, è stata posta in dubbio da una serie di episodi (gravi incidenti tecnici, progetti i cui costi sono raddoppiati rispetto alla stima iniziale o la cui esecuzione ha subito gravi ritardi, improvviso e non previsto declino della produzione in giacimenti maturi, revisione verso il basso delle stime delle riserve ecc.), che giustificano l’impressione secondo la quale le grandi compagnie non siano in realtà più avanzate sul piano tecnologico o più efficaci delle migliori tra le compagnie nazionali.
Il ritorno del nazionalismo delle risorse – cioè della tendenza a riservare lo sfruttamento delle risorse nazionali a compagnie nazionali, o a limitare l’accesso di investitori esteri – è stato rafforzato dall’aumento dei prezzi che ha accresciuto le disponibilità finanziarie dei produttori, e reso meno necessario il ricorso agli investimenti delle grandi compagnie internazionali.
I diversi modelli energetici dei Paesi industriali
I modelli di consumo dell’energia sono molto diversi fra un Paese industriale e l’altro, e ovviamente fra i Paesi industriali e quelli in via di sviluppo. Negli Stati Uniti il consumo di energia pro capite è circa il doppio di quello che si registra in Europa o in Giappone. Concorrono a determinare questo risultato molti fattori, tra i quali certamente la differenza nel livello di reddito (pur se in diminuzione) e forse anche il clima. Tuttavia, l’impatto delle politiche economiche è rilevante: l’energia è fortemente tassata nei Paesi europei, mentre non lo è quasi affatto negli Stati Uniti. Il basso costo dell’energia negli Stati Uniti ha contribuito a incoraggiare uno stile di vita a contenuto energetico molto più elevato di quello europeo (prevalenza di abitazioni individuali isolate, forte distanza tra abitazione e luogo di lavoro, scarsa disponibilità di mezzi pubblici di trasporto, forte preferenza per auto di grande cilindrata: tutti elementi fra loro interconnessi, e legati anche alle maggiori distanze e alla minore densità di popolazione).
Peraltro, è dubbio che l’elevato livello dell’imposizione fiscale sull’energia, che si riscontra ovunque in Europa, sia storicamente motivato principalmente da considerazioni legate all’energia stessa. Si può piuttosto dire che il consumo di energia ha sempre offerto un’assai conveniente base impositiva, perché facilmente controllabile, caratterizzata da domanda rigida rispetto al prezzo ed elastica rispetto al reddito, e politicamente giustificabile con l’opportunità, appunto, di contenere la dipendenza dalle importazioni di fonti primarie.
In buona sostanza, tale politica, che è stata decisiva nel differenziare il sistema energetico europeo da quello statunitense, è stata motivata da esigenze fiscali piuttosto che da un genuino desiderio di ridurre i consumi di energia.
In posizione intermedia fra i Paesi europei e gli Stati Uniti si collocano i Paesi dell’ex Unione Sovietica, i cui consumi pro capite sono superiori a quelli europei, nonostante un reddito molto inferiore. Su questo risultato influisce certamente il clima, ma anche l’eredità dell’Unione Sovietica, che ha sempre attribuito pochissima importanza all’efficienza energetica e ha privilegiato prezzi al consumatore artificialmente bassi e tariffe indipendenti dal livello di consumo individuale, incoraggiando in tal modo diffusi fenomeni di spreco (il proverbiale fornello tenuto acceso 24 ore su 24 per risparmiare il costo dei fiammiferi). In cifra assoluta il consumo di energia nell’ex Unione Sovietica si è fortemente ridotto dopo il crollo di quest’ultima, principalmente per la scomparsa delle attività industriali meno efficienti e a maggiore intensità energetica. Con il ritorno alla crescita i consumi sono ripresi, e ancora poco progresso è stato fatto per introdurre prezzi in linea con le realtà internazionali o incentivare comportamenti maggiormente responsabili.
All’estremo opposto della scala, il livello di consumo dei Paesi emergenti e in via di sviluppo è ancora straordinariamente distante da quello dei Paesi industriali o in transizione. Nel 2004 la Cina rimaneva a un livello di consumo di energia pro capite inferiore a un terzo di quello dell’Europa, e l’India a un livello inferiore a un decimo, più basso perfino di quello dell’Africa (fig. 2). Se davvero il gap nel livello di sviluppo economico tra questi due Paesi e quelli aderenti all’OECD (Organisation for Economic Cooperation and Development) è destinato a diminiuire nei prossimi decenni, è, quindi, inevitabile che si riducano anche le distanze nei consumi energetici.
Per giungere a risultati significativamente diversi bisognerebbe ipotizzare una forte compressione nei consumi di energia dei Paesi OECD, attraverso un drammatico aumento dell’efficienza o una riduzione della crescita economica.
