Le province romane d'Africa
di Sergio Rinaldi Tufi
Lungo il versante settentrionale del continente africano, fra le coste del Mare Nostrum o Mare Internum (così i Romani chiamavano il Mediterraneo) e i grandi deserti, si estendevano tre importantissime province: da ovest a est, la Mauretania, l'Africa Proconsularis e la Cyrenaica. Quest'ultima era parte di un'unità amministrativa più ampia e apparentemente non troppo coerente, Creta et Cyrenaica, che comprendeva anche l'isola che in tempi remoti era stata sede della civiltà minoica, già trattata nel volume dedicato all'Europa. A oriente della Cirenaica si estendeva un immenso territorio, quello dell'Egitto (Aegyptus), acquisito dopo la vittoria di Ottaviano ad Azio (31 a.C.) contro Antonio e Cleopatra: territorio che tuttavia non costituiva una provincia vera e propria, ma una "proprietà privata" dell'imperatore.
L'importanza strategica fondamentale delle coste africane era emersa già a partire dal III sec. a.C., con l'inizio delle ostilità tra Roma e Cartagine per l'egemonia sul Mediterraneo. Acquisito, in tempi e modi diversi, il controllo sulle regioni dell'Africa mediterranea, Roma si trovò ad amministrare e a gestire uno dei più ricchi e fertili settori dell'Impero. Alla rilevanza dell'economia africana in età imperiale, quando la regione aveva a buon diritto l'appellativo di "granaio dell'impero", fa riscontro una straordinaria civiltà urbana, che ha restituito testimonianze notevolissime di una cultura artistica vivace e originale.
Bibliografia
In generale sull'Africa romana:
S. Gsell, Histoire ancienne de l'Afrique du Nord, I-VIII, Paris 1921-28; P. Romanelli, Topografia e archeologia dell'Africa romana (Enciclopedia Classica, sez. III, 10. Archeologia, 7), Torino 1970; F. Decret - M. Fantar, L'Afrique du Nord dans l'antiquité, Paris 1981; G.-Ch. Picard, La civilisation de l'Afrique romaine, Paris 19902; R.B. Hitchner - D.J. Mattingly, Roman Africa. An Archaeological Review, in JRS, 85 (1995), pp. 165-213; C. Kleinwächter, Platzanlagen nordafrikanischer Städte. Untersuchungen zum sogenannten Polyzentrismus in der Urbanistik der römischen Kaiserzeit, Mainz a.Rh. 2001.
di Sergio Rinaldi Tufi
Come per le province europee, per la stessa Creta e per le Alpi Cozie, così come per i territori appartenenti al regno di Pergamo, poteva accadere che aree di diversa importanza ed estensione giungessero in possesso di Roma come dono o come eredità di sovrani amici. È il caso di questo lembo nord-occidentale dell'Africa, corrispondente all'attuale Marocco, a parte della Mauritania e alla parte occidentale del versante costiero algerino fino al fiume Ampsaga (Wadi al-Kebir); a sud, al di là della catena dell'Atlante, i confini sfumano un po' indefiniti verso il deserto. È un territorio dove l'antica presenza dei Greci è echeggiata da leggende, come quelle secondo cui Eracle avrebbe trovato proprio a Lixus il Giardino delle Esperidi e Anteo avrebbe fondato Tingi. Ma nella prima metà del I millennio a.C. è meglio attestata la presenza fenicia, che interessa peraltro, come è noto, l'intero Mediterraneo e soprattutto diversi siti della costa africana. Dovrebbe essersi formata nel IV sec. a.C. una sorta di "regno dei Mauri", di cui non si hanno molte notizie fino al contatto con Roma.
Ai tempi della seconda guerra punica l'area era sotto il controllo di una dinastia locale, alleata del vicino regno di Numidia: il re mauro Baga fornì truppe a Massinissa, a sua volta alleato con Roma. Quando un altro re numida, Giugurta (che nel 133 a.C. aveva valorosamente combattuto a Numanzia, in Spagna, al fianco di Scipione Emiliano), entrò in contrasto con l'Urbe, determinando l'inizio di quella che sarebbe stata (112-105 a.C.) la lunga e tribolata guerra giugurtina, il re di Mauretania Bocco I si schierò al fianco del bellicoso vicino, fin quando entrambi non furono sconfitti da Mario (106 a.C.). Il legato di quest'ultimo (e futuro grande avversario), Silla, convinse Bocco a consegnare Giugurta, che l'anno successivo fu ucciso a Roma nel Carcere Tulliano: un tradimento che consentì la sopravvivenza della dinastia e che, anzi, procurò al sovrano riconoscenza e onori da parte di Roma.
Nel I sec. a.C., il territorio appare diviso fra due sovrani, peraltro consanguinei, Bogud a ovest e Bocco II a est: il confine fra le due sfere di influenza è il fiume Malus o Mulucha (Wadi Moulouya), il quale sarà adottato come linea di riferimento anche per ripartizioni successive, come quella di età romana imperiale fra Mauretania Tingitana e Mauretania Caesariensis o come quella ben più recente fra Marocco spagnolo e Marocco francese. A quei sovrani, comunque, tocca il compito di operare difficili scelte diplomatiche e politiche nelle alleanze con i vari protagonisti dell'ultima fase dell'età repubblicana romana. Nella lotta fra Cesare e Pompeo, entrambi parteggiano per Cesare; dopo le Idi di Marzo, Bogud è dalla parte di Antonio, sicché Bocco II (che invece si allea con Ottaviano) lo caccia dal regno; alla sua morte (33 a.C.), Bocco lascia in eredità allo stesso Ottaviano il territorio riunificato. Ottaviano tiene sotto controllo la Mauretania per otto anni; nel 25 a.C. (due anni dopo aver ricevuto il titolo di Augusto) ricostituisce però un regno cliente e lo affida a un personaggio davvero peculiare: il figlio di Giuba di Numidia, sconfitto nel 46 da Cesare a Tapso (a differenza di Bogud e Bocco, questo re aveva appoggiato Pompeo). Da bambino era stato condotto a Roma e allevato presso la famiglia degli Iuli, a cura di Ottavia, subendo la stessa sorte di un'altra figlia di illustri sconfitti, Cleopatra Selene (di 10 anni più giovane di lui), nata dall'unione fra Antonio e Cleopatra. Salendo al trono, quell'africano romanizzato (personaggio di raffinata cultura, che partecipa al fianco di Ottaviano alla battaglia di Azio) assume il titolo di Giuba II. Nel 19 a.C. sposa proprio Cleopatra Selene; alla sua corte conoscono notevole impulso l'arte e la letteratura. Morendo nel 23 d.C. lascia il suo regno al figlio Tolemeo, che però Caligola farà sopprimere nel 40.
Tornata così, in modo crudele, sotto il diretto possesso di Roma, la Mauretania sarà costituita definitivamente in provincia da Claudio, che la dividerà in due parti (divise dal fiume Mulucha): la Mauretania Tingitana, con capitale Tingi (Tangeri), e la Mauretania Caesariensis, con capitale Caesarea, nome che lo stesso Giuba II aveva fatto aggiungere all'antica denominazione di un importante abitato, Iol. A Iol Caesarea corrisponde oggi Cherchell, in Algeria. Il ruolo di capitale di Tingi venne poi assorbito, in tempi e modi non noti, da Volubilis. Per tutta la durata dell'età imperiale, la provincia resta piuttosto prospera e pacifica (se si eccettua qualche scorreria di Mauri sulle coste). Importante è senz'altro (un po' come in tutta l'Africa settentrionale romana) la produzione agricola, soprattutto per quanto riguarda l'olio e il grano. Un contingente di cavalieri mauretani, agli ordini di Lusio Quieto, avrà un ruolo decisivo nella prima campagna dacica di Traiano: sia l'ufficiale, sia l'intervento delle sue truppe sono raffigurati nella Colonna Traiana (scene LXIII-LXIV).
L'urbanizzazione non è però intensa come nella vicina Africa Proconsolare, anche se non mancano città di notevole importanza. Con la riforma di Diocleziano, dalla Caesariensis sarà distaccata la Sitifensis, con capitale Sitifis (Sétif). La cristianizzazione sarà intensa; la fioritura fino a età tarda di alcune aree non sarà compromessa troppo gravemente dalla conquista dei Vandali (V sec.).
La presenza militare e l'allestimento di opere di difesa costituiscono una presenza non troppo invadente, ma costante nelle province mauretane. La guarnigione della Tingitana nel II sec. d.C., per quanto ne sappiamo, era costituita da 5 ali di cavalleria: i castra a noi noti sono 12, ma dovevano esservene indubbiamente altri, con una distribuzione territoriale piuttosto articolata e completata dalla presenza di torri di guardia. L'aspetto esatto del limes non è agevolmente ricostruibile: a sud di Sala è stato individuato un fossato lungo una decina di chilometri e si tratta di un apprestamento difensivo notevole, anche se non paragonabile a un confine di provincia. È peraltro probabile che il confine stesso corresse più a sud e che non fosse concepito come una linea vera e propria, ma come un'ampia fascia di controllo con posti di guardia fortificati in maniere diverse.
Neppure del limes della Caesariensis possiamo dire di conoscere l'esatta consistenza: era però costituito da linee successive di città e di forti collegati fra loro da strade, malgrado l'alternanza di pianure e rilievi costituisse certamente un ostacolo. Una prima sistemazione di una certa rilevanza fu avviata (qui come altrove) da Traiano e Adriano e portata a termine da Commodo: la direttrice prescelta, sottolineata dalla presenza di una strada per lo spostamento delle truppe, era quella che comprendeva fra l'altro Rapidum, Auzia, la piana del fiume Selif. Settimio Severo, costantemente attento ai problemi difensivi delle province africane e orientali (e spinto, per giunta, dalle frequenti scorrerie delle tribù maure), introdusse notevoli modifiche e ampliamenti, spostando la linea più a sud, inserendo nel sistema fortificato i monti di Hodna, di Bibans, di Titteri e creando per i vari distaccamenti dell'esercito nuovi castra, come quelli di Cohors Breucorum, Ala Miliaria, Tasaccora. La spina dorsale del sistema stesso, chiamato Nova Praetentura, era costituita da una lunga strada, collegata con l'interno del paese da numerose vie trasversali.
A parte questa via (caratteristica del resto di ogni limes), le strade della Mauretania non erano particolarmente numerose. Rimase in funzione, anche dopo il nuovo assetto creato da Severo, l'arteria su cui era stato imperniato il limes traianeo-adrianeo; soprattutto, era presente lungo la costa settentrionale un'importante litoranea, che poi costituiva il tratto iniziale di una grande strada che dalla Tingitana correva fino alla Cirenaica. Un caso abbastanza peculiare era costituito dalla Sitifensis, che come si è visto fu distaccata ‒ nell'ambito della riforma dioclezianea ‒ dalla Caesariensis. Distribuiti sulle alture, furono costruiti in modum urbis (Amm. Marc., XXIX, 13) estrosi castelli destinati a esponenti più o meno romanizzati delle aristocrazie tribali locali che, sia pure integrati nell'Impero tardoantico, erano dotati (come pure i notabili di altre aree) di una certa autonomia. Si sa che un certo Sammac affrontò nel 373 una rivolta delle popolazioni delle montagne, capeggiata da un suo fratello che si chiamava Firmus e che, malgrado questo nome apparentemente più "romano", era meno romanizzato di lui.
Per quanto riguarda l'urbanizzazione, anche qui, come nella Proconsularis (dove esistono tuttavia vistose eccezioni come Cartagine e dove interessanti preesistenze sono certo presenti a Sabratha e a Leptis Magna), poco si può dire della fase precedente alla romanizzazione; ma anche successivamente lo sviluppo delle città nelle diverse aree della Mauretania, pur presentando diversi gradi di intensità, si mantiene complessivamente al di sotto degli standard della grande provincia vicina. Conosciamo tuttavia un caso piuttosto interessante a Tamuda, nella valle del Wadi Martin: una città fondata intorno al 200 a.C. da coloni punici che in un primo tempo si erano insediati in una località più a est, Sidi Abdselam. L'impianto appare sostanzialmente ortogonale (anche se gli isolati non sono tutti della stessa ampiezza) e del resto in quell'epoca gli schemi ippodamei erano noti sia nel mondo ellenizzato, sia nelle aree che con questo erano in qualche modo in contatto. Importanti elementi delle fasi precedenti alla romanizzazione sono noti anche a Volubilis, che è il principale sito archeologico del Marocco.
La Colonia Iulia Valentia Banasa fu fondata da Ottaviano nel periodo intercorso fra 33 e 25 a.C., e cioè fra la donazione del regno da parte di Bocco II e l'insediamento sul trono di Giuba II. Situata sulla strada fra Tingi e Sala, sulla riva del fiume Sebou, si trova in un'area pianeggiante, e quindi senza condizionamenti altimetrici: malgrado questo presenti un impianto che certo è più regolare di quello di Volubilis, ma non del tutto. Anche il complesso forense (che comprende basilica e Capitolium e ha un ingresso scandito da un arco monumentale) ha un assetto trapezoidale anziché rettangolare, che forse condiziona anche gli allineamenti un po' approssimativi riscontrabili nel quartiere circostante. Questo quartiere, nella sua parte finora esplorata, ha rivelato soprattutto case di abitazione, ma anche ben cinque impianti termali: un'area quindi di buona rilevanza per la vita della città, che si protrae fino alla fine del III sec. d.C., quando viene danneggiata da due successive invasioni.
A Thamusida (a sud-ovest di Banasa, su un'altura che domina la valle del fiume Sebou e un'ampia area di pianura paludosa) si colgono diverse fasi di occupazione: frequentato forse fin da epoca preistorica, nel corso del I sec. a.C. il sito appare in relazione sempre più stretta con il mondo romano, grazie anche alla navigabilità (per effetto delle maree) del fiume stesso; con la creazione della provincia, nel corso del I sec. d.C. si hanno ulteriori sviluppi, culminanti con la creazione di un insediamento militare romano ai tempi dei Flavi. Nella seconda metà del II secolo si assiste a importanti ristrutturazioni: con Marco Aurelio viene creato un castrum più razionale; ben presto, forse pressoché contemporaneamente, si va formando intorno a questo nucleo anche la città vera e propria, che Commodo doterà di un circuito di mura. La città sarà però abbandonata abbastanza bruscamente (per motivi non ben comprensibili) negli anni intorno al 270 d.C., anche se non mancheranno successivamente episodici momenti di rioccupazione del sito.
Il castrum era di forma quadrangolare quasi regolare; la cinta era in opera cementizia gettata in casseforme disposte a strati; aveva quattro porte a un fornice, tutte fiancheggiate da torri a pianta quadrata; altre torri erano distribuite lungo il percorso delle mura. La porta di nord-est era la più importante (porta praetoria): da qui partiva una via fiancheggiata da portici che conduceva al praetorium, o residenza del comandante, anch'esso costruito nell'età di Marco Aurelio, ma più tardi modificato con l'aggiunta, fra l'altro, di un'aula basilicale. La città si estende fra il castrum e il fiume, con un impianto apparentemente non del tutto regolare, anche se alcuni nuclei (per esempio un quartiere di abitazioni che si sviluppa a est della fortezza) sono disposti secondo orientamenti abbastanza costanti. Le mura, costruite sui lati ovest, sud ed est (a nord è il fiume) con un percorso piuttosto irregolare, erano dotate di tre porte di ingresso monumentali (la meglio nota è quella a est), fiancheggiate da torrioni semicircolari; pure semicircolari erano le numerose torri distribuite lungo l'intera cinta.
Piuttosto incerti sono i resti del foro. Meglio interpretabili sono però, fra l'altro, i ruderi di vari templi: uno a est, quasi addossato alle mura, e almeno tre a nord, lungo la riva del fiume. Il Sebou doveva costituire un riferimento importante, visto che gli edifici sacri erano rivolti verso l'acqua, e non verso il centro della città. Questi templi presentavano, a giudicare dai resti a noi noti, impostazioni architettoniche piuttosto complesse. Lungo la riva del Sebou erano presenti anche altre importanti realtà: un grande impianto termale (Terme del Fiume), in cui sono individuabili varie fasi costruttive (nell'ultima delle quali l'impianto stesso appare distinto in due parti, Grandi Terme e Piccole Terme), e anche un'officina adibita alla salagione del pesce, affiancata da un magazzino. Resti interpretati dubitativamente come fattoria fortificata o come avamposto militare si trovano sulla riva opposta del fiume; numerose torri di guardia erano distribuite nel territorio circostante, a integrazione del sistema difensivo.
Lixus, su un'altura piuttosto sensibile alla foce del fiume Lukkos, era un antico insediamento fenicio, forse perfino più antico di quello celeberrimo di Gades (in quanto Plinio afferma che il santuario di Melqart, o Ercole, in questo sito africano era precedente rispetto al santuario dedicato alla medesima divinità nel sito iberico) e databile alla fine del II millennio a.C., anche se nessuno dei materiali effettivamente rinvenuti è anteriore al VI sec. a.C. Dopo la vittoria dei Romani contro Cartagine, la città fu inserita nell'orbita del regno di Mauretania; nel II e I sec. a.C. si verifica un considerevole sviluppo, con la costruzione di grandi mura, un tempio (di cui resta il podio), ricche case decorate da stucchi e mosaici. Distrutta in due riprese alla metà del I sec. a.C. e alla metà del I sec. d.C., dopo la costituzione della provincia conosce un nuovo rilancio e Claudio le conferisce il rango di colonia. Condizionato dai sensibili dislivelli, l'impianto urbano è decisamente irregolare. Come nelle fasi precedenti, non mancano domus di notevole pregio; soprattutto, però, a dare un'impronta alla città è il grande quartiere sacro sulla sommità dell'altura, in vista del mare e della foce del Lukkos.
Il nucleo monumentale urbanisticamente più qualificante è anche il più difficile da capire (e la situazione è resa ancor più intricata dalla presenza di resti pertinenti a fasi anteriori alla creazione della provincia) in quanto le indagini qui condotte non furono accurate dal punto di vista stratigrafico: vi è una molteplicità di edifici (distribuiti su imponenti terrazzamenti) che danno luogo a complesse sovrapposizioni. Notevolissimi sono anche i resti di altri monumenti (e anche di case private) che certo svolsero un ruolo importante nella vita della città. Spicca fra gli altri un teatro-anfiteatro di notevoli dimensioni, in parte costruito in muratura, in parte ricavato dal taglio dell'altura stessa su cui sorge la città: è da notare che di questo tipo di edificio si conoscono vari esempi nelle province celtiche (anche se non sempre così grandi), ma che nelle province africane si tratta di un caso unico. In basso, si conservano sulla linea di costa strutture dell'antico porto; in questa stessa direzione, immediatamente a ridosso dell'altura, restano inoltre cospicui avanzi di una serie di vasche (ne sono state individuate una trentina, ma probabilmente erano in origine molte di più) pertinenti a un impianto per la produzione del garum e di altre salse di pesce (o forse anche per il trattamento della porpora estratta dalla conchiglia detta murex). Si tratta del più grande impianto di questo tipo finora noto nella parte occidentale dell'Impero romano.
Affacciata sulla stessa baia su cui sorge l'odierna Rabat si trova l'antica Sala: la sua posizione non è troppo diversa da quella di Lixus, in quanto si trova anch'essa in corrispondenza di una collina in vista dell'estuario di un fiume (in questo caso il Bou-Regreg). Anche questo era in origine uno scalo fenicio, una tappa nelle rotte verso l'estremità occidentale del continente e in particolare verso l'Insula Purpuraria (Mogador). Le architetture più antiche risalgono all'epoca del regno di Mauretania. Si può parlare di impostazione urbanistica di ispirazione ellenistica: gli edifici sono disposti lungo i pendii delle due colline con l'ausilio (come parzialmente si è visto nella stessa Lixus) di terrazzamenti artificiali, talvolta assai stretti. A giudicare dalle monete e dagli altri materiali rinvenuti, Sala è in contatto con vari centri del Mediterraneo occidentale e soprattutto della Penisola Iberica, con particolare riferimento all'antica colonia punica di Gades: il panorama della città doveva essere dominato da tre templi, uno dei quali costruito addirittura su tre terrazze successive e circondato da un portico a scalinate.
Quando viene creata la provincia, Sala diviene municipio e l'assetto urbanistico si trasforma: ai piedi delle alture viene creato un nuovo centro monumentale, provvisto di foro, Capitolium, curia, mercato, arco a tre fornici. Le mura della città furono costruite intorno al 140: qui erano insediate truppe ausiliarie, e qualche chilometro a sud correva una linea fortificata rinforzata da torri, che gli abitanti della zona chiamavano Saqiyat Firawn, cioè "acquedotto del Faraone". La prosperità della città dura a lungo, fino al IV-V sec. d.C., e per il porto continuano a transitare marmi e sculture, olio e vino, anfore e lucerne, vasellame di lusso e vetri.
Se di Volubilis possiamo dire di avere un'idea abbastanza esauriente, e di tutte queste città sono ricostruibili almeno alcuni aspetti, di Tingi, capitale della Tingitana, sappiamo molto poco, anche perché sopra la città antica si è sviluppata l'attuale Tangeri. Lo stesso non si può dire per la Caesariensis, in quanto la capitale Caesarea (Cherchell) ci ha lasciato resti di grandissima rilevanza. Un'altra notevole città della Caesariensis, 70 km a ovest di Algeri, era Tipasa, in corrispondenza di un approdo sul Mediterraneo provvisto di tre promontori naturali. Nell'insenatura fra il promontorio centrale e quello orientale si era insediato fin dal VI sec. a.C. un nucleo di coloni cartaginesi: in corrispondenza del medesimo promontorio orientale (oggi detto "di Santa Salsa") fu creato un porto che, con successive modifiche (fra le più importanti la creazione di quattro moli paralleli protesi verso due piccole isole antistanti), restò in uso fino al III sec. d.C. Il significato in lingua fenicia del nome Tipasa ("luogo di passaggio") sottolinea l'importanza commerciale dell'insediamento. Lungamente subordinata a Cartagine, fu più tardi inclusa nel regno numidico di Massinissa; con Caesarea e con altre città minori costituì poi il nuovo regno di Mauretania, per entrare successivamente a far parte (insieme con questo) della provincia creata da Claudio.
La città romano-imperiale si sviluppò sul promontorio centrale (che venne fortificato con una cinta muraria a doppio paramento di grandi blocchi squadrati) e nello spazio compreso fra questo e quello occidentale. Proprio all'epoca di Claudio risale il complesso forense, ricavato in un'area scoscesa sovrastante il promontorio centrale. Le varie componenti del complesso (piazza, curia, Capitolium) erano impostate su assi lievemente divergenti fra loro: e questa divergenza induce a osservare che nell'impianto della città non c'è nulla di regolare. La strada che comunemente viene definita "decumano" non deve tale denominazione al fatto di essere elemento costitutivo di un sistema ortogonale, ma semplicemente al fatto di essere l'arteria più importante della città, anzi, più precisamente il tratto urbano della via costiera che da Icosium (Algeri) portava a Caesarea e oltre. Non vi è un'esatta coerenza di orientamento nemmeno fra il Tempio Anonimo e il Tempio Nuovo che si fronteggiano (entrambi preceduti da un grande cortile porticato) all'estremità nord-orientale del decumano stesso, né tanto meno fra l'anfiteatro (che si trova vicino al Tempio Anonimo) e il teatro (che si trova all'altra estremità del decumano). L'unico monumento impostato su un asse realmente perpendicolare al decumano (nel punto in cui termina l'acquedotto proveniente da sud-est) è il ninfeo, che è fra i più grandi dell'Africa romana.
