Le politiche urbane: uno strano contratto comunitario
L’importanza delle città per la storia d’Italia, perfino maggiore di quanto non sia per altri Paesi del continente europeo segnato dal fenomeno urbano (Le Galès 2002), rende utile una riflessione che non significhi un’apologia delle città, ma una loro attenta riconsiderazione critica.
Le ‘cento città’ sono considerate da Antonio Gramsci, nel Quaderno 13 (1932-34 circa) dedicato alla rilettura di Machiavelli, un elemento di relativa debolezza della storia italiana. La mancanza di una risposta moderna, dopo la crisi della borghesia cittadina medievale, viene attribuita all’assenza di una volontà collettiva nazional-popolare. Il moderno Principe non nasce anche per la relativa arretratezza del fenomeno urbano in Italia. Gramsci ricorda che Napoli e Roma non sono mai state città industriali (a differenza naturalmente di Torino), e le definisce suggestivamente ‘città del silenzio’. Si noterà una lettura alquanto speculare, e fin troppo dimenticata, rispetto a quella sullo spirito civico dell’Italia del Centro-Nord condotta da Robert Putnam nell’opera sulla tradizione civica delle regioni italiane (Putnam 1993).
Si parte quindi dalla relativa difficoltà che le ‘cento città’ italiane hanno avuto, e tuttora hanno, di costruire processi di stabile modernizzazione economica e innovazione sociale. Le città, specie quelle medie e piccole, per essere strategiche hanno bisogno di sviluppare relazioni, di giocare ruoli e di tessere alleanze a scale molto diverse da quelle municipali. Eppure la nostra cultura politica è ancora localista, la nostra visione è amministrativa, le politiche urbane sono – anche nei casi migliori – confinate al quartiere, al comune. Quasi nulla è stato fatto in termini di aggregazione, agglomerazione, unione intercomunale, superamento del diaframma tra città de facto (la città reale che si espande ben oltre i confini comunali) e città de iure (quella segnata dal perimetro amministrativo). Un esempio per tutti. Nessuna unione tra Firenze e gli 11 comuni che pure ne costituiscono la materiale continuazione socioeconomica e urbanistica, portando al raddoppio della popolazione fiorentina da 300.000 a 600.000 abitanti. Qualsiasi ipotesi di unione intercomunale è stata bocciata, in primo luogo dall’insipienza municipale, e in secondo dalla rivalità di provincia e regione, ciascuna gelosa della propria prerogativa sul territorio di competenza, nei confronti del fenomeno urbano esteso. Più in generale, si sconta l’assenza della città metropolitana inutilmente richiamata per 25 anni da norme di legge, e poi da una riforma costituzionale, inapplicate e probabilmente inapplicabili: salvo forse passare da una soluzione pesante di nuova istituzione ‘verticale’ della città metropolitana a un modello leggero di tipo ‘stellare’ e negoziale (Le grandi città italiane. Società e territori da ricomporre, 2011). Pochezza istituzionale e miopia politica delle classi dirigenti centrali e locali si sono date la mano, così come localismo assoluto e astuto centralismo si sono mescolati nella storia italiana e in un particolare crescendo dal dopoguerra a oggi.
Nelle considerazioni che seguono, sviluppate a partire da un’impostazione prevalentemente teorica, si inquadra il tema della città nelle nuove politiche europee. Si tratta di un aspetto cruciale, ma poco esplorato, soprattutto del tutto assente nel dibattito politico italiano. In esso le città appaiono sempre soggetti cui ‘destinare’ politiche centrali (fiscali, assistenziali o comunque distributive), mai come soggetti strategici a partire dai quali ‘ristrutturare’ la governance multilivello dalla scala locale a quella europea. Se si capovolgesse il modo corrente di vedere e si guardasse così a partire dalle città, si potrebbe allora agire con un nuovo tipo di sperimentalismo istituzionale. Esso obbligherebbe tutti i livelli (europeo, nazionale, regionale, locale) a ristrutturarsi.
Nelle politiche europee ci troviamo sempre più di fronte a strani contratti scritti tra i partner europei e nazionali, fatti da un numero indefinito di attori. Rispetto alla tradizione giuridica, politica ed economica che pensa a contratti ‘a due’ (nel diritto civile) o ‘uno a molti’ (nel contratto sociale), questi sono contratti ‘molti a molti’, ove i ‘molti’ scendono in campo durante le varie fasi del processo di definizione con la possibilità di entrare e uscire dall’arena contrattuale. Tutti questi attori sono consapevoli di non avere una ‘completa’ conoscenza della situazione. La loro capacità di valutare i dossier locali è chiaramente parziale e frammentaria. E ciò nonostante, essi interagiscono, si muovono, intraprendono azioni e relazioni, pianificano strategicamente i propri comportamenti. Gli attori europei lanciano politiche per obiettivi molto generali rivolti ai loro territori, che saranno implementate mediante un circuito ricorsivo di attuazioni, valutazioni e rimesse a punto. In questo singolare tipo di contratti che si completano solo nel tempo, l’idea della conoscenza è tutto sommato innovativa: essa è più un’eventualità che una dotazione, è largamente frutto del processo, è piuttosto esplorazione di potenzialità da sviluppare che messa in pratica di doti di conoscenza già acquisite. Quindi, la conoscenza si presenta qui come possibilità e non come direzione necessaria dell’azione.
In un simile contesto, che cosa fanno questi ‘molti a molti’? Per spiegarlo, è utile ricorrere al Rapporto Barca (Barca 2009), scritto nel 2009 per la Commissione europea e dedicato alla riforma delle politiche europee di coesione in un’innovativa chiave place-based. Il Rapporto Barca fa riferimento a teorie del contratto, teorie della governance bilaterale e multilaterale, e anche a quelle di una gestione gerarchica del processo di policy. Tre aspetti tendenzialmente alternativi nell’elaborazione delle politiche e che nel Rapporto Barca si ritrovano insieme. Ma come funziona il tutto? I molti attori europei, nazionali, locali che sono coinvolti nelle politiche dell’Unione partecipano a uno sforzo sia istituzionale sia sociale che prevede incentivi e finanziamenti condizionati (conditional grants): inoltre viene loro indicato quali sono i costi da sostenere per uscire dal processo, qualora vogliano sganciarsene. I costi del fallimento virtuale del processo sono mostrati chiaramente. A tenere insieme questi attori è quindi una proposta alquanto diversa da quella dei contratti tradizionali. Si può parlare a questo riguardo di reti di contratti interconnessi: networks as connected contracts. Reti di impegni ‘molti a molti’, in cui ci sia continua possibilità di verificare gli avanzamenti e gli scostamenti di percorso da parte di ciascun attore. Ma anche reti in cui i diversi partner siano spinti a cooperare, anziché a scegliere in modo opportunistico e a creare per sé situazioni di rendita (rent-seeking è il processo attraverso cui gruppi di interesse monopolizzano la loro posizione imponendo costi improduttivi ai processi economici). La letteratura sul rent-seeking è arrivata a stimare il costo improduttivo delle posizioni di rendita in percentuale del prodotto nazionale, dal 3% degli Stati Uniti al 15% della Turchia. L’Italia è certamente più vicina alla Turchia che agli Stati Uniti.
Nell’idea di contratti tra molti livelli qui proposta, si ritrova la suggestione di un testo di Jacques Derrida sulla torre di Babele (Des tours de Babel, «aut aut», 1982, 189-90, pp. 67-97) nel quale i costruttori della torre ben presto si rendono conto che la loro impresa è impossibile e che non arriveranno a toccare il cielo; e tuttavia i legami, le relazioni, gli scambi di conoscenza che si sono costruiti nel frattempo hanno finito con il tenerli assieme in uno ‘strano contratto comunitario’. Tale contratto è basato sull’incompletezza, anzi sull’incompiutezza, sulla consapevolezza che la città continuamente si trasforma in vista di generazioni future. Quindi l’incompletezza, l’incompiutezza non creano distacco tra gli uomini, ma anzi cementano obbligazioni reciproche.
Passando a considerare i luoghi di questo contratto, ciò che emerge riguardo gli attori che operano per lo sviluppo dei loro territori è la scoperta che questi ultimi non si possono definire a priori. Il Rapporto Barca dice in maniera esplicita che non vi sono confini predefiniti, tanto meno confini amministrativi, mettendo così in crisi – con implicazioni politiche forti – tutto il discorso delle regioni amministrative come attori di un territorio i cui confini in realtà non sono definibili ex ante sul piano sostanziale, ma vengono definiti volta per volta nell’ambito del processo e dal processo, riferendosi alle diverse politiche e ai relativi contesti, attori e arene collettive. Si tratta di confini variabili e mobili. Vi sono esempi europei di combinazioni territoriali di notevole interesse, di aggregati territoriali che potrebbero derivare da questa nuova cornice di riferimento. Tutto si sposterebbe dal rapporto gerarchico unione-Stati-regioni a un rapporto ‘molti a molti’ il cui esito è la connessione tra nuovi attori territoriali a formare nuovi assemblaggi, nuove combinazioni. Realizzando quello che la teoria sociale ha solo prefigurato. Assemblaggi e amalgama infatti sono bene individuati dalla letteratura. Il mondo è presentato non più come un mosaico di Stati nazionali, ma come un assemblaggio di global city regions.
L’auspicabile ruolo di un centro (globale, europeo, nazionale) in questi processi è altamente problematico, ma essenziale. Ma il centro è ormai piuttosto un arbitro, anzi forse solo un playmaker: dovrebbe agire per fare giocare tra loro i territori in una relazione che contemperi coesione e competizione. Un ruolo ben diverso dalla vecchia pretesa dell’attore centrale di prendere le distanze per vedere meglio dall’alto. Sta piuttosto all’intelligenza delle istituzioni capire che bisogna dare vita politica a ogni parte dei territori. Allo scopo di creare una situazione in cui siano infinite le occasioni per i diversi attori, tutti partecipanti al gioco comunitario, di comprendere che essi stessi sono cittadini che hanno bisogno gli uni degli altri. Attori collettivi portatori ciascuno di un pezzo di conoscenza che possano mettere in gioco, anziché tenerla ciascuno per sé. L’intelligenza istituzionale sta nel creare infinite occasioni perché si sviluppi questa particolare ‘cooperazione interessata’ in cui consiste la democrazia dei moderni.
La letteratura storica, economica e geografica sulle città prima ha messo in rilievo come lo sviluppo urbano sia fortemente determinato da fattori oggettivi di localizzazione delle attività economiche (di tipo fisico e geografico), poi ha evidenziato la cosiddetta path-dependence («dipendenza dal percorso»), ovvero quale sia l’importanza della storia in determinati processi sociali ed economici e quindi come le scelte compiute in passato dagli attori incidano ampiamente sulle attuali e future configurazioni delle città. Più recentemente l’idea di path-dependence ha portato a elaborare teorie evoluzioniste che spiegano i sistemi locali di innovazione (dalla Silicon Valley alla Terza Italia) come frutto di percorsi dettati da scelte imprenditoriali innovative nei prodotti e nei mercati, combinate con fattori di tipo sia socioculturale sia economico-funzionale.
Il caso italiano di sviluppo urbano deve alla path-dependence la spiegazione di fattori quali la crescita delle città industriali del triangolo del Nord-Ovest, lo sviluppo di una rete di città medio-piccole in aree di industrializzazione minore del Centro Nord-Est, la permanenza delle città del Mezzogiorno in uno stato di forte arretratezza relativa. I processi demografici e migratori seguono bene questa curvatura: prima un forte flusso dal Sud (e dal Centro Nord-Est) verso il Nord-Ovest, poi uno sviluppo sociodemografico della Terza Italia, infine un’apertura dell’immigrazione extracomunitaria verso le città del Nord e, in parte, del Centro e del Sud.