Le precedenti considerazioni sono utili per comprendere come, partendo da livelli di consumo tanto bassi, non sia realistico ipotizzare che i Paesi emergenti contengano notevolmente la loro domanda di energia. Servono inoltre a sottolineare l’importanza specifica della Cina, alla quale viene attribuito il più forte aumento di consumo di energia tanto in valore assoluto quanto in termini pro capite.
I diversi modelli di consumo dell’energia sono profondamente radicati, e la loro trasformazione richiede cambiamenti sostanziali negli stili di vita e di consumo dei Paesi industriali. La pressione che la domanda dei Paesi emergenti esercita e continuerà a esercitare sulla disponibilità di energia nei decenni a venire si rifletterà inevitabilmente in prezzi più elevati.
Per i Paesi emergenti, il maggior costo dell’energia sarà una minaccia diretta agli elevati ritmi di crescita economica, mentre per i consumatori dei Paesi industriali sarà una minaccia diretta allo stile di vita cui sono abituati. Le potenziali implicazioni politiche di questa competizione per le risorse, per quanto indiretta e mediata da meccanismi di mercato, non devono essere sottovalutate.
Dal punto di vista del rapporto relativo tra le fonti primarie, i sistemi energetici dei Paesi europei sono fra loro fortemente differenziati (fig. 3), come risultato in parte di differenti disponibilità di risorse e in parte di scelte politiche diverse.
Alcuni Paesi europei sono molto dipendenti dal petrolio: Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna, Paesi Bassi e Belgio-Lussemburgo dipendono dal petrolio per più del 50% dell’energia che consumano. La quota del petrolio è superiore al 20% in tutti i Paesi europei, ma soltanto di poco in quelli dell’Europa centrale e in Norvegia; è inferiore al 20% nella Russia. Si nota, in altre parole, che Paesi esportatori e produttori di petrolio (come la Norvegia e la Russia) non ne sono necessariamente grandi consumatori.
La Russia è dipendente dal gas per più del 50%, mentre in Ungheria il contributo del gas è solo di poco inferiore. Altri Paesi molto dipendenti dal gas sono Italia, Regno Unito, Lituania e Romania.
La Polonia dipende dal carbone per più del 60%, mentre Repubblica Ceca e Bulgaria ne dipendono rispettivamente per più del 40% e del 30%.
La Francia è il Paese che fa maggior ricorso all’energia nucleare, seguita a non grande distanza dalla Svezia. Il nucleare è importante anche in Paesi quali la Bulgaria, la Lituania, la Finlandia, la Slovacchia e la Svizzera.
La principale fonte rinnovabile, l’energia idroelettrica, soddisfa più del 60% dei consumi in Norvegia, e percentuali comprese tra il 20 e 30% in Svezia, Austria e Svizzera.
Questa pronunciata diversità dei sistemi energetici è il risultato della combinazione di fattori ambientali e scelte politiche. L’idroelettrico viene privilegiato là dove ne esiste la possibilità, il carbone e il gas sono consumati di preferenza nei Paesi che ne sono produttori. La principale differenza, esclusivamente dovuta a scelte politiche, è nell’incidenza del nucleare: è importante sottolineare come anche Paesi che ufficialmente hanno deciso di abbandonare il nucleare (è il caso della Svezia, che ha però rovesciato questa decisione) continuano a farvi massiccio ricorso.
Tale accentuata diversificazione può essere letta da punti di vista completamente diversi: da un lato, si tratta di un fatto positivo che genera, a livello europeo, un quadro complessivamente più bilanciato di quello di ciascun Paese individualmente considerato; dall’altro, testimonia che il mercato europeo dell’energia non è integrato, e che la concorrenza non è libera di svolgere il suo compito, portando a scelte produttive maggiormente omogenee (a parte i condizionamenti ambientali).
La politica dell’energia dell’Unione Europea
Per comprendere l’evoluzione della politica dell’energia dell’Unione Europea, nonché la dinamica tra tale politica e le posizioni adottate dai singoli governi dei Paesi membri, bisogna partire dalla diversità dei bilanci energetici nazionali di questi ultimi.
La Commissione europea non ha avuto un forte mandato in materia di energia fino al Trattato di Lisbona (dic. 2007). L’inclusione dell’energia quale area di codecisione tra l’Unione e gli Stati membri era stata proposta a più riprese in occasione di precedenti conferenze intergovernative, ma sempre rifiutata. L’energia era stata inclusa tra le aree di codecisione nella bozza di Costituzione europea che non è stata mai ratificata. L’articolo in questione è stato mantenuto nel Trattato di Lisbona, e dà per la prima volta una solida base giuridica e istituzionale alla Commissione per formulare un’organica politica europea dell’energia.
