Le pratiche del diritto civile: gli avvocati, le Correzioni, i conservatori delle leggi
Il pensiero politico medievale immaginava lo Stato come un corpo umano: gli ecclesiastici rappresentavano l'anima, il sovrano la testa, i giudici ne erano gli occhi, le orecchie e la lingua; più in basso, fra il ventre e i piedi, stavano i mercanti, i contadini e gli artigiani. I giuristi - aveva scritto Niccolò Cusano - sono come il fegato in un organismo: donano la salute e l'ordine a ogni membro del corpo (1). Lingua, occhio e fegato dei "corpi" statali gli uomini di legge avevano preso a divenirlo dal XIII secolo; con la riscoperta e la divulgazione del diritto romano compiuta dai glossatori degli studia giuridici italiani. Ai doctores si erano aperti gli accessi delle curie imperiali, dei tribunali vescovili, dei reggimenti delle città libere; poi, con l'avvicinarsi dell'età moderna, avevano appreso altre mansioni.
La lenta costruzione statale, il tentativo di formare ambiti territoriali pacificati, dominati dalla sola legislazione sovrana e irretiti nelle maglie di un unico ordine fiscale, richiedeva ora condizioni culturali appropriate, aveva bisogno di imporre idee e comportamenti che sapessero toccare la vita stessa - quella reale, monotona e lontana - dei propri sudditi. L'impianto repentino dei "luoghi di scrittura", dalle cancellerie agli uffici, ai tribunali, serviva a rendere percettibili i disegni dell'autorità, li faceva viaggiare, li impregnava di simboli pubblici. A trarne i benefici maggiori erano, ancora una volta, gli insegnamenti di diritto; dai primi decenni del XVI secolo la popolazione degli studenti in materie giuridiche crebbe a dismisura. Una crescita irruente di piccoli nobili, borghesi, figli di mercanti e notai che nella confidenza con le pratiche del diritto riponevano la speranza di una veloce ascesa economica; una folla ogni giorno più rumorosa di procuratori, di notai, di giudici e avvocati che animavano le sessioni dei tribunali e delle corti d'appello. La loro presenza stava divenendo così corposa e invadente da suscitare i primi moti di stizza e di rifiuto. I segnali di insofferenza, lo scherno, i motti d'invidia e di disprezzo colpirono chi aveva un'intensa consuetudine con l'attività giudiziaria. Nella letteratura si moltiplicarono le figure di giudici abituati a pronunciare le sentenze dopo aver giocato i verdetti ai dadi, di notai e di avvocati disposti a tutto pur di allungare le cause e strozzare nel gorgo di spese soverchianti gli sprovveduti clienti: i dottori "cattivi cristiani" divennero i personaggi preferiti delle satire, delle commedie popolari, dei dialoghi sui modi di reggere gli Stati. Nessuno adesso li paragonava ammirato agli occhi o alla lingua del corpo sociale, e i giuristi parevano destinati a impersonare soltanto i vizi e i difetti peggiori dell'umanità cinquecentesca (2).
Anche a Venezia l'autorevole voce di Gasparo Contarini si era levata a condannare nel 1527 la "patronorum et iurisconsultorum versutia, quae nihil contra fas intactum reliquit" (3). Eppure, nella Serenissima come altrove, l'immortalità delle liti non era certo colpa di giureconsulti e avvocati. A cavallo di XV e XVI secolo, il quadro dell'amministrazione giudiziaria nel suo insieme appariva come rigato da vistose imperfezioni; questione di leggi antiquate, affastellate le une sulle altre tanto da renderne impossibile la conoscenza; questione di tribunali, di uffici e di archivi mal distribuiti e mal funzionanti; questione anche di uomini, certo, di persone che quella giustizia avrebbero dovuto amministrare con celerità e buonsenso, e che invece sembravano rincorrere solo un tornaconto personale fatto di agiatezza e prestigio. In molti, fra i signori europei, proveranno a imbrigliare l'autorità del corpo giudiziario e sarà comune a quei tentativi lo sforzo di impedire che la gente dei tribunali, sviata dalla presunzione o dal desiderio di far presto, finisse per abusare dei propri mezzi. Nel 1539 Francesco I aveva promulgata, decretandone la validità sull'intero regno francese, l'Ordonnance sur le fait de la justice; poco prima, nel 1532, Carlo V aveva tentato di pacare le inquiete terre dell'Impero con la pubblicazione della sua moderna Constitutio criminalis (4), una raccolta di norme procedurali che accompagnava le tante riforme di statuti urbani e di ordinanze territoriali apparse dall'inizio del secolo nel corpo germanico.
Intenzioni pressoché identiche muovevano in quel periodo gli Stati regionali italiani. C'erano nella penisola "principati nuovi", massime i ducati mediceo e sabaudo, che alla riforma della giustizia dedicavano un attento lavorìo. Cosimo I vanificava l'ostruzione delle magistrature fiorentine introducendo nella ruota (il tribunale supremo istituito col nome di consiglio di giustizia nel 1502 e poi riformato dal duca Alessandro) un gruppo di giureconsulti dai quali desiderava competenza e precisione dottrinaria ma, in grado maggiore, un'assoluta acquiescenza alle sue volontà; segretario o auditore, il giureconsulto diveniva sotto Cosimo I "una figura singola, legata verticalmente al Principe e da questi strettamente controllata" (5). Se questo era lo status degli uomini di legge toscani, bastava giungere nella vicina Milano sforzesca e le cose si capovolgevano. Nella estenuante contesa che vedeva contrapposti da un lato il duca Francesco II e dall'altro il senato, depositario delle tradizioni e dell'orgoglio patrizio milanese, quest'ultimo aveva regolarmente l'ultima parola; e in esso la parte dominante, quella destinata a far pesare in modo più efficace la propria autorità, era composta dai giuristi. Lo aveva notato puntualmente l'ambasciatore della Serenissima presso la capitale ambrosiana Giovanni Basadonna: nell'aula del senato sedevano trenta persone, eppure di queste solo quindici "dottori e prelati dottori" lo dirigevano; il duca - continuava - "tutto rimette al senato, con poca satisfatione delli sui subditi e di poca securità della conservazione di essa iustizia" (6). Il Basadonna biasimava gli eccessi del tribunale patrizio, così geloso dei propri privilegi, così compiaciuto della propria arguzia di legisti; criticava inoltre Francesco II perché si era circondato di gente nuova, non nobile, e soprattutto di tecnici del diritto i quali, alla lunga, avrebbero patito l'arrogante influenza dei senatori. Scriveva da veneziano, pensava a Venezia. Una città, la sua, che gli offriva un modello profondamente diverso del ruolo e dell'influenza dei giuristi nella vita pubblica; una città, ancora, in cui gli equilibri fra le voci della giurisprudenza e della politica si modulavano secondo tonalità del tutto opposte.
I patrizi della Repubblica dubitavano - è noto - degli uomini di legge. Si allarmavano scorgendo quanto potere passasse dalle loro mani; destava in loro sospetti e preoccupazioni il continuo insinuarsi nei legami fra governanti e sudditi, intimoriva il peso crescente delle corti giudiziarie per risolvere la litigiosità e armonizzare le relazioni fra i ceti. Dubitavano altresì di quel formidabile strumento di affermazione della logica giuridica che era stato il sistema di "diritto comune", l'antica e complicata sovrapposizione di leggi statutarie, di consuetudini locali e infine di diritto romano-canonico consolidatasi durante il Medioevo nelle altre province della penisola. Una miscela di fonti legali diverse, a volte antitetiche, la cui convivenza era stata resa possibile soltanto da un'opera faticosa di limatura, di commento, d'interpretazione, alla quale avevano lavorato per secoli dapprima i professori giuristi, e in un secondo momento gli estensori dei consilia, i giudici, gli avvocati delle corti. A Venezia niente di tutto questo; veniva anzi precluso ai giuristi, fin dall'inizio, il ruolo così incisivo altrove di creatori del diritto. I giudici non dovevano essere dei tecnici: chi esercitava la funzione giusdicente era un componente del patriziato, ne aveva assorbito la cultura, lo spirito di dedizione alle leggi, doveva conoscere bene quali decisioni all'atto di emettere una sentenza avrebbero danneggiato o favorito la tutela della Repubblica; non occorrevano altre qualità - si era sempre ritenuto - affinché entro la laguna si rendesse una giustizia saggia per gli uomini e utile alla conservazione dello Stato. Per questo ai giudici patrizi si era concesso di fondare i verdetti sul testo degli statuti, sull'analogia o sulla consuetudine, ma anche, dove mancasse un appiglio alle norme, di disporre arbitrariamente come fosse parso a loro giusto ed equo (7). Si sarebbero cercate inutilmente fra le pagine degli statuti veneziani alcune rubriche così diffuse nei libri di altre grandi città italiane: non c'era traccia, a Venezia, di quelle norme che imponevano ai giudici di ascoltare il consiglio di un "savio ", di un dottore in legge, prima di pronunciarsi, e neppure vi si trovava la rubrica - quasi un cardine dell'ordinamento comunale che imponeva ai giudici di sottoporsi una volta finito l'incarico a una procedura di sindacato (8); precauzioni che gli statutari comunali avevano sentito di prendere per cautelarsi nei confronti di giudici spesso stranieri o inclini a legarsi a qualche fazione urbana, e che avevano rafforzato il ruolo d'intervento nella vita pubblica dei legisti invitandoli a pronunciarsi tramite i loro consilia sulla giustezza dei verdetti o sulla rettitudine di coloro che li avevano resi. Accogliere simili procedure a Venezia sarebbe stato impossibile; avrebbero appannata fin quasi a renderla irriconoscibile la figura del giusdicente patrizio e al medesimo tempo - ci si attendeva - avrebbero dato ai giureconsulti la possibilità di intromettersi nelle cause; che era proprio ciò che si paventava e che si voleva evitare.
Ma altri fattori, forse ancor più efficaci, avevano contribuito a rendere il diritto veneziano - come è stato osservato - "un'azione direttamente politica, gestita in proprio dai corpi legislativi, anziché un'occasione di riflessione teorica" e uno strumento per condensare entro l'ars iuris il fiducioso "possesso del mondo" (9). In primo luogo l'affermazione precocissima, espressa già fra XII e XIII secolo, della territorialità delle leggi venete sull'intero dominio di mare e di terra, e accanto a essa il rifiuto di ammettere il diritto romano, o imperiale, come fonte integrativa di quelle. Esprimere in maniera così recisa l'esistenza di un solo corpus normativo, e subito stabilire l'obbligo di prenderlo a unico riferimento nell'attività giudicante, aveva quasi del tutto esaurita la necessità di apporvi delle correzioni, di manipolarlo, servendosi del lavoro dei giuristi; avveniva così nelle realtà dei comuni italiani e - dal XVI secolo - nelle terre imperiali, dove lo scontro fra i molti generi di legge vigenti unito all'assenza di robusti organi legislativi e giudiziari aveva lasciato un vuoto che i giuristi, la dottrina legale e i maestri degli studia si erano apprestati a riempire; diversamente, ove uno Stato - e il caso più compiuto era la monarchia inglese - aveva creato le condizioni per l'affermarsi di un unico potere legislativo e quindi ne aveva affidato l'amministrazione a poche corti centrali, i varchi per la dottrina, per le glosse o i commenti dei dotti, non si erano mai nemmeno socchiusi (10). A un simile orientamento si erano ispirati i dogi nel redigere i prologhi degli originali statuti veneziani, e poi nel farlo ricordare, senza titubanze, fino alla caduta della Repubblica. Certo applicandolo in mezzo a crescenti difficoltà, specie da quando il dominio aveva incominciato a dilatarsi e si doveva fare i conti con l'amministrazione della giustizia in Terraferma; ma il monopolio geloso e attento del patriziato sulla legislazione non si fletterà, non smetterà di venire evocato come "un principio ideale" (11) al quale rifarsi in ogni circostanza. Il principio che solo ai consigli spettava il compito di cancellare o, al contrario, di integrare le rubriche degli statuti veniva ribadito in una parte emanata dal maggior consiglio nel 1401, nella quale si vietava ai giudici di tener conto delle chiose e delle osservazioni che taluni stavano apponendo sopra il testo statutario; dovevano attenersi alle norme così come le avevano formulate le assemblee del patriziato, non indulgere all'ascolto di opinioni o di consulti nati da una cultura giuridica estranea alla consuetudine di Venezia (12). Del resto, proprio per evitare intrusioni, si era badato per tempo che gli statuti fossero quanto più possibile chiari, redatti privi di complicazioni, e che fossero intellegibili a un numero non ristretto di lettori. I cinque libri della prima compilazione venivano terminati nel 1242, al tempo del dogado di Jacopo Tiepolo (lo stesso che dieci anni prima aveva riformato la "Promissione del maleficio" di Orio Mastropiero), il quale nel 1244 vi aggiungeva gli statuti dei giudici di petizion, un codice di procedura stilato per i giudici delle corti. Circa un secolo più tardi, nel 1346, le addizioni civili e criminali votate in quest'arco di tempo venivano raccolte in un sesto libro ad opera del doge Andrea Dandolo: un corpus già ricco, accanto al quale si contavano raccolte di consuetudini, di sentenze, di norme sulla navigazione e sui naviganti promulgate dal XII secolo; leggi in cui si avvertiva un gusto per le cose pratiche, leggi stilate per essere comprese in fretta. Ancora nel 1346, quando si compilava il Liber sextus, qualcuno provvedeva a scrivere una versione in volgare veneziano degli statuti; e nel 1477, quando usciva la prima edizione a stampa "per magistro philipo de piero", si decideva di alternare le rubriche latine con una loro esatta traduzione in volgare (13).