Lo studio territoriale più completo sull’Italia del periodo qui considerato sintetizza il quadro in questi termini: «Le regioni del Centro e del Nord hanno dei sistemi locali del lavoro dinamici nei quali il tasso di occupazione è aumentato tra 1971 e 1996. Le loro popolazioni sono più scolarizzate, l’invecchiamento della popolazione è più pronunciato, gli alloggi sono di migliore qualità e i tassi di natalità sono più deboli. Esistono solide infrastrutture di trasporto, che generano un numero considerevole di posti di lavoro. Il modello di sviluppo locale di questi sistemi locali del lavoro forti, caratterizzati da un elevato tasso di crescita dell’occupazione, è basato sulle attività manifatturiere e sui servizi alle imprese. Nei sistemi locali del lavoro deboli, localizzati essenzialmente nel Mezzogiorno, i tassi di crescita dell’occupazione sono minori. Di piccola taglia, né fortemente urbanizzati né caratterizzati da una popolazione densa, non rappresentano che una debole parte della popolazione totale. La loro urbanizzazione limitata accentua la loro marginalità. La dimensione dei nuclei famigliari è maggiore della media nazionale. Il tasso di occupazione nel settore manifatturiero è relativamente più basso, e l’industria pesante e le grandi imprese predominano, nonostante l’emergere di reti dinamiche di piccole e medie imprese. I servizi alle imprese sono più limitati e si osserva una maggiore specializzazione nei servizi più tradizionali. Le infrastrutture di trasporto sono meno sviluppate e generano minori posti di lavoro» (OCDE 2001, p. 56). A questa dipendenza dal ‘percorso storico’ si affianca il ruolo svolto dalle politiche di sviluppo, urbane, territoriali, sociali e del lavoro che accentuano ulteriormente il divario esistente.
L’OCDE evidenzia i seguenti casi come i più esemplificativi di tali politiche carenti: a) le politiche di gestione del territorio in materia ambientale (paesaggio, zone protette, aria, acqua, rifiuti, energia) vedono un netto squilibrio a sfavore delle regioni del Mezzogiorno (in particolare Puglia, Campania, Calabria, con l’eccezione di Basilicata e Molise); b) i servizi di sostegno sociale locale assicurati dalle municipalità sopra i 20.000 abitanti: asili, servizi per il tempo libero, assistenza economica ai figli illegittimi, trasporti scolastici, informazione dei giovani, aiuto domiciliare ai portatori di handicap, minimo vitale, aiuto alle urgenze sociali, sostegno agli immigrati, ticket sanitario per i poveri, pasti per i poveri vedono sistematicamente il Mezzogiorno sotto la media nazionale (unica eccezione: aiuti ai detenuti o ex detenuti); c) nel turismo la ricettività alberghiera del Mezzogiorno è il 15% del totale nazionale, gli arrivi e le partenze degli aeroporti dell’intero Mezzogiorno sono inferiori del 50% a quelli della sola Palma di Maiorca; d) le indennità di disoccupazione e i lavori socialmente utili vedono due regioni del Mezzogiorno, Campania e Sicilia, accaparrarsi una quota esorbitante della spesa assistenziale (il 50% dei cosiddetti lavori socialmente utili); e) l’impiego pubblico è pari a un quinto dell’occupazione totale nel Mezzogiorno, a un decimo nel Centro-Nord; f) il lavoro irregolare nel Mezzogiorno è pari al 33% del totale rispetto alla media italiana del 22%; g) i municipi in stato di dissesto sono 334 nel Mezzogiorno (il 13,1% del totale dei municipi meridionali, con punte in Campania e Calabria) e 83 nel Centro-Nord (l’1,5%).
Ricerche recenti hanno ripreso la tesi della path-dependence evidenziando come lo sviluppo urbano del Centro-Nord dagli anni Sessanta a oggi sia largamente spiegato dal tipo di sviluppo economico che si è prima dilatato territorialmente e poi intensificato lungo i principali assi infrastrutturali. Secondo questa lettura le aree di maggiore crescita del Centro-Nord sono quelle che, nel corso dei diversi momenti storici, hanno saputo sovrapporre differenti modelli caratteristici delle varie fasi: quella del ventennio fascista, quella del boom industriale e urbano postbellico, quella della deurbanizzazione e sviluppo di piccola impresa, infine quella attuale di internazionalizzazione. «Nell’ultimo periodo, la strutturazione dei corridoi europei ha ridefinito la centralità strategica di alcune aree poste all’incrocio di grandi direttrici, fornendo loro un ulteriore vantaggio competitivo» (Feltrin, Maset, in Nord. Una città-regione globale, 2012, p. 81).
Si consideri in questa luce la dinamica della popolazione insediatasi nelle aree urbane e metropolitane che si sono formate nel mezzo secolo appena trascorso (tab. 1). La maggiore crescita è avvenuta non tanto nelle classiche aree metropolitane (che anzi hanno conosciuto in alcuni casi una contrazione, come Genova e Trieste) quanto nelle nuove agglomerazioni urbane venete, emiliane e lombarde cresciute lungo gli assi autostradali da Milano a Venezia, da Milano a Rimini, lungo l’asse del Brennero. Il Veneto centrale che assembla in un’unica area metropolitana Venezia, Padova e Treviso, l’Emilia centrale formata dall’inedita città lineare lungo la via Emilia, Bergamo, Brescia, Verona e Vicenza allineate sull’asse dell’A4, Rimini al vertice dell’asse adriatico, Trento sulla Verona-Brennero sono i veri drivers della crescita urbana del Centro-Nord, insieme a Toscana centrale e Perugia lungo l’asse Milano-Roma.
La lettura in chiave di path-dependence non spiega però a sufficienza alcune varianti e in particolare perché a parità di condizione di accessibilità infrastrutturale alcune aree urbane crescono più di altre, attraendo popolazione e imprese in misura maggiore. Quale diversa agency, azione consapevole degli attori della governance, è all’opera nei vari casi? Una risposta viene dalle ricerche recenti condotte sulle politiche urbane e metropolitane in Italia (Burroni, Piselli, Ramella, Trigilia 2009; Piselli, Burroni, Ramella 2012) che hanno evidenziato la variabile capacità delle città di produrre ‘beni collettivi locali per la competitività’, cioè beni e servizi non divisibili offerti a tutta la cittadinanza, o comunque beni destinati a particolari categorie di utenti e di cittadini. Spiccano nella platea degli utenti le imprese economiche e di servizi, che hanno, più che in passato, una necessità vitale di acquistare beni materiali e immateriali da aziende esterne presenti sul territorio (nell’ambito della formazione, ricerca, infrastrutture, servizi alle imprese, ma anche servizi sociali e cultuali per i propri dipendenti e le loro famiglie). La competizione tra territori, nonostante una certa retorica su questo argomento non sia mancata, è una realtà dell’economia globale. In questo senso la qualità urbana, poiché nelle città si produce gran parte di questi beni collettivi, è fattore decisivo dello sviluppo. Queste ricerche partono dall’ipotesi che le città abbiano una capacità variabile di formare reti di collaborazione tra i diversi soggetti pubblici e privati, dalla cui cooperazione dipende la fornitura dei beni collettivi locali. Sono le città che hanno una maggiore integrazione degli attori nella governance locale a produrre gli esiti migliori. E in queste ricerche emergono stili di policy e reti di governance urbana alquanto diverse, specie tra Nord e Sud del Paese. Le associazioni che partecipano ai processi decisionali sono un indicatore di come funzionano queste reti. I comitati, che rappresentano la società civile e sono definiti la culla di incubazione della nuova democrazia urbana, sono nati e sono presenti in numero rilevante a Torino, sono presenti anche a Napoli e Firenze, mentre sono assenti del tutto a Palermo e vantano una sola presenza a Bari (per citare alcuni esempi tra le città studiate in Burroni, Piselli, Ramella, Trigilia 2009). Anche la presenza di network decisionali più o meno ampi è indice di un’associazione sistematica (o meno) degli attori sociali collettivi alle decisioni dell’amministrazione pubblica: l’ampiezza dei network risulta massima a Torino, minima a Bari.
Una successiva messa a punto (Piselli, Burroni, Ramella 2012) ha permesso di evidenziare da un lato il ruolo dei fattori di contesto (l’effetto città) nella spiegazione delle varianze di performance tra città nella produzione di beni collettivi locali, anche se il contesto sembra spiegare solo un terzo della varianza complessiva nella prestazione dei beni collettivi locali. Dall’altro però è emerso il peso assai forte, che se introdotto porta a spiegare i tre quarti della varianza complessiva, dei fattori di processo rappresentati dalla capacità di includere nelle decisioni diversi settori di policy e di produrre un approccio integrato, coordinato e aperto alle politiche urbane: il ruolo della governance inclusiva. Se da una parte emerge quindi il ruolo del contesto favorevole allo sviluppo di politiche urbane innovative, specie nelle città del Centro-Nord (conferma della path-dependence), dall’altra è forte la capacità inclusiva, anch’essa maggiore nelle città del Nord, di produrre innovazioni coinvolgendo attori interni ed esterni all’amministrazione con rapporti di coordinamento e fiducia (la dimensione dell’agency che la letteratura ha definito in termini di actor-based institutionalism).
Le forme del policy making contemporaneo si basano sia sulla negoziazione sia sull’argomentazione. La negoziazione è una modalità di incontro tra due o più interessi definiti e strutturati che si avvicinano a un compromesso fino a raggiungere un certo punto di equilibrio normalmente provvisorio e parziale; l’argomentazione è invece un processo deliberativo cui partecipano punti di vista diversi che nel corso del processo si modificano e si ridefiniscono, le preferenze non essendo predefinite o costanti, sulla base di argomenti che ciascun attore pubblicamente sostiene. La negoziazione ha certamente prevalso sull’argomentazione nel policy making delle società industriali avanzate, soprattutto sulla base di una fortunata affermazione nel secondo Novecento della teoria dei giochi che ha tradotto in formule matematiche le aspettative sui comportamenti incerti degli attori sociali. La negoziazione stessa non è un unico corpo, ma è fatta di diverse anime, in particolare la negoziazione integrativa si contrappone a quella distributiva: la prima si traduce nella parziale e transitoria integrazione dei punti di vista che si sono fronteggiati, mentre la seconda allude alla ripartizione delle poste tra giocatori secondo schemi che si basano sulle rispettive capacità di influenzare tale ripartizione determinata dall’ineguale distribuzione delle chances (investimenti, educazione, denaro, accesso all’informazione ecc.).
Più di recente il tema della democrazia deliberativa ha riproposto la forma del dialogo rispetto a quella del contratto. Il processo di tipo deliberativo si avvicina al concetto di democrazia partecipativa e si basa sull’accurata costruzione delle condizioni entro le quali il dialogo possa prendere forma. Essa presuppone parlanti informati e un setting favorevole, oltreché procedure che garantiscano una parità di accesso ai diversi portatori di interesse. Varie esperienze di democrazia deliberativa sono state documentate con riferimento alla politica locale, sia in democrazie mature sia in Paesi in via di sviluppo. Esse consistono nell’assegnare equamente le chances di potere deliberativo (empowerment) e nello stabilire le procedure che assicurino forme e tempi adeguati del dialogo diretto. La democrazia deliberativa riprende il concetto di azione comunicativa e ripropone la duplicità delle forme politiche: da un lato il mercato, dall’altro il foro. Mentre il mercato propone alla politica lo strumento del contratto, con i vantaggi di automaticità e di velocità del decision making, ma con gli esiti di svuotamento delle basi etiche della politica, il foro ripropone l’idea classica della democrazia, il cui valore deve però fare i conti con i costi di partecipazione e di lentezza nella presa delle decisioni.