È sicuramente vero che la Commissione ha istituito già da molti anni un commissario all’energia, ma ha sempre appoggiato le sue iniziative su altri mandati, in particolare la creazione del mercato unico, la difesa della concorrenza e la protezione dell’ambiente. I fondamenti giuridici a disposizione della Commissione per la sua azione in materia di energia hanno profondamente influenzato il disegno delle sue proposte sull’argomento. La Commissione, non avendone mandato, non ha potuto formulare ipotesi direttamente afferenti al bilancio energetico e all’importanza di ciascuna fonte primaria. Ancora nei suoi documenti più recenti, la Commissione ribadisce che i Paesi membri sono sovrani in materia di bilancia dell’energia e composizione delle fonti primarie.
Le iniziative di politica dell’energia della Commissione si sono, quindi, appoggiate finora su altre competenze, per le quali essa gode di una base giuridica molto più solida. In particolare, la Commissione ha fatto riferimento al suo mandato per la creazione di un mercato unico europeo, alle sue competenze in materia antitrust e alla politica dell’ambiente (anzi quest’ultima è diventata la principale ispiratrice della politica europea dell’energia).
Il mercato unico dell’energia
La creazione di un mercato europeo dell’energia unico, trasparente e competitivo ha dominato il dibattito in anni recenti. La Commissione è stata fortemente influenzata dall’esperienza del Regno Unito e degli Stati Uniti, rispettivamente durante il governo di Margaret Thatcher e la presidenza di Ronald Reagan. In ambedue questi Paesi, politiche di deregolamentazione avevano portato a un forte aumento della concorrenza e a una significativa riduzione dei prezzi. Inoltre, l’apertura delle frontiere interne dell’Unione agli scambi di prodotti e servizi energetici è uno strumento per perseguire una maggiore convergenza dei modelli energetici: la fonte primaria più conveniente per ciascun Paese è individuata in base al mercato disponibile, dato che scelte non economiche dei produttori nazionali favorirebbero le importazioni. Alla fine, la logica del ‘vinca il migliore’ determinerebbe la composizione ottimale per ciascun Paese delle fonti primarie e delle tecnologie di trasformazione.
Il primo passo nella direzione della creazione di un mercato dell’energia unico, trasparente e competitivo è stata l’abolizione dei monopoli nazionali – stabiliti per legge o semplicemente esistenti di fatto – e la privatizzazione delle imprese dell’energia ancora controllate dai rispettivi governi. Non sono mai esistiti monopoli nazionali per i prodotti petroliferi, ma erano la norma per il gas e per l’elettricità. La motivazione è facilmente comprensibile: mentre i prodotti della raffinazione del petrolio sono liquidi (o agevolmente ridotti allo stato liquido) e possono essere facilmente trasportati per nave, per strada o per ferrovia, il gas metano e l’elettricità richiedono strutture di trasporto dedicate. Le reti di distribuzione di elettricità e gas sono monopoli naturali (non ha senso economico duplicarle) e su questa base i due settori sono stati organizzati tradizionalmente come monopoli nazionali o regionali, e dati in concessione a operatori privati o, nella maggior parte dei casi, pubblici.
Le politiche di privatizzazione hanno riguardato non soltanto le imprese dell’elettricità e del gas, ma anche le compagnie petrolifere nazionali, invertendo una strategia politica che aveva visto ciascun Paese europeo creare una sua compagnia nazionale per bilanciare il potere di mercato delle grandi compagnie internazionali e perseguire obiettivi e progetti di interesse nazionale. Le privatizzazioni, pur mantenendo in alcuni casi una sostanziale influenza dei rispettivi governi sulla nomina dei vertici aziendali, hanno portato a un radicale cambiamento della missione delle aziende interessate, che oggi sono chiamate principalmente a massimizzare il valore per gli azionisti. Questo ha privato i governi di uno strumento operativo e di intervento e della capacità di perseguire concretamente progetti ritenuti di interesse nazionale. Le imprese energetiche privatizzate tendono infatti a comportarsi come qualsiasi impresa privata, e non esitano ad agire contro i desideri del governo o della Commissione europea, ostacolando apertamente l’implementazione di politiche ufficialmente adottate dai rispettivi governi, o perseguendo investimenti in opere non funzionali o dannose per l’interesse nazionale.
Quanto all’apertura dei mercati nazionali dell’elettricità e del gas, l’enfasi è stata posta sull’imposizione di strutture di regolazione, con l’obiettivo di forzare l’apertura del mercato e garantire la concorrenza. Tuttavia, da questo punto di vista esiste una fondamentale differenza tra l’elettricità e il gas: mentre infatti l’elettricità può essere prodotta in qualsiasi Paese, e di norma viene generata preferibilmente vicino ai centri di consumo, il gas può essere prodotto soltanto là dove si trovano i giacimenti.