Il favore mostrato per le espressioni in volgare delle leggi veneziane dimostrava la fiducia verso una concezione del diritto non dogmatica, non consegnata alla sapienza e alla fruizione di pochi; un tratto peculiare degli statuti marciani - sosteneva nella seconda metà del XVIII secolo il doge Marco Foscarini - era che essi differivano "dal jus comune più che nella sostanza, nel contentarsi che fanno di toccare i generali principii delle materie e nella semplicità, donde riuscì a questi soli d'isfuggire le glosse, i commentarii e le quistioni degl'interpreti" (14). Egli citava a conferma delle sue parole un brano della De origine urbis venetiarum di Bernardo Giustinian, un passo famoso in cui si descrivevano i Veneziani troppo intenti alla mercatura per prestare attenzione alle brighe dei tribunali, e un'orazione del fiorentino Francesco Poggio che nel 1497, rivolgendosi ad Agostino Barbarigo e al senato, li aveva lusingati contrapponendo la prassi seguita nel diritto comune a quella osservata davanti al giudice veneziano: se a Venezia si giudicava velocemente "ex bono et aequo, secundum civiles leges ", scriveva Poggio, altrove si perdeva tempo dando credito alle "jureconsultorum callidis interpretationibus", ai libelli, alle nocive scritture dei notai; come risultato le liti si facevano eterne, i litiganti spossati dalle spese, la giustizia un ideale bistrattato. Foscarini avrebbe potuto trovare facilmente molte altre testimonianze a sostegno del diritto veneziano; erano stati in molti, dal Medioevo in poi, ad ammirarlo. Ma in realtà, e grosso modo nei medesimi decenni del tardo Quattrocento, proprio a Venezia la stringatezza delle leggi e la rapidità dei giudizi si avviavano a diventare un ricordo sbiadito.
Le leggi, in primo luogo, si ammucchiavano oramai l'una sull'altra a ritmi elevati. La prima stampa degli statuti aveva dovuto tenerne conto e così in appendice del volume erano state allegate dieci parti del maggior consiglio; nella seconda, quella pubblicata nel 1492, occorreva integrare i sei libri con il testo della Legge Pisana delle appellazioni e con una cinquantina di parti emesse dai consigli fra 1274 e 1475, note come Consulta ex authenticis. La terza edizione, curata dallo stampatore Bernardino Benaglio nel 1528, era costretta ad aggiungere ancora altre pagine; si lasciava spazio a una Pratica del palazzo veneto, un'opera anonima che in 15 capitoli illustrava la procedura di alcune corti a Venezia e, per la prima volta, alle Correzioni dei dogi Barbarigo, Loredan, Grimani e Gritti, sorta di raccolte delle leggi più significative che si erano approvate durante i periodi trascorsi sotto il loro dogado (15). Raccogliere un numero cospicuo, il più ampio possibile, di parti consiliari, o affidarsi al buon senso degli stampatori per arricchire gli statuti di manuali di procedura e di consulti, non costituiva una soluzione; un ripiego, tutt'al più, e attuato in ritardo, mentre già i commenti sulle condizioni in cui viveva la giustizia veneziana si facevano acidi. Subito le opinioni, i malumori di piazza, i moti di insofferenza che percorrevano sia la gente comune sia i nobili, filtravano entro le stanze di palazzo Ducale, e il dibattito sulle leggi irrompeva in mezzo al patriziato, ne accompagnava i pensieri e le decisioni, spesso fra violente rotture, lungo tutta la prima metà del XVI secolo.
"Conditae fuerunt per maiores nostros diversae leges tam pro regulatione consiliorum quam pro expeditione causarum, et quia in civilibus multi ordines reperiuntur in criminalibus autem, que sunt maximi ponderis cum de vita hominum agatur, est nonnullis merito providendum ut iuxta formam legum non autem casuum vel depravatae consuetudinis iudicia fieri possint cum honore status nostri et universali satisfactione" (16). Era l'incipit di una parte criminale votata in maggior consiglio nell'agosto del 1513; un prologo secco, severo, che riassumeva i mali di cui pativa l'amministrazione giudiziaria nella Serenissima in quel difficile aprirsi del Cinquecento. Impossibile scordare il clima di angoscia e di sconforto abbattutosi sopra Venezia dopo gli eventi delle guerre d'Italia; tantissimi fra i suoi abitanti erano propensi a credere che la rotta di Agnadello fosse una punizione causata dal discredito nel quale il patriziato aveva fatto scivolare colpevolmente la giustizia umana. Il lamento per la ridondanza della legislazione echeggiava un decennio più tardi, con eguale durezza, nel proemio di un'altra parte votata a larga maggioranza dalla massima assemblea aristocratica: numerose leggi sono antiquate, quasi inutili -veniva annotato -, "essendo occorso per la varietà di tempi corregger molte et molte revocare et constituirne da novo altre"; per tale motivo "non si po havere ben certa et distinta cognitione di tutte, unde spesso l'accade farse termination di una cosa medema hora ad uno modo et hora all'altro" (17).
La "grande confusione, disordine et inconveniente" che ostruiva il passo del governo, quell'ammasso irregolare e confuso di norme le più diverse e contrastanti accumulate negli uffici e nelle cancellerie era l'aspetto più appariscente di un'evoluzione legislativa cresciuta senza che nessuno avesse mai pensato di darle un ordine; veniva concordata la nomina di una terna di patrizi, tre correttori incaricati di spogliare attentamente i registri dei consigli, di trarne le leggi migliori ed eliminarne le superflue, "et far tutte quelle provision che a tal materia le parerano expediente". Un primo passo; ancor meno rassicurante, però, era il fatto che da questa farragine di leggi si doveva prendere spunto nel pronunciare una sentenza, il fatto che i giudici, dalle quarantie fino al consiglio dei X, trascorrevano lunghe settimane a consultare volumi ponderosi di terminazioni consiliari per poi alla fine ritrarsi amareggiati di fronte a un impegno improbo, consapevoli dell'inutilità di ogni sforzo. E infatti il proposito di donare alle corti un riferimento chiaro al quale aggrapparsi - non i "casi ", o le "malvage consuetudini" come diceva la parte del 1513 - ritornava con forza nella legge del 1531, l'ennesimo provvedimento varato in materia di riforma del diritto; si trattava certo del compito più impegnativo affidato ai tre correttori, i quali, una volta emendati gli statuti, dovevano anche provvederli di leggi nuove e completarli, ove lo ritenessero ben fatto, per mezzo di consuetudini, "il che per ogni modo si deve far, acciò li iudici nostri habino a fondar li iuditii loro sopra firme leze et per quelle iudicar et non per consuetudine o arbitrio, come al presente si fa per mancamento di leze over della chiara cognizione di esse" (18).
Doveva sembrare un ripudio del diritto veneziano; si voleva togliere ai giudici la possibilità di creare i propri verdetti rifacendosi all'arbitrium, a quel potere discrezionale che aveva costituito da sempre l'essenza della prassi lagunare, e costringerli alla rigida osservanza delle leggi (19); si desiderava tagliar corto con il grigiore di una normativa esorbitante e al suo posto compilare nuovi statuti più chiari, meno esitanti nell'esposizione, dei testi sui quali non si dovesse continuamente intervenire per rabberciarli e adeguarli alle esigenze della vita cittadina. Qualcosa era già stato fatto prima del 1531; si poteva disporre di un volume contenente le leggi del maggior consiglio, e in altri due si erano collezionate quelle toccanti il collegio e il senato; era stato messo in ordine il capitolare dei consiglieri della Serenissima Signoria e mancava poco perché si terminasse un identico lavoro di raccolta e di pulitura critica condotto sulle commissioni dei rettori. Eppure il disegno perseguito da Andrea Gritti, un doge sensibilissimo agli acciacchi della giustizia veneziana e gettatosi quasi con foga nell'opera di riformarla, andava oltre; l'obbiettivo più ambizioso stava nel dare un aspetto del tutto mutato alle leggi civili e criminali, nel riformulare da capo il contenuto dei vecchi statuti tiepoleschi. I correttori preposti a questo incarico tre uomini allora di enorme prestigio: Daniele Renier, Francesco Bragadin e Zuan Badoer -, anche nei lavori di revisione compiuti fino a quel momento, si erano rifatti a modelli di diritto romano; certi schemi, certe formule adottate, lasciavano trasparire con chiarezza l'influenza di quel diritto così accarezzato dai giuristi e così mal sopportato a Venezia. Difficile immaginare, d'altro canto, un modo di procedere opposto, e non solo perché fra essi agiva Zuan Badoer, uno dei pochi patrizi veneziani a vantare un titolo dottorale in gius civile, o perché accanto alla commissione dei revisori agli statuti avevano preso a operare, come autorizzava la legge del 1531, "dottori di leze et altri jurisperiti et pratici". Fuori Venezia, in quei decenni, nelle capitali o nelle corti degli Stati europei, ci si interrogava con gli stessi stati d'animo su come rimediare all'obsolescenza delle leggi e all'uso distorto che di esse facevano i tribunali; davvero tutto era riconducibile alla corruzione di un giudice, di qualche avvocato? O piuttosto i mali della giustizia non dipendevano in buona misura dal disordine dei libri legali e dall'incertezza che affliggeva il diritto per il sovrapporsi convulso di tante norme? Il fascino intellettuale del diritto romano, una dottrina senza tempo, un'eredità antica eppure di continuo studiata, doveva essere in questi frangenti grandissimo. L'enorme suggestione di questa dottrina non stava tanto nella sua costruzione teoretica, bensì nel padroneggiamento accurato dei casi individuali, nei suoi metodi rigorosamente deduttivi, nelle tecniche e nelle formule procedurali (20). La scientificità che pervadeva il Corpus iuris civilis ne aveva originato la veloce recezione dentro le province tedesche, il comodo utilizzo delle sue innumerevoli parti per un efficace disegno di accentramento politico aveva indotto Cosimo I Medici a patrocinare un'edizione fiorentina del Digesto curata dal segretario ducale Lelio Torelli. Una frazione del patriziato veneziano, le cerchie vicine al doge Andrea Gritti e sostenitrici dei suoi progetti, sognavano un'introduzione della dottrina romanistica fra i capoversi degli statuti tiepoleschi. La renovatio urbis offerta da Gritti a una città ancora malata di sfiducia, ancora tramortita dalle sconfitte militari, era nutrita delle scoperte culturali che maturavano nell'atmosfera del tardo Umanesimo italiano; nell'intento di offrire a Venezia un'immagine inedita, di rifondarne l'aspetto urbanistico e, assieme a questo, il volto politico, si era fatto posto a seduzioni culturali estranee alla tradizione veneziana; si incoraggiavano le invenzioni navali congegnate da Vettor Fausto, il matematico chiamato a rinnovare le prassi dell'Arsenale dietro suggerimento di Zuan Badoer e Daniele Renier, mentre il doge in persona commissionava le Fabbriche di piazza San Marco a Jacopo Sansovino, un architetto giunto da Roma il quale adottava nelle sue costruzioni uno stile fin lì inusitato, un gusto architettonico sconosciuto alla solida tradizione del gotico veneziano. Da ultima la prospettata riforma del diritto; che si incuneava con forza nel rinnovamento sperato di vecchi saperi e, forse, in maniera palpabile, ne rivelava meglio gli scopi politici (21).