La pianificazione strategica delle città si presenta come espressione di una razionalità dialogica che si allontana dalla razionalità adattiva, secondo la quale voler chiarire in anticipo gli obiettivi renderebbe impossibile l’accordo, in quanto accordarsi sulle politiche pratiche che non mettono in gioco i valori è molto più facile dell’accordo sui fini dell’azione. Arene e fori della pianificazione strategica, invece, costringono gli attori a dichiarare valori e preferenze in anticipo e in forma pubblica, quindi riducono gli spazi di negoziazione bilaterale o occulta. La dichiarazione pubblica tipica del processo deliberativo (in cui gli attori si impegnano appunto pubblicamente) si accompagna alla costruzione condivisa della ‘visione’della città. La pianificazione strategica delle città è anche una rappresentazione che ha tra i suoi effetti quello di stabilire la posizione degli attori entro l’area decisionale. Anziché essere decise dall’autorità, le politiche pattizie della pianificazione strategica delle città usano un sostituto funzionale: spingono gli attori lungo un percorso di dichiarazione pubblica delle proprie preferenze, di rete di impegni e di reciprocità che alla fine ne rende impossibile (o costosa) l’uscita. Gli incentivi e i disincentivi che queste politiche utilizzano sono simbolici e di identità, il che rende differibili nel tempo le esigenze di incassare risultati da parte degli attori, anziché puntare a una loro soddisfazione a breve. Introdurre la variabile temporale di medio-lungo termine (in genere è di 15-20 anni l’orizzonte del piano strategico urbano) migliora la visione di attori istituzionali miopi, ma permette anche di modificare le preferenze a breve degli attori. Ciascuno deve essere convinto che la partecipazione al gioco di ‘costruire la città con la parola’ sarà per lui conveniente, o grazie alla condivisione di informazioni e di vantaggi che la partecipazione ad arene decisionali comporta, o anche in vista dell’influenza politica e della reputazione che potranno essere acquisite, ingredienti essenziali dell’agire nella sfera pubblica. L’arco temporale medio-lungo svolge anche un’altra decisiva funzione, quella di consentire il pieno svolgimento del processo deliberativo, anche se questo tempo non può essere inconcludente e infinito.
Un tema connesso è quello della governance locale. Mentre la letteratura ha ormai messo in evidenza molti aspetti relativi alla creazione, gestione e manutenzione dei network interorganizzativi e interistituzionali, permane una certa dimensione eccessivamente orizzontale che i fautori della pianificazione strategica delle città attribuiscono proprio alla governance locale. Pesa certamente su questo tipo di governance una visione della democrazia deliberativa come forma non gerarchica di decision making, ma in questo modo resta in ombra il ruolo che le politiche di livello extralocale sono chiamate a giocare nella pianificazione strategica urbana. I temi del montaggio delle politiche multilivello, del trasferimento delle politiche da un livello all’altro, e del ‘nuovo centro’ (Rapporto Barca) che è richiesto da forme di pianificazione strategica, assumono qui un ruolo essenziale. Uno dei problemi da risolvere è come passare da una proiezione temporale lineare tipica della passata programmazione sinottica, a una basata sulla discontinuità, su salti che permettano innovazioni.
La pianificazione strategica è a volte considerata a torto una riproposizione della vecchia programmazione per obiettivi. Ma in realtà si tratta del passaggio da una razionalità volta a raggiungere obiettivi predeterminati a una razionalità processuale, da cui emergono obiettivi comparati ed effetti di imitazione e di apprendimento possibili. Il passaggio è quindi netto, l’abbandono della vecchia programmazione razional-sinottica evidente. Resta da vedere se questo porti con sé il superamento della logica dell’adattamento (incrementalismo adattivo) e comprenda la produzione di innovazioni. Nella tabella 2 sono riassunte alcune linee guida seguite nella pianificazione strategica delle città, le relative strutture di implementazione e la realizzazione di significative innovazioni di processo e di prodotto. La pianificazione strategica delle città cerca di individuare e risolvere le questioni controverse prima di fissare gli obiettivi. Essa evita di estrapolare soluzioni in modo lineare da trend correnti o passati (come in genere faceva la vecchia programmazione del dopoguerra), ma tende a introdurre novità, discontinuità, effetti di apprendimento, retroazioni. Definisce inoltre corsi di azioni possibili e le varie opzioni aperte e tenta di costruire tali azioni, anziché fissare uno stato futuro desiderabile e di lì retroagire sul presente. La pianificazione infine non è un corpo unitario di concetti e procedure, ma un campo di esperimenti, per cui non esiste un modello unico di pianificazione strategica urbana da applicare, ma vi è una varietà di vie da esplorare e di fasi da implementare.
Fasi della pianificazione
Innesco. Quando una città decide di avviare la pianificazione strategica? Anche se il campo degli esperimenti è vasto, essi si possono ricondurre a: reazioni a fasi di declino urbano; allargamento dei confini territoriali (es. unioni intercomunali); municipalismo e regolazione tra livelli di governo; attrazione di investimenti e aumento della competitività territoriale.
Input. Per avviare la pianificazione strategica sono necessari un forte impegno e una precisa volontà manifestata da chi guida la città e dalle diverse componenti della società civile, dell’economa, del mondo associativo. Per questo scopo i principali input saranno: a) le risorse materiali e immateriali investite nella pianificazione strategica; b) le risorse di leadership, misurate dalla promozione del piano da parte del sindaco; c) le risorse di legittimazione che derivano dalla partecipazione al processo dei principali portatori di interesse (stakeholders); d) le risorse cognitive messe a disposizione del processo che richiede una base di conoscenza della città spesso assente all’inizio del percorso.
Output. L’output della pianificazione strategica è l’insieme dei risultati che sono conseguiti dalla città come esito del percorso seguito. I risultati principali possono essere controllati e misurati per fasi, ossia a) una ‘diagnosi’ di rappresentazione dei problemi di partenza e delle questioni controverse; b) un ‘documento di visione’ che raccolga in forma ragionata le costruzioni condivise di scenari, assi strategici, azioni future; c) un ‘parco progetti’ che convogli le principali indicazioni di policy emerse nelle varie fasi del processo; d) una ‘struttura di implementazione’ mediante la creazione di un ufficio, o agenzia di sviluppo, o fondazione di scopo, o associazione tra attori pubblici e privati, o urban center.
Processo. Spesso le città sono troppo immerse nel breve ciclo politico elettorale per mantenere l’attenzione su visioni e progetti di medio-lungo termine, e qui sta il contributo della pianificazione strategica.
Reticolo organizzativo. La rete degli attori è la conseguenza o l’esito della pianificazione strategica: forse è il suo essenziale, ma vitale sottoprodotto. La costruzione di una rete stabile permette infatti di far cooperare attori che normalmente non cooperano o perfino confliggono tra loro.
Partecipazione. La pianificazione strategica è un processo di democrazia deliberativa che affianca le istituzioni rappresentative elettive attraverso un coinvolgimento più ampio di attori collettivi, pubblici e privati, nelle decisioni fondamentali sul futuro della città. Ciò non toglie che il ruolo di gestione resti affidato agli organi della democrazia rappresentativa e alle amministrazioni pubbliche. L’obiettivo, non facile, è di avere sia interessi forti sia interessi deboli entro il processo.
Rapporto con le politiche sovralocali. Il piano strategico della città non può essere isolato dalle politiche sovralocali (regionali, nazionali, europee). La governance multilivello presenta varie articolazioni: di dimensione metropolitana, in quanto l’adesione dei comuni dell’area metropolitana è condizione necessaria, ma non sufficiente per condurre politiche metropolitane; di politiche regionali, specie nel caso di città capoluogo di regione in cui esiste tensione tra i due livelli (importante è che la regione partecipi al piano strategico); di politiche nazionali che devono intervenire con cautela in termini di sostegni finanziari per evitare dispersione di risorse pubbliche; di politiche europee nell’ambito delle quali risulta evidente la carenza di politiche urbane: è infatti l’intera politica regionale e di coesione sociale a richiedere una riforma.
Governance. Il piano strategico diventa uno strumento di governance sui temi più rilevanti del futuro della città se e quando permette di sviluppare e di migliorare il dialogo tra attori istituzionali e di aumentare il livello di cooperazione tra pubblico e privato. Si produrranno effetti di spill over sui rapporti tra gli attori anche al di fuori del piano.
Valutazione e monitoraggio. Si tratta di misurare l’incidenza della pianificazione strategica, dei suoi progetti, del dialogo interistituzionale e interorganizzativo da essa innescato sulle performance complessive della città in particolare sul rendimento istituzionale, sulla realizzazione di infrastrutture, sulla coesione sociale, sulla creazione di nuove imprese innovative, sull’attrazione di investimenti, sulla qualità della vita urbana, sull’ambiente e così via. Un’importante possibilità è quella di utilizzare le diverse sedi deliberative (fori, arene, giurie dei cittadini) per far esprimere i cittadini su contenuti progettuali specifici.
Un’analisi delle città per flussi e per reti, anziché per stock e per dotazioni, non è usuale nella letteratura degli studi urbani in Italia. Gli studi sul capitale territoriale delle città (Camagni, Dotti 2010), sulle dotazioni di risorse e sulla loro attivazione da parte di politiche urbane (La nuova occasione, 2012) tendono a privilegiare un’analisi di tali dotazioni e non si spingono a misurare e valutare le città come nodi di flussi. Secondo Roberto Camagni e Nicola Francesco Dotti, in realtà, il capitale territoriale di una città è misurato da più indicatori relativi ai tipi diversi di capitale: produttivo, cognitivo, sociale, relazionale, ambientale, insediativo, infrastrutturale. Almeno alcuni di essi sono utilizzabili come proxy per la misurazione di flussi e di reti. In particolare, il capitale relazionale è misurato dalle esportazioni di un territorio, e quindi dalla sua capacità di generare flussi di merci in uscita (e in entrata). Quello infrastrutturale è a sua volta misurato dall’accessibilità multimodale di un territorio, e per questa via è indicatore di flussi di persone che, quotidianamente o sistematicamente, visitano un territorio la cui natura attrattiva è pertanto definibile. Anche lo studio di Paola Casavola e Carlo Trigilia analizza sì le dotazioni di risorse (ambientali e culturali, di conoscenza, di saper fare) di un territorio, ma elabora anche indicatori di attrattività che misurano le presenze, a fini turistici o di affari, di quel territorio. In entrambi i casi l’unità di analisi è provinciale, a causa della mancanza di dati su sistemi urbani che non siano i comuni (o in alcuni casi i sistemi locali del lavoro).
Manca però in questi due eccellenti studi, come in altri, un’esplicita misurazione delle reti e dei flussi generati dalle città: misurazione realizzabile studiando le relazioni che caratterizzano una città in quanto nodo di una rete. È quanto fa in particolare la letteratura anglosassone sui world city network. (cfr. Taylor, in Nord. Una città-regionale globale, 2012) in cui si analizzano le città mondiali sulla base delle relazioni che s’instaurano tra le imprese multinazionali di servizi avanzati in esse localizzate. In tal modo si individua una rete tra le città mondiali che si scambiano in modo sistematico informazioni, persone, beni e servizi immateriali stabilendo dei posizionamenti gerarchici. In queste analisi l’Italia compare nelle primissime posizioni mondiali grazie a Milano (che è ottava nelle graduatorie mondiali di connettività globale), mentre Roma è solo trentesima e Bologna e Genova compaiono in posizioni di coda.