Esiste pertanto una fondamentale differenza tra Paesi produttori e autosufficienti o perfino esportatori di gas, e Paesi che dipendono dalle importazioni. Per i primi, una liberalizzazione del mercato può effettivamente condurre a una maggiore concorrenza fra produttori indipendenti, provocando una riduzione del prezzo: è il caso degli Stati Uniti, e lo è stato per un certo periodo per la Gran Bretagna. I Paesi importatori si trovano in condizioni diverse: a meno che i Paesi da cui proviene il gas non siano pronti a entrare in concorrenza fra loro, e a investire nelle costose infrastrutture di trasporto necessarie per aumentare le esportazioni di gas.
Ciò è tanto più vero se, come si verifica praticamente in tutti i Paesi dell’Europa continentale, l’impresa ex monopolista non ha alcun interesse al fatto che si crei reale concorrenza, e baderà bene a non fare gli investimenti necessari ad aumentare più di tanto la capacità di trasporto.
È appena il caso di notare che la concorrenza si accende solo in presenza di un eccesso di offerta, almeno potenziale. Se il mercato è equilibrato o addirittura registra un eccesso di domanda sull’offerta, i venditori non hanno alcun interesse ad abbassare i prezzi. Se l’offerta è scarsa non vi sarà concorrenza, anche qualora esistano regole per garantire l’accesso di nuovi concorrenti. Per questo motivo, sebbene le imprese ex monopoliste siano state costrette a cedere quote di mercato e ad aprire le loro reti all’accesso di terzi, la concorrenza non si è veramente manifestata – principalmente perché non esiste un sufficiente eccesso potenziale di offerta.
Per quanto concerne in particolare gli scambi fra Paesi europei, è rapidamente emersa la realtà dell’insufficienza delle interconnessioni fra reti nazionali. In altre parole, l’unicità dei mercati europei dell’elettricità e del gas è un mito e non una realtà: anche se in teoria i singoli Paesi membri non possono porre ostacoli agli scambi, in pratica le interconnessioni sono limitate e non consentono altro che scambi ridotti.
Inoltre, per quanto riguarda il gas pesa il fatto che tutti, o quasi, i Paesi europei dipendono dagli stessi fornitori esterni, in particolare Russia e Algeria. Se il fattore concorrenziale dovesse essere costituito dagli scambi interni alla UE, il gas marginale scambiato sarebbe quello importato da un fornitore che nella maggior parte dei casi già esporta nel medesimo Paese. Si avrebbe, in altre parole, una concorrenza di gas russo contro gas russo, o di gas algerino contro gas algerino: i Paesi fornitori non sono ovviamente affatto interessati a questa ipotesi.
In passato, proprio per evitare che si potesse creare una concorrenza del genere, venivano introdotte nei contratti di importazione clausole, cosiddette di destinazione finale, che vincolavano l’importatore a vendere il gas solo sul suo mercato nazionale. Queste clausole sono state dichiarate illegali dalla Commissione (sono un’ovvia limitazione del commercio interno all’Unione) e, dopo lunghe discussioni e forti pressioni, tanto la Russia quanto l’Algeria hanno accettato di abolirle. Tuttavia, nei fatti si constata che non ci sono stati molti mutamenti negli scambi interni all’Unione: gli importatori non hanno in realtà alcun interesse a una forte concorrenzialità fra di loro, e semplicemente si astengono dal contendersi i mercati. Le pareti di mattoni che un tempo dividevano i singoli mercati europei sono state sostituite da pareti di vetro che nella pratica non sono più permeabili di quelle che esistevano precedentemente.
L’atteso effetto di riduzione dei prezzi dell’energia non si è quindi verificato nell’Europa continentale e, da quando la produzione interna non è più sufficiente a coprire i consumi nazionali, la situazione è cambiata in modo radicale anche in Gran Bretagna. A fronte di una dinamica esplosiva dei prezzi del petrolio, che trascina con sé i prezzi del gas e in larga misura anche quelli dell’energia elettrica (nei Paesi che generano elettricità soprattutto da gas, meno negli altri), il beneficio che ha portato l’asfittica concorrenza, apertasi sui mercati dell’energia europei, è concretamente irrilevante. Il consumatore finale ha tratto enormi benefici dalla politica di regolamentazione in materia di telecomunicazioni e di trasporti aerei, mentre nel settore dell’energia l’effetto è stato offuscato dall’aumento del prezzo del petrolio e delle altre fonti.