Grandi dimensioni, dunque: il fatto che non vi sia un impianto regolare non significa che le varie componenti del contesto urbano non siano notevoli. Basta osservare le case di abitazione, le terme e soprattutto le mura: queste ultime, particolarmente solide, formano su tre lati (il quarto è quello a mare, a nord) un circuito irregolare seppur tendente al rettangolare, con porte monumentali in direzione est, sud e ovest; le ultime due presentano anche ampi vestiboli semicircolari. Le mura (provviste inoltre di torri a pianta alternativamente semicircolare e quadrata) sono dell'epoca di Antonino Pio, quando si rese necessario impiantare qui una base per operazioni contro i Mauri. Tipasa visse fino a epoca avanzata: dopo il saccheggio da parte di Firmus ebbe un'ulteriore ripresa. Fu sede episcopale e possiede importanti testimonianze cristiane, fra cui la tomba e la basilica (a tre navate) della martire locale Salsa (linciata dalla folla per aver condannato il paganesimo: stranamente, basilica e tomba si trovano sul promontorio occidentale della città, mentre il nome della santa è stato dato al promontorio orientale) e soprattutto una grande basilica a sette navate, una delle maggiori dell'Africa insieme alla Damus al-Kharita di Cartagine. Nel IV secolo la città dovette affrontare momenti di grave crisi dovuti allo sconvolgimento creato dallo scisma donatista; nel V secolo, con l'arrivo dei Vandali, subì distruzioni e un forte, pressoché definitivo spopolamento.
Anche la Caesariensis, come la Tingitana, presenta complesse esigenze strategiche e difensive. Zucchabar e Aquae Calidae sono colonie augustee che difendono a sud Caesarea, cui si aggiunge con Claudio la colonia di Oppidum Novum. Particolarmente importante, anche per l'evoluzione nelle sue funzioni, è Rapidum, un castrum sulla linea del limes traianeo-adrianeo, a cui si affiancarono ben presto abitazioni civili (canabae, residenze talvolta precarie di artigiani, mercanti e altri operatori che seguivano l'esercito), più tardi divenute più stabili e solide e circondate a loro volta da mura. Questa evoluzione si coglie anche ad Albulae, a Regiae e in altri centri meno indagati di quest'area, come pure nelle province europee, a Mogontiacum (in Germania Superior), Aquincum (Pannonia Inferior) e in svariati siti lungo il limes renano e danubiano. In Africa il processo di smilitarizzazione e, conseguentemente, di crescita della città civile si accentua quando il confine si allontana, spostandosi più a sud, con la creazione della Nova Praetentura; l'insediamento di Rapidum vive a lungo, con importanti ricostruzioni in età tetrarchica, dopo i danni provocati da attacchi dei Mauri alla fine del III secolo.
La Mauretania Sitifensis viene creata mediante distacco dalla Caesariensis in occasione del riassetto dioclezianeo quando, qui come altrove, le varie province vengono frazionate in unità amministrative minori. Ma la capitale Sitifis, la quasi omonima Satafis (al limite delle grandi pianure ondulate ricche di frumento), le colonie di Igilgilis e Saldae si erano già sviluppate in precedenza, prima del distacco stesso. Sitifis (lat. Colonia Nerviana Augusta Martialis Veteranorum Sitifensium) fu fondata da veterani inviati da Nerva a nord della zona degli altipiani, in una zona ricca di sorgenti e in vista di terre fertili. La colonia aveva in origine un impianto regolare, comprendente foro, teatro, anfiteatro e case. Si arricchì con Settimio Severo, come molte altre città africane, di nuovi e importanti monumenti, in questo caso di un tempio accanto al foro e di due edifici termali: nell'ampio frigidarium di uno di questi è noto un bel mosaico raffigurante la metamorfosi di Atteone.
Dopo la promozione a capitale, si verificò ovviamente un'ulteriore espansione, con la creazione fra l'altro di un ippodromo e di domus ricche di mosaici pavimentali e con l'aggiunta infine, nel IV secolo, di basiliche cristiane: importanti fra queste soprattutto due vicine fra loro, l'una perpendicolare all'altra, convenzionalmente definite Basilica A e Basilica B. Attorno a queste basiliche si sviluppava evidentemente un quartiere con forte presenza cristiana. Alla fine di quello stesso secolo la città aveva raddoppiato la sua superficie; fu prontamente ricostruita (pur ridimensionando alcuni edifici, come le terme con il mosaico di Atteone) dopo un terremoto all'inizio del V secolo e subì, sembra, solo danni marginali dopo la conquista da parte dei Vandali.
Le cinte murarie delle città della Mauretania, di cui si è messa in rilievo l'importanza, si prestano a qualche osservazione ulteriore. Si è vista la consistenza non trascurabile dei resti della cinta di Thamusida, città sviluppatasi intorno a un forte. Le mura di Sala sono interessanti non solo intrinsecamente, ma anche in quanto fanno parte di un sistema difensivo complesso e distribuito nel territorio. La lunghezza delle mura di Caesarea e Tipasa (che includono aree più grandi di quelle effettivamente abitate) è dovuta a esigenze non solo di prestigio, ma anche effettivamente difensive, in quanto includono entro il percorso le alture che circondano gli abitati. Le porte di maggiore consistenza monumentale sono quella meridionale di Caesarea (con arco a tre fornici arretrato rispetto alla linea delle mura e fiancheggiato da torrioni ottagonali) e due di quelle di Tipasa, in quanto presentano l'ingresso (anche in questo caso a tre fornici) in fondo a una grande rientranza curvilinea, provvista alle estremità di due torri. Tale schema ricorda quello adottato in alcune città della Gallia, fra cui Fréjus.
Gli archi onorari sono, sotto qualche aspetto, confrontabili con le porte, in quanto scandiscono, se non un ingresso in città, un punto di passaggio significativo nell'ambito dell'impianto urbano. Spicca, fra quelli della Mauretania, il cosiddetto Castello del Faraone di Volubilis, che sottolinea il punto di snodo fra il quartiere sud-occidentale e la piazza da cui parte il decumano verso nord-est. Il foro costituisce, con i suoi annessi, il punto focale di ogni impianto urbano, in cui si inserisce con assetti e caratteristiche di volta in volta diversi: anche in Mauretania la casistica è abbastanza variata. Il foro di Volubilis insiste su un preesistente luogo di culto dell'epoca del regno di Mauretania (è qui che, nella prima fase di vita della città, erano i due templi giustapposti); ebbe varie fasi costruttive, assumendo una conformazione definitiva, e piuttosto complessa, all'epoca di Settimio Severo.
Il complesso forense di Tipasa, ampio ma non enorme (50 × 27 m), era situato su un terreno scosceso: i vari elementi che lo componevano furono concepiti in modo tale da adattarsi a questa situazione e le gradinate di raccordo fra i vari livelli furono realizzate con soluzioni architettonicamente non banali. Nell'impianto originario, si entrava dal lato sud-ovest mediante una scalinata monumentale; la piazza era circondata su tre lati da portici, sui quali si aprivano a nord-est la curia (provvista di doppia gradinata di accesso e preceduta dalla tribuna degli oratori), a nord-ovest il Capitolium (di cui restano pochi avanzi). In un secondo momento, sul lato sud-ovest (distruggendo la scalinata monumentale di ingresso alla piazza, ma realizzando nuove rampe di collegamento) fu aggiunta la basilica civile, che rispetto al foro presenta un asse sensibilmente divergente (cosa che non sorprende in quanto in questa città l'assetto urbanistico è poco regolare). È un edificio a tre navate: la navata centrale terminava con un'abside sopraelevata destinata probabilmente a contenere il tribunal, o palco dei magistrati. Nel corso del III secolo il monumento fu trasformato in chiesa.
Per i templi, una rapida rassegna tipologica può cominciare da Volubilis. Non sono ricostruibili i due già ricordati edifici risalenti all'epoca del regno di Mauretania che sorgevano in origine dove poi si è sviluppato il foro di età imperiale: resta solo parte dei podi. Anche per i luoghi di culto di età imperiale romana non mancano situazioni enigmatiche. A Thamusida si impongono all'attenzione, fra i vari edifici di culto, due templi a tre celle, affacciati sul fiume Sebou, l'uno databile alla fine del I sec. d.C., l'altro collocabile nella fase di maggiore espansione della città, e cioè nel II sec. d.C. Probabilmente il primo è da interpretarsi come Capitolium, il secondo (in cui le tre celle sono più larghe che lunghe e si affacciano su un cortile di pianta trapezoidale) è da attribuirsi a un culto punico (una situazione analoga è a Dougga, l'antica Thugga, in Africa Proconsularis) ancora praticato in età romana. A Thamusida era pure presente, nella parte orientale della città in prossimità delle mura, un piccolo tempio a pianta quadrata preceduto da una scalinata fiancheggiata da colonne. La struttura è inconsueta: cella e pronao, fra l'altro, non sono distinti. Il tempio era dedicato ‒ si pensa ‒ ad Astarte, l'antica divinità fenicia, identificata con Venere, il cui culto conosce nel II sec. d.C. (secolo al quale si data il monumento) un forte incremento.
Caesarea aveva numerosi templi: alcuni sono noti solo dalle fonti o da iscrizioni, di altri si conoscono solo le fondazioni o poco più. Abbiamo visto che sono presenti a Tipasa due santuari che si affacciano sul decumano uno di fronte all'altro, ma non del tutto coassiali: in entrambi i complessi vi è un tempio preceduto da un grande cortile porticato (questo schema peraltro è abbastanza diffuso nelle province africane), ma purtroppo sia nell'uno sia nell'altro caso restano solo pochi avanzi del podio e della gradinata di accesso. Il luogo di culto più intricato della regione, anzi uno dei più difficili da interpretare di tutto il mondo romano, è quello dell'acropoli di Lixus. Già all'epoca di Giuba II erano stati costruiti, su poderosi terrazzamenti, templi di varie forme e dimensioni: in questo contesto, risulta particolarmente enigmatico un edificio formato da due bracci lunghi e stretti, a due navate, che si incrociano fra loro ad angolo retto. Nella seconda metà del I sec. d.C. (ma non mancheranno interventi successivi), dopo una serie di nuovi interventi, l'acropoli appare completamente rimodellata. Una serie di peristili, di santuari minori, di edifici con un gran numero di stanze formano un complesso che è dominato dal cosiddetto Tempio F, un santuario che comprende tre ambienti di culto e un ampio cortile. Ma i numerosissimi avanzi di strutture che sono stati rinvenuti (e che creano problemi di interpretazione e di cronologia talvolta insormontabili) testimoniano un'attività edilizia ininterrotta. A Sitifis, infine, un caso suggestivo ci viene presentato non da resti effettivamente conservati, ma da un'iscrizione. Nel 288 due notabili della città (i cui nomi sono andati perduti) ricostruiscono il tempio della Magna Mater distrutto da un incendio; viene poi offerta alla medesima dea una statua d'argento, cui si accompagnano quelle di altre divinità; alla cerimonia inaugurale partecipano i membri di collegi e associazioni religiose.
In tutte le città della provincia sono attestati impianti termali, in qualche caso (ad es., a Banasa Valentia) probabilmente superiori, per quantità e lusso, alle effettive necessità. Un unicum per la Mauretania (con precedenti illustri però a Pompei) è costituito dalle Terme Nord di Volubilis, in cui, accanto al complesso termale vero e proprio (che comprende anche uno dei più antichi esempi a noi noti di doppio tepidarium), troviamo anche un cospicuo reparto ginnico, costituito da una palestra con portici su tre lati e con una natatio (piscina) sul quarto. A Thamusida le Terme del Fiume, che inizialmente costituivano un complesso unitario, furono poi divise in Grandi Terme e Piccole Terme, forse dedicate rispettivamente a un pubblico maschile e femminile. I due reparti non sono molto grandi, ma entrambi sono provvisti di una doppia sala riscaldata, interpretabile come doppio calidarium oppure come calidarium più laconicum. A Caesarea erano presenti tre grandi terme di età severiana: quelle occidentali, dette Terme del Sultano, occupavano oltre 8000 m2 ed erano costruite secondo schemi simmetrici e regolari; il loro asse era parallelo al cardine massimo della città.
Gli edifici per spettacolo noti in Mauretania non sono molti, ma offrono una casistica di estremo interesse. A Lixus, ai piedi dell'altura già di per sé caratterizzata dalle intricate sovrapposizioni di cui si è detto, troviamo un altro caso unico: un teatro-anfiteatro con un'arena circolare e non ellittica, ricavata in parte dal taglio della collina (sul fronte di questo taglio è stato ricavato un emiciclo con gradini in muratura) e in parte delimitata da un alto muro decorato da pitture. Un altro teatro-anfiteatro (sconosciuto nel resto dell'Africa: questo tipo di edificio, che invece è ben noto nell'area celtica dell'Europa romana, è quindi presente in due casi in Mauretania) e un anfiteatro vero e proprio convivevano a Caesarea: entrambi, per giunta, con caratteristiche molto peculiari. Notevoli sono anche gli edifici per spettacolo di Tipasa. L'anfiteatro misura 80 m lungo l'asse maggiore, alle due estremità del quale sono gli ingressi principali: fu costruito probabilmente nel corso del III sec. d.C., inglobando un colombario preesistente, e subì in seguito rilevanti restauri. In posizione assai decentrata, all'estremità orientale del decumano presso le mura (e, contrariamente a quanto spesso accade, lontanissimo e del tutto scollegato dal foro) è il teatro: completamente costruito in muratura (dato anche che in questo tratto il terreno è pianeggiante e quindi non offre per la cavea alcun possibile appoggio), poteva ospitare probabilmente 2000-3000 spettatori. Ancora Tipasa al centro dell'attenzione per quanto riguarda i "monumenti delle acque": sempre sul decumano, e non lontano dal teatro appena ricordato, sono visibili cospicui resti di un ninfeo, caratterizzato da una grande esedra semicircolare con nicchie inquadrate da colonne. Fra i circhi è notevole quello di Cherchell, di età severiana come la stragrande maggioranza dei monumenti della città. La sua cavea si appoggiava a sud sulle pendici di un'altura, a nord era costruita artificialmente; la "porta trionfale" (arco a tre fornici riccamente decorato) si apriva sull'emiciclo orientale.
Abbondantemente esemplificata nella provincia è l'edilizia residenziale, che talvolta comprende anche settori produttivi (olio, come nelle case di Volubilis o nelle ville dei dintorni di Cherchell): proprio a Volubilis troviamo i casi più interessanti, in quanto conosciamo non solo singoli edifici ma interi quartieri e gli edifici stessi sono di qualità davvero notevole. A Thamusida, accanto a insulae più modeste, troviamo una domus più ampia, con avancorpo e botteghe sulla facciata e con numerosi ambienti (fra cui un'ampia sala a triplice apertura) articolati intorno a un cospicuo peristilio. Uno schema non del tutto diverso caratterizza, a Tipasa, la Casa degli Affreschi. Rientrano nel campo dell'edilizia residenziale anche le ville, come, ad esempio, quelle individuate nell'entroterra di Cherchell, o come quella (un caso del tutto particolare) rinvenuta nell'isola di Mogador, situata nell'Atlantico 2 km al largo di Essaouira, al di là della teorica linea del limes. Si è ipotizzato che Mogador corrispondesse all'Insula Purpuraria che, secondo vari autori, apparteneva a Giuba II. Fu costruita in epoca augustea con muri di mattoni crudi su fondazioni di pietra e successivamente ricostruita nel II d.C.; a giudicare dalla ceramica e dalle monete rinvenute, fu frequentata fino al V secolo; comprende strutture produttive, forse da porre in relazione con la lavorazione della porpora.
Ai frantoi di Volubilis e di Cherchell e alla singolare isola nell'Atlantico possiamo aggiungere altri impianti produttivi più "ovvi" ma non per questo meno interessanti. Riesaminiamo, per esempio, quello per la lavorazione del garum e di conserve di pesce situato nella parte bassa di Lixus, che restò in funzione dal periodo della costituzione della provincia fino al IV sec. d.C. Si sono scoperte ben 30 vasche, che rappresentano peraltro solo una parte di un complesso ben più vasto, il più grande impianto del genere che sia stato scoperto nell'Occidente romano. Forse qui non si lavorava soltanto il garum, ma anche il murex per l'estrazione (come a Mogador) della porpora.
Le principali sculture e i principali mosaici sono stati rinvenuti a Volubilis. L'esistenza di un cospicuo gruppo di bei bronzi aveva suggerito a qualcuno l'idea (non del tutto inverosimile) di una "collezione di Giuba II". Se è vero, però, che una bella testa di gusto fortemente ellenistico è stata identificata come ritratto del sovrano stesso all'epoca del suo fidanzamento con Cleopatra Selene e che alla stessa epoca dovrebbe risalire l'Efebo trovato, appunto, nella casa nota con questo nome, è anche vero che altri pezzi sono più tardi, come il Catone Uticense di età neroniana o il cavallo di età adrianea. Inoltre, non tutti i bronzi provengono dallo stesso luogo: se alcuni sono stati rinvenuti nella Casa dell'Efebo, altri erano invece nella Casa del Corteo di Venere o in altre.
La Casa del Corteo di Venere presenta inoltre uno dei più ampi repertori di mosaici: Dioniso e le Quattro Stagioni; Ila rapito dalle Ninfe; Diana e Atteone; corsa di carri trainati da oche e pavoni. Sono opere dai ricchi colori (in linea con la grande produzione musiva africana) databili al II e III sec. d.C. Nella Casa delle Fatiche di Ercole, le dodici imprese dell'eroe sono raffigurate in altrettanti medaglioni inseriti in un'ampia composizione che decora il pavimento del triclinio; nella Casa di Orfeo troviamo, oltre al mitico cantore con i suoi animali, anche raffigurazioni di pesci e crostacei. Oltre che per la brillantezza e varietà di colori, questi mosaici si possono considerare eccellenti esempi della tradizione africana anche per la notevole varietà di temi.
E.W.B. Fentress, Numidia and the Roman Army, Oxford 1979; J. Spaul, The Roman Frontier in Morocco, in BALond, 30 (1993), pp. 105-19; A. Jodin, Les rois maures et les Îles Purpuraires, in Ktema, 21 (1996), pp. 203-11; M. Lenoir et al., s.v. Province romane (Mauretania Tingitana, Caesariensis, Sitifensis), in EAA, II Suppl. 1971-1994, IV, 1996, pp. 651-55 (con ampia bibl. prec.); M. Coltelloni Trannoy, Le Royaume de Maurétanie sous Juba II et Ptolémée (25 av. J.-C. - 40 ap. J.-C.), Paris 1997; L. Aranegui Gascó, Lixus. Colonia fenicia y ciudad púnico-mauritana, Valencia 2001.
di Sergio Rinaldi Tufi
Capitale della Mauretania Caesariensis (gr. ᾿Ιώλ; lat. Iol, poi Caesarea; od. Cherchell); in origine era un emporio punico, gravitante nell'orbita di Cartagine, sia pure forse con qualche autonomia: il nome Iol deriva da quello di un'antica divinità fenicia. Qui si installò la capitale del regno di Giuba II, che introdusse la denominazione di Caesarea e si propose di costruire "una Roma in Africa". Scrive Svetonio: "I re amici di Augusto e anche altri fondarono nei loro regni città che portavano il nome di Caesarea" (Aug., 60). Verrebbe in mente, ad esempio, il caso di Caesarea di Palestina creata da Erode; ma è interessante soprattutto cogliere atteggiamenti di omaggio ed emulazione nei confronti dell'imperatore-amico-protettore.
Le mura di C. sono lunghe 7 km e sono provviste di sei porte: è evidente la ricerca di un'analogia con altre grandi cinte create da Augusto in città importanti come Nîmes e Vienne in Gallia Narbonensis: cinte di valore più simbolico che funzionale, talmente lunghe che al loro interno parti di città rimangono non edificate, anche se è da tenere presente la possibile rilevanza strategica del sistema. Nella città vengono effettivamente occupati da costruzioni solo i 150 ha pianeggianti più vicini al mare. L'impianto urbanistico era regolare, con una lieve variazione di asse per quanto riguarda il settore occidentale. In questo assetto geometricamente ben definito si collocano gli edifici più rappresentativi finora rinvenuti e il discorso è valido anche per il settore "lievemente disassato" dell'area ovest: qui sono ubicati due edifici di culto dell'epoca di Giuba II, convenzionalmente definiti Grande Tempio e Piccolo Tempio. L'intento di rivaleggiare con Roma si manifesta però forse in maggior misura nei due settori che mantengono un orientamento coerente, e cioè nei settori centrale e orientale: sempre per iniziativa di Giuba II si costruisce il foro. Di questo, in gran parte nascosto sotto l'attuale moschea, abbiamo un annesso: un edificio di notevoli dimensioni con colonne corinzie, di cui si ignora l'esatta funzione. Il teatro viene eretto proprio nello stesso periodo in cui a Roma si realizza il Teatro di Marcello (25-15 a.C.); l'anfiteatro è addirittura costruito in un momento in cui nell'Urbe ancora non ne esiste uno stabile. È un edificio singolare: presenta l'arena più grande finora conosciuta nel mondo romano (4082 m2); quest'arena, peraltro, non è ellittica come in tutti gli altri anfiteatri a noi noti, ma è costituita dalla congiunzione di una parte centrale rettangolare e di due semicircolari alle estremità.
Questo ruolo di città che si ispira ai monumenti di Roma, e in qualche caso addirittura li anticipa, si conferma anche dopo la costituzione della provincia, quando, come si è detto, C. diviene capoluogo della Caesariensis, assumendo il titolo di Colonia Claudia Caesarea. Qui si afferma precocemente il culto dell'imperatore vivente, che ha la sua sede dietro il teatro, dove si sviluppa un nuovo foro che si aggiunge a quello di Giuba e che perviene a una sua realizzazione finale nell'epoca di Settimio Severo. Sono conservate ampie porzioni di una sala mosaicata, forse la basilica, e parti di una vasta aula absidata. La città dunque aveva due fori, come Leptis Magna nella Proconsularis e come tante altre importanti città del mondo romano.
Il momento dei Severi è un momento di particolare intensità: nel 201 d.C. si rimodella una delle sei porte della cinta muraria, quella meridionale (la data è suggerita da un'iscrizione); si realizzano notevoli impianti termali; si costruisce un grande circo. Il comparto degli edifici per spettacolo, e quindi l'offerta di eventi teatrali e di munera gladiatori, assume particolare rilevanza, anche perché nel frattempo il teatro è stato trasformato in teatro-anfiteatro. La forma dell'arena è inusuale, forse per il fatto che questa categoria di monumenti non era ancora codificata: tale arena costituisce pertanto una tappa importante nella storia di questo tipo di monumento. Secondo alcuni, le due curve contrapposte si possono mettere in relazione con il "doppio teatro" (idea che conteneva in nuce l'anfiteatro stesso) inventato, secondo Plinio, da Curione nel I sec. a.C. Va però detto che i due teatri giustapposti di Curione erano girevoli: potevano addossarsi dorso a dorso, in modo da costituire due teatri indipendenti, o fronteggiarsi, in modo da costituire appunto un anfiteatro.