I dati raccolti da Taylor (relativi al 2008) mostrano come Roma sia meno integrata di Milano nel world city network. Si tratta di un posizionamento che assegna alla capitale un ruolo nodale nel network soprattutto con riferimento alla connessione con le altre capitali europee, e conferma che il sistema italiano è caratterizzato dalla presenza di due world cities (le altre città italiane nella classifica sono Bologna, 162a, e Genova, 231a). Nei Paesi che presentano due world cities, è importante comprendere se le offerte di servizi nelle due città si sovrappongono determinando una situazione di competizione, o mostrino differenze sufficienti a suggerire qualche elemento di complementarietà. Ciò può essere analizzato attraverso la disaggregazione dei valori di complementarietà nelle loro componenti settoriali.
Nel confronto tra Milano e Roma (tab. 3) emerge che il profilo dei servizi offerti da Milano è molto più vicino ai valori della diade comprendente New York-Londra (NYLON), che costituisce un profilo standard per comparare quelli di altre global cities, di quello espresso da Roma. Questa situazione appare particolarmente evidente per l’attività più rilevante: la finanza. Milano è un centro finanziario internazionale, a differenza di Roma. Milano e Roma, entrambe sulla scia dei valori di NYLON, mostrano dotazioni simili di servizi legali. In realtà a New York e a Londra si concentra la maggior parte dei servizi legali globalizzati, e le altre filiali di imprese si focalizzano su due aree specifiche d’attività: la finanza e la politica. Le imprese di consulenza legale tendono a concentrare i propri uffici nei centri finanziari e nelle capitali degli Stati più importanti: da qui deriva la forza attrattiva esercitata sia da Milano sia da Roma. Rispetto a Milano e a NYLON, Roma deve una quota maggiore della sua connettività alle attività di contabilità, alla pubblicità e alla consulenza gestionale. Alte percentuali di contabilità sono tipiche delle world cities meno importanti; i valori superiori a quelli milanesi nel settore della pubblicità riflettono la preminenza di Roma nell’ambito della televisione nazionale; e l’alta dotazione di attività di consulenza è un’altra conseguenza dello status di capitale, in quanto la consulenza manageriale si concentra spesso sugli aspetti politici. Sia Milano sia Roma sono relativamente sovraconnesse alle altre città europee. Questa tendenza è più evidente per Roma che per Milano. Si ha invece una situazione opposta per quanto riguarda le relazioni sia di Milano sia di Roma con le altre città italiane. In entrambi i casi la presenza di imprese di servizi avanzati nell’ambito della produzione indica che si tratta di world cities piuttosto che di città di portata meramente nazionale. Questa tendenza è più evidente per Milano che per Roma. Milano e Roma differiscono per ciò che riguarda i loro orientamenti verso le città nordamericane: Milano è leggermente sovraconnessa, Roma è sottoconnessa. Nonostante ciò, entrambe le città sono sovraconnesse con NYLON, anche se Milano presenta i valori più alti. Un’ulteriore differenza tra le due città emerge dal confronto con un’altra regione globale, ossia quella dell’Asia sud-orientale: Milano risulta fortemente sovraconnessa, mentre Roma appare fortemente sottoconnessa.
Questa differenza tra le due città rispecchia il predominio dei legami relativi alle attività economico-finanziarie nelle relazioni con quella regione, dai quali deriva un’evidente concentrazione delle reti su Milano. Se invece si focalizza l’attenzione sulla sola triade di città cinesi (Beijing, Shanghai, Hong Kong) sia Milano sia Roma appaiono sovraconnesse, anche se con valori più alti per Milano. Appaiono forti i legami di Roma con Beijing, già individuati nella tabella 4.
Queste evidenze permettono di fissare un aspetto significativo in chiave di politiche urbane: l’hinterworld di Milano è più globale di quello di Roma. Il suo orientamento è meno europeo e italiano di quello di Roma, e risulta maggiormente orientato verso il Nord America e l’Asia sud-orientale, così come verso i centri rivali della globalizzazione che sono NYLON e la triade cinese. L’implicazione in termini di policy è che Milano si conferma la prima world city italiana nei servizi avanzati della produzione, quindi identificata come una città di successo. Ma Taylor ha misurato un singolo processo, non tutta una città. Le città sono scenari di miriadi di processi; in questa analisi ne viene esaminato uno solo, per quanto importante esso possa essere, quello di ‘macchina per la crescita economica’. Non è sorprendente che Milano esprima un maggiore successo economico di Roma nel world city network. Queste reti si focalizzano sui servizi finanziari, nei quali Milano è particolarmente forte: l’attuale finanzializzazione dell’economia globale garantisce a Milano un evidente vantaggio. Ma ci sono molti altri network di città che stanno formandosi nella globalizzazione, e in molti di essi i processi politici rivestono posizioni più centrali (per es., le organizzazioni non governative, le ONG, come creatrici di city networks). Spesso in queste reti Roma presenta un posizionamento migliore di Milano. Certamente però oggi sono i network economici a occupare una posizione cruciale e a indicare il dominio di forme di globalizzazione neoliberali.
Resta comunque possibile che nel corso del 21° sec. l’acuirsi di emergenze in ambito energetico, climatico e sociale possa modificare l’agenda politica verso priorità che non siano strettamente economiche. Una futura, crescente richiesta di forme di governance globale potrebbe quindi rovesciare la situazione, con Roma più adatta a cogliere nuove opportunità come world city rispetto a Milano, sempre concentrata sulla sua performance economica.
Sin qui, il lavoro di Taylor ha messo in rilievo la diade Milano-Roma, ma non ha potuto assegnare alcun ruolo alle altre città italiane, in quanto marginali entro le relazioni globali tra città misurate in base alle interconnessioni tra imprese di servizi avanzati. Un tentativo ulteriore in questa direzione è stato effettuato analizzando 31 città italiane mediante raccolta di dati da fonti ufficiali relativi ad aspetti che misurano la relazionalità economica delle città (Garavaglia 2012). In questa lettura dei dati ci si concentra sulla misurazione dell’aumentata competizione tra territori per attrarre non solo imprese e risorse, ma anche nuovi residenti, city users e visitatori. In tale analisi si considerano diversi aspetti, tra i quali: i flussi di persone e la mobilità della popolazione sia interna sia esterna che caratterizza la città; i flussi di merci che il capitale fisso sociale della città riceve e movimenta; i flussi di conoscenza del capitale umano e cognitivo che la città attrae e che contribuisce a formare. Si tratta di diversi misuratori dell’attrattività o capacità delle città di fare rete.
La letteratura sulle città ha da tempo individuato (Martinotti 1993) nei sistemi urbani contemporanei dei flussi di persone molto differenziati che si intrecciano variamente, ma seguono logiche distinte di mobilità: si tratta di pendolari, city users, metropolitan business communities. Solo i primi si spostano quotidianamente verso ed entro l’area urbana considerata per esigenze lavorative; i secondi affollano la città in momenti dedicati al consumo di massa o per motivi di turismo o per la frequentazione di luoghi di consumo culturale; i terzi infine corrispondono allo stereotipo del global cosmopolitan, quella minoranza attiva e influente che vive nella continua mobilità tra città diverse in quanto appartiene a un mondo del lavoro ormai pienamente globalizzato. Alle differenti composizioni di tali flussi corrispondono diversi modelli di sviluppo urbano e differenti strategie di crescita. Alcuni di questi flussi sono oggetto di misurazioni assai precise e affidabili come le permanenze turistiche, misurate ovunque tramite i dati forniti dalle strutture ricettive. Questi ultimi sono stati usati da Casavola e Trigilia nello studio comparato sulle città del Sud e del Centro-Nord Italia da loro curato nel 2012 (La nuova occasione. Città e valorizzazione delle risorse locali). Ma altri tipi di flussi invece sono assai difficili da individuare e misurare, e possono essere fotografati solo tramite indizi indiretti. Gli uomini e donne d’affari o metropolitan businessmen la cui presenza è un importante indicatore della vitalità economica della città nelle reti globali non possono essere individuati con gli strumenti di rilevazione disponibili, che non discriminano tra essi e altre categorie di utilizzatori delle strutture alberghiere e aeroportuali, e richiedono invece approfondimenti di ricerca presso le grandi imprese multinazionali e i centri congressi.
I dati sulle presenze nelle strutture ricettive (tab. 5) evidenziano come si privilegino i sistemi urbani delle città d’arte e di quelle che sono target per il turismo di massa: in primo luogo le grandi mete di portata globale quali Roma (di gran lunga la prima città italiana per permanenze turistiche con 23,7 milioni di presenze l’anno), Venezia (secondo i dati ISTAT a scala provinciale – omogenei con quelli presentati in tabella 5 – ammontano a 13,7 milioni di visitatori nel 2009), Firenze e Verona. Assai inferiori sono i dati relativi alle città che, pur inserite in aree ad alta rilevanza turistica, non costituiscono mete residenziali specifiche. Le città costiere mostrano valori alti solo quando, a fianco di un turismo balneare che si diffonde nel territorio, possono presentare altre risorse economiche, ambientali o culturali in grado di attrarre permanenze: sistemi economici, nodi infrastrutturali, offerte culturali o eventi (è il caso di Cagliari, che sfiora il milione di presenze annue grazie al suo ruolo di capoluogo e di centro portuale e aeroportuale, più che per la sua natura di città turistica, ma una situazione simile è condivisa da altri grandi porti quali Napoli, Genova e Trieste). Un dato notevole della tabella 5 è quello relativo agli alti valori riportati dai centri economici e commerciali: Milano (oltre 7 milioni di presenze annue), Torino (oltre 2 milioni) e Bologna (più di 1 milione e mezzo). In generale, per le città metropolitane la maggiore attrattività risulta definita dalla compresenza di più vocazioni nello stesso polo urbano (ove si intrecciano business, turismo, cultura, shopping, elevata dotazione di infrastrutture logistiche). Per le città medie si rileva una notevole differenza tra le città del Nord, immerse in un sistema di flussi che garantisce loro numerose presenze anche in assenza di forti elementi di attrattività (Brescia e Modena, entrambe con oltre 400.000 presenze) e le città del Centro-Sud, che esprimono valori alti solo quando sono dotate di una forte offerta locale.