Solidali con il doge nel tagliare i robustissimi fili della storia veneziana - e ciò valeva per le espressioni della sua vita culturale come per il governo della Repubblica - si atteggiavano anzitutto le famiglie del patriziato che ambivano a una svolta in senso oligarchico delle sue istituzioni; uomini di grande potere e di cospicue ricchezze, sempre più distaccati, con l'andare del tempo, dalle frange del patriziato mediano, alle quali la guerra e la crisi del primo Cinquecento avevano lasciato in eredità solo il blocco dei commerci (fino ad allora il sostegno più fidato dei nobili meno abbienti) e il dissesto delle finanze statali. L'elezione di Andrea Gritti al dogado nel 1523 era stata accolta da reazioni contrastanti; l'acerba diffidenza confidata da Marin Sanudo ai suoi Diarii nei confronti di un uomo che si sapeva autoritario, incline a farsi "signore" di Venezia, e che per di più si era alleato nei giorni del ballottaggio con un ricchissimo banchiere, Alvise Pisani, tradiva l'ostilità del patriziato medio verso le manovre dei "Primi". Invece questi si stringevano attorno al nuovo doge, incoraggiandolo nei suoi intenti, consapevoli che anche l'irrompere di attenzioni filologiche in letteratura o di mode architettoniche sconosciute suggeriva in fondo l'opportunità di cambiare gli equilibri politici della Repubblica. Nel campo del diritto la contrapposizione era, se possibile, ancora più appariscente; Sanudo aveva mostrato immediatamente una cocciuta avversità a qualsiasi tentativo di alterarne le caratteristiche: non si doveva assolutamente cedere al desiderio di svecchiare e di ordinare - aveva affermato - come aveva proposto la Signoria, poiché ogni alterazione avrebbe svilito l'autorità delle leggi e la stessa tradizione giuridica veneziana. Ma qualcuno non teneva in minimo conto simili scrupoli e anzi premeva al fine di rendere profondo il divario con quella tradizione; ed era poco importante se nel fare ciò ci si macchiava le mani con il diritto romano. Nel consiglio dei X, l'autoritario portavoce della cerchia grittiana, le contaminazioni con i giuristi di diritto comune erano state talvolta favorite; già nel 1524 i X avevano deciso di inviare ogni anno allo studio patavino due dei cittadini veneziani impiegati presso la loro cancelleria; anni dopo avevano stabilito l'obbligo per tutti i giudici, i vicari e gli assessori della Terraferma di addottorarsi in diritto. Grande ammirazione verso il diritto romano mostravano inoltre i riformatori dello Studio di Padova, una magistratura che doveva non a caso la sua origine al clima prodottosi con l'ascesa al dogado del Gritti. A due anni di distanza dalla loro istituzione, nel 1530, essi tentavano di far arrivare come insegnante un giurista del valore di Andrea Alciato; spronati da Pietro Bembo avevano indotto l'ambasciatore in Francia Sebastiano Giustinian a recarsi a Bourges per contattare l'Alciato. Questi dapprima accettava l'incarico, poi però dava segni di indecisione; i riformatori chiedevano l'interessamento del doge e il Gritti in persona si muoveva per assecondarne i desideri. La chiamata del giurista si riduceva a cosa di dettagli, a fissare il compenso e poco altro; ma a questo punto, arrivati a ridosso del 1532, le opinioni dei tre riformatori divergevano; Sebastiano Foscarini si opponeva, i suoi colleghi non trovavano la forza di persuaderlo e i rapporti con l'Alciato inspiegabilmente venivano lasciati cadere (22). Un primo intoppo, marginale se si vuole, considerato che al freno degli abboccamenti con l'Alciato avevano spinto le piccole gelosie di qualche professore della facoltà giuridica patavina; ma manifestava bene le titubanze e i sottili ripensamenti circolanti in alcune frange del patriziato. La riforma del diritto camminava spedita finché le discussioni coinvolgevano la nobiltà senatoria; qui, il 28 giugno del 1535, veniva approvata la legge istitutiva di un collegio formato di venti patrizi con l'incarico di coadiuvare i tre correttori alle leggi. Passavano pochi mesi e a dicembre il senato doveva già rimediare alle assenze di uomini decisivi; Zuan Badoer "doctor et cavallier" era stato eletto savio del consiglio e Niccolò Tiepolo, anch'egli dottore, il patrizio che dal suo posto di riformatore dello Studio aveva premuto per assumere Alciato, diceva ora convenisse "attender alla expeditione della legation di Roma" (23). Seguivano altre defezioni e ogni giorno ostacoli dei generi più diversi rendevano impraticabile la missione del collegio; nemmeno la legge con la quale il senato l'aveva fatto nascere riusciva a ottenere la necessaria approvazione in maggior consiglio. La riforma del diritto veneto moriva silenziosamente. Portandola sino in fondo essa avrebbe alterato completamente le leggi della Repubblica; forse si sarebbero riordinati gli statuti e data maggior certezza alle sentenze, ma l'eccessivo ricorso alle pratiche di diritto comune avrebbe condannato a tacere i giudici veneziani che di quei rituali non comprendevano nulla, né volevano sapere nulla; ed erano numerosissimi, specie fra i patrizi di rango minore o mediano, coloro che abitualmente frequentavano le corti veneziane e nelle quarantie o negli uffici di San Marco e Rialto traevano dall'esercizio forense i loro risicati guadagni. La paura di novità improvvise, radicali, il timore di veder turbato l'ordine giudiziario dall'improvvisa invasione dei giuristi, detentori di un sapere iniziatico e occulto, aveva dunque prevalso. Sullo sfondo, a rendere ancor più invisa questa riforma, era stato sempre ben vivo lo spettro di un'involuzione oligarchica ordita dal Gritti e dai "Primi" della città proprio tramite la cancellazione delle consuetudini giudiziarie veneziane; consapevole della minaccia, il maggior consiglio, l'organismo dove si facevano sentire gli umori mal trattenuti e le passioni del ceto patrizio, aveva alla fine imposto il suo veto alla correzione.
Uno degli ultimi dibattiti in merito alla riforma, tenutosi in collegio nel maggio del 1536, aveva riguardato gli avvocati. Il correttore - non veniva citato per nome - rifiutava di trattare la materia degli avvocati, il collegio che da un anno gli stava a fianco era intenzionato al contrario a proseguire nel lavoro. La Serenissima Signoria interveniva dando ragione alla maggioranza; la discussione sulla legge, in buona parte definita, non si doveva interrompere (24). Finirà nel nulla l'invito a far presto della Signoria; un regolamento sull'avvocatura verrà fatto e sarà una delle poche leggi a venir rubricata sotto il titolo di Corretion del Gritti; ma alla sua stesura i correttori voluti dal doge non erano in realtà intervenuti, sostituiti dai capi della quarantia e dai consiglieri della Signoria quando ogni progetto di autentica riforma era stato accantonato. Di avvocati comunque a Venezia si era parlato ancor prima di Gritti e in particolar modo, con rumore e intensità crescenti, dagli ultimi decenni del Quattrocento. Nei consigli dove giungevano per essere vagliate, le leggi che avevano gli avvocati come protagonisti incominciavano sempre recriminando sul loro numero esiguo, sulla strettezza dei loro guadagni, sulla cronica disaffezione verso un'attività che - lo si ricorderà - in altri luoghi contava invece centinaia di aspiranti, una schiera di notai, studenti in legge e procuratori di cause decisi a tutti i costi ad apprendere un mestiere remunerativo e stimato. La strana e deprecata assenza di avvocati trovava spiegazione in una delle caratteristiche più singolari del diritto marciano. L'avvocatura poteva essere in origine soltanto un ufficio pubblico, una magistratura inglobata nell'edificio giurisdizionale della Repubblica: l'ordinamento veneziano medievale aveva infatti voluto che gli avvocati, come i giudici, fossero tratti dalle fila del patriziato, e che fossero eletti, come avveniva per qualsiasi carica, in maggior consiglio. Chi rivestiva questo incarico doveva assolvere a una funzione ritenuta pubblica e si prestava a eseguirla, senza scopo di lucro, in nome del dovere che ogni membro dell'aristocrazia aveva di partecipare alla vita comune; il suo ruolo nel processo era forse più vicino al giudice che non al litigante, la sua presenza era pensata più in funzione degli interessi dello Stato, dal quale percepiva un regolare salario, che non della difesa delle parti (25). Quest'ambiguità connaturata all'avvocatura patrizia, sebbene voluta dal legislatore, era stata anche la causa del suo immediato decadere; accanto ai nobili avevano preso a esercitare il compito di difensori delle cause altri personaggi, in prevalenza cittadini veneziani, legati solo alle parti da contatti personali e pagati privatamente al termine delle udienze. La concorrenza esercitata dagli avvocati non nobili - dalla fine del XV secolo si diranno "straordinari" per distinguerli da quelli patrizi designati come "ordinari" aveva riscosso un grande successo; i litiganti si erano sentiti meglio tutelati da costoro, avevano più fiducia in un rapporto intrattenuto da persona a persona e in un meccanismo di scelta libera, frutto di accordi reciproci, sottratto ai vincoli di una mediazione statale (26). Le recriminazioni manifestate nei registri consiliari per la carenza di avvocati riguardavano così unicamente gli "ordinari"; erano i patrizi a disertare le cariche, a non presentarsi come avvocati una volta eletti alle corti o agli uffici di Rialto e San Marco; gli altri, gli "straordinari", sembravano fin troppi, e il loro gruppo, invece di diminuire, a poco a poco s'ingrossava. I senatori della Repubblica - stabiliva una parte votata nel gennaio del 1505 - avevano sempre provveduto a impinguare il ruolo degli avvocati patrizi e a renderli pratici nell'esercizio del foro; e ciò sarebbe sicuramente avvenuto "se tanta multitudine de advocati extraordinarii non fusse de certo tempo in qua concorsa ale corte del palazo et ali officii de San Marco et Rialto". Per frenare l'invadenza degli "straordinari" il maggior consiglio votava in fretta la nomina di venti avvocati patrizi e ordinava che nelle corti di palazzo solo loro avessero diritto di prendere la parola (27). Altre decisioni dello stesso tenore, tutte prese per dare un po' di sostegno agli avvocati ordinari e incoraggiare i possibili candidati a non rifiutare la nomina, si susseguivano a breve distanza di tempo; nel 1508 il maggior consiglio concedeva agli avvocati di evitare la normale contumacia in vigore sulle cariche pubbliche, nel 1515 si ribadiva la concessione, e nel 1517, per i due anni futuri, veniva levata "la tansa" mensile che gravava sui loro salari (28).
I risultati tuttavia, a dispetto di qualsiasi sforzo, tardavano ad arrivare. Giovanni Bolgherini, un protagonista del Libro de la Republica de Vinitiani composto da Donato Giannotti negli ultimi mesi del 1527, scrive "che per virtù d'una legge antica che abbiamo, niuno può parlare dinanzi a magistrati se non è Gentil'huomo". Egli ha riassunto al suo interlocutore il carattere unico delle leggi sull'avvocatura veneziana, il tratto che la distingue, ad esempio, da quella fiorentina. Una pagina sotto è costretto però quasi ad ammettere la desuetudine di tale usanza: "Perciò che quantunque il magistrato de gli avvocati s'usi creare, nondimeno pochissimi sono che agitino causa alcuna [...>. Mancando adunque i litiganti di questi aiuti, sono stati costretti ricorrer ad altri. Et trovandosi pochi Gentil'huomini che volessero esercitar tal'arte, hanno permesso che ella sia da altri esercitata, contro a quello che determinava la legge sopradetta" (29). Giannotti aveva completato il manoscritto mentre a Venezia ancora si brigava intorno alla riforma del diritto; e a rifletterci sopra, le frasi del fiorentino suonavano gravi, parlavano di una disarmonia preoccupante entro il mondo giudiziario.
L'avvio contraddittorio e il naufragio toccato alla riforma Gritti avevano chiarito che, per quanto concerneva il ruolo dei giudici, non si era voluto cedere; la non tecnicità della loro formazione e il rifiuto di attirarli nell'orbita del diritto comune avevano avuto partita vinta; essi restavano dei politici pronti a passare nei frangenti della loro carriera dalle magistrature giudiziarie agli uffici economici, dai consigli di guerra agli organismi vigilanti sulla sanità. Ora, se i giudici non potevano atteggiarsi a cultori del diritto comune, non si era disposti a tollerare che nemmeno gli avvocati lo fossero; il confronto sarebbe apparso disuguale, i due avrebbero parlato lingue sconosciute fra loro, e c'era il rischio che il contraddittorio si fermasse di fronte alla sordità fra chi difendeva e chi accusava. La legge sull'avvocatura approvata in maggior consiglio a più riprese dal 1537 (30) ostentava in apparenza un rispetto assai reciso di queste premesse. Nei primi paragrafi si comunicava di voler aumentare la quantità in servizio di avvocati ordinari; ne venivano aggiunti quattro alle corti di San Marco e due agli uffici di Rialto. In cause che coinvolgessero gli abitanti della città spettava a essi pronunciare le prime arringhe e, sebbene le parti avessero la possibilità di assoldare uno "straordinario", questi doveva essere sempre o un nobile o un cittadino veneziano. Ma precisando il rito delle cause "de la Terra nostra", quelle venute in appello ai tribunali della Repubblica, il testo un po' smarriva la perentorietà, e i distinguo e le cautele prendevano il sopravvento. All'ufficio dell'avogaria di comun, davanti agli auditori vecchi, alla quarantia, ai X savi del senato e alle altre corti sia di San Marco sia di Rialto "dove accaderà agitarsi alcuna de le cause civili de la Terra nostra", ovvero le cause dove si dibatteva di diritto comune, le parti potevano valersi delli "avocati nostri ordinari o estraordinari", i quali non erano più per obbligo veneziani, bensì anche forestieri "de le Terre e Luoghi nostri" (31). Le scuole, i luoghi pii, le comunità del dominio avevano la facoltà di salariare privatamente un avvocato - uno "straordinario" certamente - che offrisse loro i suoi servigi di anno in anno, svincolato dal controllo elettorale del maggior consiglio (32), e si ammetteva che di fronte alla Signoria potesse intervenire qualunque avvocato, ordinario o straordinario. Veniva ribadito qua e là, con parole dalle quali non trapelava eccessiva fermezza, l'obbligo della presenza di almeno un avvocato patrizio; ma non era appunto questo l'obbligo che Giannotti vedeva essere sempre trascurato? Un osservatore insospettabile, un partigiano accigliato dei costumi giudiziari veneziani come Marin Sanudo, faceva più o meno le identiche considerazioni di Giannotti; nella prima stesura - risaliva al 1493 - dell'operetta sulle magistrature di Venezia, discorrendo degli avvocati alle corti, egli scrive che quelli "vadagnano quanto vogliono essendo esperti et pratichi in pallazzo"; rammenta di aver prestato servizio lui stesso in quell'ufficio e tiene a ribadire: "è officio che vadagnano bene". Giunge il primo decennio del Cinquecento, siamo alla seconda stesura, e il suo giudizio è mutato: alcuni dei più valenti sono ancora pagati bene, lo concede, "ma per il gran numero di avochati extraordinarij - sì nobeli come populari - li avochati prediti non avadagnano molto, si non li soi carati".