Probabilmente era presente anche una galleria sotterranea; si è ipotizzato che questo edificio fosse riservato alle venationes (lotte fra gladiatori e belve), mentre ai duelli gladiatori veri e propri era riservato il teatro-anfiteatro. Quest'ultimo era dunque in origine un normale teatro che fu trasformato nella seconda metà del I sec. d.C. Il teatro aveva la cavea (capace di circa 6300 spettatori) ricavata in un'altura, con un tempio sulla sommità; la scaenae frons era a tre ordini sovrapposti, con colonne corinzie; fra le statue che la decoravano è notevole una colossale immagine di Musa. La trasformazione non comportò l'eliminazione di tale scena, perché l'arena fu ottenuta semplicemente eliminando l'orchestra; la cavea venne ampliata, ma non raddoppiata, restando sostanzialmente di tipo teatrale e non anfiteatrale.
Poco chiara è la planimetria di un edificio alle spalle della scena del teatro, di cui alcuni rinvenimenti rivelano tuttavia l'importanza: una statua colossale di Augusto e un'iscrizione (su un epistilio) menzionante la gens Augusta attestano che qui si praticava il culto imperiale. Riguardo ai culti, le fonti parlano di templi di Iside, di Esculapio, della Triade Capitolina, di Bellona, ma abbiamo solo i resti, non molto ben conservati, di due templi nell'area occidentale: il cosiddetto Grande Tempio, circondato da un ampio cortile porticato, e il Piccolo Tempio, poco lontano. A questi si può aggiungere un terzo edificio sacro individuato presso il porto.
Numerose sono le case con importanti decorazioni musive; le ville suburbane sono distribuite per una quindicina di chilometri intorno all'abitato e, per quanto riguarda gli aspetti produttivi, sono presumibilmente concentrate (come è normale in questa provincia) soprattutto sulla coltivazione dell'olivo e la produzione di olio: torchi, oltre che nelle ville stesse, sono stati rinvenuti anche in capanne o piccoli agglomerati sparsi nelle campagne. Notevole era anche l'acquedotto: e così si completa il quadro di una città che non raggiunse mai un elevatissimo numero di abitanti (non superava, sembra, le 20.000-22.000 unità) ma che continuò in pieno, nel corso dell'età imperiale, la politica edilizia di grande prestigio e respiro già avviata all'epoca del regno di Mauretania.
Ph. Leveau - J.-C. Golvin, L'amphithéâtre et le théâtre de Cherchel, in MEFRA, 91 (1979), pp. 817-43; N. Benseddik - S. Ferdi - Ph. Leveau, Cherchel, Alger 1983; E. Fentress, Caesarian Reflections, in Opus, 3 (1984), pp. 487-94; Ph. Leveau, Caesarea de Maurétanie: une ville romaine et ses campagnes, Rome 1984; Id., Caesarea de Maurétanie. Précisions, explications, in L'Afrique, la Gaule, la religion à l'époque romaine. Mélanges à la mémoire de Marcel Le Glay, Bruxelles 1994, pp. 204-19; Id., s.v. Cherchel, in EAA, II Suppl. 1971-1994, II, 1994, pp. 115-16 (con bibl. prec.); T.W. Potter, Towns in Late Antiquity. Iol Caesarea and its Context, Sheffield 1995.
di Sergio Rinaldi Tufi
Antica città della Mauretania occidentale, non lontano dal luogo dove si sono sviluppati in epoche più recenti due importanti punti di riferimento dell'islamismo come Meknes (27 km a sud) e Mawlay Idris (arroccata su un'altura ben visibile dal sito archeologico stesso).
V. ha restituito testimonianze del periodo precedente la romanizzazione: qui sorge, a partire dal III sec. a.C., un importante centro indigeno, aperto a influssi libico-punici (vi sono state trovate fra l'altro iscrizioni puniche, una delle quali nomina una magistratura di tipo cartaginese, i sufeti), che gli scavatori chiamano Volubilis I e che fiorisce fino all'epoca di Giuba II, il quale probabilmente colloca qui la capitale della parte orientale del suo regno, come potrebbe far credere la presenza di monete di dinasti numidi (Massinissa, Giuba I) e anche di Cleopatra Selene. Il nucleo originario doveva essere nella parte meridionale del sito: si conservano fra l'altro alcuni tratti del muro di cinta (tecnica muraria caratterizzata da grossi blocchi imperfettamente squadrati, con pile di piccole pietre a riempire gli interstizi) e i resti, sembra, di due templi giustapposti, nell'area dove successivamente si sarebbe sviluppato il foro della città romana. L'assetto urbanistico di Volubilis I, condizionato dalla conformazione scoscesa del terreno, era presumibilmente irregolare. Fuori dell'abitato, verso nord-est, era un grande tumulo.
Quando la Mauretania diviene, con Caligola, provincia romana, V. mantiene la sua importanza: anzi forse la accresce, dato che un suo eminente cittadino (M. Valerio Severo) aiuta i Romani contro un ribelle, Edemone, e ottiene in cambio vantaggi per la collettività. L'antico nucleo della città viene parzialmente modificato, ma soprattutto si costruiscono nuovi edifici e complessi monumentali pubblici, e nuovi quartieri di abitazioni private. Sull'area dei due templi di Giuba II si sviluppa il complesso forense, che nel II sec. d.C. appare come una piazza con un tempio al centro e che, con Settimio Severo (alla fine dello stesso secolo - inizio del III), si amplia ulteriormente. Le dimensioni della piazza porticata (di cui si conserva ancora, per tratti abbastanza notevoli, la pavimentazione) non erano eccezionali (20 × 30 m), ma vi si affacciavano edifici importanti. Sul lato orientale era la basilica, a cinque navate, di cui quella centrale, più ampia, terminava con due absidi. Questo edificio, destinato all'amministrazione della giustizia, era posto in comunicazione con la piazza del foro da tre ingressi: resta in piedi un arco, che era parte di uno di essi. Adiacente era il Capitolium, che un'iscrizione ci consente di datare al 217 d.C. e che in realtà non era in diretto contatto né con il foro né con la basilica, da cui era anzi separato da una piccola piazza (anch'essa porticata e fiancheggiata inoltre da vari ambienti, individuabili forse come sedi di collegi) su cui si affacciava con un'alta gradinata. Restaurato in maniera abbastanza impropria, il tempio appare un tetrastilo prostilo, mentre si trattava probabilmente di un esastilo periptero.
L'urbanistica resta, nell'insieme, piuttosto irregolare, anche se settore per settore si creano alcuni allineamenti più rigorosi, non tanto nelle immediate adiacenze del foro stesso, quanto soprattutto nel settore nord-est, dove viene impostato in età flavia e si sviluppa in età severiana un ampio quartiere di domus, con edifici affacciati lungo una sorta di decumanus centrale. L'effetto di insieme doveva essere quello di una via colonnata, anche se in realtà quella che prospettava sulla strada (a giudicare dai resti che sono stati individuati) era una serie di portici di diverso aspetto. Il decumano nasceva da una piazza non lontana dal foro, che certo costituiva nell'impianto urbano un importante snodo: vi si affacciavano ancora un notevole edificio termale e una delle case più significative, quella detta "dell'Efebo". Qui si impostava il grande arco dedicato nel 217 d.C. dal procuratore M. Aurelio Sebasteno a Caracalla e Iulia Domna (noto come Qasr Farawn, Castello del Faraone). L'arco è a un solo fornice, ma riccamente decorato: su ogni pilone, sia verso il quartiere sud-occidentale sia verso il decumano, due colonne in avancorpo su alti plinti inquadrano (dall'alto verso il basso) un clipeo con l'immagine di componenti della gens Septimia, un'edicola e una vasca, dando luogo a una sorta di piccolo ninfeo. Presso il tratto orientale delle mura si conservano i resti di un santuario dedicato a Saturno, che assume la sua configurazione definitiva con Settimio Severo. Si vede un grande cortile, circondato su tre lati da portici; sul quarto lato, aperto, sono allineate 17 basi, mentre al centro del cortile stesso sono tre altari e una costruzione di forma allungata, in parte sotterranea: un insieme piuttosto enigmatico.
I quartieri abitativi sono due, quello accanto al foro e quello che gravita intorno al decumano di nord-est; possediamo inoltre alcuni elementi di un terzo, a sud-ovest dell'arco di Caracalla. Le case si aprono sulla strada con una o più porte; all'interno, sono allineati vestibolo, atrio-peristilio, tablinum e oecus. Talvolta vi è una seconda parte della casa, più piccola e più intima, articolata intorno a un secondo atrio; o si aggiunge un impianto termale, in qualche caso accessibile anche dall'esterno (e di uso perciò allargato al pubblico); spesso, infine, vi è anche un secondo piano. Tutte le case, o quasi, sono decorate con mosaici, spesso molto belli: i temi raffigurati sono usati oggi per definire convenzionalmente le unità abitative. Nel quartiere che si estende attorno al foro, le case non sempre sono di tono elevatissimo: ma bisogna ricordare almeno quella di Orfeo, non solo per il mosaico che le dà il nome, ma anche per la presenza di un piccolo impianto termale e soprattutto di un frantoio domestico, con due mole olearie. Nelle case di V., attrezzature di questo genere sono più frequenti che altrove.
Il quartiere di nord-est, incentrato sul decumano, presenta invece le dimore più lussuose. Da ricordare anzitutto la Casa dell'Efebo (che in questo caso prende il nome da una statua bronzea), dove è un grande peristilio di tipo rodio; di notevoli dimensioni è anche il frantoio che occupa tutto il settore occidentale. La casa ingloba anche, reimpiegandolo un po' irriguardosamente come cantina, un mausoleo preromano. La Casa delle Fatiche di Ercole presenta una serie di botteghe allineate sulla strada e ha la facciata ornata da colonne. La Casa del Corteo di Venere è ricchissima: vengono da qui pregevoli sculture, ma un'impressione di lusso si ricava anche dal numero degli ambienti (almeno otto sale e sette corridoi) e dal fasto dei mosaici (che testimoniano varie fasi di uso fra II e III sec. d.C.). Notevole varietà di situazioni, dunque: ed ecco la Casa della Moneta d'Oro, comprendente un frantoio e un panificio, e quella di Flavio Germano, che presenta sul retro un grande cortile-giardino. Ma la residenza più grande è quella chiamata Palazzo di Gordiano: vastissimo ingresso, articolato in tre aperture; un peristilio molto ampio, con portico di fondo anch'esso spazioso; un secondo peristilio, con bacino a due absidi. L'edificio poteva essere sede, se non di imperatori, di qualche alto funzionario (anche se non bisogna dimenticare che la capitale di questa parte occidentale della provincia era Tingi); tutta l'area di cui il palazzo fa parte fu oggetto di grandi ristrutturazioni iniziate da Caracalla e proseguite da Macrino.
R. Rebuffat, Le développement urbain de Volubilis au second siècle de notre ère, in BAParis, 1-2 (1965-66), pp. 231-40; A. Jodin - R. Etienne, Volubilis avant les Romains. 10 années de recherches dans la cité punique, in ArcheologiaParis, 102 (1977), pp. 6-19; H. Morestin, Le temple B de Volubilis, Paris 1980; A. Akerraz - M. Lenoir, Les huileries de Volubilis, in BAMaroc, 14 (1982), pp. 69-101; A. Jodin, Volubilis regia Jubae. Contribution à l'étude des civilisations du Maroc antique préclaudien, Paris 1987; M. Lenoir - A. Akerraz - E. Lenoir, Le forum de Volubilis. Eléments du dossier archéologique, in Los foros romanos de las provincias occidentales. Actas de la Mesa redonda (Valencia, 27-31 enero 1986), Madrid 1987, pp. 203-29; H. Limane - R. Rebuffat - D. Drocourt, Volubilis. De mosaïque à mosaïque, Casablanca 1998; M. Risse et al. (edd.), Volubilis. Eine römische Stadt in Marokko von der Frühzeit bis in die islamische Periode, Mainz a. Rh. 2001.
di Sergio Rinaldi Tufi
Cartagine, la grande città fondata dai Fenici non lontano dall'attuale Tunisi, aveva sviluppato una cultura e una società sue proprie (civiltà punica) e si era a sua volta proposta come base per una fitta rete di relazioni commerciali mediterranee e come centro di irradiazione per la creazione di ulteriori colonie e punti di sbarco soprattutto in Sicilia e in Sardegna. Inevitabile, già in epoche remote, l'impatto con l'Urbe: si era tentato di far fronte ai problemi politico-diplomatici con una serie di trattati (509, 348, 306, 279 a.C.), ma questi alla fine erano stati in pratica svuotati di significato dall'impetuosa espansione di Roma e dalla conseguente forte tensione fra le due controparti. A fare da detonatore fu la complicata vicenda dei Mamertini: questi mercenari italici (prevalentemente campani) erano stati assoldati dal tiranno Agatocle di Siracusa, ma dopo la sua morte (289 o 288 a.C.), anziché lasciare l'isola, avevano occupato Messina, restandone in possesso anche dopo essere stati sconfitti da Pirro di Epiro (278) e dal nuovo tiranno siracusano Gerone II (269). Contro quest'ultimo avevano chiesto aiuto a Cartagine, ma poi, entrati in contrasto anche con i nuovi alleati, sollecitarono un intervento di Roma (264).
L'intervento fu immediato: era un'occasione per tentare di allontanare i Cartaginesi dallo Stretto e di ridurne l'influenza in Sicilia. Cominciarono così le celeberrime tre guerre puniche (264-241; 218-201; 149-146 a.C.), il cui vero obiettivo divenne il controllo del Mediterraneo occidentale. La lotta fu combattuta accanitamente su più fronti (oltre che in Sicilia, in Spagna, in Sardegna, in Africa e in Italia), vide scendere in campo via via da una parte e dall'altra i migliori generali e i personaggi più influenti dell'epoca (da una parte Amilcare, Annibale, Asdrubale, dall'altra Caio Duilio, Quinto Fabio Massimo, gli Scipioni, ecc.), coinvolse vari alleati (fra i più assidui filoromani furono i re di Numidia e della Mauretania), per finire, nel 146 a.C., con l'assedio, la presa e la distruzione di Cartagine da parte di Scipione Emiliano: un atto spietato a conclusione di guerre spietate, che produsse una grande impressione presso i contemporanei. Lo Stato romano si assicurò una posizione di assoluto predominio sugli estesissimi territori che erano stati sotto l'egemonia della città nemica, anche se il controllo diretto fu inizialmente limitato: la nuova provincia di Africa era costituita da una ristretta area nel retroterra di Cartagine.
L'influenza romana si estendeva ben oltre i limiti amministrativi e i motivi di interesse certo non mancavano: il paese era, ed è tuttora, separato dall'Italia da un breve tratto di mare; era ricchissimo dal punto di vista agricolo; costituiva lo sbocco di itinerari commerciali che venivano dalla Numidia e dalla Mauretania (vie di mare, strade costiere), nonché dall'interno del continente, per gli antichi Mediterraneum: da non confondersi con il mare che oggi porta questo nome. Quel potenziale agricolo, del resto, rischiava di restare inutilizzato se non si rivitalizzava la città distrutta: un'operazione, però, politicamente a rischio, tanto che il tentativo attuato da Caio Gracco nel 123 a.C. fallì. Altro elemento di incertezza era proprio la vicinanza dei re di Numidia e Mauretania, che si trovarono spesso a partecipare alle vicende politiche e belliche di Roma repubblicana e talvolta anche troppo, come nel caso assai noto di Giugurta, che tentò di opporsi alla città egemone ma fu sconfitto nel 105 a.C.
Più tardi, si svolsero in Africa episodi importanti delle guerre civili, culminanti (46 a.C.) con la vittoria di Cesare a Tapso contro i seguaci di Pompeo. In tale occasione, al primitivo nucleo della provincia fu annessa la Numidia, denominata Africa Nova, con capitale Zama; ma fu anche intrapreso, con maggiore successo, il rilancio di Cartagine e della sua area, rilancio che sarebbe stato portato a termine da Ottaviano Augusto e che avrebbe determinato, in prosieguo di tempo, una nuova fioritura della città. A opera dello stesso Augusto, nell'ambito del nuovo ordinamento conferito alle province, la Numidia fu unita all'Africa, detta Proconsularis in quanto governata appunto da un proconsole: così si chiamavano i governatori delle province senatorie, nominati, almeno in teoria, dal Senato e non dall'imperatore, poiché si trattava di province che non richiedevano la presenza di una guarnigione particolarmente consistente; quelle che invece la richiedevano erano dette "imperiali", in quanto il governatore, il legatus Augusti pro praetore, era scelto dal princeps, che era il capo supremo dell'esercito.
L'Africa proconsolare era la più importante delle province senatorie insieme con l'Asia e l'Achaia: nell'ambito di questa categoria costituiva tuttavia un'eccezione, in quanto ospitava una legione e altri distaccamenti. Accanto all'area (ricchissima di insediamenti) che comprendeva, insieme con Cartagine, la parte orientale dell'Algeria e quasi tutta la Tunisia, la provincia inglobava la parte occidentale della Libia e soprattutto la Tripolitania, cioè la regione delle tre città: Sabratha, Oea (Tripoli), Leptis Magna. Si creavano, fin dall'inizio dell'età imperiale, le condizioni per un grandioso sviluppo economico e culturale, architettonico e artistico: preziosa per le risorse agricole (grano, olio), profondamente romanizzata e intensamente cristianizzata (numerosissimi gli scrittori africani, sia pagani sia cristiani, che hanno contribuito a fare grande la letteratura latina: da Quintiliano ad Apuleio, da Agostino a Cipriano, da Tertulliano a Minucio Felice), questa terra costituisce una delle realtà più ricche e complesse di tutto l'Impero. L'impatto della romanizzazione sul preesistente sostrato punico e anche ‒ più in generale ‒ su quello "libico" (Greci e Romani chiamavano Libyi tutti i popoli della parte settentrionale del continente, fra l'Atlantico e l'Egitto) fu dunque particolarmente fecondo.
Caligola separò di nuovo la Numidia dall'Africa (38 d.C.), distinguendo inoltre il potere civile del proconsole da quello militare del comandante della legione (la III Augusta), che ebbe le sue sedi alquanto all'interno: prima ad Ammaedara, poi a Theveste, infine a Lambesi. Il confine meridionale (verso il deserto) delle province nordafricane raggiunse la massima espansione con un imperatore nativo di Leptis Magna, Settimio Severo (193-211). La seconda metà del III secolo costituisce, certo non solo in Africa, una fase di notevole crisi: alla fine dello stesso secolo, Diocleziano attua un riassetto dell'Impero, frazionando le province del preesistente ordinamento augusteo in unità territoriali minori. E così, la Numidia viene divisa in Cirtensis e Militiana, l'Africa Proconsularis in Zeugitana, Byzacena e Tripolitania. Successivamente, Costantino riunifica la Numidia: poi questo assetto rimane invariato, dopo l'invasione vandala (429-534: una "parentesi" lunga, ma meno devastante di quanto un tempo si pensasse), anche con Giustiniano. Il VII secolo è quello dell'invasione araba, culminante nella battaglia di Sufetula (647) e nella fondazione di Kairouan (670).
La prima (e territorialmente assai limitata) opera di difesa romana in Africa è quella tracciata da Scipione Emiliano subito dopo la distruzione di Cartagine e l'annessione del 146 a.C.: era la cosiddetta Fossa Regia, che da Thabraca, sulla costa settentrionale della Tunisia, conduceva a Thenae sulla costa orientale, e che seguiva un percorso che oggi non siamo in grado di riconoscere, ma che presumibilmente si snodava lungo le sommità delle colline. Malgrado i successivi incrementi territoriali, per lungo tempo non vennero create difese stabili di grande respiro, anche se ovviamente non mancavano fortini e castelli e si protraeva praticamente ininterrotta la presenza della già ricordata legio III Augusta, sia pure in tre diverse successive sedi.
Da Augusto fino a Traiano, passando per i Flavi (con Tito abbiamo l'installazione di un distaccamento a Lambesi), lo sforzo è quello di portare sempre più a sud il confine dell'Impero, con l'inserimento e il tentativo di assimilazione delle popolazioni libiche, fino al punto di passaggio fra le aree predesertiche e quelle desertiche. Nell'ambito dei territori acquisiti nella parte settentrionale del continente, l'attenzione dello Stato romano si concentra soprattutto sulla Numidia e sul settore orientale della Proconsularis, mentre la Mauretania a ovest e la Tripolitania a est, pur comprendendo centri importanti o addirittura importantissimi, non sono altrettanto strategicamente attrezzate né intensamente urbanizzate.
Con Traiano, la linea di confine si attesta sugli chott e sulle alture dell'Aurasio; a sud e a nord di tale linea si costruiscono strade (si sa che gli assi viari, qui come altrove, svolgono un ruolo importante nel sistema del limes); si rinforza il castrum flavio di Lambesi, dove ora si insedia la legio III Augusta; si fonda una nuova colonia, Thamugadi, la cui pianta ricorda in parte quella dei castra; si creano nuovi castra a Theveste (Tebessa) e a Gemellae. Con Adriano si pone mano nuovamente a Lambesi, si rinforza il castrum di Gemellae, si migliora la rete stradale, e in particolare il collegamento fra Cartagine e Theveste. La difesa del fronte meridionale della Numidia e della parte occidentale della Proconsularis finisce per essere costituita da due linee fortificate, una a nord e una a sud delle montagne dell'Aurasio; i già ricordati castra di Gemellae, Theveste e Lambesi, situati lungo la linea settentrionale e perciò meno esposti, diventano, oltre che insediamenti militari, anche centri civili. Numerose strade trasversali, attraverso le valli che tagliano la catena montuosa, uniscono le due linee; il sistema è integrato dal fossatum che, pur con qualche interruzione, segue l'intero fronte, preceduto verso sud da alcune fortificazioni scaglionate nel deserto.
Alle spalle della Tripolitania, le prime difese stabili verso sud sono realizzate da Commodo e più tardi (contemporaneamente alla risistemazione del limes della Mauretania) rinforzate dai Severi. Il limes, qui, è un limes aperto: nulla di paragonabile al Vallo di Adriano in Britannia, né alla linea germanico-retica, né ‒ per restare in ambito africano ‒ al fossatum stesso della Proconsolare. Fa eccezione il tratto detto Muro di Tebaga (dal nome del vicino Gebel Tebaga): un fossato lungo circa 17 km bordato, appunto, da un muro. Castra e castella sono disposti numerosissimi lungo la linea del limes, ma anche scaglionati verso l'esterno in avamposto e distribuiti in punti strategici all'interno della provincia. Ripetono, pur con alcune varianti, lo schema che caratterizza un po' dovunque i forti romani: mura a pianta quadrangolare con angoli arrotondati; disposizione regolare e simmetrica, entro le mura, di alloggi, stalle, ospedali, terme; presenza delle vie principalis, praetoria e quintana; nucleo centrale costituito dal praetorium (residenza del comandante della guarnigione) e dai principia (quartier generale).
L'architettura militare gioca dunque un ruolo importante, specie se si tiene conto che questa è una provincia senatoria e come tale non dovrebbe, di norma, ospitare truppe. Ma ancora più importante è il ruolo dell'urbanistica e dell'architettura civile: caratteristico di quest'area, soprattutto per quanto riguarda la Numidia e la parte occidentale della Proconsularis (e, in quest'ambito, con particolare accentuazione lungo il versante settentrionale), è il gran numero di città, spesso piuttosto vicine fra loro. Come si è accennato, l'urbanizzazione è meno intensa in Tripolitania, dove tuttavia proprio le "tre città" che danno il nome alla regione (Sabratha, Oea e Leptis Magna) sono di grandissima importanza.