La presenza di un contesto locale che dialoga con la città e genera flussi è ben espresso dai dati relativi agli spostamenti pendolari (tab. 6): tra i principali poli urbani solo la città globale di Milano mostra una capacità di attrarre tali flussi in misura paragonabile alle altre città globali europee, valori assai superiore a quelli di Roma, mentre, a una scala minore, mostrano i valori più elevati di flussi pendolari le città con forte vocazione neoindustriale e terziaria come Torino e, soprattutto, quelle con maggiore presenza di strutture universitarie: Bologna, Cagliari, Catania. Quest’ultima ha flussi pendolari assai più rilevanti di quelli di Palermo. Ciò è da mettere in relazione con il diverso rapporto attrattivo che si stabilisce tra città, università ed economia locale. In Sicilia le tre città universitarie hanno dotazioni di conoscenza simili, ma divergono per capacità di trasferimento di tale conoscenza alle imprese. Tale capacità è infatti decisamente più intensa a Catania rispetto a Palermo e Messina (La nuova occasione, 2012). Un altro elemento che sembra avere rilevanza in questa rappresentazione è la densità del tessuto urbano a scala regionale: centri che possono contare sulla presenza di un vasto hinterland generano flussi pendolari più corposi rispetto a centri situati in regioni dove le distanze tra città sono minori e maggiore è la concorrenza tra città per l’attrazione di pendolari. I dati relativi alla rete ferroviaria in rapporto alla popolazione residente, misurati su un arco più lungo di tempo, danno un quadro assai interessante della mobilità extraurbana della popolazione. Come emerge nella tabella 7 la dotazione infrastrutturale ferroviaria in rapporto alla popolazione vede un quadro poco considerato e persino capovolto rispetto al senso comune. Infatti le grandi regioni del Nord risultano complessivamente sottodotate rispetto al resto del Paese, anche se le regioni più piccole del Nord appaiono meglio dotate. Il paradosso va considerato rispetto alla forte crescita della domanda di mobilità di persone e di merci che i sistemi produttivi postfordisti del Nord hanno manifestato dopo la crisi della grande industria manifatturiera concentrata in poli urbani tradizionali. Quanto emerge nel trentennio (1980-2010) qui considerato è una forte disaggregazione della produzione in reti e flussi di persone, materiali e informazione che non è stata minimamente ‘raccolta’ dalla dotazione infrastrutturale materiale e immateriale del territorio interurbano che chiameremo global city region.
L’interpretazione qui proposta è rafforzata dai dati contenuti nella tabella 8 e relativi alla rete ferroviaria in rapporto alle imprese. In entrambe le tabelle si registra (nel caso della popolazione sull’arco di un ventennio, nel caso delle imprese nell’arco di un decennio) un significativo peggioramento della relazione, proprio mentre la popolazione e le imprese delle città dei territori del Nord manifestano una forte crescita (almeno fino alla crisi del 2008): popolazione e imprese risultano quindi non adeguatamente servite dalla dotazione di reti ferroviarie evidenziata nelle tabelle 7 e 8.
Analoghe riflessioni inducono le tabelle 9 e 10 relative alla rete stradale di interesse nazionale, regionale e provinciale rispetto alla popolazione residente e alle imprese insediate nelle regioni settentrionali. Anche in questo caso emerge un deficit di dotazione che corrisponde a un quadro di forti diseconomie esterne per le popolazioni e le imprese.
Se i flussi pendolari sono un buon indicatore della connessione esistente tra le città e i propri sistemi territoriali, per i flussi di persone su raggio più ampio mancano indicatori paragonabili. Solo dati indiziari possono essere ricavati dalla misurazione dei flussi di viaggiatori nei sistemi aeroportuali, che danno una stima non tanto della connessione delle città alle reti globali (più interessanti a questo fine i dati sull’accessibilità aeroportuale nella tabella 11) quanto, piuttosto, dell’entità dei flussi di persone che dal sistema locale si spostano in località non prossime.
Mentre per Roma transitano ogni anno quasi 40 milioni di passeggeri, e Milano supera i 28 milioni (frutto di una forte crescita pari al 451% del traffico passeggeri nel decennio 1997-2008 nello scalo di Malpensa e del successivo calo dopo le scelte di declassamento da parte della compagnia di bandiera nazionale), Napoli movimenta solo 5 milioni di passeggeri e Torino poco più di 3 milioni. Migliori performance sono espresse dalle grandi mete turistiche e dalle città d’arte (Venezia è terza città aeroportuale italiana e in forte espansione).
Un ultimo dato rilevante con riferimento ai flussi di persone, è quello relativo alle entrate e alle uscite di residenti nelle città e ai relativi saldi (tab. 12).
Nel corso del 20° sec. in molte zone dell’Italia, come in altri Paesi europei, si sono susseguiti cicli di urbanizzazione, deurbanizzazione e riurbanizzazione che hanno caratterizzato altrettanti momenti importanti della storia del nostro Paese. Dall’analisi condotta da Paolo Feltrin e Sergio Maset (in Nord. Una città globale, 2012) su un arco quarantennale (1961-2008) emerge una originale lettura sistemica delle dinamiche demografiche urbane: una forte crescita delle città medie e medio-piccole collocate sull’asse Milano-Venezia e su quello Milano-Rimini, frutto di espansioni urbane a loro volta trainate da una fitta localizzazione di imprese industriali e di servizi lungo le due principali infrastrutture autostradali.
In questo quadro le città metropolitane in alcuni casi tengono le posizioni, in altri casi perdono popolazione. Queste rappresentazioni sono confrontabili con i dati disponibili (da fonti Eurostat, aggiornati al 2006) che fotografano una situazione di stabilità per le città mappate (l’archivio Eurostat è carente di rilevazioni per città importanti come Milano, Napoli, Genova), con l’eccezione di Palermo, che perde abitanti in modo significativo. Se i saldi mostrano sostanzialmente una stabilità delle città, occorre rilevare come nei centri maggiori ciò sia frutto della composizione di dati assai corposi relativi a ingressi e uscite di popolazione: a Roma sono misurabili, nel solo biennio esaminato (2005-2006) circa 200 mila tra iscrizioni alle liste dei residenti e cancellazioni (tab. 12). Una conferma di queste dinamiche e soprattutto di una riapertura dello squilibrio tra città del Centro-Nord e città del Sud viene dai dati aggregati del censimento 2011 che attestano come nel periodo intercensuario la popolazione sia cresciuta del 4,3%. Questa crescita è avvenuta soprattutto nel Centro-Nord dove oltre il 70% dei comuni ha registrato un incremento demografico; all’opposto il numero dei residenti è sceso in oltre il 60% dei comuni localizzati nel Sud e nelle Isole. Oltre ai grandi centri urbani, solo le città universitarie come Firenze, Bologna e Padova (grazie a studenti che richiedono la residenza o la cittadinanza per motivazioni di natura economica e per poter accedere a facilitazioni per lo studio e per la casa) mostrano rilevanti flussi relativi ai residenti: nella gran parte delle città la crescita della popolazione viene determinata quasi esclusivamente da flussi migratori che, in molti casi, trattandosi di nuovi cittadini privi di regolari permessi, non possono essere rilevati, ma solo stimati. In questo senso le fonti più attendibili (Caritas in primo luogo) stimano in percentuali vicine al 15% la quota di popolazione immigrata delle città italiane del Nord, annunciando così una trasformazione epocale della composizione socioetnica in corso nelle nostre città anche in relazione ai più elevati tassi di fertilità delle donne immigrate.
Sulla base dei dati censuari 2011, la popolazione straniera abitualmente dimorante in Italia è quasi triplicata in dieci anni, passando da 1.334.889 persone censite nel 2001 (dato definitivo) a 3.769.518 nel 2011 (dato provvisorio). Un incremento proporzionale si rileva anche nell’incidenza degli stranieri sul totale della popolazione, che sale dal 2,34% al 6,34%.
Il dato aggregato naturalmente va qualificato con riferimento alle città, in cui la percentuale reale è molto più elevata. La situazione italiana si avvicina così sempre di più a quella dei Paesi con una più lunga tradizione immigratoria, anche se in molte città europee si registrano percentuali di stranieri attestati su valori nettamente superiori ai nostri: ad Amsterdam, Francoforte, Bruxelles, tra 1/4 e 1/3 della popolazione è straniera, a Londra lo è il 21,1%. In ogni caso il forte aumento di cittadini stranieri in Italia ha contribuito in maniera determinante all’incremento della popolazione totale nel decennio tra gli ultimi due censimenti, confermando la tendenziale staticità demografica della popolazione di cittadinanza italiana.
Uno dei più evidenti fenomeni della globalizzazione delle economie è rintracciabile nell’apertura dei sistemi produttivi locali, non più ‘isole’ autosufficienti, ma sempre più integrati in reti e filiere di vasta scala, dalla dimensione di city region a quella globale. La possibilità di connettersi rapidamente con altri luoghi è sempre più un elemento cruciale nel definire la competitività dei territori: sia tramite la possibilità di accesso alle infrastrutture telematiche sia con infrastrutture viarie che garantiscano la possibilità di veicolare rapidamente flussi ad ampio raggio (accessibilità aeroportuale) a distanze più limitate (infrastrutture stradali e ferroviarie) o anche all’interno degli stessi sistemi urbani o produttivi (dotazione e qualità dei sistemi urbani di trasporto pubblico).
Un’alta accessibilità e una buona dotazione di infrastrutture viarie sono requisiti importanti per le imprese, le cui politiche di localizzazione sono fortemente influenzate dalla capacità dei luoghi di connettersi efficacemente e rapidamente ai mercati, sia intermedi sia finali, nonché di essere raggiunti da lavoratori pendolari e metropolitan businessmen. Nel lungo periodo queste variabili possono contribuire a ridefinire i confini stessi dei sistemi locali. Ne consegue il mutamento della composizione demografica dei territori: i centri medi attorno ai grandi poli metropolitani diventano spesso scelte residenziali privilegiate per nuclei familiari intenzionati a godere di alti standard di qualità della vita e dell’ambiente, ma che si spostano quotidianamente verso la city per motivi di lavoro. I sistemi locali così ridefiniti, inoltre, danno origine a sistemi di area vasta in cui si stabiliscono nuove relazioni di filiera, si dipanano flussi pendolari, si condividono problemi di natura sociale ed economica che spesso richiedono soluzioni concertate a scale raramente definite da strutture di governo. Simili scenari sono da tempo in costruzione in ampie aree del Paese: nel Nord, che sempre più tende a organizzarsi come una global city region (Nord. Una città-regione globale, 2012); nel Sud dove, tra i beni collettivi di particolare rilievo, figura proprio l’accessibilità che condiziona lo spostamento delle persone e delle merci (cfr. La nuova occasione. Città e valorizzazione delle risorse locali, 2012); nei sistemi metropolitani gravitanti intorno a grandi città; nelle reti di città medie; nei sistemi rurali che si uniscono per approntare processi di sviluppo e per condividere strategie e progetti. Il coordinamento e la costruzione di sistemi di governance tra territori, assi di programmazione rilevanti nei piani strategici recenti di molte città, presuppongono la capacità dei territori di accogliere, generare e condividere flussi, e spesso tali programmi prevedono interventi sul sistema infrastrutturale per favorire l’amalgama di sistemi locali originariamente indipendenti in macrosistemi di area vasta.
La maggior parte dei dati relativi alla dotazione infrastrutturale dei territori sono disponibili a scala provinciale: si tratta di indicatori (elaborati dall’Istituto Tagliacarte: nella tabella 11 vengono considerati quelli relativi all’anno 2006) di dotazione di reti stradali e ferroviarie e di accessibilità aeroportuale. Tali dati misurano lo scostamento delle dotazioni locali rispetto alla media italiana (uguale a 100), e quindi permettono di visualizzare con immediatezza le situazioni di sotto o sovradotazione e di costruire una mappa del capitale infrastrutturale delle città italiane (Camagni, Dotti, in La crisi italiana nel mondo globale. Economia e società del Nord, 2010). Per quanto riguarda l’accessibilità al sistema stradale il primo dato evidente è lo squilibrio tra la dotazione delle città del Nord e quelle dell’Italia peninsulare e delle isole: tutti i centri anche minori della pianura padana presentano indici assai superiori a quelli delle regioni poste oltre la barriera appenninica, con la sola eccezione di Trieste che ‘sconta’ la sua marginalità geografica nella macroregione del Nord con un valore che è di poco inferiore alla media nazionale. Ciò pare essere effetto sia delle caratteristiche del territorio del Nord, privo di ostacoli geografici alla connessione delle sue città, sia di scelte nazionali e locali che hanno favorito l’infrastrutturazione di tale area rispetto al resto del Paese. I valori più alti sono quelli dei centri metropolitani maggiori, in cui si connettono le grandi arterie viarie: oltre a Milano, tra le città del nostro campione spiccano le dotazioni di Verona, Bologna e Torino. Un elemento di vantaggio rilevante in questa classifica è garantito ai territori attraversati dai corridoi infrastrutturali dell’Unione Europea: non solo Verona (nodo all’incrocio tra il Corridoio I e il Corridoio V), ma anche Trento, pur con lo svantaggio di un territorio montuoso, ottiene un ottimo posizionamento.