Progressivamente, l’attenzione dei Paesi membri si è andata spostando dall’obiettivo di ridurre il costo dell’energia a quello di garantire la sicurezza delle forniture. È apparso a mano a mano più chiaro che il motivo del prezzo crescente del greggio e delle altre fonti primarie non era tanto la mancanza di concorrenza quanto l’insufficienza di offerta, a sua volta causata non da deliberati atteggiamenti monopolistici, ma da difficoltà strutturali nell’aumentare la produzione al passo con l’incremento della domanda.
La Commissione ha adottato la dottrina secondo cui la creazione di un mercato unico europeo dell’energia trasparente e competitivo è anche la miglior soluzione del problema della sicurezza. Il ragionamento è semplice: un mercato europeo unificato avrebbe una dimensione tale da risultare molto attraente per qualsiasi fornitore, e facilitare quindi i progetti di esportazione.
Per comprendere appieno questa logica è necessario ricordare che i progetti di esportazione su lunghe distanze – in particolare i progetti di trasporto di gas – sono caratterizzati da forti discontinuità ed economie di scala. Il costo del trasporto aumenta in funzione della distanza da coprire e diminuisce (per metro cubo) all’aumento della dimensione del tubo (diametro delle pipelines) o delle componenti di un progetto di esportazione di gas naturale liquefatto (impianto di liquefazione, navi metaniere, impianto di rigassificazione); di conseguenza, progetti di esportazione a lunga distanza sono economici solo se i volumi trasportati sono importanti. Inoltre, il costo del trasporto consiste principalmente nell’investimento iniziale, quindi la struttura di trasporto deve giungere rapidamente al pieno utilizzo della capacità, altrimenti gli oneri finanziari divengono insopportabili. Questo significa che, per rendere commercialmente valido un progetto di esportazione, è necessario che esista un mercato garantito capace di assorbire l’intero (o quasi) volume addizionale reso disponibile dal progetto. La dimensione del mercato di destinazione finale è quindi di grande importanza: se il mercato è piccolo, non avrà la possibilità di garantire uno sbocco sufficiente a un nuovo progetto di esportazione.
Da questo punto di vista, non vi è dubbio che un mercato europeo effettivamente unificato – cioè sufficientemente interconnesso all’interno, in modo che il gas possa liberamente fluire da un Paese all’altro all’interno dell’Unione – costituirebbe un bacino di domanda capace di assorbire facilmente i volumi addizionali di qualsiasi progetto di esportazione. Questo consentirebbe di intraprendere progetti di esportazione senza avere precisi impegni di assorbimento da parte di uno o più clienti prima ancora che il progetto venga lanciato. Oggi tali impegni, consacrati nella clausola contrattuale di take or pay (clausola in base alla quale l’acquirente si impegna a pagare anche la merce non ritirata) sono essenziali per il finanziamento e il lancio di nuovi progetti di esportazione, implicando negoziazioni che ne possono ritardare la realizzazione talora di decenni.
Il ragionamento, comunque, presuppone sempre che esista un potenziale eccesso di offerta, e che il problema fondamentale sia facilitare l’ingresso nel mercato di nuovi concorrenti. Tuttavia oggi, per i mutati equilibri rispetto al secolo scorso, nuovi progetti di esportazione di gas, specialmente se basati sul trasporto di gas naturale liquefatto e quindi in grado di servire vari clienti in diverse direzioni, non hanno problemi di sbocco di mercato. Non è dunque più così chiaro che la realizzazione di un mercato unico europeo dell’energia, trasparente e competitivo, sia condizione sufficiente al fine di garantire la sicurezza degli approvvigionamenti.
Energia e ambiente
Se la ricerca di un mercato unico dell’energia ha portato a risultati inferiori al previsto e ha continuato a scontrarsi con la resistenza dei Paesi membri, sui temi ambientali esiste invece un più vasto consenso nell’Unione. Quest’ultima ha aderito al Protocollo di Kyoto e ha condotto una serrata polemica con gli Stati Uniti per il suo rifiuto di fare altrettanto. Anche in momenti di grande divisione interna su altri temi di politica estera – per es. l’intervento in ῾Irāq – l’Unione è rimasta compatta sui temi ambientali: su questo terreno le distanze sono rimaste molto nette anche fra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, pure stretti alleati su altri fronti.
Malgrado non sia ancora chiaro il quadro degli accordi internazionali che regoleranno la lotta ai cambiamenti climatici dopo il 2012 (termine di validità del Protocollo di Kyoto), complice anche la contingente crisi economico-finanziaria, il vincolo della limitazione delle emissioni gassose in atmosfera continuerà a essere un driver della politica energetica.