Le dimensioni dei vari centri (sia nelle aree di maggiore addensamento, sia nelle altre) non sono in genere molto grandi. Determinare con esattezza la popolazione degli insediamenti antichi non è facile: tuttavia alcuni studiosi hanno calcolato (e ai risultati di tali calcoli possiamo dare almeno un valore orientativo) che Cartagine dovesse essere in qualche modo eccezionale, con 300.000 abitanti nel momento del massimo sviluppo (II-III sec. d.C.), ma che altrove le cifre fossero molto più basse: 80.000 a Leptis Magna, fra 30.000 e 40.000 per un'altra dozzina di città, 10.000 per poche altre, non più di 2000-3000 per la stragrande maggioranza. Alcune città sorgono in siti precedentemente non urbanizzati e sono perciò di fondazione romana; altre si sviluppano sul sito di precedenti insediamenti fenicio-punici o libici. I centri di origine libica si trovano soprattutto all'interno (Thugga, Thubursicum Numidarum, Cirta, Theveste), in genere su ripide colline non lontane da qualche corso d'acqua, in modo da assicurare sia l'efficacia difensiva e strategica sia l'approvvigionamento idrico. I centri di origine fenicio-punica nascono in genere su promontori o su isolotti costieri. È il caso di Cartagine, su una penisola ampia e fertile; ed è il caso di Utica, Leptis Magna, Hadrumetum, Hippo Regius (Ippona), Hippo Diarrhytus (Biserta), Sabratha, Thabraca.
Le città fondate ex novo dai Romani hanno assetto regolare e strade che si incrociano ad angolo retto (l'esempio più significativo è forse la traianea Thamugadi), mentre quelle che si sviluppano sopra centri preesistenti (fenicio-punici o libici che siano) conservano quasi sempre un nucleo irregolare, dovuto alla conformazione del terreno, con intorno eventualmente nuovi e più ordinati quartieri: così si configura l'antica zona portuale (primo punto di riferimento e di aggregazione) di Sabratha e di Leptis Magna in Tripolitania. Sarebbe tuttavia sbagliato generalizzare: Cuicul in Numidia (Gemila in Algeria), colonia che si ritiene fondata ex novo (anche se il nome potrebbe far pensare a un'origine preromana), presenta, anche a causa della conformazione del terreno, aree di domus dall'andamento piuttosto irregolare, mentre a Cartagine il quartiere punico individuato sul versante meridionale del quartiere di San Luigi, alle pendici della collina della Byrsa, presenta un assetto tendenzialmente ortogonale, con strade talvolta assai ampie. Cosa del resto ben comprensibile, dato che questa necropoli mediterranea aveva assimilato significativi elementi della cultura greca ed era in grado di misurarsi con i grandi centri ellenistici.
Di fronte a un numero di città molto alto, nonché a una varietà di situazioni davvero notevole, e nel quadro di dimensioni in genere piuttosto esigue, è molto arduo tracciare un quadro di sintesi dell'urbanistica dell'Africa romana. Il caso più rilevante, decisamente, è proprio quello di Cartagine. L'antica e potente città era stata, nella leggenda raccontata dall'Eneide, una drammatica tappa del viaggio di Enea; era anche stata, nella vicenda storica che abbiamo riassunto, un'irriducibile avversaria di Roma sulla strada dell'espansione nel Mediterraneo. Non poteva ora, nell'ambito della provincia d'Africa, non essere sfruttata nella sua ricchezza agricola, con il suo fertile retroterra, e nelle sue potenzialità commerciali, con la possibilità di ospitare più porti.
Ventitre anni dopo la distruzione voluta da Scipione Emiliano, e cioè nel 123 a.C., Caio Gracco aveva già fondato una colonia: un tentativo che si inseriva nel quadro dei suoi progetti politici tesi a modificare gli equilibri politici ed economici a Roma (aprendo anche nuovi orizzonti alle attività commerciali della classe dei cavalieri) e che fu avversato dal Senato, restando perciò senza seguito. Ma anche in quella poco felice occasione era stata impostata la centuriazione (suddivisione in appezzamenti dei terreni coltivabili) nella zona retrostante la città punica ed era stato tracciato un nuovo impianto urbanistico ad assetto ortogonale.
Già allora, il progetto non prendeva in alcun modo in considerazione la città punica: la distruzione doveva essere stata davvero totale e quasi nessuna struttura romana avrebbe utilizzato (né con Gracco, né con gli interventi successivi) elementi preesistenti. Di tutto ciò che esisteva prima del fatale 146 conosciamo, oltre al già ricordato quartiere alle pendici della Byrsa, pochi monumenti, seppur significativi: il doppio porto (un bacino rettangolare per le navi mercantili e uno circolare per quelle militari, comprendente i navalia o arsenali), il tofet, un tempio presso il mare (di cui sono stati individuati resti del podio di fondazione, contenente un prezioso archivio di sigilli). Sulla sommità della Byrsa era il veneratissimo tempio di Eshmun, dove, nelle ore dell'attacco finale dell'Emiliano, si erano asserragliati gli ultimi difensori. Il progetto di Gracco fu ripreso da Cesare: l'abitato si estendeva fra l'altura di Byrsa e la campagna, riprendendo l'orientamento del 123 a.C. Ma fu Augusto a ridisegnare radicalmente l'intervento, nel quadro della sua generale riorganizzazione del dominio provinciale di Roma e del rilancio economico di territori potenzialmente ricchi (come l'Asia Minore e, appunto, l'Africa) che erano usciti duramente provati dalle vicende dell'ultimo scorcio dell'età repubblicana e dal sanguinoso periodo delle guerre civili.
La Cartagine augustea è un grande quadrato di quasi 1800 m di lato. L'orientamento che si va determinando è del tutto diverso da quello che era stato avviato da Cesare (e che ci è noto, in quanto indicato dall'asse delle uniche strutture superstiti di quel periodo, e cioè delle grandi cisterne poste sulla collina della Malga); è comunque definitivo, in quanto nel nuovo reticolo si collocheranno non solo gli edifici augustei, ma anche quelli fatti costruire dagli imperatori successivi. Nell'impianto urbano si incrociano regolarmente cardini e decumani, dando luogo alla formazione di isolati dalla forma rettangolare allungata: il cardine e il decumano principale (cardo maximus e decumanus maximus) si incontrano sulla collina della Byrsa.
Il "cuore" della città è qui, proprio dove era stato il tempio di Eshmun, che ora viene completamente soppiantato. L'area fu più volte rimaneggiata, con giganteschi lavori di terrazzamento, fino ai tempi di Adriano e di Antonino Pio: una grande piattaforma artificiale ospitava il foro, un tempio, la basilica e altri edifici amministrativi. Al pendio occidentale era appoggiato un complesso monumentale costituito da sette ambienti absidati e coperti a volta, detto Palazzo del Proconsole. L'unica realtà dell'epoca punica che venne in qualche modo riutilizzata fu il porto, data la posizione insostituibile. Vennero però introdotte radicali modifiche: al posto dei navalia fu creata una piazza circolare con al centro un tempio.
Fra gli altri complessi monumentali (teatro, odeon, anfiteatro, circo) ricordiamo soprattutto le terme, ai piedi della collina oggi detta Bordj al-Djedid, in vicinanza del mare. Questo grande edificio fu costruito all'epoca di Antonino Pio: simboleggia la qualità della vita di cui si godeva nella più grande città romana d'Africa. Impressionante è il consumo di acqua: l'approvvigionamento era assicurato sia da un importante acquedotto proveniente dalle grandi sorgenti di Zaghouan, sia da una serie di enormi cisterne coperte a volta: quelle sopra la vicina Bordj al-Djedid, ma anche quelle (risalenti, come si è detto, all'età di Cesare, ma lunghissimamente mantenute in uso) sulla collina della Malga. Fuori dall'impianto ortogonale, e con un orientamento divergente, sorge la grande basilica di Damus al-Kharita, forse la più importante dell'Africa cristiana.
Usato dunque abbastanza rigorosamente a Cartagine, l'impianto ortogonale è addirittura esaltato nella colonia che Traiano fonda nel 100 d.C. a Thamugadi in Numidia (Timgad, Algeria). Siamo nell'ambito del riassetto del limes meridionale e delle aree a immediato ridosso, dove rimase lungamente acquartierata la legio III Augusta. La città è compresa entro una cinta muraria a pianta quadrata con angoli arrotondati: questo aveva suggerito ad alcuni studiosi l'ipotesi che il centro urbano fosse lo sviluppo di un precedente castrum (anche perché le dimensioni non sono eccessive), ma non si è trovato alcun resto tale da confermare un simile svolgimento dei fatti. Anche gli isolati sono quasi tutti di forma quadrata, con strade che si incrociano ad angolo retto, con orientamenti nord-sud ed est-ovest.
L'impianto, già di per sé non grandissimo, comprendeva edifici e monumenti che occupavano molto spazio, come il complesso forense e il teatro: quindi molte case, le terme e anche il Capitolium furono costruiti al di fuori delle mura. Il Capitolium, inoltre, presenta un asse divergente rispetto a quelli del reticolo urbano. Questi quartieri posti al di fuori delle mura appaiono inseriti nel tracciato delle grandi strade preesistenti nella regione, e cioè quella da Theveste a Lambesi (direzione nord-ovest/sud-est), quella che conduce a Cirta (verso nord) e quella che porta all'area di frontiera dell'Aurasio (direzione sud-ovest). Quella che conduce a Lambesi probabilmente era la principale: nel punto in cui l'arteria extraurbana inizia il suo percorso, uscendo dal nucleo "quadrato" della colonia, si apre nella cinta muraria una porta monumentale, nota come Arco di Traiano.
Poco lontano, in corrispondenza di un altro punto di irregolare raccordo fra quartieri "interni" e quartieri "esterni", fu eretto un altro arco-porta per iniziativa di Marco Aurelio: di questo monumento non esistono però resti altrettanto ben conservati. Un'altra porta era a nord, all'uscita della strada per Cirta: era a un fornice, con due torrioni laterali comprendenti camere per il corpo di guardia. In ogni caso, è da sottolineare questo peculiare contrasto fra il rigoroso assetto di strade ed edifici all'interno delle mura e lo sviluppo piuttosto "asistematico" dei quartieri al di fuori, solo parzialmente spiegabile con il condizionamento rappresentato dalla viabilità.
Il predecessore di Traiano, Nerva, aveva fondato un'altra colonia all'interno della Numidia: Cuicul. Il nome, chiaramente non latino, potrebbe far pensare a un'origine preromana, ma di un insediamento preesistente non si sono trovate tracce. Siamo anche qui in corrispondenza di un importante nodo stradale: convergono presso un pianoro di forma approssimativamente triangolare (delimitato da scoscese rive di torrenti) arterie provenienti da Igilgilis (sulla costa), da Theveste e da Cirta. Su quel pianoro sorge la città, adattandovisi in maniera piuttosto complessa. Il nucleo originario, a nord, ha un impianto fondamentalmente ortogonale, ma con qualche irregolarità, soprattutto per quanto riguarda il percorso delle mura, che conosciamo peraltro solo parzialmente. Questo nucleo si incentra sul complesso forense, costituito, oltre che dal foro vero e proprio, anche dalla curia, dalla basilica e dal Capitolium, o tempio della Triade Capitolina (Giove, Giunone, Minerva); non lontano è un altro tempio, dedicato a Venere Genitrice. Il foro prospetta sul cardine massimo: quest'ultimo, proprio in corrispondenza dell'angolo sud-occidentale del vasto insieme costituito dalla piazza e dai suoi annessi, compie una lieve ma sensibile deviazione, parzialmente dissimulata da un arco, dirigendosi poi verso sud fino a raggiungere la cinta muraria.
Successivamente, la città continua a svilupparsi oltre le mura stesse, estendendosi a sud nel corso del II sec. d.C. e raggiungendo il culmine dell'espansione con i Severi. Si costruiscono nuovi e importanti monumenti: le terme, il teatro e, proprio con i Severi, un secondo foro, con annesso il tempio della gens Septimia. Vedremo che anche a Leptis Magna, in Tripolitania, un foro severiano si aggiunge a uno precedente (in questo caso augusteo), collocato in altra parte della città. Ma è da considerare soprattutto che, in questo settore meridionale di Cuicul, l'assetto è evidentemente condizionato dalla conformazione del terreno: i monumenti maggiori sono piuttosto distanti fra loro, e non collegati da alcun orientamento comune; negli spazi che si estendono fra l'uno e l'altro, si sviluppa un ampio quartiere di abitazioni, con un assetto assai irregolare e con scoscendimenti spesso risolti con l'uso di gradinate.
Queste due città della Numidia, Thamugadi e Cuicul, hanno quindi in comune il fatto di essere passate, nei vari momenti, da un'urbanistica regolare (il rigorosissimo impianto della colonia traianea è del tutto peculiare non solo in ambito africano ma in assoluto nel mondo romano) a una meno rigida, condizionata da importanti direttrici stradali o dall'andamento dei pendii. Cogliere aspetti diversi nei successivi momenti storici può avere un senso ancora più preciso nei casi in cui gli insediamenti romani si sviluppano da centri libici o punici preesistenti. Interessanti osservazioni su questo tipo di fenomeno si possono fare nell'ambito delle città della Tripolitania: solo in parte nel caso di Oea (Tripoli), che era la principale, ma che è oggi difficilmente ricostruibile in quanto sopra i resti antichi si è sviluppata la capitale della Libia (sembra però da alcuni indizi che l'impianto fosse di tipo ortogonale); in misura enormemente maggiore a Sabratha e a Leptis Magna.
Sabratha, che rispetto a Oea si trova a ovest, anch'essa affacciata sul mare, mostra proprio nel quartiere occidentale, quello del foro, che dovrebbe essere urbanisticamente più qualificante, caratteristiche decisamente irregolari: il foro stesso si inserisce in un quartiere preesistente apparentemente privo di pianificazione e anche gli altri edifici importanti più vicini (il tempio di Serapide, un altro tempio in cui ignoriamo quale divinità fosse venerata, le terme a mare) hanno allineamenti totalmente diversi fra loro. Sembra che il giustapporsi quasi casuale degli edifici, che aveva caratterizzato il quartiere punico, trovi una continuazione nella nuova realtà romana. Il quartiere orientale, sviluppatosi nel II sec. d.C., presenta invece regolari incroci ad angolo retto, in una trama regolarmente disposta in cui si inseriscono insulae quadrate o rettangolari e soprattutto notevoli monumenti come il tempio di Iside (più lontano), il teatro, le terme dette "di Oceano".
In maniera ancor più articolata si possono seguire le varie tappe dell'urbanistica di Leptis Magna, situata sul mare a est di Oea. Mentre Sabratha e Leptis erano sorte su precedenti insediamenti punici ubicati lungo la costa, Thugga (nell'attuale Tunisia) era nata sul sito di un centro libico nell'interno. Il nucleo originario era sorto sulla sommità di una collina, delimitata verso nord da un ripido pendio. Della lunga fase preromana rimangono mura di cinta oltre a varie sepolture di epoche differenti: dolmen preistorici, ma anche uno straordinario mausoleo di età ellenistica. Già prima dell'annessione a Roma (46 a.C.), l'insediamento aveva cominciato a espandersi verso il basso a sud (su un pendio evidentemente meno ripido di quello nord, ma pur sempre accentuato): questa direzione di sviluppo si mantiene a lungo in età imperiale, con un assetto fuori da ogni schema e con strade tortuose e in forte pendenza (talvolta sostituite da scale) che raccordavano fra loro i vari livelli, in qualche caso ottenuti mediante terrazzamenti artificiali.
Fra i terrazzamenti più ampi è da ricordare quello su cui sorge il foro, inizialmente (età giulio-claudia) non estesissimo, ma poi molto ampliato verso est: all'epoca di Marco Aurelio fu costruito il Capitolium e non molto dopo, con Commodo, fu realizzata la singolare Piazza della Rosa dei Venti. Più in basso, sempre con orientamenti diversi, erano il mercato, le terme, il teatro: quest'ultimo si appoggiava con la cavea alla collina; aveva inoltre un bell'edificio scenico sostenuto da fondazioni artificiali e, dietro, una vasta porticus post scaenam, il tutto sullo sfondo di un'ampia e bellissima valle. Anche le case private si adattavano a questa situazione pittorescamente scoscesa: frequenti erano gli edifici a due piani, con entrate su differenti livelli.
Più o meno analoga (ma nell'ambito dei territori oggi pertinenti all'Algeria) era la situazione di un altro centro di origine libica, Thubursicum Numidarum, che con Traiano giunse a ottenere il rango di municipio e nel III secolo quello di colonia: sorgeva su un pendio che scendeva verso il fiume Bagradas. Ebbe due fori, su livelli diversi (il secondo fu aggiunto appunto in occasione del conferimento del nuovo rango); e anche qui, in basso, era il teatro con la cavea appoggiata al pendio. Anche il Castellum Tidditanorum era forse di origine libica (anzi, presumibilmente il luogo era in qualche modo frequentato fin da epoche remote, vista la presenza di dolmen) e presentava la medesima situazione: si estendeva su forti pendenze e mostrava talvolta, come appunto Thugga, scale invece di strade.
Le cinte murarie avevano dato luogo, in età preromana, a soluzioni notevoli, talvolta molto peculiari. Si impongono all'attenzione, per varietà di apprestamenti e per ampiezza, quelle di Cartagine, con caserme, magazzini, torri e anche alloggi per elefanti; a questa cinta esterna se ne aggiungeva una interna, che difendeva la collina della Byrsa. In epoca romana, quando la città fu "rilanciata" da Cesare e da Augusto, non ebbe invece alcuna difesa fino al V sec. d.C.; possiamo constatare del resto che i centri costieri della Numidia e della Proconsularis, profondamente romanizzati e lontani da ogni pericolo, rinunciarono quasi tutti all'uso delle mura. Interessante, sotto questo aspetto, la storia di alcuni insediamenti che, pur non potendo essere considerati castra, erano stati creati anche per scopi militari, come Thamugadi e Cuicul: quando nel loro sviluppo, come si è visto, oltrepassarono la cinta muraria originaria, non si avvertì il bisogno di costruirne un'altra. A Thamugadi, peraltro, dove le mura originarie sono meglio conservate, si può constatare che la tecnica costruttiva è piuttosto rozza e che vi sono state numerose modifiche in occasione dell'ampliamento della città, e questo costituisce quasi un curioso contrasto con la mancata realizzazione di difese più avanzate: non si costruirono nuove fortificazioni, ma si rimaneggiarono quelle già esistenti, anche se ormai in gran parte "scavalcate" dagli eventi.
Ma si conosce un caso di fortificazione assai particolare anche in uno dei principali centri della costa, e cioè a Leptis Magna. Qui sarebbe stato costruito un sistema difensivo che, più che una cinta muraria, era apparentemente un semplice aggere di terra: se questa fosse l'interpretazione corretta di alcune tracce per la verità non molto sicure, dovremmo essere in presenza di un apprestamento realizzato, probabilmente in maniera affrettata, nell'imminenza di un attacco dei Garamanti nel 69/70 d.C. I Garamanti erano una popolazione dell'interno, nell'area oggi detta Fezzan, e per secoli ebbero con Roma buoni rapporti, alimentando flussi commerciali piuttosto peculiari (avorio, animali rari e feroci per i giochi dell'anfiteatro). Gli incidenti erano rari: quello del 69 fu provocato dalla vicina e antagonista Oea, che "aizzò" questa popolazione contro Leptis. Il dato più notevole per quanto riguarda l'aggere sarebbe fornito dalle dimensioni: ben 5,5 km, a racchiudere un'area di 425 ha. Un esempio di difesa "a largo perimetro", come a Caesarea di Mauretania (e come in vari altri casi), che protegge non solo la città ma anche l'immediato suburbio. Nel III e IV sec. d.C. la pressione e l'inquietudine delle popolazioni al di là delle frontiere inducono molte città a dotarsi di nuove e talvolta affrettate difese, costruite raccogliendo materiale eterogeneo (anche frammenti di sculture, di iscrizioni, di decorazioni architettoniche) e lasciando fuori spesso interi quartieri, ormai evidentemente in stato di abbandono. A Leptis, la cerchia tardoantica misura 3 km rispetto ai 5,5 dell'aggere precedente; a Cartagine (dove, come si è visto, all'epoca della rifondazione non era stata costruita alcuna cinta) un nuovo sistema difensivo viene allestito addirittura nel V secolo.
Nell'impianto urbano, tuttavia, l'elemento più caratterizzante è ovviamente il foro, che occupa talvolta una posizione centrale, talvolta invece è decentrato: nelle città costiere ad esempio (come è ovvio e come prescrive Vitruvio) è spesso spostato verso il mare. Nei casi in cui la città romana si è sviluppata sul luogo di precedenti insediamenti punici o libici, spesso non è facile dire se vi fosse, per quanto riguarda i luoghi di aggregazione di antica tradizione, una qualche continuità. Vi fu, forse, a Cartagine: nella fase punica esisteva una piazza ‒ punto di riferimento fra la zona dei porti e la collina detta oggi di San Luigi ‒ dove sorse poi (in una situazione completamente mutata) il primo foro della città di Cesare e di Augusto. Più tardi ancora Cartagine ebbe un altro foro, ma dobbiamo queste informazioni più alle testimonianze di autori come Appiano, o Sant'Agostino, o Vittore di Vita, che a resti effettivamente ritrovati. La presenza di due fori è testimoniata con evidenza ben maggiore a Cuicul e a Leptis Magna. A Cuicul la creazione di una seconda piazza è da porsi in relazione con la crescita di un nuovo settore della città e la costruzione di questo forum novum, più che frutto di una pianificazione, appare una manifestazione della necessità di far fronte a nuove esigenze man mano che si presentavano.
Da questi esempi abbiamo iniziato a constatare, comunque, la grande varietà delle planimetrie forensi nelle province africane: si sa, del resto, che di questo tipo di complesso monumentale, fondamentale nella topografia e nella vita delle città, esistono in tutto l'Impero realizzazioni estremamente diversificate. I fori di Gightis (nell'attuale Tunisia) e di Thamugadi, pur molto diversi fra loro, hanno in comune la caratteristica di essere circondati da un gran numero di edifici: su quello di Gightis gravitano addirittura tre templi e altri ambienti di culto minori. Tre sono anche i templi che si affacciano, insieme con la basilica e con la curia, sul foro di Sabratha; un quarto è nelle vicinanze. In alcuni casi, come a Thubursicum Numidarum e a Thugga, la piazza è ricavata in terreni scoscesi, con notevoli lavori di sistemazione artificiale mediante tagli e terrazzamenti. A Thubursicum, tagliando la collina, si ricava al suo interno un ambiente sotterraneo, forse destinato a sede dell'erario pubblico.