Sanudo aveva espresso tutto il suo disappunto alle avvisaglie di correzione del diritto e adesso, fissare sulla carta il declino degli avvocati nobili, gli doveva costare fatica. Ma era sincero, al di là del proprio gusto conservatore, della venerazione per la vetustà degli ordinamenti marciani, anche là dove si metteva a descrivere la pratica degli avvocati straordinari così come l'aveva scorta trascorrendo infinite giornate ad ascoltare i lavori dei tribunali urbani. Presso gli auditori vecchi, l'organismo a cui giungevano le appellazioni dei giudici di palazzo, di Rialto e dei rettori del Dogado "aldeno avochati extraordinarij, come fa li Avogadori, et si soleva far dotori et pratici di Palazo, hora cadaum si fa tuor"; davanti agli auditori nuovi, dove invece si vagliavano gli appelli portati dai rettori di Terraferma e del dominio da mar, lì "stanno doctori per avochati, perché molto disputano li casi e leze civil" (33). L'avogaria di comun e i due rami degli auditori fungevano da magistrature intermedie, cioè si limitavano a dare un verdetto sulla liceità dell'appello e ad approvare o meno il passaggio della causa in quarantia: non era detto quindi che tutti gli avvocati straordinari fossero per forza dei giuristi. Di certo i difensori ammessi in avogaria o agli auditori, se non un privilegio dottorale, possedevano almeno una sommaria infarinatura di diritto comune; che il termine di "straordinario" fosse giudicato sinonimo di "intelligente delle leggi civili" lo rivelava a denti stretti il maggior consiglio all'inizio del Cinquecento, concedendo l'opera di un avvocato non nobile innanzi alle magistrature "di Avogadori di Comun et de li Auditori Novi, ai quali se tractano cause de forestieri dove necessaria è la intelligentia de raxon civil" (34). Alle quarantie, lo ripetiamo, non accadeva così: la gran parte degli "straordinari" e il gruppetto via via più striminzito degli avvocati patrizi continuavano a disputare le cause secondo la procedura veneziana, a dibattere oralmente - "Singolarissima è la maniera di esercitare l'avvocatura; poiché si eseguisce con la viva voce e non per allegazione, come si usa in quasi tutti gli altri fori" (35) - di fronte al collegio giudicante e a un pubblico che si assiepava nelle corti attento e divertito, partecipe dei loro artifici mimici e oratori, anche un po' sconcertato nello scoprire che a Venezia le autorità non si curassero di mantenere i processi al riparo dalla curiosità indiscreta dei suoi abitanti. Le opinioni sui pregi e sui difetti dell'avvocatura veneziana cresceranno d'intensità al tramonto della Repubblica; c'erano alcuni disposti a farne il simbolo dell'umanità e della saggezza con le quali Venezia aveva trattato la giustizia, e altri risoluti nell'imputare all'imperizia avvocatesca, alla supponenza con cui essa giudicava il diritto comune, il declino inarrestabile del foro marciano. Difficile, su posizioni tanto inconciliabili fra di loro, esprimere un giudizio misurato, giudicare se in qualcuno la voce della tradizione o della nostalgia riuscisse a coprire la realtà, a distorcerne le sembianze. I resoconti dei forestieri passati a Venezia e magari attardatisi a orecchiare una fase di qualche processo si assomigliavano tutti, anche a distanza di secoli; in quello, anonimo, stilato verso la fine del Cinquecento, l'autore affermava che nelle corti usano "di giudicar le cause così civili come criminali secondo le loro leggi proprie et sprezzano le leggi imperiali, facendosi beffe quando gli avvocati nel disputar le cause glie ne allegano qualch'una, segno manifestissimo della loro ignorantia" (36). Un giudizio abbastanza comune, facile da rinvenire con le medesime sfumature negative, in tanti racconti compilati da stranieri: e, nonostante ciò, troppo reciso per essere veritiero.
L'attività giudiziaria veneziana non si esauriva ormai nell'"esclamar terribilmente, et gridar molto et replicar spesso una medesima cosa et uno istesso passo" degli avvocati ordinari. Sopra i suoi tribunali piovevano fino alla saturazione le cause di Terraferma; si era agito con estrema risolutezza, dai primi del XVI secolo, per fare in modo che i tribunali maggiori della Repubblica, specie il consiglio dei X e le sue magistrature satelliti, intervenissero nelle contese del dominio, cercassero di avocarle e di reprimere gli abusi insorti con gli strumenti della giustizia esercitata nella capitale. Non era lecito negare il peso della Terraferma nel complesso equilibrio politico ed economico instauratosi dentro lo Stato veneto della età moderna; e non era possibile, appunto, ignorare che la cultura giuridica diffusa nel dominio si alimentava di fonti diverse dalle veneziane, possedeva regole e canoni irriducibili alla tradizione marciana. Bloccare la penetrazione di questa cultura entro i ranghi del patriziato aveva contribuito a non dissolvere di colpo la struttura stessa dello Stato; ma impedire che filtrasse, che di essa in qualche modo ci si potesse servire anche a Venezia avrebbe significato isolare la città dal resto delle province, impedire quel rapporto fra ceto dirigente e governati che giustamente si perseguiva con fatica e in mezzo a difficoltà di ogni sorta. Le concessioni all'avvocatura straordinaria - date quasi di nascosto, a volte solo tollerate -, i permessi attribuiti alle comunità del dominio affinché usassero nelle cause i loro difensori, i loro esperti di diritto comune, erano parse la soluzione appropriata; una soluzione escogitata in sordina, che seppur non infrangeva il diaframma giuridico della Dominante nei confronti dei suoi territori e della penisola - era stato questo l'obbiettivo cercato dalle riforme di Andrea Gritti -, silenziosamente lo aggirava, gli toglieva i punti di contrasto più stridenti, contribuiva insomma a renderlo meno impenetrabile.
Il graduale rinsecchirsi dell'avvocatura patrizia andava di pari passo con il rilievo di Venezia come cuore giudiziario del dominio. Succedeva così, certo in forme diseguali, nei maggiori tribunali delle monarchie europee. La nuova figura del giudice, parte attiva e autoritaria del processo, capace di orientare il dibattimento e non solo di assistervi in veste di arbitro, i nuovi quesiti legati al fluire massiccio dei casi d'appello, per la cui soluzione venivano richieste conoscenze puntigliose e accurate, avevano messo in subbuglio la corporazione forense. La professione si era segmentata, aveva prevalso una dettagliata gerarchia di funzioni: in Inghilterra, al crescere vertiginoso dei "serjeants at law" e dei "barristers" impiegati presso le grandi corti di Londra faceva da contrappunto la diminuzione degli "attorneys at law" e degli "stewards" dispersi nei piccoli uffici delle loro province; si pensi inoltre all'immenso prestigio raccolto in quel tempo dagli avvocati operanti al parlamento di Parigi, il supremo organismo d'appello del regno di Francia (37). Scremature, fasi di adeguamento fisiologico dalle quali non potevano uscire indenni nemmeno gli avvocati veneti; che a poco a poco, infatti, adeguavano la routine professionale al succedersi degli eventi, piano piano si mostravano meno arcigni e chiusi e sapevano giocare una parte non piccola nei percorsi della giurisprudenza veneziana. Lungo il Cinquecento, spentasi ogni velleità governativa di alterare gli statuti, i notai delle corti, gli avvocati e qualche giureconsulto patrizio restavano i soli a credere nella necessità di riordinare la legislazione marciana; le rare edizioni a stampa di pratiche o di indici e di rubriche statutarie uscivano dalle tipografie per impulso loro: di Bartolomeo Zamberti, un cittadino e notaio all'avogaria di comun, autore prolifico a metà secolo di collezioni di decreti criminali e civili del senato, dell'avogaria, del consiglio dei X: del patrizio e doctor iuris Andrea Trevisan, fratello del patriarca di Venezia Zuanne, che a dieci anni dalla morte del doge Gritti curava la stampa dei nuovi statuti premettendo a essi un indice dettagliato delle materie contenute. Sfortunata, conclusasi con la sua morte, era stata l'opera di riordino delle leggi venete affidata a Giovanni Finetti, dottore ed esperto avvocato cittadino; egli proponeva in una sua supplica di rivedere a fondo le leggi della Repubblica, "molte di loro soverchie, altre in multiplicati et successivi volumi contrarie", ricevendone subito l'assenso del senato che aveva delegato a sorvegliare quest'incombenza un uomo del prestigio di Niccolò Contarini; ma i lavori si erano fermati già nel 1609, appena formalizzato l'incarico. Meno avversa doveva essere la sorte toccata quindici anni dopo al lavoro di Giovanni Bonifacio, un giureconsulto, assessore e avvocato in Terraferma, il quale riusciva a trasfondere la sua lunga pratica forense in un celebre commentario sui feudi e in un meno conosciuto Metodo delle leggi della Serenissima Signoria pubblicato a Rovigo nel 1625 con dedica al doge (38). L'intento di queste iniziative era d'ordine pratico; venissero alla luce sotto forma di appendici agli statuti - dunque, in minima parte, con una sanzione d'ufficialità - o circolassero invece come raccolte, eseguite privatamente, di leggi e sentenze dei consigli veneziani, il loro scopo era quello di facilitare la pratica forense, di rendere agevole il reperimento dei materiali che il personale dei tribunali, dai giudici sino ai notai, di ora in ora adoperava nelle proprie mansioni. Compilazioni e collezioni di vecchie norme, raggruppate in sequenza cronologica o talvolta per contenuto, se ne trovavano tantissime in ogni Stato dell'Italia moderna; era un indizio dei mutamenti che sfioravano il sapere giuridico nel corso del XVI secolo: col passare degli anni esso stava accentuando le sue componenti pratiche e, mentre l'insegnamento del diritto nel chiuso delle aule universitarie perdeva di vivacità, quasi si staccava dal contatto con la realtà sociale, diveniva un monopolio gestito dalle mani accorte e gelose dei forensi. Magistrati e giurisperiti indirizzavano le fasi del rito, plasmavano i caratteri della giurisprudenza come della dottrina; e il diritto, consegnato al personale delle corti, tendeva sempre più ad assumere un volto familiare, prendeva l'aspetto di un sapere giuridico che dai centri dello Stato arrivava a toccare i confini delle regioni sottomesse alla sua giurisdizione e da lì ritornava all'indietro, modellandosi sempre più secondo le tradizioni e gli stili forensi di spazi geografici chiusi.
Qualcuno del patriziato, intorno alla metà del secolo, sognava ancora - è vero - una trasformazione brusca del diritto veneziano: un gruppo di nobili molto vicino alle famiglie più facoltose e in vista dell'oligarchia patrizia - specie quelle unite dalla forte devozione verso la curia romana che avevano preso l'abitudine di riunirsi nell'Accademia della Fama, istituita da Federico Badoer nel 1559. Desideravano, all'incirca come un ventennio prima, porre in ordine le leggi della Repubblica; norme sacre e ispirate dalla saggezza dei loro avi - sottolineavano redigendo i "Capitoli" dell'Accademia -, tuttavia bisognose di ritocchi energici; giudicavano conveniente eliminare la divisione in libri, consulti, pratiche e correzioni degli attuali statuti, accorpandoli in quattro ampie sezioni: una detta "politica", con norme sulle procedure e la costituzione, una riguardante la materia "iconomica", la terza sui "buoni et lodevoli costumi" con il nome di "etica", e l'ultima spettante ai precetti religiosi con il titolo di "teologia". Una parte preponderante nel disegno giuridico dell'Accademia aveva anche l'edizione di opere di diritto romano: la pubblicazione dei consulti dell'Alciato, di commentari sulla lingua dei giuristi citati nei cinquanta libri del Digesto, di opere dei canonisti. I fondamenti del diritto veneto, a prestare ascolto ai propositi degli accademici, si sarebbero certo dissolti. Non saranno in grado di portarli a termine: gli indecifrabili legami mantenuti con le frange del patriziato - Corner, Grimani, Foscari - che premevano per una condotta elitaria del governo veneziano susciteranno diffusi timori e Badoer, l'ispiratore dell'Accademia, verrà addirittura condannato a qualche anno di carcere (39). Un tentativo fallito e comunque, sul piano del diritto, dal sapore anacronistico; in quei frangenti, svoltata la metà del secolo, non contava nulla rifarsi alla dottrina e attardarsi a rincorrere i modelli di un diritto comune che altri paesi già cominciavano a rifiutare. Frutto del mestiere forense, di una consuetudine intensa con l'ambiente dei tribunali, era invece il progetto di regolazione delle leggi che un avvocato di nome Balbi si offriva di fare nel 1599; un piano molto più saggio e misurato di quello dell'Accademia, poiché non si esauriva nell'inventare una successione inedita per le parti e le rubriche degli statuti. Il Balbi immaginava bensì un testo in quattro libri, ma su questo punto non si fermava troppo, tirava via lasciando intendere che non se ne voleva curare. I grattacapi e i problemi di chi come lui passava le giornate fra i clienti e le cause da dibattere venivano allo scoperto leggendo i contenuti della sua stringata riforma statutaria; il terzo libro, ad esempio, non avrebbe elencato solo le norme sui contratti, i testamenti, le tutele, ma anche, rigorosamente descritte, le regole procedurali con indici e repertori, tutte le leggi e le correzioni emanate in fatto di rituale giudiziario, "atioché", si esprimeva Balbi, "in questo volume si contenesse la decisione e la pratica de tutte le materie pertinenti alle cose giudiciarie et civili" (40). Gli stava a cuore la velocità del suo lavoro, non aveva tempo da perdere, da buon professionista, nello scartabellare i registri delle delibere consiliari; suggeriva così che i giovani addetti alle cancellerie scrivessero i sommari delle decisioni, li radunassero in un unico volume contenente "anco quell'altre lezze che alla giornata si facessero" per poterne disporre facilmente in ogni seduta delle corti.