Il nucleo fondamentale della politica europea dell’energia è racchiuso nelle Conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo svoltosi a Bruxelles l’8 e il 9 marzo 2007 (http://www.consilium.europa.eu/ueDocs/cms_Data/docs/pressData/it/ec/93153.pdf, 6 luglio 2010). Nel documento, al titolo terzo (Una politica climatica ed energetica integrata), si sottolinea lo stretto legame tra questione climatica e questione dell’energia che ispira le scelte politiche dell’Unione: «Le sfide poste dai cambiamenti climatici devono essere affrontate con efficacia e con urgenza. Recenti studi in materia hanno contribuito ad accrescere la consapevolezza e la conoscenza delle conseguenze a lungo termine, incluse le conseguenze per lo sviluppo economico globale, e hanno evidenziato la necessità di un’azione decisa e immediata. Il Consiglio europeo sottolinea l’importanza fondamentale del raggiungimento dell’obiettivo strategico di limitare l’aumento della temperatura media globale al massimo a 2 °C rispetto ai livelli preindustriali.
Dato che la produzione e l’impiego di energia sono le principali fonti delle emissioni di gas a effetto serra, per realizzare tale obiettivo è necessario un approccio integrato alle politiche climatica ed energetica. L’integrazione dovrebbe essere conseguita in modo da assicurare il vicendevole sostegno tra le due componenti. Alla luce di tali considerazioni, la politica energetica per l’Europa (PEE), rispettando pienamente il mix energetico scelto dagli Stati membri e la loro sovranità sulle fonti di energia primaria e sostenuta da uno spirito di solidarietà tra gli Stati membri, perseguirà i tre obiettivi seguenti: aumentare la sicurezza dell’approvvigionamento; garantire la competitività delle economie europee e la disponibilità di energia a prezzi accessibili; promuovere la sostenibilità ambientale e lottare contro i cambiamenti climatici.» (pp. 10-11).
Il documento prosegue affermando che i Paesi industriali dovrebbero impegnarsi a una riduzione, rispetto ai livelli del 1990, del 30% delle emissioni di gas a effetto serra entro il 2020, con l’obiettivo di giungere a una riduzione del 60-80% entro il 2050. Da parte sua, l’Unione «si impegna in modo fermo ed indipendente a realizzare una riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra di almeno il 20% entro il 2020 rispetto al 1990.» (p. 12). In altre parole, questo impegno è indipendente dalle scelte di altri Paesi.
Inoltre il documento porta in allegato uno schema operativo, Piano d’azione del Consiglio europeo (2007-2009), politica energetica per l’Europa (PEE), nel quale si fissano vari obiettivi derivati da quello fondamentale della riduzione delle emissioni di gas a effetto serra. In particolare, ci si impegna a conseguire nella UE per il 2020: un aumento dell’efficienza energetica in modo da raggiungere l’obiettivo di risparmio dei consumi energetici del 20%; un obiettivo vincolante che prevede una quota del 20% di energie rinnovabili nel totale dei consumi energetici; un obiettivo vincolante che prevede una quota minima del 10% di biocarburanti nel totale dei consumi di benzina e gasolio per autotrazione.
Questi obiettivi quantitativi hanno suscitato non poche polemiche, in particolare la quota minima per i biocarburanti nei consumi di benzina e gasolio per autotrazione: l’aumento conseguente dei prezzi dei cereali – dai quali i biocarburanti sono attualmente derivati, in attesa che venga messa a punto la tecnologia per la produzione di biocarburanti da prodotti di scarto o colture non commestibili – ha immediatamente messo in evidenza il pericolo di scelte politiche non sufficientemente fondate su appropriate simulazioni dei loro effetti. Impatto dell’aumento dei prezzi dei cereali a parte, sono stati avanzati dubbi sostanziali sui benefici netti consentiti dai biocarburanti per la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra: la loro produzione comporta emissioni non indifferenti, o può portare alla distruzione di foreste che costituiscono uno dei meccanismi di assorbimento dell’anidride carbonica.
Malgrado le polemiche sui biocarburanti, l’Unione è comunque rimasta ferma sull’obiettivo ultimo di una riduzione sostanziale delle emissioni di gas a effetto serra entro il 2050, rilanciando la disponibilità a elevare al 30% la propria quota di riduzione nel 2020 rispetto al 1990. Tale ipotesi è stata peraltro accreditata da una recente analisi tecnica della Commissione riguardante i costi di abbattimento e il rischio carbon leakage nel contesto economico della crisi che ha segnato il biennio 2008-2010.