A Thugga, il foro e il centro cittadino si pongono come punto di raccordo a mezza costa fra l'antico centro libico arroccato sulla sommità di un'altura e l'insediamento romano sviluppatosi in basso all'inizio dell'età imperiale. Un primo nucleo, con uno spazio porticato con asse orientato in senso est-ovest, viene realizzato in età giulio-claudia, ma un assetto ben più articolato si sviluppa ai tempi di Marco Aurelio, con un ampliamento verso est e con la creazione di strutture che si adattano mirabilmente alle pendenze del terreno. Sorge così un tempio tetrastilo su alto podio: è il Capitolium, dedicato alla Triade Capitolina, come suggerisce la cella tripartita. Di fronte, si aggiunge un'esigua piazza, sulla cui parete di fondo (cioè quella situata dalla parte opposta rispetto al tempio) si apre un'esedra: l'asse tempio-piazza è perpendicolare a quello del foro giulio-claudio. Poco dopo, con Commodo, si aggiunge, ancora a est, una piazza più grande, che riprende (sia pure con un lieve spostamento) l'orientamento dell'impianto giulio-claudio: il lato orientale si incurva in un ampio emiciclo, mentre sul pavimento viene inciso un disegno raffigurante la Rosa dei Venti. A nord di quella che, di conseguenza, è nota appunto come Piazza della Rosa dei Venti si affaccia un sacello costituito da un ambiente rettangolare fiancheggiato da due a esedra; a sud invece si passa (scendendo a un livello leggermente inferiore) al mercato, che presenta anch'esso sul lato opposto all'ingresso un'ampia abside. Di tutte le infinite variazioni possibili nella realizzazione di un complesso forense, questa di Thugga è certamente fra le più movimentate e interessanti.
Disponiamo di una notevole quantità e varietà di esempi anche per quanto riguarda l'architettura templare. Abbiamo appena visto i casi in cui proprio sul foro si affaccia il Capitolium: Cuicul, Thuburbo Maius, Sabratha, Thugga, Sufetula; in quest'ultima città il tempio della Triade Capitolina, invece di essere costituito da un edificio a tre celle, è composto da tre templi distinti ma raccordati fra loro. Tutti e tre sono situati su un alto podio e quello centrale, che non ha una sua scala di accesso indipendente, è raggiungibile solo attraverso quelle dei due laterali, cui è collegato da una terrazza. Un ulteriore elemento di collegamento è rappresentato da tre archetti situati nella parte posteriore. Gli edifici sono tutti e tre tetrastili prostili, ma non sono identici fra loro: il centrale è di ordine corinzio ed è di dimensioni leggermente maggiori, i due laterali sono di ordine composito e, all'interno della cella, presentano entrambi un'abside sulla parete di fondo.
Questo tipo di articolazione del Capitolium è un caso assai singolare; non è raro, invece, che si affaccino sul foro più templi diversi. Sul Foro Vecchio di Leptis Magna sorgono in un breve lasso di tempo, sotto Augusto e sotto Tiberio, il tempio di Liber Pater, quello di Roma e Augusto, più un terzo minore (in tutto l'Impero, il culto di Roma e dell'imperatore mira man mano ad affiancarsi o a sostituirsi a quello della Triade Capitolina). Anche a Sabratha i templi gravitanti sul foro sono numerosi: quello di Liber Pater, quello di Serapide, quello detto Tempio del Foro, circondato da un ampio spazio porticato (di larghezza pari a quella della piazza, cui in qualche modo si raccorda); inoltre, adiacente a quest'ultimo anche se non direttamente prospiciente la piazza stessa, e circondato a sua volta da uno spazio porticato, è da ricordare anche un quarto edificio di culto, il Tempio Antoniniano.
I templi dunque sono quasi sempre inseriti in organismi complessi: se non nel foro, comunque in un recinto che spesso è porticato e tendono prevalentemente ad addossarsi alla parete di fondo. A Sabratha, dove abbiamo appena visto l'addensarsi di edifici di culto proprio attorno al foro stesso, bisogna ricordarne anche un altro che sorge più a est (sul mare, al margine della città) e che è particolarmente ricco di componenti diverse: il tempio di Iside. Sorge al centro (stavolta, quindi, non addossato a una parete) di un cortile porticato, su un podio molto alto, con gradinata; all'interno del podio sono raggruppati corridoi e vari ambienti, fra cui una cripta presumibilmente adibita a momenti del culto, in quanto collegata, mediante una scala, con l'interno della cella. Il recinto presenta a est un ingresso monumentale, fiancheggiato da due torri e anch'esso provvisto di gradinata; sul lato opposto, alle spalle del tempio e sempre all'interno del recinto, si allineano otto cappelle, alcune delle quali con esedra.
Il santuario di Saturno a Thamugadi, situato circa mezzo chilometro al di fuori del nucleo originario della colonia, presenta anch'esso un ampio recinto porticato, con un ingresso monumentale fiancheggiato da due sale a est. A un primitivo edificio di culto, di cui restano pochi avanzi, se ne sovrappose uno più grande di età severiana, che invece conosciamo meglio: è un tempio triplice, simile al Capitolium di Sufetula: ma, mentre là i due edifici laterali erano provvisti di gradinata e quello centrale ne era privo, qui si verifica la situazione opposta: è solo il centrale ad avere una gradinata (ed è anche l'unico ad avere un pronao). A Thugga, oltre a un complicato impianto forense, è stato individuato anche un tempio di Saturno che, come quello di Thamugadi, è stato ultimato ai tempi di Settimio Severo e Caracalla e che si trova sul lato di fondo di un cortile porticato. Particolarmente diffuso in Africa è, dunque, il culto di Saturno, che con molta probabilità eredita anche le prerogative del Baal punico. Lo stesso si può dire di Caelestis, che a sua volta eredita le caratteristiche della dea Tanit, che ha per attributo la falce lunare: forse per questo esiste, sempre a Thugga, un santuario della stessa Caelestis ‒ un tempio collocato entro un ampio recinto ‒ che presenta, in corrispondenza di un lato del recinto stesso, un'andatura curvilinea. L'emiciclo costituiva inoltre una sorta di pendant con quello, non lontano, della cavea del teatro: vi era anche un attico con statue raffiguranti città e province dell'Impero.
A proposito di pareti curvilinee: è apparentemente inconsueto, sempre a Thugga, anche il tempio che si affaccia sulla Piazza della Rosa dei Venti. Si data al I sec. d.C. ed è dedicato a Mercurio; ha tre celle, di cui la centrale, più ampia, è a pianta rettangolare, mentre le due laterali hanno quasi l'aspetto di esedre. Troviamo ancora un elemento a emiciclo in un ampio complesso di edifici dedicati dalla famiglia dei Gabini (che ebbe grande influenza sotto Adriano) a divinità come Concordia, Liber Pater, Frugifer. Il tempio principale, dedicato proprio a Liber, è inserito in una sorta di cavea teatrale, che tuttavia, più che per spettacoli, doveva essere usata per manifestazioni di culto. Questa situazione presenta analogie con quella di alcuni noti santuari del Lazio: Gabi, Palestrina, Tivoli.
Una città, Thugga, in cui l'architettura offre dunque soluzioni variate e certamente non banali. Ma torniamo presso il foro, al Capitolium, un tetrastilo prostilo di ordine corinzio, databile all'età di Marco Aurelio, che presenta una sola cella: tale cella svetta, in buono stato di conservazione, su tutta la parte centrale delle città. Presenta nelle pareti una tipica tecnica costruttiva africana, forse di derivazione punica: blocchi di pietra squadrata in cui si inseriscono, con cadenza abbastanza regolare, grandi piloni verticali. Il frontone presenta al centro un rilievo (ambizioso nelle intenzioni, modesto nell'esecuzione) con una scena di apoteosi: un imperatore (sembra che si tratti di Antonino Pio) portato in cielo da un'aquila.
Se a Thugga si concentra una grande quantità di esempi diversi, è in tutta la provincia che si escogitano, per gli edifici di culto, soluzioni estremamente disparate. A Thuburbo Maius, il tempio delle Cereres è una cella quadrata addossata alla parete di fondo di un cortile porticato, mentre il santuario di Mercurio presenta soluzioni insolite sia nella pianta del portico perimetrale (quadrangolare all'esterno, poligonale a lati curvilinei all'interno), sia nell'edificio al centro della corte, che è costituito da otto colonne in cerchio disposte a distanze variabili. Per quanto riguarda la decorazione frontonale, ne conosciamo, oltre a quello del Capitolium di Thugga, un solo altro esempio: il tempio del Genio della Colonia, databile all'età di Commodo, a Oea. L'edificio è andato in gran parte perduto, ma il frontone è conservato in buona misura: è raffigurata al centro la Tyche della città, con ai lati Apollo e Minerva e, alle due estremità, i Dioscuri.
Un posto a parte, in questa rassegna di edifici sacri, merita quello che forse è il tempio romano meglio conservato dell'Africa. È un tetrastilo prostilo (con colonne lisce) consacrato probabilmente a Minerva, che si trova a Theveste (Tebessa, Algeria). Di inconsueta ricchezza sono le decorazioni scultoree che coronano in alto sia il pronao, sia le pareti della cella, formando non solo un fregio al di sotto della cornice, ma anche un attico al di sopra di questa: rispettivamente con bucrani, aquile e serpenti (il rilievo è così aggettante che l'architrave quasi scompare) e inoltre con trofei d'armi, cornucopie, festoni e altri motivi, fra cui spiccano Vittorie che sorreggono immagini di divinità.
In un quadro già abbastanza ricco di soluzioni fantasiose, ancor più peculiari sono i santuari di origine libica o punica che restano in funzione, con adattamenti cultuali, in età romana: sono talvolta piccoli monumenti rurali, oppure aree scoperte che costituiscono la sopravvivenza, con opportune variazioni d'uso, di antichi tofet dedicati a Baal. Talvolta questi complessi raggiungono dimensioni e articolazioni notevoli, come quello di Thinissut, nella penisola di Capo Bon, dedicato a Baal identificato con Saturno e a Tanit identificata con Caelestis. Il santuario è costituito da una serie di cortili attorno ai quali si dispongono numerosissimi ambienti. In altri casi, i luoghi di culto sono invece legati ad acque salutari, presumibilmente già venerate fin da tempi remoti: è il caso dell'Aqua Septimiana Felix di Thamugadi, comprendente tre templi, ma anche corti porticate e piscine, oppure del tempio-ninfeo di Zaghouan, monumentalizzazione scenografica (incentrata su un grande emiciclo concepito in origine per giochi d'acqua e canalizzazioni) della sorgente da cui ha origine l'acquedotto che serve Cartagine.
Gli edifici di culto presentano dunque in Africa una casistica realmente ampia: ma lo stesso si può dire, in un quadro estremamente variato e dinamico, anche di altri tipi di realizzazione architettonica. Gli archi onorari, a loro volta, sono numerosi e assai vari, dalle forme più semplici a quelle più complesse, fino a raggiungere talvolta formulazioni quasi "barocche". Occupano in genere uno snodo significativo dell'impianto urbano: ingresso del foro, passaggio da un quartiere all'altro, incrocio di arterie importanti o tratti significativi di tracciati viari, di cui talvolta sottolineano o dissimulano deviazioni più o meno percettibili.
Fra gli archi più semplici, possiamo citare quello a un solo fornice, quasi privo di decorazione, che Tiberio fece costruire nel 35/6 d.C. a Leptis Magna. Ma quell'arco, pur così essenziale, richiama una particolare attenzione per almeno tre motivi di ordine diverso: è stato costruito per celebrare una vittoria importante, quella su Tacfarinata, un capo indigeno che aveva messo a soqquadro il confine meridionale della provincia; è situato proprio in corrispondenza di una deviazione del cardine massimo e per di più in prossimità del mercato monumentale; era, infine, un arco, per così dire, in doppia copia, dato che lungo un cardine minore più a ovest, in prossimità di un'altra lieve deviazione e, per giunta, non lontano da un altro edificio di grande rilevanza (in questo caso il teatro) doveva sorgere una costruzione "gemella". I resti di quest'ultima sono meno cospicui: ma sembra che si trattasse davvero di un arco molto simile. A ben vedere, le deviazioni dei due cardini non sono dettagli trascurabili: il quartiere del mercato e quello del teatro, pur contigui e di impianto simile (strade che si incrociano ad angolo retto, isolati di forma rettangolare allungata), sono di orientamento leggermente ma sensibilmente diverso; i due archi non sottolineano quindi solo il cambio di direzione di due strade, ma l'accostarsi un po' faticoso di due interi settori della città.
Sempre a un solo fornice, ma di forme più elaborate, sono archi come quello di Traiano a Mactar, in cui il fornice stesso è inquadrato da un ordine architettonico costituito da colonne e frontone, mentre in corrispondenza degli spigoli sono colonne di diametro maggiore; o come quello di Caracalla a Cuicul, che presenta piloni decorati da colonne in avancorpo, le quali proseguono in alto con due edicole che delimitano le due estremità dell'attico; o come quelli di Settimio Severo ad Ammaedara e dei Tetrarchi a Sufetula, che presentano entrambi, sempre in corrispondenza dei piloni, coppie di colonne in forte aggetto su alto zoccolo. Molto variato è anche il quadro degli archi a tre fornici, anche se i tre più importanti (quello di Traiano a Thamugadi, quello di Antonino Pio a Sufetula, quello di Settimio Severo a Lambesi) hanno una caratteristica in comune, peraltro alquanto ovvia: il fornice centrale, destinato al transito dei veicoli, è nettamente maggiore dei due laterali, destinati al passaggio dei pedoni.
Fra questi tre archi il più notevole, o quanto meno il più discusso, è quello di Thamugadi, che si trova nel punto in cui (secondo un asse dall'orientamento diverso rispetto a quello del reticolo viario urbano) entra in città, attraversando le mura, la strada proveniente da Lambesi. O meglio, entrava, perché in prosieguo di tempo la città continuò a espandersi oltre il nucleo iniziale e perciò oltre quell'originario ingresso, che perse il suo significato. I piloni presentano coppie di colonne fortemente in avancorpo, le quali inquadrano non solo i fornici laterali, ma anche, sopra di queste, nicchie destinate a contenere statue; in alto, sull'attico, queste coppie di colonne terminano con timpani curvilinei. Soprattutto questo particolare conferisce all'architettura un certo sapore "barocco", che aveva indotto qualche studioso, malgrado l'iscrizione parli chiaramente di Traiano (per giunta ancora vivente, in quanto non ancora divus), a proporre una datazione più avanzata. A quest'ipotesi si può però controbattere che l'arco aveva un senso più preciso quando il limite dell'insediamento era ancora qui, e cioè proprio nel momento della fondazione traianea.
L'arco di Antonino Pio a Sufetula ha anch'esso una funzione di "snodo" urbanistico: è all'ingresso del foro, che già di per sé è abbastanza peculiare con il suo Capitolium costituito da tre templi diversi. Quest'arco ha una decorazione architettonica di una certa eleganza, ma solo dalla parte esterna: questa presenta semicolonne addossate ai piloni e, sopra i fornici minori, grandi nicchie; la facciata interna nulla. È notevole soprattutto, nell'Africa Proconsularis (rispetto a quanto accade in altre province), il numero di archi quadrifronti, o tetrapili: quattro in Tripolitania (ben tre a Leptis, uno a Oea) e due in Numidia (Theveste e Costantina). Ancor più degli altri archi che abbiamo visto finora, i quadrifronti hanno sempre valore di punto di riferimento nel reticolo viario urbano; presentano, inoltre, caratteristiche costruttive e/o elementi decorativi di grande interesse. A Leptis, l'arco di Traiano sorge sul cardine massimo, all'incrocio con la strada proveniente dal teatro e non lontano, oltretutto, dalla lieve deviazione del cardine stesso su cui insiste il preesistente arco di Tiberio, a sua volta non lontano dal meno noto "gemello". Il quadrifronte più importante e complesso di Leptis e dell'Africa Proconsularis (sia per la decorazione scultorea, sia per le caratteristiche della struttura) è quello di Settimio Severo, che fu eretto forse nel 203 d.C., anno in cui dovrebbe essersi effettuata una visita dell'imperatore nella provincia e quindi anche nella sua città natale.
Ma veniamo rapidamente anche agli altri tetrapili della Proconsularis. Nella non lontana Oea, l'arco di Marco Aurelio, interamente di marmo (fatto piuttosto inconsueto), sorgeva (sembra) all'incrocio delle maggiori strade della città, probabilmente nella zona del foro: questi dati topografici sono per la verità congetturali, in quanto la città antica non è ben riconoscibile sotto l'attuale Tripoli. La pianta dell'arco non è perfettamente quadrata ma rettangolare, in quanto la facciata orientale e quella occidentale sono leggermente più ampie (e sono anche più riccamente decorate): d'altra parte i veicoli potevano attraversare il monumento solo in senso est-ovest, mentre in senso nord-sud il passaggio era impedito da un gradino. Il fatto che la pianta sia rettangolare comporta inoltre difficoltà di raccordo con la cupola, che è ottagonale: raccordo risolto con qualche impaccio. Le facce maggiori presentano colonne in avancorpo, le minori no, ma la decorazione è sempre ricca: lesene scanalate oppure ornate di tralci di vite; fregi, ghiere dei fornici, cassettoni degli stessi fornici e della cupola recano altri tralci e inoltre girali e varie modanature. Sulle già ricordate facce maggiori, nicchie ospitavano statue: ne resta una di Lucio Vero, ma certo non poteva mancare quella dello stesso Marco Aurelio. In altri rilievi si vedevano Apollo e Minerva, divinità protettrici della città, ma anche trofei e barbari prigionieri. L'iscrizione era ripetuta su tutte e quattro le facce, ma si conserva solo su quella settentrionale: le titolature imperiali ricordate riportano al 163/4 d.C.; la dedica a Marco Aurelio e Lucio Vero intende celebrare presumibilmente le vittorie in Oriente.
I due quadrifronti della Numidia sono più tardi: quello di Costantina addirittura, se si può dire così, tardissimo, in quanto fu fatto costruire dal comes Aviziano intorno al 360 d.C. Anche se era ancora in piedi al momento dell'occupazione francese dell'Algeria, oggi è completamente scomparso: restano alcune riproduzioni, che ci mostrano un monumento molto semplice, quasi privo di decorazione architettonica e senza alcuna scultura. Ancora ben visibile è invece l'arco di Caracalla a Theveste: sorgeva all'incrocio fra il cardine massimo e uno dei decumani; in età bizantina fu inglobato (subendo qualche modifica) nelle mura, divenendo la porta settentrionale della città. La parte superiore è in gran parte perduta; si conservano però le iscrizioni di dedica a Settimio Severo divinizzato (databile al 214 d.C.), a Iulia Domna, a Caracalla; altri due testi, posti all'interno dei piedritti e oggi mutili, informano che l'arco fu fatto costruire per disposizione testamentaria di C. Cornelio Egriliano, prefetto della legio XIV Gemina. In corrispondenza dei pilastri vi sono coppie di colonne in forte avancorpo; i conci di chiave dei quattro fornici recano rilievi figurati, di cui tre ben riconoscibili: Minerva, la Gorgone, la Tyche della città.
Gli edifici per spettacolo sono rappresentati in varia misura: non vi è città importante che non abbia un teatro, e la stragrande maggioranza di quelli noti si data a partire dal II sec. d.C.; scarsamente rappresentata è la tipologia dell'odeion e quella del circo o ippodromo; non sono numerosi nemmeno gli anfiteatri, anche se alcuni, come quello di Thysdrus o quello di Leptis Magna, si segnalano per importanza e per forti peculiarità. A seconda della conformazione del terreno su cui le varie città erano andate sviluppandosi, i teatri presentano una cavea appoggiata al pendio naturale del terreno (Thugga, Cuicul, Thubursicum Numidarum, Cillium) oppure realizzata in muratura, con il consueto sistema di sostruzioni (Sabratha, Bulla Regia, Althiburos) o infine realizzata con tecnica mista, in parte sfruttando il terreno, in parte aggiungendo strutture costruite artificialmente (Leptis Magna, Simitthu, Ippona, Thamugadi).
A Cartagine si verifica una situazione piuttosto inconsueta, a riprova della molteplicità di soluzioni che l'architettura romana di volta in volta è in grado di produrre: una stessa altura ospita sia il teatro, che si appoggia su un suo fianco, sia un odeion, che si colloca sulla sommità, "voltando le spalle" con la sua cavea al teatro stesso. Non sempre, d'altro canto, la contiguità-complementarietà del teatro con il foro è evidente come in altre province; l'orientamento varia di volta in volta e appare condizionato dalle situazioni geografiche e paesaggistiche. Così, le cavee dei teatri di Thugga e di Cuicul guardano, al di là dei rispettivi edifici scenici, verso le ampie pianure che si estendono ai piedi di queste città costruite in altura; quelle di Leptis e di Sabratha guardano verso il mare. Le dimensioni non sono in genere molto grandi (anche le città del resto, come si è visto, sono in genere di proporzioni piuttosto contenute): il diametro della cavea si aggira in media attorno ai 60 m, per una capienza di 3000-3500 spettatori. Eccezionali si possono considerare quindi le dimensioni dei teatri di Utica, Cartagine, Sabratha e Leptis, con diametri (nell'ordine) di 110, 100, 93 e 88 m.
In summa cavea era spesso presente un tempio o un sacello; a Madauros, a Thugga e (ancora una volta) a Leptis e a Sabratha, tale sommità era inoltre coronata da un lungo portico. E ancora Sabratha va ricordata per la ricchezza della decorazione del pulpito e per la complessità dell'edificio scenico. Nel pulpito è raffigurato al centro l'imperatore, identificabile probabilmente con Settimio Severo, mentre sta compiendo un sacrificio affiancato dalla Tyche della città e dalla Dea Roma. La scena, che presenta colonne su tre ordini, ha un muro di fondo movimentato da tre esedre semicircolari in cui si aprono la porta regia (al centro) e le portae hospitales (laterali). Anche altri teatri dell'Africa romana presentano del resto scene piuttosto elaborate, in qualche caso arricchite da busti e statue.
La distribuzione degli anfiteatri si direbbe piuttosto capricciosa: in Numidia, come del resto nella Mauretania di cui si è già detto, sono pochissimi e si trovano a Gemellae, Theveste, Lambesi, Rusicade; nella Proconsularis, e cioè nella provincia in cui la Numidia stessa presto confluisce, sono più di venti e in qualche caso se ne conoscono due nella stessa città. Forse erano due, infatti, le arene di Cartagine e soprattutto quelle di Thysdrus (el-Djem), luogo privilegiato in Africa settentrionale per lo studio di questo tipo di edificio. Qui fu costruito all'inizio del II secolo un primo e più modesto impianto, che forse più che un anfiteatro vero e proprio era un ludus o scuola-caserma per gladiatori; ma più tardi, intorno al 230 d.C., si aggiunse uno degli edifici più celebri della Proconsularis, il cosiddetto Colosseo Africano.
Erano gli anni in cui era proconsole d'Africa Gordiano e per la città era un momento di grande opulenza, grazie all'abbondante produzione di olio: non era quindi del tutto sorprendente che Thysdrus potesse dotarsi di un monumento così notevole. Ma presto la situazione precipitò, forse a causa di una sovrapproduzione che determinò un calo dei prezzi, o di una eccessiva pressione fiscale da parte dell'imperatore Massimino: tanto che nel 238 un gruppo di produttori, contadini e soldati dichiarò decaduto Massimino, uccidendone il procuratore proprio nell'anfiteatro e fu acclamato imperatore lo stesso Gordiano. Quest'ultimo, ormai ottantenne, si associò al trono il figlio Gordiano II: ma regnarono entrambi per poche settimane, perché Massimino inviò contro Thysdrus la legio III Augusta, che la bruciò e la distrusse. Gordiano II morì in battaglia contro le truppe della Numidia, anch'esse fedeli a Massimino; Gordiano I si uccise a Cartagine. La drammatica vicenda fu decisiva per la vita della stessa Thysdrus, che non si riprese più; l'anfiteatro restò quindi in vita per meno di un decennio, ospitando per giunta l'episodio che fu all'origine della crisi.