Sommari delle parti, raccolte aggiornate delle leggi recenti, elenchi delle decisioni prese durante le sedute dei tribunali; l'esperienza forense aveva insegnato che occorreva dotarsi di tali strumenti. Anzitutto per dirimere le controversie civili, dove la sommarietà tanto praticata in materie di diritto penale rischiava di approdare a risultati perversi. Bisognava avere sott'occhio la montagna di leggi che usciva dalle decine di consigli veneziani e, meglio ancora, conoscere come i giudici patrizi si erano regolati nell'emettere i loro verdetti su casi analoghi. L'accento posto da un giurisperito pratico come il Balbi sull'utilità di conoscere i verdetti precedenti rimarcava una peculiarità dello stilus curiae veneziano; quella, per usare le parole di Botero relative ai giudici della Serenissima, di fare "capital grande de gli essempi" come pure di regolarsi "volentieri in alcune cose con casi seguiti" (41). Era un'esigenza nata dal rifiuto veneziano di adoperare le scappatoie che il diritto comune offriva per ovviare ai dubbi giudiziali; la diffidenza verso i giuristi accademici e verso le espressioni del loro sapere, i consilia, aveva indotto a tenere in maggior conto le pronunce delle corti, a voler conoscere le sentenze date in occasioni precedenti. L'identità di giudice e uomo di governo, l'inammissibilità che un patrizio nell'attimo di giudicare venisse sviato da un'autorità superiore alla propria, sbarrava l'accesso ai suggerimenti dei dottori; l'identità di idee e costumi, di paure e obbiettivi, che si supponeva legare assieme i patrizi occupati a legiferare e i patrizi intenti a giudicare - i ruoli, si sapeva, potevano comodamente invertirsi - attribuiva ai loro verdetti un prestigio consistente, spingeva a non dubitare in linea di principio della loro giustezza. La sensazione che al potere giudiziario, molto più che al legislativo, spettasse sempre il compito di conservare l'ordine sociale, informava l'esperienza e gli atteggiamenti di coloro che per mestiere frequentavano i tribunali veneziani. Le raccolte di sentenze - una, le Sententiae a probis iudicis emanatae, risaliva al XIII secolo, ma ne verranno compilate in gran numero fino a Settecento inoltrato - circolavano con estrema frequenza. Spulciarle con cura, prendere visione dei casi risolti non era tuttavia affare dei giusdicenti; i collegi dei patrizi preferivano ascoltare lo svolgersi del contraddittorio e non immischiarsi in fascicoli processuali. Toccava piuttosto ai notai giurisperiti, i "ministri" addetti stabilmente alle corti, tenerli a memoria per avvisare i giudici di violazioni commesse alle consuetudini procedurali e alle norme degli statuti; erano gli avvocati ad approfittare delle collezioni di giurisprudenza per consigliare i clienti sul da farsi o per rafforzare i loro discorsi con l'appiglio a sentenze emesse da altri tribunali della Repubblica, magari più eminenti e temuti di quello in cui si discuteva allora. I difensori ammessi alla curia di petizion, il tribunale civile di prima istanza con maggiori competenze in città, avevano tutti il buon senso, quando stilavano le comparse per gli assistiti, di studiare i registri in cui si trascrivevano le sentenze e le allegazioni pronunciate durante le cause gli anni addietro (42). Serviva a snellire i procedimenti, a guadagnare tempo, e a Venezia gli esperti del foro conoscevano bene l'utilità di un simile espediente; ne erano convinti gli avvocati della curia di petizion, il notaio Zamberto, il Balbi, lo dimostrava un loro collega di fine Cinquecento, l'avvocato Pietro Badoer, tanto famoso da vedersi pubblicate le "orazioni" più apprezzate, cinque arringhe civili zeppe di riferimenti a sentenze pronunciate dal senato o dalle quarantie in casi che presentavano affinità con quelli da lui difesi (43).
Semplicità e speditezza nel condurre i processi erano un po' i cardini dell'ordinamento giudiziario veneziano. Il rituale della procedura imposto alle corti marciane aveva saltato quei brani degli "ordines iudiciorum" che sembravano appesantirla con troppe formalità. Si era fatto a meno del "libello", lasciando che a tale scopo fungesse il praeceptum di citazione, si era donata molta importanza al dibattito orale condotto dai rappresentanti delle parti; nessun ricorso al consilium sapientis fornito al giudice da un dottore, nessuna possibilità di sfruttare le eccezioni del diritto comune che permettevano di ritardare l'emissione della sentenza. L'esclusione decisa dei tecnicismi, la paura di schermare la prassi veneziana con quella desunta dal rito romano-canonico, dettavano le norme di comportamento osservate all'interno delle magistrature urbane. Tuttavia, l'ossequio in fatto di procedura, il rispetto letterale dello stile come lo imponevano i capitoli e le pratiche statutarie, si era incrinato presto e leggere modifiche, piccole correzioni desunte dalla dottrina, avevano trovato modo di affermarsi. Gli avvocati quattrocenteschi che avevano posto alla curia di petizion non si sarebbero di certo azzardati a citare Bartolo o Baldo, ma a leggere le loro allegazioni ci si imbatteva qua e là in modi retorici, in abbozzi di regulae iuris consueti fra gli esperti di diritto comune e per niente familiari al tipo di procedura che si intimava di applicare a Venezia. I giudici però non si irritavano a sentirli, e forse perché nel confronto serrato con i complessi quesiti di un diverbio civile - doti non pagate, assicurazioni marittime non liquidate, testamenti contestati - la loro incompetenza giudiziaria saltava agli occhi, essi prestavano attenzione agli argomenti dei difensori, seguivano pacatamente la lunga trafila delle comparse, ed erano riluttanti ad abusare dell'arbitrium per ridurre al silenzio le parti (44). Ascoltavano con sopportazione, anche perché gli avvocati si guardavano bene dall'eccedere in ripetizioni troppo smaccate della procedura insegnata nella facoltà patavina e adoperata dagli assessori di Terraferma; la logica del diritto comune, quel suo modo di procedere allusivo, sottile, continuamente in bilico tra pratica forense e sfera della politica, quel sapere consegnato alla comprensione esclusiva di chi solo l'aveva appreso negli studia, veniva tutt'ora bandito da Venezia, dai suoi tribunali come dalle menti dei suoi giudici. Si era accettata la recezione di quei frammenti di diritto comune non in contrasto con la prassi cittadina, di quelle soluzioni e formule giuridiche che si adattavano alle consuetudini veneziane senza forzature; era stato il caso del ricorso più abbondante alla scrittura in ogni fase processuale o della disponibilità, da parte dei giudici, a farsi catturare nel gioco macchinoso delle comparse testimoniali, dei cavilli di procedura o di sostanza. Un trapasso quasi naturale, originato dalla crescente complessità del diritto e dalla tendenza degli avvocati a giovarsi della loro abilità per imprimere al processo i ritmi voluti. Ai giudici non era rimasto che assecondare quest'evoluzione (45).
Ancora contenute, di poco conto, al cadere del Medioevo, quelle formalità procedurali si erano ingigantite entrando nei secoli della prima età moderna. Una zavorra pesante e complicata di forme e di rituali che stremavano i litiganti. Se ne lagnavano tutti, non solo a Venezia, e a finire sotto accusa erano spesso gli avvocati, responsabili evidenti dei raggiri e delle astruserie con cui si inquinava la giustizia. Ma, ancora una volta, i guasti e le colpe del rendere giustizia avevano radici più tenaci e nascoste dell'iniquità caratteriale che si desiderava attribuire al ceto degli avvocati; riposavano nei mutamenti che lo Stato veneziano pativa da quando aveva inglobato le province di Terraferma, stavano nelle trasformazioni di un'economia non più alimentata dai commerci, si indovinavano nella cultura di un patriziato che aveva smesso di aspettare ansiosamente il ritorno delle navi e invece profondeva i propri capitali nelle imprese di bonifica o nell'acquisto di terreni agricoli. Francesco Sansovino - figlio di Jacopo e attivo componente dell'Accademia della Fama -, che alla professione degli avvocati dedicava nel 1554 un dialogo fortunato, aveva colto bene l'atmosfera veneziana di quei momenti: in passato - ricordava - i patrizi "dalla prima infantia si mandavano in Levante, là dove fatti ricchi vivevano la ricchezza loro in santissima pace, et di qui procedeva che havendo i giovani esito fuori, gli avvocati erano in poco numero"; oggi al contrario, mancando il guadagno dei commerci, "la gioventù non havendo da trafficare s'è messa al Palazzo, e credendo che le facende vi fussero in quel medesimo termine che ne' tempi passati sono accresciuti in tanto numero". Numerosi gli avvocati veneziani, ma del tutto incapaci nell'adeguarsi alle mansioni che il ruolo della città, capitale di un vasto dominio territoriale, e i bisogni del patriziato rendevano improrogabili. Avrebbero dovuto conoscere a menadito gli statuti e le consuetudini delle città soggette, "ma io non so già [chiudeva Sansovino con un perfetto interrogativo retorico> come essi s'intenderanno le materie de testamenti, de legati, de fidecommissi senza sapere da quali fonti procedino queste così fatte materie" (46). Per lui, che aveva una concezione altissima del diritto romano, le difficoltà si sarebbero superate fornendo agli avvocati una preparazione dottrinaria adeguata e abbandonando l'empiricità della professione come si praticava a Venezia. La sua proposta, conosciuta l'affinità con la cerchia di Federico Badoer, risentiva di un clima particolare, veniva da convincimenti che non avevano suscitato se non freddezza e malumori; ma i passi dove discorreva delle condizioni a metà Cinquecento e della svolta originatasi nella società veneziana si potevano giudicare in fondo persuasivi. Un acuto scrittore settecentesco quale Vettor Sandi era rimasto altrettanto colpito dalla varietà di leggi civili prodotte a partire dal XVI secolo; un commento amaro il suo - "da queste due concause, copia di affari nuovi e copia di leggi, necessariamente crebbe quella dei litigi" -, critico verso il gonfiarsi delle legislazioni; e per farsi comprendere con qualche esempio non trovava di meglio che servirsi quasi delle medesime frasi di Sansovino: "Quante novità nei fideicommissi, quante nelle successioni? Infinite quasi sopra la primogenitura non conosciute dagli antichi" (17).
Avevano ragione entrambi nel mostrarsi sorpresi di fronte al cumulo di leggi nelle quali la famiglia faceva da protagonista. Un fatto inusuale, almeno a sfogliare i volumi del maggior consiglio che si arrestavano alle soglie del Cinquecento. E non perché la famiglia avesse avuto nei secoli centrali del Medioevo un posto di secondo piano; era vero piuttosto il contrario. Il ruolo dei collegamenti familiari nel sorreggere le intraprese commerciali, nel tessere accordi di nolo marittimo, nel coprire il Mediterraneo con la fitta corrispondenza dei padri ai fratelli, delle madri ai figli, lettere che raggiungevano le Fiandre o la Siria recando notizie d'affari o degli affetti di casa, era stato insostituibile per la società veneziana medievale. La libertà con cui si partiva da Venezia lasciando la propria famiglia e l'impegno frettoloso dei capitali, investiti su una piazza commerciale o richiamati da un'altra tramite una lettera di cambio, avevano dissuaso dall'imbrigliare i destini familiari nel rigore di leggi invadenti o dall'imporre regole sulla trasmissione della ricchezza che il patriziato accumulava. Portare la voce dello Stato dentro la vita della comunità familiare, oltreché dannoso, si sarebbe percepito come un'intrusione indebita, oppressiva, avrebbe soffocato quel gusto di saggiare le proprie capacità nel rischio dei commerci che faceva da sostegno alla storia della Serenissima. Poi, questo pudore si era stemperato, era andato scemando nel volgere degli avvenimenti. A reggere le sorti della Repubblica giungeva un patrizio nuovo, "un nobile formatosi in quel processo di simbiosi tra la terraferma di qua dal Mincio e la città lagunare, iniziato all'epoca della conquista e che continuerà sino al cadere della Repubblica" (48). Il cambio delle attività economiche, spostate dai traffici per mare ai più tranquilli investimenti di terra, l'assorbimento inevitabile di idealità e modi di atteggiarsi comuni alle aristocrazie suddite, si era insinuato nella concezione della famiglia patrizia, l'aveva poco a poco staccata dai modelli tradizionali. Il culto per la ricchezza immobiliare - il palazzo, la villa, i campi -, la venerazione per la memoria del casato, su cui ricamare l'antichità e le glorie di improbabili genealogie, divenivano atteggiamenti assorbiti e condivisi dalla cultura del patriziato. Il patrimonio si perpetuava attraverso la discendenza e impedire che svanisse, che la morte degli eredi o un matrimonio sfortunato esaurisse la ricchezza economica del ceppo familiare, suscitava le angosciose preoccupazioni del patriziato. Anche i consigli, gli organismi in cui decantavano i sentimenti dell'aristocrazia marciana, erano stati alla fine coinvolti da questo senso di precarietà, di paura verso il futuro. Convinti che non si poteva rischiare la dispersione dei patrimoni, che un eventuale impoverimento delle famiglie patrizie avrebbe indebolito le strutture dello Stato portando affanni e scompiglio nel ceto dirigente, si era corsi ai ripari.