Nel perseguimento di tale obiettivo, la Commissione europea continua a oscillare tra un approccio centrato sui meccanismi di mercato e uno centrato invece sull’interventismo tecnologico. È rimasta infatti inalterata l’enfasi sulla creazione di un mercato unico dell’energia trasparente e competitivo, mentre al tempo stesso si sono fissati, come abbiamo visto, obiettivi quantitativi per il ruolo di specifiche fonti di energia. L’approccio di mercato perseguito fino in fondo vorrebbe che l’abbattimento delle emissioni di gas serra venisse perseguito attraverso il mercato dei permessi di emissione (CER, Certified Emission Reductions, ERU, Emission Reduction Units, EUA, European Union Allowances ecc.) e la leva del prezzo del carbonio emesso nell’atmosfera. L’Unione Europea ha svolto un ruolo pionieristico nella creazione di un mercato del carbonio, ed esiste ora un prezzo del carbonio fissato su tale mercato, anche se si sono verificati alcuni importanti difetti di funzionamento, dovuti principalmente alle modalità di allocazione iniziale dei permessi di emissione. Questi difetti verranno eliminati con il tempo e, se il prezzo del carbonio, superata l’attuale fase di ristagno causata dalla crisi economica, fosse destinato a salire fino a un valore dell’ordine delle centinaia di dollari per tonnellata (come previsto da alcune stime), si creerebbe un forte incentivo all’adozione di tecnologie meno dannose per l’atmosfera; si lascerebbe, tuttavia, al mercato il compito di decidere quali tecnologie e in quali comparti, mentre la Commissione, al tempo stesso, continuerebbe a perseguire obiettivi – come per es. quello del 10% di biocarburanti nei trasporti – dettati piuttosto da una logica di intervento dall’alto.
Implicazioni energetiche dei forum economici
La dichiarazione congiunta dei leader dei Paesi MEF (Major Economies Forum) e G8, in occasione del summit dell’Aquila (2009), ha confermato che la sfida dei cambiamenti climatici può essere vinta soltanto attraverso una risposta globale e ha richiamato la volontà di tutti i Paesi aderenti all’UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change) di ridurre le emissioni globali entro il 2050. Nella stessa circostanza i Paesi del G8 hanno reiterato l’intenzione di condividere l’obiettivo di ridurre almeno del 50% le emissioni globali entro il 2050, dichiarandosi favorevoli a un target dell’80% per i Paesi industrializzati.
Si tratta di posizioni problematiche, come è stato successivamente dimostrato dall’esito della Conferenza sui cambiamenti climatici di Copenaghen (COP15): è ancora incerta la disponibilità di alcune tra le economie maggiori (non solo quelle dei Paesi OECD, ma anche quelle di Cina, India, Russia e Brasile) ad accettare le proprie responsabilità per il raggiungimento dell’obiettivo, pur in un contesto di differenziazione; non è ben chiaro che cosa esattamente s’intenda per riduzione del 50%, e rispetto a quale anno di riferimento (il 2008 o, come vorrebbe l’Unione Europea, il 1990?). Su questi e altri punti si continuerà a discutere ancora a lungo. Importante risulta, tuttavia, soprattutto l’indicazione di una volontà di fondo, che potrà tradursi in politiche di realizzazione più o meno vigorose, ma che non potrà essere completamente trascurata o ignorata. Probabilmente nel 2050 non si arriverà alla riduzione del 50% delle emissioni rispetto al 1990, ma sarà irreversibile la tendenza verso una diminuzione dell’immissione in atmosfera di gas antropici a effetto serra.
Per quanto riguarda le implicazioni per i sistemi energetici può essere opportuno far riferimento ai rapporti IEA. Nell’edizione 2008 del volume Energy technology perspectives (ETP), alla base delle raccomandazioni inviate dall’agenzia al vertice G8 di Hokkaido Toyako, vengono analizzate le opzioni tecnologiche per la riduzione delle emissioni, con orizzonte temporale 2050, e relativi costi e strategie politiche. Si presentano tre scenari di evoluzione del sistema energetico mondiale: il primo basato sull’estrapolazione dei trend attuali (baseline scenario); il secondo basato sul ritorno, nel 2050, al livello di emissioni registrato nel 2005 (ACT, ACcelerated Technology, scenario); il terzo basato sulla riduzione, nel 2050, delle emissioni del 50% rispetto al 2005 (BLUE scenario).