L'aspetto e le dimensioni di questo edificio sono tuttavia impressionanti. L'asse maggiore misura quasi 150 m, la capienza è di circa 30.000 spettatori, ciò che colloca l'anfiteatro di el-Djem al sesto posto fra tutti quelli del mondo romano, dopo il Colosseo, dopo quelli di Capua, Pozzuoli e Verona e dopo quello, anch'esso africano, di Cartagine. La gigantesca struttura è realizzata in gran parte in blocchi squadrati di pietra rosata: forse l'unità di misura impiegata non era il piede romano ma il cubito punico, corrispondente a circa 50 cm. Gli spettatori si distribuivano in tre ordini di posti, più un portico in summa cavea, cui corrispondevano all'esterno tre ordini di arcate più un muro di coronamento (quest'ultimo in gran parte perduto). Un alto podio e una galleria anulare separavano le gradinate dall'arena: quest'ultima ospitava nel sottosuolo numerosi ambienti, gravitanti su un lungo corridoio centrale.
Come sappiamo anche da altri grandi anfiteatri (a partire proprio dal Colosseo), alcuni di tali ambienti erano destinati a ospitare gladiatori o belve in attesa di entrare in azione; altri ospitavano, probabilmente, macchinari capaci di far salire sull'arena, al momento opportuno, non solo i gladiatori o le belve, ma anche rocce, alberi o altri elementi di paesaggio capaci di fornire ai combattimenti (o anche a spettacoli ancor più crudeli, come l'esecuzione dei condannati a morte mediante esposizione alle belve) un abbellimento scenografico. Dell'anfiteatro di Cartagine, che pure era più grande, restano pochi avanzi. Quello di Leptis Magna invece è ben conservato, anche perché, con una procedura non troppo consueta, fu realizzato tagliando dall'alto una collina di arenaria.
Le terme che ‒ come del resto gli edifici per spettacolo ‒ erano una componente irrinunciabile della qualità della vita nel mondo romano, erano assai numerose in questa provincia romanizzatissima. Le dimensioni e la disposizione degli ambienti sono molto varie: si va dalle terme "imperiali" (così si definisce il tipo prevalente nell'Urbe), con sale talvolta vastissime allineate su ampie prospettive assiali, ai piccoli impianti "di quartiere", con ambienti disposti gli uni accanto agli altri senza pretese di monumentalità. Le terme più grandi sono a Cartagine e quasi rivaleggiano per estensione con quelle di Caracalla a Roma: sono note come Terme di Antonino, anche se, iniziate nel 145 d.C. (e cioè effettivamente all'epoca di Antonino Pio), furono ultimate nel 162 sotto Marco Aurelio. I tre ambienti maggiori sono allineati sull'asse mediano: piscina scoperta, sala centrale coperta a volta, laconicum (sala per i bagni di vapore) a pianta poligonale. Questo asse si incontra perpendicolarmente con un altro asse, costituito dagli ambienti destinati ai bagni caldi schierati lungo il lato di fondo e anch'essi a pianta poligonale come il laconicum: interessante l'insistenza su questa forma, in parte ispirata forse ad alcune soluzioni architettoniche adottate nella Villa Adriana di Tivoli. L'insieme appare ricco e policromo: i capitelli sono di marmo bianco; nelle colonne si impiega, oltre allo stesso marmo bianco, granito grigio o rosa e marmo di Simitthu ("giallo antico"). Numerosissime sculture erano distribuite, come sempre in questo tipo di edificio, nei vari ambienti: provengono da qui ritratti di Faustina Maggiore e Faustina Minore, nonché ovviamente dello stesso Antonino Pio. Anche le terme adrianee di Leptis Magna sono di dimensioni notevolissime. A Thamugadi le terme erano numerose: le più grandi sono quelle a nord, poste al di fuori (come pure altri importanti edifici di questa peculiare città) dell'originario nucleo urbano a pianta quadrangolare: la planimetria (a differenza di quanto avviene nel caso di Leptis) è impostata simmetricamente su un asse centrale. Le terme di Cuicul (databili al 183 o 184 d.C.) sono caratterizzate da un uso di pareti curvilinee ancor più insistito del solito e sono molto sviluppate in profondità.
Nel quadro dei mercati dell'Africa romana spicca quello di Leptis Magna (costruito fra 9 e 8 a.C.), sia per dimensioni, sia per la ricchezza delle soluzioni architettoniche adottate. Fatto non privo di significato, in quanto la città fondava la sua prosperità proprio sul notevolissimo volume dei commerci, sia per mare sia per terra, con la grande via in Mediterraneum che conduceva fino al limes meridionale e oltre, nella Phazania (Fezzan) e nel paese dei Garamanti. Quadrangolari e provvisti di tholos erano i mercati di Hippo Regius e di Cuicul. Il mercato di Thamugadi è noto come Mercato di Serzio, in quanto (come dice l'iscrizione) fu fondato all'inizio del III sec. d.C. da M. Plotius Faustus Sertius e dalla moglie Cornelia Valentina Tucciana Sertia: ha la parete di fondo ricurva, a costituire un ampio emiciclo in cui si aprono botteghe; al centro è una vasca quadrata. Anche questo edificio, come altri importanti monumenti di cui si è detto (Capitolium, terme), era fuori dell'originario nucleo della città traianea. All'interno, invece, di tale nucleo era un altro mercato, ma di dimensioni minori: si continua ad avere l'impressione, insomma, che i principali monumenti della città non avrebbero mai potuto trovare posto entro le mura.
Leptis Magna è in evidenza anche per quanto riguarda fontane e ninfei: in uno snodo alquanto irregolare del complesso reticolo urbano, lo stesso su cui si affacciano le terme adrianee (un'altra realizzazione architettonica, dunque, legata all'uso dell'acqua), si erge appunto un ninfeo di grandi dimensioni: non lontano si trovano la via colonnata e il foro severiano e con quest'ultimo il monumento dovrebbe essere più o meno contemporaneo. La facciata, che prospettava su un ampio bacino, era decorata da due ordini di nicchie inquadrate da colonnine di marmi di colori diversi; al centro descriveva un grande emiciclo. L'effetto scenografico doveva essere notevolissimo. A Cuicul si conosce invece una fontana che doveva avere un aspetto non del tutto dissimile da quello della Meta Sudans costruita a Roma presso l'Anfiteatro Flavio, con cui doveva essere più o meno coeva. Il bacino è circolare, e presenta al centro un alto cono, dalla cui sommità l'acqua scendeva nel bacino stesso. A Thugga esisteva un'altra fontana di forma analoga, ma se ne conserva oggi solo la base.
Interessante anche la situazione di un'altra tipologia architettonica: la biblioteca. Si tratta di un edificio che doveva essere abbastanza diffuso, ma che, al di fuori di Roma, non è testimoniato con particolare frequenza nel resto dell'Impero, se si eccettuano i celebri casi della Biblioteca di Adriano ad Atene e della Biblioteca di Celso a Efeso. In Africa ne abbiamo un esempio interessante a Thamugadi, costruito probabilmente nel III sec. d.C. per conto di un tale M. Iulius Quinctianus Flavius Rogatianus: attraverso una corte porticata si entrava in un ambiente semicircolare, che recava alle pareti gli armadi per i volumina (restano avanzi ben riconoscibili delle nicchie entro cui gli armadi stessi erano alloggiati) e che fungeva da sala di lettura; due ambienti laterali stretti e lunghi avevano forse funzione di magazzini, a meno che non costituissero un'intercapedine per isolamento termico.
Concludiamo questo viaggio attraverso le tipologie monumentali pubbliche dell'Africa Proconsularis con i porti: gli esempi più notevoli sono a Cartagine, dove vengono riadattati quelli di età preromana, che avevano contribuito in misura decisiva allo sviluppo e alla prosperità della città fenicia, e, ancora una volta, a Leptis, il cui impianto è assai noto e studiato. A Cartagine il porto punico era costituito da un bacino rettangolare per le navi mercantili e da uno circolare per quelle militari, comprendente (in una sorta di isolotto artificiale centrale) i navalia o arsenali: un doppio porto di grande efficienza, che non poteva non essere riutilizzato in età romana. I rimaneggiamenti però furono abbastanza consistenti: soprattutto si intervenne sui navalia, creando una piazza circolare con al centro un tempio.
Anche nell'ambito dell'edilizia privata ci imbattiamo in tipologie piuttosto differenziate, a cominciare dalle case e dalle ville. Già prima dell'arrivo dei Romani non mancavano, a Cartagine, interessanti esempi di architettura residenziale, con isolati quadrangolari come quelli scoperti sulla collina di San Luigi. Nella sezione orientale della provincia, quella che oggi fa parte della Repubblica di Libia, le abitazioni (a quel che sembra) erano in genere più semplici; interessanti però, soprattutto in area berbera, alcune soluzioni con ambienti sotterranei che, in varia forma, si affacceranno anche in epoche successive. Nella fase seguente alla conquista della regione, e cioè nel II-I sec. a.C., sembrano prevalere planimetrie di derivazione ellenistica, con numerosi ambienti articolati intorno a uno spazio aperto. È il caso, a Utica, della Casa dei Capitelli Figurati e della Casa della Cascata: in quest'ultima, più ampia, lo spazio aperto è un viridarium. A Sabratha una casa del I sec. a.C. presenta inoltre un elemento tipicamente romano, il criptoportico.
La maggior parte delle case a noi note, però, è di epoca imperiale avanzata. Numerose sono quelle che conosciamo a Thamugadi: entro un perimetro che si mantiene tendenzialmente di forma e dimensione costante, nella regolarità quasi assoluta dell'impianto a scacchiera all'interno delle mura (all'esterno, come si è visto, questa regolarità viene meno), le dimore adottano soluzioni diversificate. Ben più libere, però, sono le scelte architettoniche testimoniate nelle case di Thugga: qui, a causa dei sensibili dislivelli lungo cui si distribuisce l'abitato, le dimore presentano dimensioni e disposizioni irregolari e incostanti. Alcune unità sono molto grandi; inoltre, spesso gli ambienti sono articolati su due piani, magari con ingressi che si aprono su strade poste su livelli differenti. Ma la situazione forse più peculiare è quella che si verifica a Bulla Regia, città situata in una regione corrispondente all'attuale Tunisia interna, dove si raggiungono temperature estremamente elevate: è quasi certamente per questa ragione che le case presentano un ambiente inferiore completamente sotterraneo, tale da offrire refrigerio ai residenti. Anche qui, comunque, prevale lo schema abituale degli ambienti articolati intorno a un cortile: quelli della Casa della Caccia sono particolarmente numerosi e complessi.
Si sa, peraltro, che a Pompei, a Ercolano, a Roma stessa nella Domus Augustana sul Palatino, a Villa Adriana (anche in residenze imperiali, quindi) la presenza di ambienti sotterranei (criptoportici o altro) è ben attestata: ma non è la stessa cosa. In ambiente africano, è piuttosto da ricordare quanto detto, e cioè che sono attestate in area berbera preromana case scavate nel terreno: Bulla Regia potrebbe costituire un'altra tappa di un'ininterrotta tradizione in tal senso, che ancor oggi è riproposta per esempio, sia pure in forme diverse, nel villaggio di Matmata nella Tunisia meridionale. L'edilizia residenziale in campagna, a differenza dell'architettura privata in città, non offre un'esemplificazione particolarmente abbondante: non si sono trovati finora resti di molte ville e fattorie, malgrado la nota fertilità della regione e malgrado abbiamo importanti raffigurazioni musive di grandi residenze signorili tardoantiche. Rimangono invece resti assai rilevanti, in Tripolitania, di ville affacciate sul mare: anche se la produzione agricola non è trascurata, la conformazione e la distribuzione planimetrica degli ambienti risente soprattutto dell'esigenza di godere il più possibile di quella posizione.
A Leptis Magna, la Villa del Nilo (che peraltro non è troppo lontana dal centro della città) è di forma piuttosto allungata, parallela alla costa ed è disposta su più piani su un pendio abbastanza sensibile. Un lungo corridoio funziona come elemento di raccordo per numerosi ambienti: notevole è anche la presenza di un comparto termale ed è qui fra l'altro che si trova il mosaico da cui deriva la denominazione convenzionale dell'edificio. Il complesso dovrebbe risalire ai primi decenni dell'età imperiale. Sempre nell'area di Leptis, la villa di Silin si impone anch'essa all'attenzione per la sontuosità dell'impianto architettonico e per la complessità della decorazione musiva. A Tagiura, la Villa della Gara delle Nereidi fu costruita ai tempi di Antonino Pio, ma fu oggetto successivamente di ripetuti interventi e rimaneggiamenti: in una sorta di "simbiosi" con il mare, si distende lungo la riva con vari corpi di fabbrica aperti verso la battigia e raccordati da corridoi, terrazze e criptoportici. A Zliten è un'altra grande villa che ha conosciuto anch'essa vari rifacimenti e che appare anch'essa in simbiosi con le onde: deve la sua fama, però, soprattutto ai mosaici.
In tutto l'Impero hanno grande importanza, nel quadro dell'architettura privata, i monumenti funerari: questo vale in misura ancora maggiore per l'Africa Proconsularis, dove già in età preromana esistevano notevolissimi esempi libici (dolmen, tumuli di pietre, circoli di pietre o cromlech, tombe a camera) o fenicio-punici: le tipologie della tomba a pozzo, ma soprattutto del mausoleo a torre. Di quest'ultimo tipo di monumento conosciamo, sempre per l'epoca preromana, un solo esemplare, che in compenso è celebre: quello costruito a Thugga nel II sec. a.C. Dedicato forse a un principe indigeno, si ispira a influssi ellenistici e si può in qualche modo collegare con monumenti noti nella Penisola Iberica (Sepolcro degli Scipioni presso Tarragona) e in Sicilia (Tomba di Terone ad Agrigento). Con qualche modifica, l'idea del mausoleo a torre viene ripresa e ha grande diffusione in età imperiale. In genere, su una base a pianta quadrata sorge un primo piano contenente la camera sepolcrale, cui si sovrappone a sua volta un secondo piano che spesso è aperto in facciata, assumendo l'aspetto di un'edicola o di un tempietto. Le forme di coronamento, a quel che si può ricostruire, sono varie: a spioventi, a cupola, a piramide; gli spigoli sono di norma decorati da lesene. Gli esempi più noti sono ad Ammaedara, a Mactar, nella zona di Leptis; quello di Cillium, di età flavia, è addirittura a tre piani; diverso da tutti gli altri, e particolarmente imponente, è quello di Qasr Doga in Tripolitania, databile (in mancanza di elementi di datazione sicuri) al II-III sec. d.C. S. Aurigemma ha proposto una ricostruzione con due poderose ali laterali in avancorpo articolate in tre ordini sovrapposti, l'ultimo dei quali costituito da un colonnato.
A Ghirza, nel deserto a sud della Tripolitania (deserto che, qui come altrove, in antico non era del tutto arido: le condizioni climatiche e ambientali si sono molto modificate nel corso dei secoli), si conosce una singolare necropoli: più che di mausolei a torre si tratta di sottili, altissime guglie, con una decorazione scultorea assai peculiare. Nello stesso sito è presente anche un mausoleo in forma di tempio periptero. I monumenti sono databili in età tardoimperiale: la necropoli doveva appartenere a una piccola comunità agricola, residente in un villaggio o in una fattoria di cui non esistono però tracce sicure, in un sito in cui comunque fu insediata nel III sec. d.C. una guarnigione di guardia al limes tripolitano e in cui era possibile fare tappa sulla via che attraversava il deserto. Qualche studioso ha anche ipotizzato che queste sagome così sviluppate in altezza, collocate in una pianura sconfinata, potessero avere non solo la funzione di vero e proprio monumento funerario, ma anche quella di segnale visibile da lontano per indicare la presenza dell'abitato o di un pozzo.
Di epoca forse anche più tarda (ma la cronologia e l'interpretazione sono state a lungo discusse) e forse inquadrabili fra i monumenti cristiani, sono due mausolei caratterizzati dalla forma molto larga: quello ottagonale di Blad Guitoun in Cabilia e quello circolare detto appunto Tomba della Cristiana presso Algeri, entrambi decorati da colonne. Questa tomba si impone all'attenzione per la sua forma a tumulo (non si sa come fosse, in alto, il coronamento), con corpo cilindrico di base decorato da 60 semicolonne con capitelli ionici. Le datazioni proposte spaziano dal I sec. a.C. (vi si possono cogliere analogie con un monumento sicuramente preromano, il cosiddetto Medracen in Numidia) al tardoantico: suggestiva l'ipotesi che potesse trattarsi della tomba di Giuba II, del monumentum commune regiae gentis di cui parla Pomponio Mela. Sicuramente tardi sembrano invece i cosiddetti Djedar al margine occidentale del Tell, nell'odierna Algeria occidentale. Sono mausolei a pianta approssimativamente quadrata, rivestiti all'esterno da conci di pietra (che in qualche misura ne regolarizzano la forma), ma costituiti all'interno da accumuli di pietrame: vengono attribuiti, sia pure dubitativamente, a principi indigeni (forse cristianizzati) emersi in seguito alla crisi dell'Impero e alla dissoluzione del potere centrale. Sia i mausolei, sia i Djedar ospitano inoltre al loro interno camere funerarie o corridoi: questi spazi sono però disposti in differenti maniere.
Il patrimonio di sculture e soprattutto di mosaici che l'Africa Proconsularis ci ha lasciato in eredità è vario, abbondante, quasi esuberante. Forse in misura più ampia e differenziata rispetto alle altre province qui si coglie il multiforme intreccio di temi e di atteggiamenti stilistici derivati dall'arte romana urbana con elementi propri di un perdurante gusto locale preromano: e anche quest'ultimo a sua volta appare composito, un po' libico-berbero, un po' fenicio-punico. Espressione della tendenza punica sono, fra l'altro, le numerosissime stele dedicate a Saturno, divinità lungamente venerata in queste regioni non solo per la sua rilevanza nel Pantheon romano, ma anche per la sovrapposizione (interpretatio) con il dio fenicio Baal. Oltre alle stele votive vere e proprie, sono dedicate a questo dio (quasi per porre i defunti sotto la sua protezione) anche le stele funerarie: ad esempio, la Stele Boglio (dal nome di un collezionista che ne fu per qualche tempo proprietario), scoperta a Siliana e conservata a Tunisi. La stele si data in genere in età tardoimperiale e presenta una decorazione particolarmente fitta, si potrebbe dire sovrabbondante. Nel frontone è un'aquila; nella lunetta, Saturno affiancato dai Dioscuri, poi il dedicante, Cuttinus, con la moglie e le figlie; infine scene di aratura, mietitura, trasporto di covoni su carri, in un contesto che sta a indicare presumibilmente l'attività agricola come prerogativa del dedicante stesso. Il tutto è raffigurato in forma semplificata, con una schematizzazione dei dettagli (pieghe degli abiti, corazze dei Dioscuri, vello degli animali, spighe e covoni di grano) che sembra indulgere al decorativismo, ma che non impedisce una chiara lettura dei contenuti, sottolineando anzi i dettagli che rendono le figure meglio comprensibili. Lo stesso si può dire per i rilievi che adornano i mausolei della necropoli di Ghirza in Tripolitania: nei fregi sono raffigurate ancora scene di vita agricola, ma anche di caccia e di dromedari in carovana (erano questi gli orizzonti di chi viveva nell'insediamento).
Il filone in cui eccelle la scultura dell'Africa Proconsularis è però quello dei ritratti e delle statue-ritratto. A Thugga, in una delle tre celle del tempio di Saturno, è stata rinvenuta la statua (Tunisi, Museo del Bardo) di un personaggio vestito di toga: forse un cittadino benemerito, certamente una figura di grandissimo spicco, in quanto raffigurato con una corona turrita e quindi in veste di protettore della città (in genere, tali corone sono prerogativa di divinità femminili, interpretabili come Tyche), e soprattutto in quanto collocato in un ambiente sacro. Contrastano un po' con questa sostanziale eroizzazione e con l'aulica presenza della toga il volto impietosamente rugoso, i tratti fortemente marcati, la corta e ispida barba resa mediante piccoli colpi di scalpello. La datazione dovrebbe essere di poco successiva all'anno in cui fu dedicato il tempio, e cioè al 195 d.C., oppure un poco più tarda, se si tiene conto del tipo di barba.
Una statua rinvenuta a Massicault (Tunisi, Museo del Bardo) presenta anch'essa caratteristiche piuttosto singolari, che ne rendono ardua l'interpretazione. Un uomo, apparentemente di età abbastanza avanzata, reca una pelle di leone (come Ercole, ma il leone è anche uno dei gradi dell'iniziazione mitriaca); il volto è reso in maniera efficace; l'espressione degli occhi (fortemente segnati con l'uso del trapano) è intensa, la corta barba ha, come quella della statua di Thugga, un aspetto un po' ispido. Contrasta con questa efficacia rappresentativa l'esecuzione del corpo, che invece è più approssimativa: non si cura molto della correttezza delle proporzioni; è caratterizzata da un certo appiattimento delle forme e dà quasi l'impressione di un rilievo più che di una statua a tutto tondo.
Nella statua di un sacerdote proveniente da Cartagine (Tunisi, Museo del Bardo) l'espressione è ancora più intensa e ancora più impietose sono le rughe che sottolineano l'età. Meno accentuato in questo senso, ma caratterizzato da tratti somatici, come i capelli crespi, che rivelano l'origine locale, è il ritratto di un eminente personaggio di Leptis. Lo possiamo vedere in una statua conservata a Tripoli e in questo caso possiamo inoltre dargli un nome (anch'esso rivela un'origine fenicio-punica): è Iddibal Caphada Aemilius, noto sia come ricco commerciante attivo nei traffici verso il retroterra, sia come finanziatore di monumenti nella sua città. Pur nella caratterizzazione "etnica", il ritratto sembra tuttavia qualitativamente, più dei precedenti, di livello "urbano".
A Leptis, tuttavia, ancora più importanti delle sculture a tutto tondo sono i rilievi che decorano i celebri monumenti di età severiana: il foro, la basilica, l'arco. L'intenso uso del trapano corrente scava solchi che delimitano le forme creando forti chiaroscuri: elemento presente, anche se non evidentissimo, nei dadi con Gigantomachia che, nel foro, sostenevano le colonne del tempio della gens Septimia; più evidente nei clipei con teste di Medusa e di Atargatis che decoravano il portico del foro stesso e ancor più nei pilastri della basilica. Vale la pena di ricordare i temi presenti in questi pilastri: nei due che delimitavano l'abside sud-orientale erano raffigurate vicende del mito di Ercole (divinità assimilabile con il Melqart fenicio-punico), nei due che delimitavano l'abside nord-occidentale era la volta di Liber Pater - Bacco (assimilabile al fenicio-punico Shadrapa) con Satiri, Menadi e altre figure del corteggio dionisiaco: tutte queste figure erano inserite in girali vegetali dall'aspetto assai rigoglioso. Queste sculture sono attribuite agli artisti della cosiddetta Scuola di Afrodisia in Asia Minore. Alla stessa scuola si attribuiscono anche i rilievi, forse perfino più celebri, dell'arco quadrifronte. Dal punto di vista stilistico-iconografico sono da sottolineare, oltre all'intenso chiaroscuro, una tendenza alla presentazione frontale e paratattica delle figure, o almeno di quelle principali, che quasi prelude alla scultura tardoantica e bizantina.