La dimestichezza con le norme ereditarie e di successione patrimoniale imbeveva da secoli gli statuti delle città soggette, ne faceva da spina dorsale, e i loro autori erano quei medesimi uomini di legge che nelle lezioni o nei commentari avevano codificato le molteplici applicazioni di regole che solo il diritto romano era in grado di offrire. Non ci si era fatti troppi scrupoli nell'adottarle a Venezia; le prescrizioni in materia di fedecommessi e di doti, rimpolpate da pratiche di limitazione dei matrimoni, avevano intriso velocemente le leggi della Serenissima e le strategie familiari della sua classe dirigente (49). Com'era avvenuto per gli avvocati, anche adesso dietro una patina di apparente esclusività cominciavano ad attecchire nell'esperienza giuridica veneziana gli apporti della Terraferma. Certo era una condizione a cui non si riusciva a sfuggire ma che recava con sé, a fianco degli innegabili vantaggi, conseguenze inaspettate e sgradite. Giudicare in cause di testamenti e di eredità contestate allungava all'infinito i processi; già negli anni trenta del XVI secolo il maggior consiglio aveva decretato che i testamenti si scrivessero in volgare, che tutti quelli contenenti fedecommessi, sia scritti more veneto sia more imperiali, venissero elencati in un apposito registro confezionato dai notai nella cancelleria inferiore così da evitare le eterne discussioni e i "dispendii de lite" che puntualmente si verificavano in tali cause (50). Ma non era nemmeno possibile eccedere nella velocità e nelle procedure sommarie; agli avogadori e agli auditori che si facevano un vanto dei loro giudizi d'equità, dell'attenersi alla ragione e non ai testi, il maggior consiglio replicava nel 1545 di non rispondere più agli appelli "quod fiat ius simplicemente", ma di osservare i capitoli processuali, di leggersi ogni scrittura "dechiarando la qualità delli casi et ogni accidente che li paresse a proposito per far conoscere le verità" (51). Attardarsi in mezzo a questioni di procedura, stabilire tempi e fasi dei processi sarà il compito assillante delle Correzioni statutarie promulgate di seguito a quella del Gritti; se ne conteranno sei fino al 1630 - il periodo di più intensa produzione legislativa veneziana - rubricate sotto i nomi dei dogi Marc'Antonio Trevisan, Pasquale Cicogna, Marc'Antonio Memmo, Giovanni Bembo, Antonio Priuli, Francesco Contarini (52), e in ognuna di esse la "pratica del palazzo" doveva riempire la maggioranza dei paragrafi. Appena sfiorata era la procedura dei malefici, pochi ritocchi per sveltirla da parte dei collegi a cui abitualmente pervenivano le cause penali; ma la repressione della criminalità aveva bisogno di ordini fulminei, di tempi rapidi, non si poteva consegnarne il controllo all'attività legislativa del maggior consiglio. Sostanziali modifiche colpivano invece l'apparato della giustizia civile; che vedeva accrescersi non solo la mole delle leggi ma ancor più gli uffici e il numero dei giudici a sua disposizione.
Dall'inizio del secolo si succedevano le fondazioni delle corti con esclusiva competenza civile: erano nominati per la città i signori di notte al civil, per i processi in appello dal dominio venivano istituiti i X savi del corpo del senato - portati a XX nel 1619 -, mentre dalle quarantie, già insufficienti a tenere il ritmo dei lavori ordinari, si staccavano il collegio dei XXX e poi dei XX savi, i quali giudicavano delle cause civili tra 100 e 300 ducati; non bastavano ancora a spedire la mole degli appelli che giaceva ferma nelle cancellerie della Dominante, e il maggior consiglio era spinto a creare un ennesimo collegio, detto dei XII, capace di giudicare senza appello ogni causa civile al di sotto dei 200 ducati (53). La struttura degli uffici veneziani tendeva a separare le proprie mansioni, disfaceva i suoi consigli politici delle competenze in affari giudiziari e li trasmetteva a magistrature giudicanti create ex novo con mansioni e compiti ben delimitati. Esauritesi le velleità riformatrici dell'Accademia della Fama, il diritto veneto non avrebbe sopportato d'ora in avanti alcuna brusca alterazione. La Signoria rivolgeva i suoi interventi a snellire i passaggi delle cause fra il dominio e la sua capitale, a far sì che i litiganti o i loro avvocati sapessero quale corte adire per cause di un determinato valore non oberando di lavoro le tradizionali magistrature d'appello. Forse non sembrava più rilevante discutere di qualità delle leggi o del modo di cambiarle come si era fatto, con passione e scontri, nel primo trentennio del Cinquecento; l'azione dei patrizi si appuntava adesso sul funzionamento quotidiano, concreto, degli organismi che amministravano la giustizia veneziana.
L'indirizzo pratico della politica giudiziaria veneziana era ribadito dalla creazione di un'altra magistratura, l'ufficio dei conservatori ed esecutori alle leggi. Lo si istituiva nel 1553, redigendo i capitoli della Correzione statutaria compiuta sotto il dogado di Marc'Antonio Trevisan. Un ufficio nuovo, composto da tre patrizi del rango di senatori, ai quali veniva demandata la sorveglianza sugli avvocati delle corti di San Marco e Rialto nonché sull'applicazione delle leggi in materia di compromessi e di testamenti (54); delle due incombenze, era la seconda ad attirare da subito la quota preponderante del loro lavoro. I conservatori non si asterranno certo dal regolare l'avvocatura secondo quanto aveva stabilito la legge del 1537; colpiranno gli abusi commessi, emaneranno provvedimenti sovente assai rigidi per porre ordine fra i forensi, saranno loro a disporre le prove di ammissibilità alla professione e, nel 1723, con un provvedimento che farà scomparire quasi del tutto la figura degli "ordinari" patrizi, a imporre il dottorato per gli avvocati esercitanti a Venezia (55); ma le loro riunioni, almeno nel nostro periodo, verranno scandite dall'esame di compromessi contestati, di testamenti illegali, e dirimere le contese e i dissapori insorgenti fra gli arbitri sarà la mansione quasi esclusiva dei tre conservatori.
La prassi dei giudizi per via arbitrale si scindeva a Venezia in obbligatoria e volontaria. Quest'istituto giuridico era entrato presto nella legislazione marciana, diramandosi dal tronco delle procedure di diritto comune; nei tribunali cittadini del dominio, dove si osservava più strettamente il rito romano-canonico, veniva distinto allo stesso modo tra un arbitrato volontario, ex consensu partium, e uno imposto ai litiganti in modo coattivo per decisione dei giudici; ed era il secondo, in realtà, per la sua larga diffusione, per l'uso intenso che se ne faceva nelle cause civili, ad attirare le maggiori attenzioni dei giuristi cinquecenteschi. L'arbitrato obbligatorio mirava a sottrarre alla giustizia ordinaria, demandandole invece a un collegio di arbitri, le liti che coinvolgevano i componenti di una stessa comunità familiare. Ogni statuto della Terraferma veneta conteneva alcuni capitoli sopra quest'argomento; Marc'Antonio Bianchi, che alle rubriche "de compromissis faciendis inter coniunctos" comprese negli statuti di Padova aveva dedicato un proprio Tractatus, metteva in rilievo la pervasività di tali norme: "sed advertant quarentes statutum hoc de compromissis faciendis inter coniunctos in omnibus fere civitatibus Italiae vigere"; a Vicenza, a Brescia, a Bergamo, e poi all'estero dei confini veneziani, in luoghi e regimi politici distanti tra loro; a Torino, Pavia, Milano e Firenze: "credo etiam reliquas Italiae civitates hoc statutum habere [aggiungeva Bianchi>, cum aequum ac sanctum sit: et pro bono pacis inter cives inductum" (56). Obbligati a cercare un compromesso, a sottoscrivere cioè una delega delle proprie contese a uno o più arbitri promettendo di stare alle loro decisioni, erano a Venezia gli appartenenti a un medesimo nucleo familiare; padri, madri, figli, nel caso sorgesse una lite, venivano costretti ad affidare la causa a persone di loro fiducia le quali, udite le rispettive querele, tentavano di giungere a un accordo sommariamente, senza avviarsi alla volta dei tribunali e impaniarsi nelle formalità del rito ordinario. La legge veneziana era molto accurata, sia nell'accreditare pubblicamente il carattere giurisdizionale delle pronunce, sia nel prevedere l'intervento dei giudici ordinari qualora l'iter dei compromessi si inceppasse di fronte a qualche ostacolo. Una parte del 1475 comandava che, se i primi conciliatori non fossero riusciti nella missione, i giudici del proprio avrebbero potuto nominare liberamente una seconda e poi una terza "mano" di arbitri; avessero fallito anche costoro, solo da quel momento la causa seguiva le vie ordinarie presso le corti civili della città (57). Gli arbitrati volontari - "honor della terra et utilità delli nostri" (58) - avevano luogo tra chiunque decidesse di risolvere una causa "summarie et de plano, et absque strepitu et figura iudicii" senza entrare nelle aule giudiziarie. Qui la legge, per rispettare la libertà di scelta e incoraggiarla, riduceva al minimo il ruolo dei giudici. Era lecito unicamente ratificare la sentenza nata dal compromesso, mai modificarla o tanto meno invalidarla a causa dei tardivi ripensamenti delle parti. I compromessi fatti more veneto non si appellavano, rivolgersi per l'annullamento della sentenza a una corte cittadina non era in nessun caso consentito.
I Veneziani andavano molto fieri del proprio rito arbitrario. Faceva parte delle loro abitudini risolvere le cause per le spicce, evitando le spese esorbitanti di avvocati e notai. La convinzione che l'autorità dello Stato dovesse esercitarsi in certi campi con mille cautele e che le soluzioni amichevoli e gli accordi reciproci potessero acquietare il tessuto civile, aveva accompagnato fedelmente la pratica di governo della Signoria. Le stesse città del dominio, vincendo la ritrosia nei confronti del diritto veneto, avevano unito alle loro provvisioni le norme del compromesso more veneto, quasi a confermare quel vezzo un po' celebratorio che il maggior consiglio si concedeva parlando del proprio rito arbitrale: "oltra il commodo che ne ricevevano i particolari, non era parte alcuna particolare del mondo alla quale con molto honor della Repubblica nostra non pervenisse la fama delli Compromessi fatti More Veneto et inappellabili" (59). Ma avversare le procedure scritte dei tribunali, le pratiche pomposamente dottrinarie dei giudici, e invece favorire le composizioni orali, gli accordi sommari fra i contendenti, faceva parte di una concezione della vita giuridica che intrideva la sensibilità di tutti gli uomini cinquecenteschi: "Il dottor Girolamo Schurff [raccontava ai suoi discepoli Martin Lutero nell'unica pagina dei Discorsi in cui l'acre disprezzo per i giuristi si mitigava> mi ha confessato francamente che se una parte va da lui proponendogli una causa, prima la esorta ad adoprarsi per venire ad una riconciliazione; se poi la parte insiste e si impegna, allora le dice: ῾Se hai una buona causa vinci; se no ti tocca il danno!' Poi prende il denaro. È un uomo pio ed ha ancora coscienza; altrimenti sarebbe molto più ricco" (60). Uomo retto e saggio anche il conciliatore di liti Perrin Dendin, l'arbitro di buon senso che Rabelais contrappone all'avido e arruffone giudice Bridoye; un "uomo dabbene" sebbene non fosse un giurista, venerato in tutti i paesi dei dintorni, che "componeva più liti lui solo di quanti processi si celebrassero in tutto il palazzo di giustizia di Poitiers, nel tribunale di Montmorillon e al mercato di Parthenay-le-Vieux" (61). Così apprezzata da divenire il simbolo di una giustizia ideale, la procedura arbitraria aveva attecchito naturalmente in tutti gli statuti dei comuni italiani medievali - anche se c'era l'impressione che in essi a meritare le attenzioni più cospicue fossero i compromessi obbligatori, mentre a Venezia si dava un identico rilievo agli arbitrati volontari. I commentatori, da Bartolo in avanti, avevano speso fiumi di parole nell'intento di regolarli, di stabilirne la possibilità di applicazione o talora di vietarli (62). Ma con l'andare del tempo il diritto comune si era fatto mano a mano restio, poco indulgente ad approvare una soluzione delle cause arbitraria, giocata all'esterno dei tribunali e sottratta volutamente alla mediazione giuridica dei doctores.
Si provò a limitare gli arbitrati togliendo il requisito che li rendeva appetibili agli occhi della gente comune: la condizione di non appellabilità (63). Messi di fronte all'incertezza causata dall'annullamento del compromesso i litiganti non l'avrebbero più nemmeno tentato; vedersi rigettati nel vortice delle spese forensi, dei pareri consiliari, delle anticamere processuali, toglieva ogni utilità alla catena dei delicati patteggiamenti fra gli avversari protrattisi a volte per intere settimane: "Addivenire all'appello [è stato scritto>, o comunque porre in essere rimedi contro il lodo, divenne frequente alla fine del Quattrocento e costituì un caso tipico nei consilia" nonostante il divieto esplicito a ciò sanzionato negli statuti (64). Avvertimenti di crisi, sintomi di stanchezza nel meccanismo dei compromessi, venivano allo scoperto anche nella società veneziana; solo con qualche ritardo, dato che qui non erano entrate le cautele dei dottori giuristi e, né il governo della Repubblica, né la cultura giuridica dei suoi abitanti avevano mai pensato di porre al bando gli arbitrati. Si doveva emanare una legge, nel 1547, per trattare organicamente la materia arbitrale; qualcuno aveva escogitato il modo di vanificare l'esecuzione delle sentenze "laudate", approvate, dai consigli dichiarando che l'arbitrato ledeva i loro diritti di possesso; un cavillo di procedura cavato dal calderone giurisprudenziale del diritto comune, però i giudici spesso abboccavano e la causa, per un po' di tempo, veniva lasciata in sospeso. La parte del maggior consiglio, passata a larghissima maggioranza, tuonava contro "questa pessima corrutela" che vessava i litiganti poveri e li faceva trascinare indebitamente "nel Palazzo"; si riaffermava il principio della non appellabilità, si ordinava di ottemperare alle decisioni prese dagli arbitri, di non artefare le loro sentenze, e tuttavia "perché potria occorrer che da poi laudate le sentenzie li sententiati trovassero qualche scrittura over altro che prima non havevano, che farsi havendolo non haveriano perso la causa, il che però rarissime volte occorre", ebbene, in questi casi era lecito impetrare l'annullamento del compromesso (65). C'erano giri di parole, frasi dubbiose, espressioni di rammarico, ma da adesso i compromessi more veneto perdevano il requisito dell'inappellabilità.