Il lavoro della IEA chiarisce che, per raggiungere l’obiettivo ipotizzato dallo scenario BLUE, è necessaria una vera e propria rivoluzione dei sistemi energetici. L’obiettivo può essere raggiunto soltanto attraverso il dispiegamento di una panoplia di politiche e di strumenti convergenti che riguardano gli usi finali, la generazione elettrica e la cattura e lo stoccaggio del carbonio. Per quanto concerne gli usi finali, si ipotizzano: una maggiore efficienza nell’uso dei carburanti per i consumi (principalmente nel settore dei trasporti e, in minor misura, nel riscaldamento ambientale), che dovrebbe contribuire per un 24% al raggiungimento dell’obiettivo; una maggiore efficienza negli utilizzi finali dell’energia elettrica (dalle lampadine agli elettrodomestici al condizionamento), per un contributo del 12%; una diversa composizione dei combustibili per utilizzi finali (cioè una riduzione dell’uso di carbone e petrolio in favore di gas e di carburanti a minore impatto sull’atmosfera), per un contributo dell’11%. Per quel che riguarda invece la generazione elettrica, si ipotizzano: una maggiore efficienza degli impianti, per un contributo del 7%; un maggiore ricorso alle fonti rinnovabili, per un contributo del 21%; un maggiore ricorso al nucleare, per un contributo del 6%. Infine si prevede l’implementazione della cattura e del sequestro del carbonio (CCS, Carbon Capture and Sequestration) nella generazione elettrica e nell’industria di trasformazione ‘energivora’, per un contributo del 19%. A questo proposito va precisato che il carbonio può essere ‘catturato’ con varie tecnologie note (mentre il suo ‘sequestro’, effettuato in forma tale che non possa rientrare nell’atmosfera, è tecnologicamente meno provato) e che il maggior ostacolo all’adozione di tecnologie di CCS, in corrispondenza delle principali fonti stazionarie di emissioni, è il loro costo elevato.
La dimensione quantitativa di questi obiettivi sottintende un massiccio sforzo, soprattutto nel campo della produzione di energia elettrica. Il passaggio dalle linee di tendenza attuali allo scenario ACT o BLUE comporta una fortissima accelerazione del ricorso a talune forme di generazione elettrica, come l’eolico, il solare e il nucleare.
In buona sostanza, l’obiettivo dello scenario BLUE richiede la completa decarbonizzazione della generazione elettrica entro il 2050. Per quella data, infatti, la generazione elettrica dovrebbe basarsi principalmente su fonti diverse rispetto a quelle fossili, il residuo utilizzo delle quali dovrebbe essere accompagnato dal sistematico uso di tecnologie di CCS.
Per essere sufficientemente incentivato e dunque realizzabile attraverso meccanismi di mercato, il dispiegamento di nuove tecnologie a minore impatto ambientale richiederebbe un prezzo del carbonio che nello scenario BLUE oscillerebbe tra un minimo di 200 dollari a tonnellata e un massimo di 800. Per comprendere il significato di queste due cifre, si tenga presente che la prima equivale a circa 80 dollari al barile di petrolio (questo sarebbe un maggior costo che in un modo o nell’altro dovrebbe gravare sul consumatore finale). Si noti che il contributo a minor costo, quindi più immediato e urgente, è quello della maggiore efficienza nei consumi finali, vale a dire un contributo che coinvolge la partecipazione di tutti i cittadini e che richiede il più esteso mutamento nei comportamenti e nelle strutture sociali. L’edizione ETP 2010 aggiorna gli scenari con maggiori dettagli in termini geopolitici, evidenziando le tecnologie più adatte alle caratteristiche delle differenti regioni su scala mondiale, e focalizza l’analisi sulle sfide tecnologiche chiave dei principali settori energivori.
Conclusioni
All’inizio del nuovo secolo si è profilata con forza una questione energetica il cui impatto sulla politica, sia interna di ogni singolo Stato sia internazionale, e sullo stile di vita in quasi ogni società sarà profondo e duraturo. Tale rilevante questione è inoltre strettamente collegata, da un lato, all’evoluzione degli equilibri economici mondiali, con la prepotente emergenza di nuovi protagonisti come la Cina, l’India, la Russia, i Paesi del Golfo, il Brasile e altri, dall’altro lato, alla questione dell’ambiente e del cambiamento climatico.
A livello delle politiche, l’ambiente e il cambiamento climatico forniscono il movente principale e la piattaforma sulla quale forse sarà possibile giungere a un accordo globale. In tal caso, la politica dell’energia sarà determinata dalle scelte fatte per evitare o contenere il cambiamento climatico. Le politiche dell’energia in senso stretto non sono un terreno di accordo internazionale: perfino l’Unione Europea trova grandi difficoltà a superare le ottiche nazionali nella definizione di una politica comune dell’energia.
Comunque si guardi ai dati a nostra disposizione, è chiaro che il 21° sec. dovrà realizzare una profonda trasformazione nel rapporto tra l’uomo e l’energia, una trasformazione che investirà ogni momento della nostra vita quotidiana, non diversamente da quanto avvenne con l’avvento dell’elettricità.
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Tutte le pagine web s’intendono visitate per l’ultima volta il 6 luglio 2010.
In considerazione della continua evoluzione e dell’estrema variabilità dei dati relativi all’argomento trattato, il saggio scritto dall’Autore è stato in parte aggiornato dalla Redazione per ciò che concerne gli eventi più recenti.