Scendendo verso Sud, la dotazione di infrastrutture viarie dei territori degrada con impressionante regolarità. Si va infatti dalle città del Centro, con valori che si collocano intorno alla media nazionale (Firenze, Perugia, Ancona), a Roma (nonostante la densa rete autostradale), per arrivare alle città del Sud, le cui sottodotazioni risultano drammaticamente evidenziate dalla distanza rispetto alla media nazionale: nell’ordine Napoli, Bari, Taranto, Reggio Calabria. Ancora più bassi sono i valori registrati nelle isole, ma in questo caso è la geografia, più che la carenza di infrastrutture, a limitare l’accessibilità.
Lo scenario è quindi quello di un’Italia che, almeno per una metà della sua popolazione, sconta una difficoltà di connessione ai mercati a causa del ritardo delle infrastrutture viarie. Le sottodotazioni dei territori della penisola si traducono di conseguenza in aumenti dei prezzi delle produzioni locali imposti dai maggiori costi logistici del trasporto su strada (che resta di gran lunga il più diffuso nel Paese, spesso in assenza di modi alternativi).
I dati relativi alla dotazione di connessioni ferroviarie dei territori italiani (tab. 11) presentano una situazione analoga, con le maggiori dotazioni nelle città del Nord e valori declinanti man mano che si scende a Sud. Rispetto ai dati della dotazione stradale, le differenze tra i territori sovradotati e quelli sottodotati appaiono leggermente minori, così come i divari tra città medie e città metropolitane nelle stesse regioni. Sono invece maggiori gli squilibri di dotazione delle aree montane (da Trento a Perugia). In particolare, emerge l’importanza di alcuni nodi della rete ferroviaria italiana (Bologna, Verona, Torino), mentre si segnala una sottodotazione di Milano, che si attesta su un valore inferiore alla media nazionale e assai distante da quelli attribuiti alle altre province del Nord-Ovest.
Uno scenario assai differente è quello ricostruito in base ai dati relativi all’accessibilità aeroportuale, secondo i quali le differenze rilevate tra città e tra aree territoriali del Paese risultano per la gran parte appianate. La necessità di garantire connessioni veloci con il resto del Paese alle aree più marginali (in particolare ai sistemi insulari) e la mancanza per un lungo periodo di una politica di razionalizzazione del sistema degli aeroporti in Italia (che ha causato una proliferazione di scali minori) hanno contribuito infatti a livellare i dati relativi all’accessibilità aeroportuale in quasi tutti i territori italiani. Si tratta di dati relativi alla mera dotazione infrastrutturale, che non sono influenzati dal numero di destinazioni direttamente raggiungibili dagli scali. La disparità tra i centri del Nord e quelli del Sud risulta quindi appianata o assai ridotta: mentre le prime posizioni della classifica sono occupate dalle città che possono vantare la presenza di più di uno scalo nel territorio provinciale o nelle immediate vicinanze (Milano, Roma, Venezia), anche le città meno dotate si collocano su valori solitamente non inferiori all’80% della media nazionale. Le situazioni di svantaggio grave rilevate riguardano invece i centri medio-piccoli del Sud collocati lontano dai maggiori poli metropolitani (per es. Potenza, Campobasso, Taranto) e le aree montane. Le città siciliane e sarde presentano dotazioni allineate alla media nazionale e superiori a quelle delle regioni del Sud continentale, a testimoniare l’efficacia del sistema di connessione aerea per queste città che compensa in parte il deficit di connessioni via terra.
Un indicatore riassuntivo delle dinamiche proposte è reso disponibile dagli archivi Eurostat a scala urbana, e riassume la dotazione di infrastrutture viarie delle città tramite un indice sintetico di accessibilità multimodale. Oltre alle informazioni sulla disponibilità di infrastrutture viarie, ferroviarie e aeroportuali questo indice comprende dati sul trasporto pubblico, e vede quindi privilegiate, rispetto alle rappresentazioni precedentemente esaminate, le città maggiori. Oltre a Milano, di gran lunga la meglio dotata delle città italiane, sono i centri metropolitani del Nord e del Centro a collocarsi nelle prime posizioni: Roma, Napoli, Torino, Bologna, Firenze, Genova, Venezia. Le città medie del Nord e quelle medio-grandi del Centro-Sud seguono in classifica, con valori che oscillano intorno alla media nazionale, mentre a mostrare la minore accessibilità intermodale sono centri urbani del Sud (Campobasso, Taranto). Anche secondo questo indicatore permane la differenza tra Nord e Sud e tra grandi poli e piccoli centri, in una misura che risulta drammatica per alcune situazioni del Mezzogiorno e che ostacola ogni definizione di programmi di sviluppo delle economie locali, in scenari che richiedono alle imprese la disponibilità di strutture logistiche efficienti e alle persone la capacità di effettuare spostamenti pendolari su un raggio più ampio possibile.
Infine, un ultimo indicatore utile relativamente alla dotazione di infrastrutture per la mobilità è quello della densità dei servizi di trasporto pubblico nei sistemi urbani, calcolata in base al numero di fermate disponibili per chilometro quadrato (tab. 11). Questo dato, che appare interessante per verificare non solo la sostenibilità, ma anche la connettività dei sistemi urbani e che risulta più influenzato da scelte politiche effettuate dai governi locali che dalle scelte relative alle grandi infrastrutture viarie, presenta una grande varietà tra le città italiane. Appare evidente la distanza tra la dotazione dei centri maggiori e quella dei centri medi (oltre venti fermate per chilometro nei primi, meno di cinque negli altri), mentre le distinzioni tra macroaree geografiche di rilievo nelle dotazioni di infrastrutture viarie sono qui annullate. Per i centri maggiori, le città meglio posizionate sono Bari, Torino, Padova e Firenze, metropoli assai diverse per localizzazione e caratteristiche, ma accomunate negli ultimi anni da una rilevante attenzione ai temi del trasporto pubblico: la nuova metropolitana torinese, i progetti di tranvia a Firenze, il potenziamento dei trasporti pubblici su gomma e su ferro a Padova. Su valori di poco inferiori si posizionano Napoli e Milano (città che hanno investito nel potenziamento delle linee ferroviarie metropolitane), mentre Roma, anche a causa delle amplissime dimensioni della sua cerchia urbana, esprime un valore bassissimo che la accomuna ai centri minori e che in parte dà ragione dei noti problemi di congestione del traffico viario nella capitale.
Allo stesso modo, il trasporto pubblico risulta assai poco sviluppato nelle città del Nord-Est (Verona, Trento, oltre a Venezia che, per le sue caratteristiche particolari di città lagunare, esprime un dato bassissimo). Anche per quanto riguarda i centri minori si riscontra una situazione di grande varietà, con esempi di sistemi di trasporto pubblico pervasivi ed eccellenti (Brescia che si avvicina a valori metropolitani, Sassari) fino a situazioni di evidente sottodotazione (Trento, Perugia, Foggia). La mappa complessiva che emerge non permette di individuare trend geografici per questa variabile, fondamentalmente definita da scelte urbane. Resta da sottolineare come le città che negli ultimi anni hanno avviato politiche concertate per lo sviluppo locale, e in particolare le città che si sono dotate di piani strategici per la mobilità, esprimano valori mediamente superiori a quelli delle altre città italiane simili per popolazione e caratteristiche. Indice, questo, di come, in presenza di un’agency consapevole, i temi della sostenibilità e della interconnessione del tessuto urbano possano essere ben affrontati a scala locale se intesi come elementi costitutivi di processi di sviluppo.
Attualmente le città sono in primo luogo sistemi di riproduzione della conoscenza, sono i luoghi dove la conoscenza si forma entro strutture dedicate (università, imprese, centri di ricerca, musei e fondazioni, pubblica amministrazione ecc.) e le informazioni sono prodotte, raccolte, elaborate e diffuse (entro media e mediante tecnologie essenzialmente installate in ambito urbano). Le città sono sedi di interazione complessa delle università, delle imprese, dei centri di ricerca, di istituzioni pubbliche e private che a loro volta creano reti di connessione tra persone e filiere.
Strutture come, per es., i politecnici di Torino e di Milano, la Triennale di Milano, la Biennale di Venezia, il Museo di arte contemporanea del Castello di Rivoli o la Galleria di arte moderna e contemporanea di Torino sono non solo luoghi di insegnamento o di fruizione artistica, ma snodi centrali anche nel favorire l’incontro e il dialogo tra professionals, creativi e lavoratori della conoscenza. Nelle città si organizzano le strutture e gli eventi che raccolgono le comunità professionali, su una scala che non è più solo nazionale, ma globalmente estesa: Vinitaly e le fiere dell’ippica a Verona, così come il Salone del mobile di Milano, sono momenti essenziali di incontro e confronto per i professionisti di tutto il mondo dei settori interessati. Così come Ginevra e Shanghai sono i principali eventi per gli operatori orafi e Cannes, Venezia, Berlino e Los Angeles le capitali del sistema globale di distribuzione del cinema. Prescindere da tali eventi significa perdere il passo con la comunità professionale e con l’evoluzione degli stili, delle tecnologie, dei mercati.
È stato inoltre evidenziato come le città, e in particolare i poli metropolitani, siano l’habitat preferenziale per i lavoratori creativi. È nella città che tali professionisti, che necessitano non solo di condizioni lavorative e ambientali favorevoli, ma anche di servizi dedicati alla cultura e allo svago, locali notturni e sale per concerti, gallerie d’arte e teatri, trovano la situazione più congeniale per lavorare e vivere. Secondo teorie più attente ad aspetti strutturali (Storper, Scott 2009) la tesi dello sviluppo urbano come risposta a movimenti di persone in cerca di preferenze di consumo o di stili di vita può essere messa in discussione sulla base dell’assunzione in questa tesi contenuta sul comportamento umano, e del silenzio che essa stende sulla dinamica geografica della produzione e del lavoro. Secondo questi autori la linea esplicativa più efficace per capire la ‘misteriosa’ capacità attrattiva delle città deve mettere in relazione in modo diretto lo sviluppo urbano con la geografia economica della produzione; e deve confrontarsi esplicitamente con le complesse relazioni ricorsive che intercorrono tra la localizzazione delle imprese e i movimenti del lavoro.
Con i nuovi assetti dell’economia della conoscenza si è rinnovato il legame tra città centrali e sistemi produttivi dell’hinterland che già aveva avuto un ruolo importante nella nascita dei distretti industriali caratteristici di molte economie locali del Centro-Nord-Est del Paese (Bagnasco 1977). Le città non sono più da tempo i luoghi primari della produzione industriale, ma hanno un ruolo centrale nel garantire ai sistemi produttivi funzioni avanzate e portatrici di valore (oltre che nel fornire i servizi rari necessari per l’accesso ai mercati globali) e in esse si concentra molta parte delle attività di creazione di nuove conoscenze. Ma non tutte le città sono uguali ai fini dell’economia della conoscenza: alcune, per caratteristiche proprie o per iniziative dei propri attori istituzionali o privati, hanno sviluppato un milieu particolarmente adatto a sostenere e riprodurre creatività e conoscenza e si caratterizzano come vere e proprie sedi dell’innovazione.