Grandissima, nella provincia, è anche la rilevanza della produzione musiva. Case, ville, terme avevano pavimenti, anche estesissimi, decorati con mosaici dai colori intensi, espressione di un gusto più acceso che altrove è frutto della disponibilità dei materiali: paste vitree, marmi locali policromi. Va anche detto che, probabilmente, il mosaico e la pittura conobbero una grande fioritura in tutto il mondo mediterraneo nel III e nel IV sec. d.C.: altrove, però, buona parte di questo immenso patrimonio è andata perduta. D'altra parte, il fatto che in Africa esistessero così numerosi edifici, anche privati, di alta qualità, tali da comprendere pavimentazioni così ricche, è conseguenza del notevole grado di benessere raggiunto da molte potenti famiglie, dovuto all'abbondanza della produzione agricola e vinicola e al successo incontrato da vasi e lucerne fabbricati in queste regioni.
Non di rado i mosaici sono grandi composizioni unitarie, che occupano l'intera estensione del pavimento da decorare: non si hanno cioè, come invece spesso altrove, riquadri figurati che costituiscono solo una parte di un contesto consistente prevalentemente in motivi ornamentali e geometrici, sia pure variati e finemente eseguiti. In alcuni casi (mosaici di Cartagine, oppure di Tabarka, sul versante settentrionale della Tunisia, conservati nel Museo del Bardo) sono raffigurate proprio le grandi residenze di campagna o le ville marittime, con la vita che vi si svolgeva; oppure scene di caccia (Costantina, Thysdrus, Cuicul) o di pesca (Hadrumetum, Casa del Trionfo di Dioniso); ma si conoscono anche numerosi mosaici con soggetti mitologici (Venere marina a Thamugadi, Achille presso Licomede a Hadrumetum; inoltre nella stessa città il già accennato Trionfo di Dioniso, nella medesima casa dove era presente un'altra composizione con scena di pesca) o addirittura con riferimenti alla storia della letteratura: da ricordare, sempre a Hadrumetum, il celeberrimo riquadro con Virgilio seduto fra le Muse Clio e Melpomene.
Qualche volta, come nelle terme di Gebel Oust in Tunisia, compaiono anche in Africa emblemata con temi figurati (in questo caso le Quattro Stagioni) immersi in ampie composizioni geometriche. A Leptis Magna, nella Casa di Orfeo, alla scena principale con il cantore fra le fiere si accompagnano riquadri minori raffiguranti temi già visti altrove, e cioè scene di caccia e di pesca. Ancora scene di pesca, ma nel peculiare panorama del grande fiume egiziano, compaiono in un mosaico della Villa del Nilo. Nella sontuosa villa di Silin, in una grande varietà di tappeti musivi, sono presenti, accanto alle grandi scene figurate di cui si sono visti così svariati esempi, anche eleganti composizioni geometriche.
A Zliten, non lontano da Leptis, in una grande villa costiera, il fregio che corre lungo i bordi di un grande pavimento (conservato nel Museo di Tripoli) era costituito da scene di circo e di anfiteatro: combattimenti fra gladiatori, lotte fra gladiatori e belve e anche esecuzioni di condannati a morte mediante esposizione alle belve stesse. Questo mosaico si data in età flavia (proprio grazie all'esame dell'armamento dei gladiatori) e precede nel tempo, perciò, tutti gli altri noti nella provincia. Nelle figure dei condannati si sono riconosciuti i già ricordati Garamanti, popolazione della Phazania (Fezzan), ben oltre il limite meridionale dell'Impero. Tenne a lungo buoni rapporti con l'Urbe, fornendo ai mercatores romani animali rari per i giochi dell'anfiteatro, avorio e altre merci preziose e rare: in certi momenti vi furono però anche duri contrasti, come nel 69 d.C., quando gli abitanti della rivale Oea li aizzarono appunto contro Leptis stessa. La risposta fu una spedizione punitiva, in cui vennero fatti numerosi prigionieri: potrebbero essere proprio loro gli sfortunati protagonisti raffigurati nel mosaico.
Bibliografia
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di Sergio Rinaldi Tufi
Insediamento militare della Numidia (lat. Lambaesis), nell'Algeria nord-occidentale, edificato nella pianura alle pendici del monte Aurasius. L. fu sede, a partire dal II sec. d.C., della legio III Augusta e, quando venne definitivamente creata la provincia Numidia nel 197/8 d.C., ne divenne la capitale.
In età flavia, fu costruito a L. un primo castrum di proporzioni alquanto ridotte (120 × 147 m ca.), adatto a contenere circa 500 uomini, cioè una vexillatio o una coorte. In età adrianea, in occasione di una visita dell'imperatore fu innalzata una colonna per celebrare l'evento, ma soprattutto fu costruito, non troppo lontano, un castrum molto più grande (400 × 520 m). La pianta era quella abituale, le porte erano a due fornici fiancheggiati da torrioni; fra gli edifici superstiti spicca il cosiddetto praetorium, che in realtà è l'ingresso monumentale del praetorium stesso. L'imponente rovina è pertinente a una ricostruzione effettuata dopo un terremoto che si verificò nel 268, ma probabilmente le fasi precedenti non erano del tutto diverse: è una sorta di grande quadrifronte, le cui facciate sono decorate da colonne in avancorpo.
Un centro abitato si formò poco lontano dal castrum, collegato a questo attraverso un asse stradale noto come via Septimiana. Di indubbia rilevanza urbanistica è l'arco di Settimio Severo, che chiude la prospettiva della via Septimiana e si impone all'attenzione per la gradevole semplicità dei dettagli: il fornice maggiore e i fornici minori presentano una ghiera a tre fasce, paragonabili a quelle di un architrave, mentre gli spigoli dei piloni sono decorati da lesene lisce. Da sottolineare anche la tecnica costruttiva: i blocchi appaiono squadrati con particolare cura. Tra i luoghi di culto a L. particolarmente notevole è il santuario consacrato a Esculapio, alla Salus, a Iuppiter Valens e a Silvano, databile al 162 d.C. Oltre al tempio vero e proprio (peraltro inserito in una singolare struttura curvilinea) è presente una moltitudine di cappelle e di edicole minori; vi sono inoltre, come in genere negli asklepieia, bagni, portici, ospedali. Non solo luogo di culto, dunque, ma anche luogo di cura, connesso con sorgenti salutari: non è da escludere che il sito fosse assiduamente frequentato anche prima di questa sistemazione monumentale.
Bibliografia
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di Sergio Rinaldi Tufi
Città della Tripolitania (gr. ΛέπτιϚ; lat. Lepcis, Leptis Magna), tra le più antiche colonie fenicie dell'Africa, entrò a far parte dell'orbita romana durante la guerra giugurtina. Municipio sotto Claudio (o Nerone), ebbe lo status di colonia sotto Traiano. L.M. ebbe un grande sviluppo grazie al favore di Settimio Severo, per declinare poi nella seconda metà del III e nel IV secolo e spegnersi definitivamente alla conquista degli Arabi nel 644 d.C. L'originario insediamento punico era vicino all'approdo, in corrispondenza dello sbocco del Wadi Lebdah, e doveva avere un assetto irregolare: in questi casi si pensa in genere a un condizionamento orografico, ma in quest'area le ondulazioni del terreno non sono molto ripide e accentuate.
In ogni caso, qui sorse in età augustea il foro (detto convenzionalmente Foro Vecchio, per distinguerlo da quello che sarebbe stato più tardi creato, il Foro Nuovo di Settimio Severo, l'imperatore che era nato proprio in questa città nel 146 d.C.), i cui edifici (templi, curia) sono costruiti per aggregazioni successive e non nell'ambito di un progetto unitario. Alle spalle di questo nucleo della prima età imperiale, sulla riva sinistra del wādī, si svilupparono due quartieri imperniati su un cardine massimo che poi è l'inizio della grande strada che conduce in Mediterraneum, cioè verso l'interno del continente: quartieri assai regolari, basati su isolati di forma rettangolare allungata e strade che si incrociano ad angolo retto. Ma vi è un leggero mutamento di asse nell'area più a sud rispetto a quella a nord: mutamento dovuto a una flessione del cardo, a sua volta determinata da due esigenze: raccordarsi non solo alla direttrice verso l'interno, ma anche a quella della grande strada costiera Cartagine-Alessandria; e non discostarsi troppo dall'orientamento della sponda del Lebdah.
I due quartieri sono forse pianificati unitariamente, ma lo sviluppo è graduale, con l'inserimento progressivo di edifici talvolta assai notevoli: il teatro e il chalcidicum nell'ambito della stessa età augustea, il mercato in età tiberiana, e così via. L'espansione della città, e i successivi limiti man mano raggiunti, sembrano sottolineati da una serie di archi che sorgono via via lungo il cardine massimo. I due archi gemelli di Tiberio (uno lungo lo stesso cardine massimo, uno su un cardine parallelo), poi i tre quadrifronti di Traiano, di Antonino Pio (detto Porta di Oea in quanto da qui partiva anche la strada che conduceva a Tripoli), di Marco Aurelio. Una cerniera fra quest'area e il corso del wādī è rappresentata dalle splendide terme di Adriano, apparentemente "fuori asse" rispetto a tutto, ma forse progettate proprio con funzione di raccordo, oltre che orientate in base all'esposizione di determinati ambienti al sole: cosa certo non inconsueta in questo tipo di edificio. Ancora più direttamente condizionati dal corso del Lebdah e dall'insenatura in cui quest'ultimo sfocia sono, rispettivamente, il Foro Nuovo severiano e il porto monumentale, realizzato in un primo momento da Nerone ma poi ingrandito ancora una volta da Settimio Severo.
All'antico foro che si era sviluppato presso il mare per successione di edifici durante la prima età imperiale si aggiunge con Settimio Severo un complesso dovuto a un ingegnoso progetto unitario. Il forum novum è costituito dalla piazza porticata del foro vero e proprio, orientata in senso nord-est/sud-ovest; dal tempio della gens Septimia, ottastilo prostilo su alto podio, addossato alla parete di fondo sul lato sud-ovest; alla basilica, situata trasversalmente all'estremità nord-est. La preesistenza di assi stradali orientati in maniera non del tutto rigorosa fa sì che l'insieme foro-basilica abbia una pianta tendenzialmente rettangolare ma non del tutto regolare, in cui la basilica ha un asse non esattamente perpendicolare a quello del foro. Questa divergenza è dissimulata dalla realizzazione, fra il muro del foro (che al centro presenta un'esedra) e quello della basilica, di una serie di ambienti di grandezza decrescente.
Lo sforzo di conciliare la regolarità delle componenti interne (basilica, piazza porticata) con l'irregolarità del perimetro esterno del complesso si manifesta anche lungo il lato sud-est, con botteghe aperte sulla strada, anch'esse di grandezza decrescente. Inoltre, il monumento presenta, in ogni sua parte, una decorazione figurata di notevole prestigio: nel tempio, i plinti delle colonne in facciata recano rilievi con Gigantomachia; i portici della grande piazza sono ad arcate e nello spazio di risulta fra un arco e l'altro recano clipei decorati con testa di Medusa e, talvolta, di Nereide, o, secondo un'interpretazione più recente, di Atargatis (dea siriana: la scelta di questo tema è probabilmente un ossequio alle origini dell'imperatrice Iulia Domna, nata da una cospicua famiglia sacerdotale di Emesa); nella basilica, infine, che ha una pianta ad absidi contrapposte, i piloni che immettono in ogni abside sono caratterizzati da girali vegetali densi e fittamente chiaroscurati, popolati da figure di divinità e di animali. Tutte queste decorazioni sono state attribuite a scultori della scuola di Afrodisia, in Asia Minore. Già imponente così come ora lo conosciamo, il monumento era forse in origine ancora più grande: un grande spazio solo parzialmente indagato a est del forum novum è stato infatti di recente interpretato come una sua duplicazione. Se questa ipotesi fosse esatta, saremmo in presenza di un complesso di grandiosità inusitata.
Qualificano l'assetto monumentale della città gli archi onorari, una tipologia monumentale qui a L.M. ampiamente documentata. L'arco di Traiano, interamente costruito di calcare grigio e privo di decorazione scultorea, era di una semplicità non priva di eleganza. Piuttosto complicato e singolare il gioco delle colonne in avancorpo: quelle poste all'esterno dei piloni poggiano su alti plinti, mentre quelle messe in opera all'interno del quadruplo fornice poggiano su basamenti più bassi, ma sorreggono la crociera interna, assumendo quindi una funzione portante. L'arco di Marco Aurelio si trova sul decumano massimo, nel settore occidentale della città, un'area che nel Tardo Impero resterà al di fuori delle mura (non lontano è un altro arco, risalente all'età di Antonino Pio che, con il contrarsi dell'abitato nello stesso periodo, diventerà la porta della città sulla strada per Oea): conservato, però, solo in minima parte, consente di ricostruire solo in alcuni dettagli l'aspetto originario. Il particolare più interessante è costituito dalle colonne che sporgono per tre quarti in corrispondenza dei quattro spigoli esterni.
L'arco più imponente e impegnativo è in ogni caso quello di Settimio Severo: il monumento sorge all'incrocio fra cardine massimo e decumano massimo, laddove inizia anche la via in Mediterraneum; era sopraelevato su tre gradini ed era possibile quindi attraversarlo solo a piedi, mentre per i veicoli costituiva in pratica uno spartitraffico. L'architettura è piuttosto complessa (e per la ricostruzione si è giunti solo di recente a una formulazione definitiva, dopo tante proposte e polemiche), in quanto l'arco termina in alto con un ben visibile attico e sulle quattro facce sono presenti, a inquadrare i fornici, colonne in avancorpo e semitimpani triangolari, che ricordano trabeazioni e coronamenti di Arabia e di Siria.
La struttura è in calcare, ma è interamente rivestita di una ricchissima decorazione di marmo: alcune lesene angolari sono ornate di tralci di vite, altre di trofei con prigionieri; i fregi presentano festoni alternati a figure di piccoli Geni, oppure girali di acanto combinati con figure di animali; nei capitelli corinzi, fra le foglie di acanto si inseriscono aquile; gli estradossi dei fornici (forse solo quelli delle due facce prospettanti il decumano) recano Vittorie librate su globi a tendere corone. Gli architravi e le ghiere dei fornici sono ornati da file di perline e di astragali, mentre sono particolarmente vistosi i cassettoni delle volte, con grandi fiori entro cornici di ovoli e di astragali. Se si sta qui descrivendo con tanta minuzia la decorazione secondaria, è per sottolineare la sua esuberanza: manca ancora da esaminare la parte più importante, e cioè ben dodici rilievi. In otto pannelli minori nelle facce interne dei pilastri sono raffigurate una scena di battaglia sotto una città assediata, una scena di sacrificio, una con Settimio Severo e il figlio Caracalla insieme con le divinità leptitane, mentre negli altri cinque sono raffigurati dei e dee dell'Olimpo e la Tyche della città. Ma ad attirare l'attenzione sono soprattutto le composizioni maggiori, e cioè i quattro grandi pannelli sull'attico: due con processioni trionfali (uno dei quali molto mal conservato); uno con scena di concordia Augustorum, e cioè con Settimio Severo, la sua famiglia e un alto ufficiale (probabilmente il fido Plauziano) alla presenza della Tyche della città; e infine uno con scena di sacrificio alla presenza di Settimio Severo e Iulia Domna.
Più che di Arco di Settimio Severo (come viene comunemente definito, in assenza di dati epigrafici, immaginando un collegamento con la visita già ricordata) si dovrebbe parlare di Arco dei Severi, data l'insistita presenza di tutti i membri della famiglia imperiale. Di queste composizioni maggiori, la più significativa appare quella con processione trionfale (o meglio, quella oggi più conservata delle due che presentavano questo tema): su un carro decorato con le divinità protettrici della città e con sullo sfondo un faro (elementi che consentono di ambientare la scena proprio a L.M.: è per questo che bisogna parlare appunto di "processione trionfale" e non di trionfo vero e proprio, in quanto quest'ultimo poteva svolgersi solo a Roma), si vedono ergersi Severo e i figli; davanti e dietro al carro avanzano, a piedi e a cavallo, personaggi togati, ma anche barbari prigionieri. I pannelli visibili sull'arco ricostruito in situ sono calchi, mentre gli originali sono conservati nel Museo di Tripoli.
Nella stessa L.M. esiste anche una singolare derivazione "miniaturistica" della tipologia dell'arco quadrifronte: è presente nel mercato, fra altre importanti realtà architettoniche, un piccolo tetrapilo, che in realtà fungeva da base per una biga (ora perduta) dedicata nel IV sec. d.C. a un tale Porfirio, il quale, secondo l'iscrizione, aveva offerto alla città quattro elefanti (ferae dentatae): era forse un ricco commerciante, come sembrano suggerire le navi raffigurate sui piedritti. Riguardo agli edifici per lo spettacolo, è notevole l'anfiteatro, inaugurato sotto Nerone nel 56 d.C.; nel 172 sarebbe stato aggiunto il circo, costituendo un unico complesso. I gradini dell'anfiteatro erano rivestiti di lastre calcaree, alcune delle quali recavano in neopunico i nomi dei proprietari dei posti: personaggi di origine orientale, che forse avevano contribuito alle spese (Alessandrini, Nicomedensi, ecc.). Sopra le gradinate settentrionali era un sacello dedicato a Venere Efesia; anche qui sotto l'arena erano gallerie sotterranee, come accade anche negli anfiteatri di Sabratha e di Lambesi. Il circo aggiunto nel 172 d.C. è l'unico dell'Africa di cui restino avanzi cospicui: era posto in collegamento con l'anfiteatro mediante una galleria praticata nel banco roccioso ed era lungo circa 450 m. Le gradinate per gli spettatori erano realizzate con due tecniche diverse: quelle a nord erano ricavate nella stessa altura in cui era stato inserito l'anfiteatro, quelle a sud erano costruite con il consueto sistema di rampe, ambulacri, volte. Al punto culminante della curva si apriva la porta pumpae, la porta da cui entrava la processione che inaugurava i giochi; sull'asse di quest'ultima era la spina, il lungo elemento divisorio che tagliava la pista in due parti e attorno a cui le quadrighe compivano il proprio percorso: qui la spina stessa era costituita da cinque bacini, in origine evidentemente destinati a contenere acqua; fra il secondo e il terzo bacino si elevava un sacello.
Dimensioni notevolissime hanno le strutture termali di L.M.: la palestra è un grande piazzale porticato di 100 × 30 m; il frigidarium aveva un aspetto decisamente grandioso, con la sua volta costituita da tre grandi crociere, e grandioso era certamente anche il calidarium, che sporgeva dal corpo del complesso (soluzione non certo inusuale negli edifici termali) per offrire la maggior superficie possibile di pareti al riscaldamento solare. Erano inoltre a disposizione dei frequentatori una natatio principale e numerose piscine minori, nonché due gymnasia e due latrine. Terme, dunque, di grande rilevanza: malgrado ciò, non troviamo qui le rigorose assialità e simmetrie degli impianti imperiali, forse perché siamo in uno spazio condizionato da edifici (anzi da interi quartieri) preesistenti ed è stato necessario creare una struttura alquanto duttile come snodo e raccordo fra orientamenti differenti.
Il macellum è costituito essenzialmente da un'ampia piazza quadrangolare circondata da portici (con tabernae che si affacciavano sull'esterno) e da due tholoi ottagonali anch'esse piuttosto grandi, dotata ognuna di ben 30 altre tabernae: sia il porticato perimetrale, sia le tholoi hanno avuto numerosi rifacimenti. Data la complessità e varietà delle strutture, si pensa che il mercato di L.M. fosse usato non solo per derrate alimentari (a tale funzione si riferisce di solito il termine macellum, che è quello impiegato nell'iscrizione di dedica), ma anche per stoffe e per altre merci: fra queste le ferae dentatae (elefanti per gli spettacoli dell'anfiteatro?) di cui parla l'iscrizione del piccolo tetrapilo di cui si è detto.
Il porto era sul sito di un approdo attivo fin da età preromana, nel punto in cui sbocca nel mare il Wadi Lebdah: una prima sistemazione monumentale fu attuata ai tempi di Nerone (restano avanzi di un portico lungo la riva sinistra), ma il suo massimo sviluppo si ebbe con Settimio Severo. Uno sviluppo, secondo alcuni, addirittura sovradimensionato rispetto alle effettive necessità e dovuto al desiderio dell'imperatore di abbellire il più possibile la sua città natale. Va osservato però che il volume dei traffici non era certo trascurabile: oltre che come approdo marittimo, il porto lavorava anche come terminale dei traffici che si svolgevano per via di terra con l'interno. Sovradimensionato o no, il complesso era comunque assai articolato: forse troppo, visto che presto fu insabbiato. Presentava un grande bacino di forma poligonale irregolare, dotato di possenti moli, di magazzini, di un tempio dedicato a Giove Dolicheno, di portici, di un faro che era raffigurato in uno dei rilievi dell'arco severiano e che era costituito, apparentemente, da tre corpi a pianta quadrangolare di dimensioni progressivamente rientranti. I moli erano dotati di banchine su due livelli; l'impianto era completato da approdi minori distribuiti lungo le coste vicine.
Bibliografia
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di Sergio Rinaldi Tufi
La regione dell'Africa settentrionale immediatamente a ovest dell'Egitto, originariamente popolata da Libyi, divenne, con la fondazione di Cirene da parte di coloni provenienti dall'isola di Thera e guidati da Batto (data tradizionale il 631 a.C.), e via via con la creazione di altri centri, uno degli esempi più interessanti di cultura greca periferica. Al fondatore seguirono otto re, detti Battiadi, con nomi che in realtà si andarono alternando: ai sovrani di nome Batto ne seguivano altri di nome Arcesilao. Nel 440 a.C., alla monarchia subentrò un regime democratico. La ricchezza della regione si basava soprattutto sull'agricoltura (grano, legumi, orzo), sulla raccolta del silfio (singolare pianta selvatica usata come condimento, o come foraggio, o come farmaco: fu anche largamente esportata), sull'allevamento dei cavalli (Cirene fu l'unica città greca dotata di carri da guerra). Nel 331 a.C. Alessandro Magno, nel corso della sua irresistibile avanzata, si era annesso anche l'Egitto: Cirene si sottomise pacificamente, e furono appunto alcuni suoi cavalieri a condurre il Macedone nell'oasi di Siwa, nell'area del Delta, sede di un antico e venerato culto di Ammon.