L'argomento tornava all'ordine del giorno nei capitoli della Correzione Trevisan, passata la metà del secolo, quando veniva istituito il magistrato dei conservatori delle leggi. Si faceva un gran parlare, in questa circostanza, dei compromessi fra congiunti. Il problema era come eleggere gli arbitri, in quale numero e con quali caratteristiche; i litiganti tendevano a servirsi dei loro familiari, a chiamare in ballo gli amici o persone con interessi evidenti nella causa, e perciò a volte non si riusciva neppure a mettersi d'accordo sul contenuto del compromesso. I correttori proponevano di far nominare fino a dieci "confidenti" per parte e in seguito di ridurli tramite elezioni incrociate (66); era però un rimedio macchinosissimo, cosicché appena un anno dopo gli stessi correttori redigevano un abbozzo di legge che, di fatto, consegnava ai giudici del proprio il potere di nomina degli arbitri; non avevano fortuna neanche ora; la norma veniva bocciata in maggior consiglio (67). Riusciva invece a passare - trascorsi pochi giorni - una proposta di tiepida mediazione fra le due leggi; tenuto fermo il diritto delle parti a presentare i propri eletti, si concedeva che i giudici del proprio potessero depennare dalla lista le persone non adatte a fungere da arbitri (68). Raggiunto l'accordo sulle "mude" dei giudici, e qualora le sentenze fossero risultate talmente discordi da ostacolare ogni compromesso, la causa passava all'esame delle quarantie o del consiglio dei trenta, magistrati ordinari ai quali si commetteva di emettere un parere definitivo. La legge del 26 maggio 1555 - la più esaustiva e puntigliosa finora compilata in materia di compromessi - chiudeva sanzionando l'esclusione dagli arbitrati obbligatori di alcuni casi specifici, quali le doti delle figlie morte ab intestato, i testamenti per breviario - dettati cioè a voce -, quelli non vergati alla presenza di un notaio, e i beni vincolati a fedecommesso.
Viene da chiedersi il perché di queste precisazioni, di questo continuo approfondire, specificare, aggiungere e togliere cavilli, norme, eccezioni, come se si rincorresse la precisione nel dettato delle leggi e, una volta raggiunta, immediatamente sorgesse qualcosa che la rendeva come prima difettosa, parziale, inadatta allo scopo prefisso; e c'è inoltre da interrogarsi sulla necessità di una zavorra legislativa e procedurale così pesante riversata sopra un istituto giudiziario che faceva dell'informalità e della mancanza di regole la sua ragion d'essere. L'esubero di leggi era da una parte rivelatore dell'intensa attività che i conservatori delle leggi svolgevano; a pochi decenni dalla nascita dell'ufficio i fascicoli, le missive, le delegazioni di cause, si ammucchiavano numerosi negli armadi della cancelleria; scrivevano ai tre patrizi dell'ufficio chiedendo la revisione di un compromesso o la nomina di un arbitro i popolani della città, i componenti del patriziato e, con altrettanta assiduità, i sudditi del dominio: casi da poco, la restituzione di una vanga o di un aratro sottratti da un arbitro infido, oppure processi voluminosi e da anni irrisolti nei quali si scontravano famiglie illustri dell'aristocrazia di Terraferma - i Bevilacqua di Verona, i Martinengo di Brescia, i Capra, i Valmarana, i Monza, i Thiene di Vicenza (69) - che, stremate dall'eternità delle liti per doti o fedecommessi, decidevano di supplicare i conservatori affinché provvedessero a risolvere le loro cause. Talvolta i magistrati veneziani battevano la strada del patteggiamento, cercavano di indurre i supplicanti a trovare il modo di riappacificarsi, ma il lavoro più assillante devoluto ai conservatori era senza dubbio quello di esaminare compromessi tentati e non risolti, concordati dalle parti e mai andati a buon fine, di vagliare l'atteggiamento di arbitri regolarmente eletti e però, per partigianeria o corruzione, ricusati dai protagonisti delle cause. La straordinaria diffusione dei compromessi more veneto in Terraferma, il calore con cui dal dominio si guardava a questo modo tutto veneziano di trattare i conflitti non potevano velare gli impedimenti che si opponevano ad una sua pacifica applicazione. Il carico assillante delle leggi cozzava contro l'auspicata informalità dei compromessi; ma era possibile districarsi nella foresta di carte, di deposizioni testimoniali e di pareri giuridici prodotte in un banalissimo litigio di eredità fidando solo nel proprio istinto o in un impalpabile buon senso? Gli arbitri potevano eccedere nella fretta spinti a un dispregio cosciente delle regole, e la paura che abusassero dei loro poteri pronunciando sentenze abborracciate o poco eque si era fatta largo anche nelle coscienze dei legislatori veneziani. Le cause civili - avevano ammesso i quattro "correttori" nel 1578 -, a maggior ragione quando decise per compromesso inappellabile, richiedevano pazienza, lunghi tempi d'esame, perizia forense, e gli arbitri al momento del verdetto dovevano giurare ai consigli di "haver udite le parti, vedute le domande et risposte, scritture e libri se ne saranno stati da veder" pena la completa nullità di ogni atto pubblicato (70).
Paolo Zanchi, un cittadino di Cividale, denunciava la sentenza poiché uno degli arbitri era debitore del proprio avversario; una vedova di Murano confessava di essere stata costretta con la forza a subire la "monstruosa sentenza" di un arbitrato (71); "in vece di giudicare solamente quelle cose che per autorittà in esso compromesso gli veniva data, si sono arogata maggior autorità di quello non gli devino", dichiarava uno dei fratelli Modena che aveva creduto bene affidare la causa a due patrizi veneziani, Nicolò Querini e Zuanne Barbaro; l'incauta sommarietà mostrata dagli arbitri, che al contrario dovevano muoversi "nella maniera haria fatto li giudici ordinarii in palazo, quali giudicano de iure tantum" (72), motivava invece la contestazione del mercante Claudio Cilari. Erano richieste, simili a tante altre sparse nelle buste dei conservatori, su cui vale però la pena di soffermarsi; pretendere infatti dai compromessi il rigore tenuto nei giudizi ordinari, il timoroso rispetto della procedura, il divieto di scostarsi dallo stilum curiae, equivaleva a chiedere che gli arbitri fossero altra cosa da ciò che la legge della Repubblica prescriveva o che forse, con sempre minore convinzione, immaginava; comandare agli arbitri un atto pedante e notarile come l'esame delle - scritture fascicoli latini, infarciti di pareri legali e di estratti dal Codice giustinianeo quando le cause avevano origine in Terraferma - significava riconoscere che i contrasti non si lasciavano comporre nel rito arcaico e distaccato dell'incontro fra le parti, con gli arbitri a fare da paceri e gli attori della causa, persuasi dalle parole di quelli, disposti ad accantonare amichevolmente le ragioni del dissidio. Le liti civili trattate per mezzo dei compromessi venivano circondate ormai dalla stessa prudenza che si usava nelle corti ordinarie; e la figura dell'arbitro tradizionale aveva ormai smesso di venire convocata da chi, deciso a non calcare le aule dei tribunali, sentiva meglio tutelate le proprie speranze di giustizia dall'intervento di un uomo prestigioso, di un confidente al quale il vicinato e i discorsi di quartiere, o talvolta solo la manifesta ricchezza e le cariche politiche, attribuivano un robusto potere locale.
Le provvisioni dei consigli non ne facevano cenno, semmai condannavano questa abitudine, ma nel secondo Cinquecento erano ovunque gli avvocati a tirare le fila dei compromessi; fungevano da arbitri, approntavano i testi del compromesso, stabilivano le date degli incontri davanti al notaio, seguivano l'evoluzione della causa fino a portarla sotto gli occhi dei conservatori; nessun foglio di carta depositato nella magistratura vi era giunto senza aver fatto tappa nello studio di un avvocato (73). La correzione del 1578 deprecava energicamente che, sotto pretesto di sentenze arbitrarie, si stringessero "puri et meri accordi delle parti et loro avvocati"; ma si chiudeva un occhio, si accettava con realismo che fossero parte attiva nei procedimenti arbitrari. Erano persone conosciute, elencate una per una nelle matricole, li si poteva sorvegliare, e ai conservatori tornava in fondo utile misurare i torti e le ragioni dei litiganti quando ad esporli si affacciavano uomini abituati a maneggiare le leggi; avvocati e, a un gradino inferiore di dignità, i cosiddetti "sollecitatori", la palude dei pratici, dei causidici, dei procacciatori di cause che assistevano ai giudizi leggendo le scritture e volgarizzandole per conto degli avvocati, un corpo così infoltito in quei tempi che per stabilirne i requisiti e censirli dovrà dedicare a essi un paragrafo la Correzione del 1586. La parte vorrà ridurre il loro numero ai soli cittadini originari, sulla falsariga di quanto avevano disposto le prime leggi riguardo agli avvocati, e proprio come in quei frangenti lo sbarramento verrà subito infranto, cadrà docilmente piegandosi ai bisogni della vita giuridica veneziana; nel 1622, constatata l'inefficacia di ogni divieto, il maggior consiglio aprirà la professione ai sudditi della Terraferma (74).
"Non possono i privati haver giurisditione alcuna di giudicare le differenze de' sudditi" (75), esclamava una supplica sporta a Venezia per ottenere il taglio di un compromesso; dalle sue righe correva fuori la palese e diffusa insofferenza che induceva molti a ricusare gli accordi privati - esperiti in fretta, nessuno lo dubitava, eppure sovente capziosi, frutto di pressioni ambigue, di forzature ombrose. L'ufficio dei conservatori e l'indulgenza con la quale si era assistito al proliferare degli avvocati nel ruolo di arbitri avevano costituito la replica del governo veneziano verso questo serpeggiare di espressioni sfiduciate. Non si poteva ignorare che i compromessi sbrigati sommariamente tra i convenuti senza alcun controllo pubblico si ritorcevano contro i più deboli, cambiavano il loro volto bonario in una forma di sopraffazione coatta, sopportata a stento per ragioni di opportunità o perché mancavano il coraggio e il denaro bastante ad aprire un processo. Bisognava quindi incanalare gli arbitrati - come si era fatto per l'insieme delle cause civili - entro procedure più sorvegliate, ovviare ai difetti provocati dall'improvvisazione mettendo in piedi un muro di regole e di correttivi giurisprudenziali da cui risultasse difficile evadere; un iter procedurale equilibrato li avrebbe resi ben accetti mentre la ratifica di una magistratura, la sanzione di un organo dello Stato, li avrebbe posti al sicuro dal vizio delle tardive contestazioni; che era di fatto il compito assegnato ai conservatori ed esecutori delle leggi, un ufficio eretto per surrogare, con la propria autorità, quell'insieme di figure locali - l'amico comune, il nobile di incontestata autorità, il ricco del villaggio - che non erano più in grado di far accettare soluzioni informali dei conflitti.
Nella pratica di quest'ufficio e nelle provvisioni di legge non si intravvedeva animosità o voglia di censura per un istituto che seduceva la cultura giuridica marciana; corretti da una sorta di scientificità forense appresa alla spicciolata, i compromessi continueranno a restare il pane quotidiano delle corti della Repubblica; anche gli autori della Correzione Cicogna, nel 1586, terrorizzati dai toni cruenti della litigiosità familiare imperversante nel tardo Cinquecento, ribadiranno che prima di adire i tribunali padri e figli dovevano sempre acconsentire all'opera mediatrice dei confidenti (76). "Legge che non senza ragione posso caratterizzare per legge di governo" scriverà Vettor Sandi dei compromessi more veneto; legge "importante cotanto quanto la riverenza sagra tra sangue sì stretto e le conseguenze di non produrre al foro li domestici mali rendono manifesto; mali da coprirsi tra le paretti con la interiore tristezza, né così rari per luttuosa miseria nelle famiglie; legge che lodevolmente nella intenzione de' legislatori si vede con severità prescritta e che produrrà sempre gravi danni in violandola" (77).
1. Bernard Guenée, L'Occident aux X1Ve et XVe siècles. Les États, Paris 1971, pp. 96 e 107.
2. Molto conosciute, ma comunque rappresentative, sono le vicende del giudice Bridoye raccontate da François Rabelais nel 111 libro del suo Gargantua e Pantagruele (pp. 839 e ss. della trad. it. Milano 1984), o le imputazioni taglienti di Lutero all'indirizzo dei "dottori" trasmesse nei suoi Discorsi a tavola, a cura di Leandro Perini, Torino 1969, pp. 3-4, 55, 61, 131, 214 e passim.
3. Cit. in Gaetano Cozzi, Repubblica di Venezia e stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XV1 al secolo XV111, Torino 1982, p. 3.
4. John H. Langbein, Prosecuting Crime in the Renaissance, Cambridge 1974, pp. 155 e ss., 210 e ss.
5. Elena Fasano Guarini, 1 giuristi e lo stato nella Toscana medicea cinquecentesca, in AA.VV., Firenze e la Toscana dei Medici nell'Europa del '500. 1. Strumenti e veicoli della cultura. Relazioni politiche ed economiche, Firenze 1983, p. 236 (pp. 229-247). Cf anche l'ampio quadro offerto da Adriano Cavanna, Storia del diritto moderno in Europa, 1, Milano 1982.
6. Cit. in G. Cozzi, Repubblica, pp. 59-60 e ss.
7. Sul tema dell'"arbitrium" giudiziale rimando più diffusamente a ibid., pp. 219-221, nonché 313-318.
8. John P. Dawson, The Oracles of the Law, Westport, Connecticut 1978, p. 138.
9. Cf. Aldo Mazzacane, Lo stato e il dominio nei giuristi veneti durante il "secolo della Terraferma", in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/1, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, p. 580 (pp. 577-650).
10. Raoul C. van Caenegem, 1 signori del diritto, Milano 1991, pp. 61 e ss.
11. G. Cozzi, Repubblica, p. 226.
12. 1bid., p. 324.