Per rappresentare l’attuale scenario dei sistemi della conoscenza nelle città italiane si può fare riferimento ai sistemi formativi o alla presenza di servizi avanzati nelle imprese, ma appaiono rilevanti e necessarie anche alcune informazioni relative ai risultati delle attività di produzione e elaborazione di informazioni, a partire dai dati relativi alla produzione di brevetti (tab. 13).
È necessario sottolineare come questo sia un indicatore parziale, anche a causa della particolare organizzazione del sistema produttivo italiano che vede una prevalenza di piccole e medie imprese che attuano principalmente innovazioni incrementali e che non sempre ricorrono alla brevettazione per proteggere il proprio vantaggio competitivo (preferendo spesso strategie incentrate sul marchio o sul segreto). I dati mostrano come la brevettazione delle innovazioni realizzate possa essere grandemente stimolata da appropriate politiche pubbliche. Questo avviene con evidenza nel caso emiliano, con Bologna, Modena e Reggio Emilia che, anche grazie all’impulso di appropriati interventi su scala locale e su scala regionale per il sostegno e l’incentivazione all’innovazione (Montanari, Bigi, in Nord. Una città-regione globale, 2012) si posizionano ai primi posti della graduatoria nazionale per numero di brevetti registrati per abitante, con valori medi assai superiori a quelli delle altre città vicine. Valori alti, anche se non paragonabili a quelli espressi dalle città creative dell’Emilia-Romagna, sono inoltre registrati nei poli metropolitani delle regioni ad alta densità di imprese del Centro-Nord, nei quali si concentrano le richieste di brevettazione per le innovazioni prodotte dalle imprese dei distretti industriali: Milano, in primo luogo, a servizio dell’intero Nord, ma anche Torino, Padova, Verona, Ancona. Anche i centri minori del Nord mostrano valori superiori a quelli della capitale e delle città del Meridione, in cui il ricorso alla brevettazione è scarsissimo anche nei centri maggiori. Napoli e Catania hanno registrato nel 2007 meno di 12 brevetti per milione di abitanti, un valore di cinque volte inferiore a quello di città medie del Nord come Cremona o Trento, e le città best performer del Sud, quali Cagliari, Salerno e Catanzaro non raggiungono la soglia dei 20 brevetti per milione di abitanti. Si tratta di un preoccupante segno di ritardo dei sistemi della conoscenza di questa parte del Paese, che rappresenta uno svantaggio competitivo negli scenari della competizione globale.
Seguendo il lavoro curato da Casavola e Trigilia (La nuova occasione, 2012) si ha l’evidenza di come molte città del Meridione siano carenti nella capacità di attivare le proprie dotazioni di conoscenze scientifiche e di saperi, sia a causa della scarsa vitalità dei locali sistemi di impresa sia per la non rilevante saldatura delle reti interne ed esterne di sostegno all’innovazione. Ciò avviene nonostante la dotazione di conoscenze scientifiche sia relativamente equilibrata in tutto il Paese. Infatti nelle 20 città del Mezzogiorno in cui ha sede un ateneo o una sezione del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) si trova il 32% dei ricercatori italiani a fronte di circa il 35% della popolazione nazionale. Ma il divario tra Mezzogiorno e Centro-Nord si riapre se si considera la capacità delle città di attivare le conoscenze scientifiche da esse detenute per lo sviluppo economico. La quota delle commesse conto terzi del Mezzogiorno è del 21% di quella nazionale, e al Sud è stato creato solo il 24% delle imprese spin off italiane. La scarsa dotazione di reti esterne per la conoscenza e la ricerca emerge anche dai dati relativi alle percentuali di brevetti realizzati con partner stranieri: questo indicatore, che fornisce una schematica misura dell’apertura e dell’estensione dei sistemi della conoscenza delle città italiane, ma è anche fortemente influenzato dalle caratteristiche delle produzioni locali (prodotti specialties o commodities, con mercati globali o prevalentemente locali), presenta valori generalmente bassi (inferiori al 20% del totale dei brevetti) per la maggior parte delle città italiane, e in particolare per i centri minori. I valori più alti sono quelli delle città della dorsale adriatica (Pescara, Perugia: si tratta in tutti i casi di città universitarie dove sono ampi i flussi di studenti stranieri) e di alcune grandi città in cui sono presenti attori o imprese internazionali (Roma, Venezia).
Un elemento interessante che emerge dalle ricerche sui territori dell’alta tecnologia in Italia (Invenzioni e inventori in Italia, 2010) è il ruolo delle piccole città. Infatti, analizzando i poli di specializzazione in cui si concentrano capacità brevettuali (almeno 25 brevetti nel decennio) nei settori ad alta e medio-alta tecnologia, si riscontra che essi sono localizzati in piccole città: Siena nel settore farmaceutico, Ivrea in quello delle macchine per ufficio, elaboratori e sistemi informatici, Crescentino e Mirandola nel settore degli apparecchi biomedicali, Casale Monferrato nella produzione di strumenti di precisione e controllo, Rivarolo Canavese e Pontedera nelle industrie automotive, Brindisi nell’industria chimica. A un livello inferiore si collocano altri tre poli molto specializzati, ma con minore capacità brevettuale (meno di 25 brevetti nel decennio): Popoli in provincia di Pescara nell’ambito farmaceutico, Taranto in quello biomedicale e Verbania nei prodotti chimici. Emerge una poco nota geografia urbana di piccole città innovative.
Altrettanto interessante è il fenomeno della cooperazione tra città nella produzione di conoscenza, un aspetto spesso trascurato nelle politiche, ma essenziale nel funzionamento di un sistema-Paese. Con riferimento ai brevetti, la cobrevettazione (Caloffi, in Invenzioni e inventori in Italia, 2010) interessa in particolare le grandi aree metropolitane di Milano e Roma. Anche nella produzione di conoscenza le due metropoli formano insomma una ‘diade’: il sistema locale del lavoro milanese intrattiene un maggior numero di relazioni con l’esterno, soprattutto con il sistema locale del lavoro di Roma ma anche con sistemi delle regioni Veneto, Emilia-Romagna e altri a scala nazionale. Nella propria regione il sistema milanese sviluppa una forma a stella, con relazioni molto gerarchiche. Invece il sistema del lavoro di Roma intrattiene quasi esclusivamente relazioni di lunga distanza. Mentre i sistemi del Veneto e dell’Emilia-Romagna intrattengono sia relazioni sia con l’esterno sia dense reti di relazioni con i sistemi locali della propria regione.
Alcuni dati sul potenziale innovativo dei territori sono disponibili solo a scala regionale, ma è comunque interessante visualizzarli dopo aver osservato le dinamiche rilevabili a scala urbana, per poter meglio contestualizzare le differenze tra territori e per evidenziare il ruolo delle politiche regionali nell’ambito della conoscenza e dell’innovazione. A livello regionale sono disponibili, grazie agli archivi Eurostat, informazioni sui lavoratori addetti ai settori science & technology, come definiti dal Canberra Manual dell’OECD (Organisation for economic cooperation and development). Si tratta di professionals e di tecnici di tutti i settori afferenti ai sistemi della conoscenza, anche se non direttamente attivi nella produzione o nell’elaborazione di nuova conoscenza. In tale categoria si ritrovano sia specializzazioni ‘alte’ (che si concentrano in pochi Paesi: oltre la metà dei professionals europei vive e lavora in Germania, Francia, Regno Unito e Italia) sia specializzazioni tecniche.
Gli addetti ai settori science & technology costituiscono circa un terzo della forza lavoro europea e tendono a concentrarsi nei poli urbani e metropolitani delle regioni di più antica industrializzazione. In Italia (tab. 14) la più alta densità si ha in Liguria (36,7%), in Lombardia (36,2%) e nel Lazio (35,9%), ma anche in territori in cui l’economia della conoscenza è forte quali il Trentino (35,7%) e l’Emilia-Romagna (34,2%). Meno rilevante la presenza di addetti nei settori S&T nelle regioni meno industrializzate, a partire da quelle del Mezzogiorno, in cui i valori percentuali relativi si attestano sotto la soglia del 30%, con Basilicata e Puglia in coda (rispettivamente 26,9% e 26,1%). Se si considerano solo gli addetti nei settori high-tech, che rappresentano il core delle attività legate alla conoscenza (elettronica, telecomunicazioni, industria aerospaziale, industria farmaceutica, chimica, industria elettrica e degli armamenti), si rileva invece una maggiore differenza tra macroaree geografiche, con valori superiori al 5% del totale dei lavoratori nel Nord-Ovest (5,44% in Lombardia), attorno al 4% nel Nord-Est e al 3% nel Centro-Sud. Unica eccezione è rappresentata dal Lazio, che si caratterizza come prima regione italiana per addetti nei settori high-tech (7,45%), concentrati nella capitale. Si tratta però di informazioni che nulla dicono riguardo alle effettive competenze dei lavoratori e in questo senso appare utile analizzare i dati relativi alla presenza di addetti alle attività di ricerca e sviluppo (tab. 14). I ricercatori intesi in senso stretto risultano distribuiti in maniera diseguale tra le regioni, con picchi di presenza (in valori assoluti) e densità (in rapporto alla popolazione residente) che variano enormemente nelle differenti aree del Paese: il Nord risulta assai più dotato di tali attività rispetto al Sud, ma anche tra regioni confinanti si registrano valori molto diversi, derivati dalle differenze tra le strutture produttive dei territori, dalla presenza di infrastrutture e servizi dedicati (in primo luogo parchi scientifici e università politecniche o comunque orientate alla ricerca), dalle iniziative regionali per l’innovazione. Così la Provincia Autonoma di Trento presenta una densità di addetti alla ricerca e sviluppo più che doppia rispetto alla Provincia Autonoma di Bolzano e superiore del 20% rispetto a quella registrata nel Veneto. Un valore assai simile a quello trentino è rilevato nel Friuli Venezia Giulia, regione in cui ha sede il principale parco scientifico italiano, il Consorzio per l’Area di ricerca scientifica e tecnologica di Trieste; lo stesso accade nel caso dell’Emilia-Romagna, che insieme con la Regione Lazio presenta il più alto valore nazionale di densità.
