di Paolo Magri
Doveva essere l’anno degli ultimi preparativi di un Mondiale che, assieme alle Olimpiadi del 2016, ‘celebra’ la nuova potenza brasiliana e costituisce un giustificato motivo di orgoglio nazionale; dei festeggiamenti per la nomina di Roberto Azevêdo alla posizione WTO lasciata libera dal francese Pascal Lamy; della prima asta per i diritti di estrazione del pré-sal, l’oro nero dell’Oceano che in pochi anni farà del paese un esportatore di petrolio.
Il 2013 del Brasile verrà invece ricordato come l’anno dei ritardi nella realizzazione di stadi e infrastrutture per l’appuntamento sportivo; del fallimento di Eike Batista, il miliardario simbolo dell’ascesa economica del paese e, soprattutto, come l’anno delle proteste di piazza. Prima per l’aumento delle tariffe dei trasporti urbani a San Paolo; poi, via via, in tutte le principali città del paese per chiedere scuole e ospedali decenti, contro la corruzione, i Mondiali, la politica.
Le manifestazioni di piazza non sono certo state, nel 2013, un fenomeno esclusivamente brasiliano: si è continuato a protestare nei paesi delle cosiddette ‘Primavere arabe’; ci sono state imponenti manifestazioni negli stati in crisi dell’Europa meridionale e orientale, in Cile, in Perù, in Thailandia, persino in Cina, dove sono vietate.
Quelle brasiliane hanno però colpito per almeno due motivi. Si svolgono in un paese con una debole tradizione di proteste di massa (se si esclude la fase finale della dittatura, decenni fa) e, soprattutto, in un paese che vive da 15 anni un ciclo economico positivo, ha ridotto la disuguaglianza interna (unico caso, con la Turchia, fra le grandi economie), investito nei programmi educativi, avviato una
seria lotta alla corruzione, evitato derive populistiche o antidemocratiche, portato 35 milioni di suoi cittadini fuori dalla povertà.
Un paese che ha creato un ceto medio (la cosiddetta classe C), in un momento in cui crisi e austerità stanno erodendo questa classe sociale in quasi tutte le economie avanzate.
È proprio questo nuovo ceto, beneficiario degli aumenti salariali (e dei programmi sociali, Bolsa Família in primis) dei governi Lula e Rousseff, che è sceso in piazza nei mesi scorsi ‘contro’ l’artefice della sua ascesa, ‘contro’ i Mondiali (che di tale ascesa sono uno dei simboli più evidenti), per rivendicare una ‘cittadinanza piena’, fatta di trasporti, scuole e ospedali funzionanti.
Le risposte della politica, colta di sorpresa dal dilagare dei moti, sono state concilianti: non la repressione russa o turca, ma l’ascolto e l’accoglimento pieno delle richieste della piazza, soprattutto da parte della presidente Dilma Rousseff, che ha tentato di scavalcare i partiti e la politica tradizionale – principali accusati – proponendo il blocco degli aumenti dei trasporti e investimenti per migliorare la rete; un ambizioso piano per la salute pubblica; uno per l’educazione;
addirittura un referendum costituzionale per modificare i meccanismi di funzionamento dello stato.
Della serie ‘messaggio ricevuto’, un messaggio di utile richiamo a un governo che dopo 13 anni di potere rischiava di sedersi comodamente sui suoi innegabili successi. Tutto bene, dunque? La realtà, in Brasile (e non solo) è sempre più complessa e sfaccettata degli annunci del governo.
Dei quattro pilastri della risposta alle piazze della Rousseff, a oggi, si è visto ancora poco, se si esclude la cancellazione degli aumenti dei trasporti e l’arrivo di qualche centinaia di medici cubani ‘importati’ per fronteggiare l’emergenza: per gli investimenti in strade, scuole e ospedali ci vorranno anni, mentre il referendum è stato subito bloccato in Parlamento con il voto contrario di buona parte dei partiti, inclusi quelli che sostengono il governo.
L’attuale pace sociale potrebbe avere dunque vita breve: i Mondiali di calcio del prossimo giugno (accusati di aver sottratto fondi a impieghi più socialmente utili e ‘pericolosamente’ coincidenti con
l’anniversario delle prime manifestazioni e con la fase terminale della campagna per le presidenziali) potrebbero fare tornare in piazza i brasiliani delusi per le promesse non mantenute e desiderosi di approfittare di un’importante vetrina mediatica.
Non sarebbe una buona notizia per la presidente, che punta a un secondo mandato: nonostante la sua risalita nei sondaggi dopo il crollo di giugno, il suo attuale tasso di approvazione (poco più del 50%) non garantisce la vittoria al primo turno e mette a rischio anche il secondo turno, quando i suoi due probabili avversari – Aécio Neves (PSDB) e Eduardo Campos (PSB), sostenuto dalla popolare leader ambientalista Marina Silva – potrebbero allearsi in chiave anti PT (Partido dos Trabalhadores).
Molto dipenderà da come la Rousseff – una tecnica che, a differenza del suo predecessore Lula, non eccelle certo per sensibilità politica – saprà gestire questa fase delicata: servono segnali concreti, senza però allentare il rigore fiscale che, dalla presidenza Cardoso in poi, ha saputo allontanare gli incubi del passato recente (inflazione in primis); servirà anche fermezza da parte delle forze di polizia, senza però ricordare ai brasiliani (e al mondo) le brutalità degli anni della dittatura.
Una vittoria ai Mondiali della nazionale brasiliana potrebbe costituire un prezioso ‘assist’ per la presidente: non basterà certo a riportare la fiducia nei mercati finanziari e fra gli investitori che da almeno un anno guardano all’economia brasiliana con rinnovata cautela. La stessa di quando il Brasile era considerato ‘il paese del futuro’, un futuro che non arrivava mai.