13. Si vedano, sui processi di genesi degli statuti veneziani, le classiche opere di Marco Foscarini, Della letteratura veneziana, Venezia 1854, pp. 18-29; di Daniele Manin, Della veneta giurisprudenza, in AA.VV., Venezia e le sue lagune, Venezia 1848, pp. 278-286; nonché, per l'elenco delle edizioni a stampa, Antonio Valsecchi, Bibliografia analitica della legislazione della Repubblica di Venezia, "Archivio Veneto", 2, 1871, pp. 56-58 (pp. 50-62; 392-418); 3, 1872, pp. 16-21 (pp. 16-37); 4, 1872, pp. 258 e ss. (pp. 258-288).
14. Cit. da M. Foscarini, Della letteratura, p. 19 e n. 1.
15. D. Manin, Della veneta, p. 280; A. Valsecchi, Bibliografia, 4, 1872, pp. 258-267.
16. A.S.V., Maggior Consiglio, Deliberazioni, reg. 25, c. 105r.
17. 1bid., reg. 26, c. 53r-v (18 settembre 1524).
18. 1bid., c. 151v (17 dicembre 1531).
19. G. Cozzi, Repubblica, pp. 302-303; ma tutto quanto si dirà della riforma Gritti non è che un riassunto del paragrafo che Gaetano Cozzi vi dedica nel libro ora citato, pp. 293-318.
20. Gerald Strauss, Law, Resistance and the State. The Opposition to Roman Law in Reformation Germany, Princeton 1986, pp. 60-61.
21. Cf. il saggio di Manfredo Tafuri, "Renovatio urbis Venetiarum": il problema storiografico, in "Renovatio urbis": Venezia nell'età di Andrea Gritti (1523-1538) a cura di 1d., Roma 1984, in partic. alle pp. 10-42 (pp. 9-55).
22. Sulla vicenda: Biagio Brugi, La scuola padovana di diritto romano nel secolo XV1, in AA.VV., Studi editi dalla Università di Padova a commemorare l'ottavo centenario della origine della Università di Bologna, 111, Padova 1888, pp. 67-70 (pp. 1-77).
23. A.S.V., Senato terra, reg. 28, c. 239v (9 dicembre 1535).
24. 1vi, Collegio, Notatorio, reg. 23, c. 73r-v (23 maggio 1536).
25. Cf. Giovanni 1. Cassandro, La curia di petizion, "Archivio Veneto", ser. V, 19, 1936, pp. 72-144; 20, 1937, pp. 1-210.
26. Un'analisi accurata di questi argomenti è svolta nel saggio di Silvia Gasparini, 1 giuristi veneziani e il loro ruolo tra istituzioni e potere nell'età del diritto comune, in Diritto comune, diritto commerciale, diritto veneziano, a cura di Karin Nehlsen von Stryk - Dieter Nörr, Venezia 1985, pp. 76 e ss. (pp. 67-105).
27. A.S.V., Maggior Consiglio, Deliberazioni, reg. 25, c. 31r-v (26 gennaio 1505).
28. 1 tre provvedimenti in ibid., reg. 25, cc. 51v, 124r, 152r.
29. Donato Giannotti, Libro de la Republica de Vinitiani, Roma 1542, pp. 79-80.
30. Nell'ultima e più completa edizione statutaria veneziana, il Novissimum statutorum ac venetiarum legum volumen, Venezia 1729, la legge occupa le cc. 150-157. Le citazioni verranno tratte da questo volume, che raggruppa - non è chiaro in base a quale criterio - come "Cap. VIII" della Correzione Gritti i provvedimenti emessi dal maggior consiglio il 29 aprile, il primo e il 6 maggio del 1537. La numerazione progressiva di leggi che appaiono non logicamente, né cronologicamente affini, è da ricondursi con tutta probabilità all'iniziativa spontanea degli stampatori.
31. Ibid., c. 151r-v.
32. Ibid., c. 155v.
33. Cit. in Marin Sanudo il Giovane, De origine, situ et magistratibus urbis Venetae ovvero la città di Venetia (1493-1530), a cura di Angela Caracciolo Aricò, Milano 1980, pp. 124 e 259-260.
34. A.S.V., Maggior Consiglio, Deliberazioni, reg. 25, c. 31v.
35. Cit. da Marco Ferro, Dizionario del diritto comune e veneto, I-II, Venezia 1778: II, p. 134. Ma vanno tenute presenti le osservazioni di G. I. Cassandro, La curia, p. 126, per il quale: "La discussione seguiva la pubblicazione del processo. E pare che a Venezia non sia mai mancata; ma è ovvio che, di fronte a tale svolgimento del processo, fosse rimasta a essa ben poca importanza. Serviva solo, quando serviva, a illuminare i giudici con maggior efficacia, o richiamar la loro attenzione su alcuni punti importanti del dibattito e a rimediare alla loro pigrizia".
36. La relazione, che l'amico Luciano Pezzolo con l'abituale cortesia mi ha trascritto, è depositata presso Paris, Bibliothèque Nationale, Fonds italiens, 256, Della Repubblica di Venetia (a. 1584 circa), cc. 75r-76r.
37. Cf. Cristopher W. Brooks, The Common Lawyers in England, c. 1558-1642, in Lawyers in Early Modern Europe and America, a cura di Wilfrid Prest, London 1981, pp. 45-51 (pp. 42-64); e Roland Delachenal, Histoire des Avocats au Parlement de Paris, 1300-1600, Paris 1885, in partic. alle pp. 159-162.
38. Notizie sempre precise in M. Foscarini, Della letteratura, pp. 30-33; la supplica del Finetti si trova in Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna, 2534/30-31 Sul Bonifacio, Gino Benzoni, Giovanni Bonifacio (1547-1635), erudito, uomo di legge e... devoto, "Studi Veneziani", 9, 1967, pp. 247-265.
39. G. Cozzi, Repubblica, pp. 311-312.
40. Venezia, Museo Correr, Fondo Donà dalle Rose, ms. 151, c. 57r-v.
41. Giovanni Botero, Relatione della Repubblica venetiana, Venezia 1608, cc. 38v-39r.
42. Mi rifaccio all'interessante analisi sulla procedura veneziana esposta di recente da Karin Nehlsen von Stryk, L'assicurazione marittima a Venezia nel XV secolo, Roma 1988, pp. 40-46 e, inoltre, Ead., "Ius commune", "consuetudo", e "arbitrium iudicis" nella prassi giudiziaria veneziana del Quattrocento, in Diritto comune, diritto commerciale, diritto veneziano, a cura di Ead. - Dieter Nörr, Venezia 1985, pp. 112-139.
43. Cf. Orationi civili di Pietro Badoaro, Bologna 1744 (ma la prima edizione risale al 1590), pp. 57, 239 e ss., 242, 263. Sulla raccolta di arringhe del Badoer, un caso unico nella pubblicistica giudiziaria italiana, si veda il giudizio di Mario Ascheri, Tribunali, giuristi e istituzioni dal Medioevo all'età moderna, Bologna 1989, p. 129.
44. K. Nehlsen von Stryk, "Ius commune", pp. 129-130.
45. G. I. Cassandro, La curia, p. 120.
46. Francesco Sansovino, L'avvocato, Venezia 1554, cc. 6r-9v.
47. Vettore Sandi, Principi di storia civile della Repubblica di Venezia dalla sua fondazione sino all'anno di N.S. 1700, I, pt. III, Venezia 1756, p. 129.
48. Cit. da Gaetano Cozzi, Ambiente veneziano, ambiente veneto. Governanti e governati nel dominio di qua dal Mincio nei secoli XV-XVIII, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/II, Il Seicento, Vicenza 1984, p. 518 (Pp. 495-539).
49. James C. Davis, The Decline of the Venetian Nobility as a Ruling Class, Baltimore 1962, pp. 64-71.
50. A.S.V., Maggior Consiglio, Deliberazioni, reg. 26, cc. 154r e 194r-v.
51. Ibid., reg. 27, c. 135r.
52. In Novissimum, cc. 157r, 180v. Ma oltre alle Correzioni edite negli statuti si devono ricordare quelle che non vennero mai stampate; furono eletti dei correttori alle leggi negli anni 1577, 1605 e 1606. Nei primi due casi l'attività degli eletti si concretò in alcune leggi emanate: cf. A.S.V., Maggior Consiglio, Deliberazioni, reg. 31, cc. 25v, 49r e ss.; e ibid., reg. 32, cc. 1331 e ss., 150r; nel 1606 la nomina non ebbe al contrario alcun effetto pratico. Dall'inizio del XVI secolo al primo trentennio del successivo si contarono il maggior numero di edizioni statutarie veneziane pubblicate; ne apparvero negli anni 1528, 1537, 1548, 1564, 1586, 1597, 1601, 1618, 1628, 1638; quindi, parallelamente al diminuire delle Correzioni, anche quello delle edizioni si fece più blando; gli statuti furono ristampati, fino alla caduta della Repubblica, negli anni 1652, 1665, 1678, 1691, 1709 e 1729. Cf. A. Valsecchi, Bibliografia, 4, 1872, pp. 266-284. È da ricordare inoltre che le Correzioni, per essere più facilmente consultabili dai pratici, circolarono a stampa fuori della raccolta statutaria, singolarmente o raccolte in fascicoli.
53. V. Sandi, Principi, I, pt. III, pp. 52-57.
54. Novissimum, c. 158r-v.
55. S. Gasparini, I giuristi, p. 100.
56. Marci Antoni Blanci Tractatus de compromissis faciendis inter coniunctos. Et de exceptionibus impedientibus litis ingressum, Lugduni 1549; i passi sono citati da Luciano Martone, Arbiter-arbitrator. Forme di giustizia privata nell'età del diritto comune, Napoli 1984, p. 145 e n. corrispondente.
57. Novissimum, cc. 131 e 132 (23 luglio 1475). Furono del resto la legislazione e la giurisprudenza di diritto comune che dal XIV secolo attribuirono al lodo arbitrale la stessa efficacia giuridica delle sentenze pronunciate da un magistrato pubblico; Vincenzo Piano Mortari, Arbitrato, in Enciclopedia del Diritto, II, Milano 1958, pp. 895-899.
58. A.S.V., Conservatori ed Esecutori delle leggi, b. 1 (Capitolari), c. 1r (20 ottobre 1433). "Anche tra noi gli Arbitri sono nella categoria dei Giudici e questi o vengono eletti dalle parti, nel qual caso si danno in nota ad un nodaro che estende il compromesso colla clausola inappellabiliter more veneto, ed anche senza la medesima, e allora è permessa l'appellazione, oppure gli arbitri vengono dati dal Giudice, trattandosi di cause tra congiunti, come tra Padre e figliuolo, tra fratelli, coniugi, ec."; così M. Ferro, Dizionario, I, p. 276. Già una legge del 1437 aveva stabilito che per l'espedizione delle sentenze compromissorie, in qualunque modo fatte, fosse sufficiente l'accordo di due arbitri su tre per dare validità al lodo, e che la parte soccombente non potesse in alcun modo ricusarlo; A.S.V., Conservatori ed Esecutori delle leggi, b. 1 (Capitolari), cc. 1v-2r.
59. Novissimum, c. 266v (parte del maggior consiglio del 22 luglio 1578); per la diffusione dei compromessi veneziani in Terraferma cf. G. Cozzi, Repubblica, pp. 283-284.
60. M. Lutero, Discorsi, p. 214.
61. F. Rabelais, Cargantua, p. 853.
62. Un profilo storico-dottrinario dell'arbitrato viene offerto dal libro di L. Martone, Arbiter-arbitrator, pp. 13-19, 39 e ss.
63. Ibid., pp. 123 e 162 passim.
64. Ibid., p. 181.
65. A.S.V., Maggior Consiglio, Deliberazioni, reg. 27, c. 143v.
66. Ibid., reg. 28, c. 36r-v (25 gennaio 1554).
67. Ibid., cc. 48v-49r (3 maggio 1555). Queste leggi, come la precedente del gennaio 1554, benché stilate dai correttori non compaiono in alcuna edizione statutaria.
68. Novissimum, c. 161r-v (26 maggio 1555).
69. A.S.V., Conservatori ed Esecutori delle leggi, b. 102, 20 luglio 1609 (Bevilacqua); b. 103, 20 giugno 1612 (Thiene); b. 104, 18 marzo 1614 (Martinengo); b. 104, 19 dicembre 1614 (Capra e Monza).
70. Ivi, Maggior Consiglio, Deliberazioni, reg. 31, cc. 58v-59r (22 giugno 1578). Si tratta del brano di una Correzione che non compare allegata al testo a stampa degli statuti; in quell'anno fungevano da correttori alle leggi Giovanni Donà, Francesco Venier, Giustiniano Giustiniani e Alvise Michiel.
71. Ivi, Conservatori ed Esecutori delle leggi, b. 102, 12 novembre 1610 e 2 settembre 1611.
72. Ibid., b. 107, 17 marzo 1625 e 22 settembre 1625.
73. Per l'irrefrenabile intervento degli "avvocati-arbitri" in un'altra situazione si vedano Nicole Castan, The Arbitration of Disputes under the Ancien Régime, in Disputes and Settlements. Law and Human Relations in the West, a cura di John Bossy, Cambridge 1983, p. 242 (pp. 219-260), assieme a R. Delachenal, Histoire, p. 159.
74. Le due leggi in Novissimum, c. 166r (Correzion Cicogna) e c. 176r-v (Correzion Priuli).
75. A.S.V., Conservatori ed Esecutori delle leggi, b. 106 (9 settembre 1622).
76. Novissimum, cc. 166v-167r (14 settembre 1586).
77. V. Sandi, Principi, II, pt. III, p. 724.