Il caso del Lazio, che rappresenta l’unica regione del Centro-Sud con densità di addetti alle attività di ricerca superiore alle aree settentrionali del Paese, è determinato principalmente dall’ampia presenza di enti pubblici di ricerca: se si guarda alla sola presenza di ricercatori attivi nelle imprese i valori del Lazio si riallineano a quelli (bassi) rilevati dalle altre regioni del Centro. Un’analisi simile è applicabile anche al caso della Provincia Autonoma di Trento, mentre in Friuli Venezia Giulia e in Emilia-Romagna la presenza di addetti alla ricerca e sviluppo nelle istituzioni pubbliche si somma, piuttosto che sostituirsi, a quella di addetti nelle imprese private. In base a quest’ultimo indicatore (non presente in tab. 14) i maggiori valori nazionali si raggiungono in Emilia-Romagna, Piemonte, Lombardia. Tra le regioni centrali il posizionamento migliore è quello delle Marche, mentre occorre rilevare come tutte le regioni meridionali e le isole abbiano scarsissima presenza di addetti alla ricerca nel settore privato. Considerazioni simili possono essere rilevate se si considera la spesa pro capite per la ricerca e lo sviluppo nelle differenti regioni (dati non presenti nella tabella 14). In valore assoluto la classifica è guidata dalle regioni in cui si concentrano i programmi di ricerca nazionali (Lazio) o in cui sono attivi programmi regionali di sostegno alla ricerca (Emilia-Romagna), mentre se si considera la sola spesa in ricerca e sviluppo da parte delle imprese i valori più alti si ritrovano nelle regioni del Nord-Ovest (in primo luogo il Piemonte, quindi l’Emilia-Romagna e la Lombardia mentre le regioni del Nord-Est si posizionano su valori pari alla metà di quelli del Nord-Ovest). Anche per questo indicatore permane un’ampia differenza tra le regioni del Centro-Nord e quelle meridionali, nelle quali la spesa per la ricerca è quasi interamente sostenuta dal settore pubblico: solo il Lazio e la Campania possono vantare un sistema imprenditoriale impegnato nella produzione sistematica di nuove conoscenze.
Dopo il lancio da parte della Commissione europea nel 2011 dell’iniziativa su Smart cities and communities, si sta sviluppando un nuovo fronte di politiche urbane per far diventare più intelligenti le nostre città. Da più parti si propone di sviluppare una versione italiana del modello europeo di partenariato per l’innovazione rivolto alle smart cities. Obiettivo è incoraggiare lo sviluppo di partenariati strategici tra imprese, amministrazioni locali e istituzioni finanziarie. Si vuole concentrare le risorse disponibili su un numero limitato di progetti a elevato potenziale che fungano da traino per la loro replicabilità. Si sostiene che occorra un impulso esterno per far triangolare imprese, territori ed enti finanziatori e sviluppare i sistemi urbani del futuro. Soprattutto in un contesto di crisi economica e tagli alla spesa, il patto di stabilità tra governo centrale ed enti locali rischia di trattenere ulteriormente gli stakeholders dal cooperare, rendendo le istituzioni finanziarie meno propense a fornire supporto. Una selezione delle città smart esce da questa impostazione.
La città più smart, secondo l’approccio metodologico adottato dagli autori dello studio sintetizzato nella tabella 15, risulta essere Milano che presenta un sistema di mobilità che integra differenti opzioni sostenibili e innovative, caratterizzato da elevati tassi di utilizzo (eccetto per il car sharing); connessione alle reti globali, in particolare grazie alla presenza di un aeroporto intercontinentale; elevata qualità della vita, grazie a una diffusa presenza di attività creative e un buon livello di tempo libero disponibile da parte dei cittadini; soddisfacenti risultati in termini di gestione efficiente delle risorse, in particolare grazie a una bassa intensità energetica del tessuto urbano. Unico neo sulla base del set di indicatori considerato sarebbe rappresentato dalle criticità rilevanti in merito alla qualità dell’aria. Secondo questo approccio top down, i sistemi locali vanno ‘strumentati’ dall’alto, ossia orchestrati da imprese potenti che forniscono ai diversi territori le tecnologie adatte. Si tratta di una ricetta che presenta numerosi punti critici, primo tra tutti il mancato riconoscimento dal basso (bottom up) della natura dei processi di intelligenza urbana.
Un’impostazione alternativa a questa vede il mondo in modo del tutto diverso. Secondo tale impostazione le città e le comunità intelligenti sono quelle nelle quali vengono sviluppati processi essenzialmente locali per la gestione intelligente delle informazioni relative ai ‘beni comuni’ urbani (acqua, aria, ambiente, energia). Questi processi presuppongono una piena attivazione del paradigma della rete, che consiste in una società orizzontale in cui fluisce la conoscenza entro circuiti e nastri, incroci e nodi. Una società basata su un movimento di connessioni ogni volta più estese e sorprendenti. È questo un paradigma che spiazza i diversi domini (scientifico, giuridico, politico, economico) perché li attraversa tutti. Anziché pensare la società come guidata da un impulso esterno e gerarchico, questa seconda impostazione insiste sull’intelligenza distribuita e autoorganizzata in rete. Essa critica l’idea che istituzioni politiche o imprese esterne che forniscono tecnologie possano dall’alto impiantare il circuito intelligente nel tessuto della società. Un precursore di questa filosofia è stato Adriano Olivetti (1901-1960) con la sua idea di comunità coniugata all’elettronica. Oggi sul piano scientifico è il pensiero di Bruno Latour, filosofo della scienza e sociologo francese, ad andare in questa stessa direzione.
La classifica internazionale delle global city regions è guidata da Tokyo, con 28 milioni di abitanti previsti al 2015, seguita da molte città del Terzo mondo e da poche città occidentali (New York, Londra, Parigi, Chicago). Se considerassimo il Nord Italia una global city region, essa si collocherebbe ai primi posti, con i suoi 26 milioni di abitanti. Regioni urbane diventate macroregioni o global city regions sono individuabili in Europa prendendo in considerazione soprattutto i casi di grandi capitali (Londra e Parigi), pluricittà metropolitane (Randstad Holland), capitali di macroregioni (Barcellona), regioni di città come il Nord Italia. Esse stanno sia ‘sopra’ (in quanto macroregioni) sia ‘sotto’ (in quanto città) le regioni. Nel lessico statistico europeo parliamo di NUTs 1 (le macroregioni) e NUTs 2 (le regioni).
Si vuole cercare qui di fornire una risposta alla domanda ‘chi governa’ proprio mettendo in campo la nuova forma di governance offerta dalle macroregioni o global city regions. La possibilità di definire la città sembra messa fortemente in crisi nel momento in cui il mondo appare leggibile soprattutto come un mondo di flussi, riconducibili a tipi di relazioni che sfuggono a un controllo ‘puntuale’. Perché si è pensato per tutto il 20° sec. che questo controllo spaziale fosse ancora possibile nella forma che la città aveva pienamente assunto nel secolo scorso: la forma metropolitana. Si diceva che il governo e il controllo erano affidati alla città nella sua forma metropolitana anche molto articolata (come nei distretti amministrativi delle metropoli), ma pur sempre riconducibile a unità. È proprio questo il punto in cui l’intelletto metropolitano come forza in grado di ordinare uno spazio manifesta la sua massima crisi. Quello che si presenta è piuttosto una diffusa perdita di capacità di governo, l’attraversamento in tutte le direzioni di flussi di tipo sia fisico (immigrazione, merci) sia immateriale, virtuale (informazione, finanza, social networks). Questi flussi non rispondono ad alcun disegno, né tantomeno ad alcun governo. Essi sono il prodotto di forze di mercato, di matrici anonime, di complesse interdipendenze. In alcuni casi, come quello delle reti telematiche o delle infrastrutture di mobilità, possiamo al più identificare degli attori che decidono di investire nella produzione di una rete. Ma i modi in cui miriadi di attori si comportano, si dislocano, ricevono segnali e utilizzano quelle reti sfuggono a ogni disegno o governo. Si hanno persino problemi a rappresentare quei flussi, perché la statistica ufficiale li ignora: essa conta le persone o le imprese, ma non censisce i volumi o i valori in transito nei territori. Quindi il tema principale nella riflessione contemporanea è la forte evidenza di questa crisi spaziale. Nell’epoca dei flussi globali e delle disgiunture, la città rischia di perdersi come punto che ordina lo spazio, perché intervengono sia deterritorializzazione sia creazione di arene diasporiche frutto di migrazioni globali. Quindi bisognerà riflettere su questo aspetto e vedere quali modelli nuovi stanno emergendo dal punto di vista dell’analisi della città.
Una sociologia critica (Brenner 2010) sostiene che la cityness della città è stata oggetto di naturalizzazione da parte degli studi urbani, e che ‘città’ e ‘urbano’ non sono elementi ‘reali’ o ‘empirici’ ma proiezioni strutturali continuamente ricreate nel corso della produzione spaziale del capitalismo. Le unità di analisi ‘città’ e ‘urbano’ vanno intese come esse stesse cocostituite e ricostruite continuamente: la cityness della città è una condizione in continua evoluzione, multiscalare e oggetto di contestazione strategica nelle relazioni geopolitiche, piuttosto che un oggetto o un sito territorialmente delineato. Il rischio di reificare la città trasformandola in un attore collettivo si può qui evitare ricorrendo in modo sistematico all’analisi di network.
Le città sono ‘reti di reti’ di attori: imprese nelle reti produttive, persone nelle reti di mobilità e di comunicazione, istituzioni nelle reti di policy e così via. Quindi, solo per semplicità parliamo di ‘città-regione’, in realtà si tratta di una rete di reti nel senso appena detto. ‘Città-regione’ certamente è uno dei temi su cui riflettere nella dimensione allargata impressa dall’economia alle nostre città. Tentare di tradurre il modello della macroregione o global city region in guida per la governance urbana europea è possibile. In termini generali si assisterebbe a un maggiore orientamento verso politiche place-based. A tale proposito, occorre distinguere almeno tre grandi tendenze compresenti nel panorama attuale delle politiche europee (tab. 16).
Mentre in passato le macroregioni sono state associate a logiche identitarie subnazionali (dalla Catalogna al Galles alla Baviera), i casi emergenti includono territori di diversi Paesi o regioni, associati da caratteristiche e sfide che li accomunano. La dimensione del territorio macroregionale è definita non dalle sovranità nazionali, ma dalle funzioni comuni. La produzione di politiche macroregionali è finalizzata a produrre un ‘terzo tipo’ di beni, rispetto a quelli pubblici o collettivi: si tratta di beni funzionali e relazionali.
Essi sono qualificati dalle rilevanti esternalità di rete che si producono tra sistemi economici e sociali contigui o comunque interconnessi. Esperienze sono in corso nella regione del Mare Baltico (che comprende più Stati), nella Regione Danubiana, nel Benelux, nel riuscito esperimento dei GECT (gruppi europei di cooperazione territoriale) e nello sviluppo dei cosiddetti servizi di interesse generale. In alcuni casi si tratta di coalizioni interstatali meramente funzionali per lo sviluppo in comune di funzioni chiave (come lo stoccaggio di gas transfrontaliero tra Francia e Germania). In tutte queste politiche a vario titolo ‘macroregionali’ si realizzano assemblaggi territoriali interregionali, e spesso sovranazionali, guidati dalla condivisione di funzioni strategiche. La dimensione funzionale e quella territoriale sono intrecciate e appaiono meno contrapposte che in passato. I casi presentati potrebbero ricollocarsi in questo orizzonte ‘glocale’ nella dimensione di global city regions. Le grandi ‘funzioni’ (mobilità delle merci e dei saperi, reti di impresa, sistema urbano policentrico, reti delle public utilities ecc.) travalicano le singole regioni urbane e disegnano una fitta trama di relazioni macroregionali in chiave europea. Mentre sinora il discorso regionalista ha conosciuto una curvatura esclusivamente nazionale, la prospettiva qui indicata va in una diversa direzione. Si tratta infatti di ridisegnare sistemi sovraregionali europei uniti da dinamismi socioeconomici e spaziofunzionali anziché da soggettività locali e identità nazionali. In parte, lo scenario disegnato nei progetti di programmazione spaziale europea e le analisi territoriali e trasversali di attuazione delle politiche europee nello spazio dell’Unione vanno in questa direzione: un cuore europeo, una rinnovata area nord baltica, un assemblaggio balcanico, una grande cintura meridionale, in un federalismo europeo transregionale e reticolare.
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