In età ellenistica la Cirenaica, pur affidata (in teoria) alla dinastia dei Tolemei d'Egitto, resta a lungo in preda a condottieri di ventura, finché Berenice, figlia di uno di costoro (Magas), sposa il futuro re Tolemeo III Evergete, portando in dote la regione al grande Paese vicino. Questa situazione si protrae fino alla fine del II sec. a.C., quando il territorio viene assegnato al figlio illegittimo di uno degli ultimi re della dinastia, Tolemeo Apione: nel 96 a.C., al momento della sua morte, quest'ultimo lascia il suo regno in eredità allo Stato romano, così come aveva fatto nel 133 a.C. Attalo III, esponente di una dinastia di Asia Minore (gli Attalidi) e di un regno ben più importante (Pergamo). Per vent'anni, i Romani controllano la Cirenaica senza però costituire una vera e propria provincia: il provvedimento viene adottato solo nel 75 a.C., accorpando però questo lembo d'Africa con Creta (Creta et Cyrenaica), una realtà storica e geografica diversissima.
In età imperiale il rilancio della Cyrenaica, avviato da Augusto, fu messo in pericolo da una grave insurrezione di Giudei scoppiata sotto Traiano e repressa prima da Traiano stesso e poi da Adriano, ma a prezzo di stragi e devastazioni. Nella riforma dioclezianea, la regione fu separata da Creta e fu inoltre divisa in Libya Superior o Pentapolis e Libya Inferior o Sicca, entrambe aggregate peraltro alla Diocesi d'Oriente. Notevole fu in certe aree la diffusione del cristianesimo: da ricordare, ad esempio, figure come quella di Sinesio vescovo di Tolemaide.
Oltre a Cirene, i Greci avevano fondato nella regione altre città, il cui nome in età ellenistica, nella maggior parte dei casi, era stato cambiato: Euesperides (che era divenuta Berenice), Teucheira (Arsinoe), Barce (Tolemaide) e via dicendo. Fra i centri greci e le tribù libye (gli Asbisti, i Bacali e altre) si erano inoltre stabilite in molti casi relazioni di buon vicinato e nell'altopiano cirenaico dell'immediato retroterra si erano create ampie aree di cultura e di etnia miste. Là dove "il cielo era bucato" (per usare l'espressione a cui ricorre Erodoto narrando la fondazione di Cirene, alludendo al suo clima privilegiato), la politica edilizia romana, come in altre aree di preesistente cultura greca, non consisteva nella creazione di nuove città, ma in vari tipi di intervento in situazioni urbanistiche già definite.
Cirene si estende su un bell'altopiano separato dalla costa da una fascia pianeggiante dell'ampiezza di circa un chilometro. Il nucleo originario era probabilmente sull'acropoli, sulle cui pendici (a varie distanze e a varie quote) si svilupparono successivamente i tre grandi nuclei principali, e cioè il santuario di Apollo (con il tempio dedicato allo stesso Apollo e con quello dedicato ad Artemide; nelle vicinanze sono un teatro e il cosiddetto Donario degli Strateghi), quello di Zeus (con il non lontano stadio) e l'agorà (circondata da notevoli abitazioni): oggi ci appaiono alquanto distanti fra loro e separati da aree non ancora investigate. Il perimetro urbano era delimitato da una cinta muraria costruita in età ellenistica (poggiandosi forse in parte su un tracciato preesistente); fuori della città era un antico santuario dedicato a Demetra, articolato su tre diversi livelli detti convenzionalmente "inferiore", "mediano" e "superiore". In età romana tutte queste realtà vengono rispettate, ma sottoposte a una fitta serie di restauri, inserimenti, ampliamenti: le mura vengono rifatte all'inizio del I sec. a.C.; nella zona dell'agorà sono ristrutturate alcune abitazioni, ma soprattutto si aggiungono ai tempi di Tiberio, per impulso di un mecenate di nome Sufena Proculo, lo Strategheion (rifacimento di un edificio del IV sec. a.C.) e ‒ ben più importante ‒ il Cesareo. Quest'ultimo viene definito così perché un'iscrizione, per la verità tarda, parla di Porticus Caesaris: in pratica è un vero e proprio foro, una vasta piazza porticata che si aggiunge a quella di età greca e che presenta al centro un tempio forse dedicato a Bacco; più tardi, viene costruita anche una cospicua basilica giudiziaria. Importanti restauri si hanno anche nel corso del II sec. d.C., soprattutto dopo le devastazioni seguite alla rivolta giudaica che esplose nel 116: il discorso vale per alcuni monumenti dell'agorà e, a sud-ovest del Cesareo, per alcune grandi dimore come quella detta "di Giasone Magno", notevolmente ampliata ai tempi di Commodo. A sud della piazza greca, ai tempi di Antonino Pio, sorge (in onore di questo imperatore e del suo predecessore Adriano) un tempio tetrastilo prostilo dedicato secondo alcuni alla Triade Capitolina, secondo altri a Zeus Sotèr e ad Atena Soteira.
Nell'area del santuario di Apollo, Traiano aggiunge nel 107 un tempio dedicato a Ecate, e un vasto impianto termale distinto in Grandi Terme "maschili" e Piccole Terme "femminili"; dopo la rivolta giudaica, Adriano ristruttura entrambi questi edifici e restaura in senso più grandioso e lussuoso i templi di Apollo e di Artemide (quest'ultimo sarà terminato da Antonino Pio). Si aggiungono anche altri tempietti e nel III sec. d.C. l'antico teatro greco viene trasformato in anfiteatro; la situazione forse più inconsueta è quella rappresentata da un piccolo Mitreo che poi sarà trasformato in ninfeo. Il santuario di Demetra, fuori città, viene profondamente alterato in età augustea e dopo la rivolta giudaica con il rifacimento di paramenti murari e terrazzamenti.
Tolemaide fu fondata dai Lagidi, o Tolemei, probabilmente come celebrazione delle nozze fra Tolemeo III e Berenice: ma forse un insediamento esisteva fin da età arcaica, con la funzione di scalo costiero del centro libyo di Barce, situato sull'altopiano nell'immediato entroterra. L'impianto era di forma approssimativamente quadrangolare e circondato da mura; malgrado una certa pendenza del terreno, e grazie a una serie di terrazzamenti sapientemente dosati che digradavano verso il porto, lo schema era di tipo ippodameo, con strade che si incrociavano ad angolo retto e isolati di dimensioni tendenzialmente regolari. Spiccavano, in quest'ambito, il teatro, l'agorà, il cosiddetto Piazzale delle Cisterne (in realtà erano le sostruzioni di un grande complesso a quadriportico) e soprattutto la grande dimora detta Palazzo delle Colonne. Gli ingegneri romani rispettarono quell'impianto, introducendo però un Capitolium e un bouleuterion nell'agorà (che ora si poteva definire un foro), nuove decorazioni in mosaico, crustae marmoree e affreschi nel Palazzo delle Colonne e, nel IV secolo, un arco onorario a tre fornici.
In un'antica cava viene allestito un anfiteatro, di forma insolitamente circolare piuttosto che ellittica. Con la riforma di Diocleziano la città diviene capitale della Libya Superior o Pentapolis e si arricchisce di vie colonnate, nuove facciate e fontane; alla metà del V secolo cederà il suo ruolo ad Apollonia. Anche quest'ultima era di origine ellenistica e si affacciava sul mare con un porto dal doppio bacino. Un tempio esastilo dorico, dedicato probabilmente ad Afrodite, si datava intorno al 300 a.C., mentre risalivano al II sec. a.C. la cinta muraria (che probabilmente aveva come scopo principale quello di difendere il porto) e lo stadio, allungato in riva al Mediterraneo. In età imperiale si conosce soprattutto un grande impianto termale, nel quale si riscontrano varie fasi costruttive; la città assume un ruolo più importante in età molto tarda (nel 359 le viene attribuito il nome di Sozousa), con ampi rifacimenti delle mura.
Edifici di una certa importanza si conoscono anche a Tocra e ad Hadrianopolis. Quest'ultima fu fondata (forse sul sito di un precedente vicus) da Adriano dopo la repressione della rivolta giudaica e aveva un impianto urbanistico regolare. Ma è in un piccolo centro a sud-ovest di Cirene, e cioè a Balagrae sul Wadi el-Cuf, che troviamo uno dei santuari più interessanti della regione, un Asklepieion risalente, nel suo primo impianto, al IV sec. a.C. ma ampiamente rifatto nel II sec. d.C. Un tempio maggiore e due nettamente minori sono collocati entro una piazza non molto ampia, ma circondata da portici; a est, in posizione asimmetrica, un ingresso monumentale si affaccia su una strada, al di là della quale (con una piccola ma avvertibile deviazione di orientamento) è un piccolo teatro, che forse ospitava manifestazioni legate al culto.
Al di fuori delle città, il territorio offre, per ampi tratti, l'immagine di un'eccellente organizzazione agricola, con lavori di sfruttamento dell'acqua piovana e di regolarizzazione del corso di widyān e torrenti, tipici dell'orografia locale; lo Stato romano eredita inoltre gli agri regii, ricchi possedimenti agricoli dei Tolemei. Prosperano sull'altopiano la cerealicoltura e l'allevamento, mentre prosegue più a lungo di quanto non si pensasse la raccolta del silfio. Numerosi sono i villaggi, sia in epoca greca sia in epoca romana: nati probabilmente per ospitare le nuove famiglie originate da matrimoni misti fra Greci e Libyi, continuano a svilupparsi come sede di coltivatori che arrivano anche dopo la romanizzazione o come stazioni di posta.
Proprio in contesti rurali si manifesta la persistenza di elementi libyi, che aveva già caratterizzato l'epoca della colonizzazione greca. A Slonta, nell'interno a sud di Balagrae, fu realizzato in varie fasi un santuario campestre lungamente rimasto in uso e forse destinato fra l'altro alla pratica della necromanzia: una piccola grotta naturale e un grande ambiente scavato artificialmente nella roccia. Sulle pareti del primo è scolpita in rilievo una serie di teste umane; nel secondo, alle figure umane sono alternate figure di animali, fra cui un grande serpente, mentre su un'ara (sempre ricavata nella roccia) a destra dell'ingresso sono raffigurati quattro cinghiali: il monumento è noto anche con il nome, appunto, di Santuario dei Cinghiali. Non mancano riecheggiamenti di schemi iconografici classici, ma l'esecuzione sembra priva di organicità soprattutto per quanto riguarda la disposizione e le proporzioni delle figure, anche se molto attenta nell'esprimere alcuni particolari significativi. Una schematicità forse ancora maggiore caratterizza le sculture di Martuba nel Golfo di Bomba: da ricordare fra l'altro una figura di Priapo e due di Iside.
Sculture come quelle di Slonta sono piuttosto infrequenti nella regione, anche se non mancano altri esempi di scultura sostanzialmente estranea alla tradizione classica: più note sono le opere nel solco della ricca produzione dell'antica città greca. Alle statue del V e IV sec. a.C., e anche a quelle dell'età ellenistica, ci si rivolge però con un atteggiamento peculiare: non si eseguono solo copie, ma anche rielaborazioni, con criteri stilistici e con combinazioni altrove inedite. Se una statua di Eros con l'arco, proveniente dalle Grandi Terme, deriva da un originale lisippeo, un Apollo Citaredo rinvenuto frammentario nel grande santuario appare la copia di un'opera eseguita a Roma dallo scultore neoattico Timarchides II nel II sec. a.C. Un soggetto spesso presente è Venere: la cosiddetta Venere Maliziosa sembra ispirata all'arte ellenistica, mentre la più famosa, rinvenuta (come l'Eros) nelle Grandi Terme, è l'Afrodite Anadiomene nota come Venere di Cirene, figura femminile estremamente casta e composta (eseguita probabilmente nel II sec. d.C.) che sorregge le estremità di una benda con cui sono legati i capelli. Sono anche note varie esecuzioni del gruppo delle Tre Grazie (ed è suggestivo ricordare che il poeta Callimaco chiamava Cirene "la collina delle Charites", cioè appunto delle Grazie). Ma anche di Hermes sono presenti svariate raffigurazioni: nel cosiddetto Hermes Maggiore si fondono, con un'efficacia abbastanza sorprendente, un corpo di intonazione lisippea con una testa di ispirazione mironiana, mentre nel cosiddetto Hermes Minore si combinano addirittura un corpo di gusto quasi arcaico con una testa ispirata ai maestri del IV sec. a.C. Testimonianza di un gusto eclettico è anche la statua di Iside identificata con Demetra e con la personificazione della Libya, combinazione di un corpo risalente al IV sec. a.C. e di una testa risalente al I sec. a.C. L'arte del ritratto sembra toccare i momenti migliori nel II sec. d.C.: spiccano fra gli altri per qualità di esecuzione un Adriano, un Antonino Pio e soprattutto un personaggio anonimo (ma evidentemente importante) di età tardoantoniniana in veste di sacerdote. Fra i numerosi ritratti femminili che sono stati rinvenuti, è notevole forse soprattutto quello identificato con Agrippina Maggiore.
Per quanto riguarda la pittura e il mosaico, assai ricca era la decorazione del Palazzo delle Colonne a Tolemaide e soprattutto della Casa di Giasone Magno a Cirene. In quest'ultima, da ricordare anzitutto la sala in cui Afrodite su ippocampo entro un clipeo è inserita al centro di una serie di motivi geometrici, con ai quattro angoli altrettante lunette contenenti i busti delle Stagioni. In altri ambienti troviamo, in un vasto repertorio, scene di thiasos marino (Nereide su cavallo marino, fiancheggiata da un Tritone), o episodi del mito, come la lotta fra Teseo e il Minotauro.
Bibliografia
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di Alessandro Campus
Unde interrogati rustici nostri, quid sint, Punice respondentes: Chanani, corrupta scilicet sicut in talibus solet una littera, quid aliud respondent quam: Chananaei? "Quindi interrogati i nostri rustici su chi siano, rispondendo al modo punico: 'Chanani', come spesso accade in questi casi che vi sia una lettera cambiata, che cosa altro rispondono se non 'Chananaei'?". Così scrive s. Agostino nella sua Epistolae ad Romanos inchoata expositio (13), preziosa testimonianza della vitalità della cultura punica; vitalità questa che va ben oltre il 146 a.C., anno della distruzione di Cartagine alla fine della terza guerra punica, e che trova eco ‒ tanto in Africa quanto nelle altre aree dell'espansione fenicio-punica quali Malta, Sardegna, Sicilia e Penisola Iberica ‒ sia nella lingua che nelle manifestazioni artistiche. D'altro canto, le parole di s. Agostino trovano riscontro in un passo dell'africano Apuleio, il quale, nella seconda metà del II sec. d.C., dice, parlando del proprio nipote: Loquitur nunquam nisi Punice et si quid adhuc a matre graecissat; enim Latine loqui neque vult neque potest, "non parla altro se non punico, anche se usa qualche parola greca imparata dalla madre; infatti non vuole e non può parlare latino" (Apol., 98, 8).
A ben guardare, la romanizzazione è stato un fenomeno lento e indubitabilmente con un andamento non costante, che in alcune aree non ha sostituito la cultura punica, ma in molti casi l'ha solo resa più "romana"; la cultura punica ha permeato la vita dell'Africa settentrionale in età romana, dando luogo a fenomeni sicuramente originali, da una parte confrontabili col resto del mondo fenicio-punico di Occidente, dall'altra talmente unici e in molti casi innovativi da rendere ancora in età romano-imperiale le province della sponda meridionale del Mediterraneo un fenomeno culturale autonomo e particolarmente vivace. Gli studi che, soprattutto negli ultimi anni, si sono susseguiti hanno sempre più messo in rilievo le strette interrelazioni tra il mondo punico e il mondo romano dopo la caduta della metropoli africana, interrelazioni che si sono manifestate in ambiti diversi: architettonico, artigianale, figurativo, linguistico, religioso.
In alcuni casi, sicuramente, è stata la stessa cultura romana a far sì che parte della cultura punica si salvasse: è emblematico il caso del trattato sull'agricoltura di Magone, opera che lo stesso senato romano aveva voluto scampasse alla distruzione di Cartagine e che qualcuno ha voluto vedere tra le fonti delle Bucoliche virgiliane; anche Columella, autore di un trattato sull'agricoltura composto probabilmente durante il regno di Nerone, cita l'opera di Magone, descrivendo il metodo esposto dall'autore cartaginese per la produzione di vino da uva fatta seccare (XII, 39, 1-2).
La vivacità della cultura punica in piena età imperiale è ben attestata; se da una parte del su citato passo di s. Agostino si è voluta mettere in evidenza l'espressione rustici nostri, per sottolineare il fatto che il Padre della Chiesa si riferiva soltanto alle campagne e non anche agli abitanti delle città, va sottolineato dall'altra il fatto che anche i cittadini conservavano parte della cultura passata. A livello municipale, ad esempio, sopravvisse ancora a lungo la carica di sufeta, che è attestata sia in iscrizioni latine, che in iscrizioni neopuniche e in quelle bilingui. Per il primo caso, può esser citata l'epigrafe CIL VIII, 797 (= CIL VIII, 12265), da Henchir Bou-Ftis in Africa Proconsularis, nella quale sono citati Manlius Honoratus et Iuli(u)s (?) Metellus sufetes. Per quanto attiene alle bilingui, un'iscrizione da Leptis Magna (Trip. 21, IRT 319), datata all'8 a.C., ha sia nel testo latino che in quello neopunico la datazione con i sufeti e una persona che si definisce sufes. Il testo latino recita: Iddib[a]le Arinis f(ilio) [Pil]one(?) [et Ammicare? A]nnobalis [f(ilio) ...]on[.. su]fetib(us), mentre così per la persona che si definisce sufeta: Annobal Himilcho(nis) f(ilius) Tapapius Rufus sufes flamen praefectus sacrorum; il testo punico recita: špṭm MTN bn ḤN' p῾l hšḥm w [--] = "essendo sufeti MTN figlio di ḤN', fabbricante dei mazzi (?) e [--]"; ḤNB῾L bn ḤMLKT TBḤPY RWPS špṭ zbḥ 'dr ῾zrm bn 'RM = "ḤNB῾L figlio di ḤMLKT TBḤPY RWPS, sufeta, flamine, prefetto del culto, figlio di 'RM".
Per quanto attiene alla lingua, basti qui ricordare le numerose iscrizioni redatte in punico e con caratteri neopunici o le cosiddette "latino-puniche", in lingua punica ma con caratteri latini. Le iscrizioni neopuniche arrivano almeno sino al II-III sec. d.C., mentre più tarde sono le latino-puniche, che sono databili tra il III ed il IV sec. d.C. almeno. Ancora, sono numerosissimi i nomi sicuramente punici presenti nelle iscrizioni latine nordafricane. Ad esempio, sono molto frequenti nomi come Annibal (anche nelle varianti Annobal e Anobal), nel quale è facile vedere il punico ḤNB῾L, o Aris per il punico 'RŠ, o ancora Baliaton per B῾LYTN. Ugualmente, nelle iscrizioni neopuniche sono presenti nomi latini; ad esempio, il nome Felix è reso come P'LKS, PYLKS, PYLKṢ, PLKS, PLKŠ, oppure Fortunatus è P'RṬN῾Ṭ'. Particolarmente interessante è il caso dei nomi imperiali: in una iscrizione neopunica sarda, ad esempio, si può leggere ['mp]r῾ṭr Q῾YSR M῾RQH ῾WRHLY ῾NṬNYNH [῾]WGSṬH = imperator Caesar Marcus Aurelius Antoninus Augustus, mentre in una iscrizione dalla Tripolitania si possono leggere i nomi ṬBRY ῾WGSṬS (Tiberius Augustus), YHLY' ῾WGSṬ῾ (Iulius Augustus), GRM῾NYQS (Germanicus), DR'SS Q῾YSR (Drusus Caesar), ῾GRYPYN῾ (Agrippina). Infine, è da mettere in evidenza un personaggio citato in una iscrizione neopunica dalla Tripolitania con nome latino, il cui padre ha un nome punico: G῾Y bn ḤN', Gaius figlio di Annone.
Per quanto attiene alla religione e ai culti, è di grande interesse l'Apologeticum di Tertulliano, composto nel 197 e rivolto al senato di Cartagine. Con questo scritto, l'autore cristiano vuol difendere i cristiani dall'accusa di sacrificare i propri figli durante banchetti rituali, rivolgendo anzi agli accusatori pagani la stessa accusa: secondo Tertulliano, in Africa usque ad proconsulatum Tiberii ‒ proconsole del quale non si ha comunque notizia ‒ si continuò a fare sacrifici di bambini a Saturno. Secondo quel che egli racconta, furono inviati i soldati per crocifiggere nel loro tempio i sacerdoti che compivano questi riti, ma nonostante ciò tali sacrifici continuavano sino al tempo di Tertulliano. Alle notizie riportate da Tertulliano è stato poi avvicinato un passo della Passio Sanctae Perpetuae et Felicitatis (18, 4), opera composta poco dopo il 203, nel quale si racconta di come si tentò di far entrare i cristiani nel circo, vestiti gli uomini come sacerdoti di Saturno, le donne come sacerdotesse di Cerere (Martelli 1983); e proprio a Baal Hammon (che l'interpretatio romana assimila a Saturno) erano dedicate le stele dei tofet. Quindi, al di là di come sia da interpretare il fenomeno dei riti del tofet ‒ se cioè si tratti di sacrifici di bambini o, secondo la critica moderna, di un'area di necropoli riservata ai bambini ‒, è significativo il fatto che si voglia attribuire ai cristiani la pratica del sacrificio dei bambini e che un polemista cristiano quale Tertulliano, di contro, accusi proprio i "pagani" di una tale pratica. In età imperiale, quindi, viene ribaltata sui cristiani l'accusa ‒ diventata topos ‒ di efferata crudeltà dei Cartaginesi, crudeltà che arriva sino allo scandalo del sacrificio dei fanciulli; Tertulliano, cristiano di Africa, nella sua polemica antipagana ribalta quindi l'accusa contro i cristiani, riproponendo il topos del sacrificio umano, questa volta contro i pagani. È quindi alla luce di questa polemica che andrebbe letto il tentativo di far vestire i martiri compagni di s. Perpetua e s. Felicita come sacerdoti di Saturno.
L'interpretatio di Baal Hammon come Saturno in latino e Kronos in greco è confermata dalle iscrizioni; nel tofet di el-Hofra presso Costantina, ad esempio, oltre alle iscrizioni in punico e neopunico si sono trovate anche dediche in latino e in greco. È interessante, tra le dediche in greco, una iscrizione (El-Hofra gr. 3) nella quale Baal Hammon è assimilato a Kronos, mentre il nome di Tanit con i suoi attributi è reso in punico, ma in caratteri greci: Κϱόνωι Θεν/νειθ φενη Β/αλ ἔθυσ[εν ᾿Α]/λϰιμήδη[Ϛ] ϰαὶ επηϰ[ου] / [σε]τή[ν]: "a Kronos, a Tanit faccia di Baal (o che sta di fronte a Baal) ha sacrificato Alkimedes ed egli ha sentito la sua voce".
Se da una parte E. Acquaro pensa che lo studio dell'ambito funerario possa servire "come verifica di avvenuti sincretismi fra sostrato libico e punico, suscettibili d'impostazione e sopravvivenza sino alla più avanzata romanizzazione" (Acquaro 1990, p. 75), dall'altra pare interessante in questa sede prendere in esame una categoria delle produzioni nordafricane, le stele. In particolare, tra le stele sono di grande interesse quelle del tofet di Sabratha. In località Ras Almunfakh, nei pressi dell'antico porto, è stata scavata un'area sacra nella quale sono state recuperate "urnette-cinerario", secondo la definizione dell'editore (Taborelli 1992), e più di 300 stele; le analisi osteologiche dei contenuti delle urnette hanno evidenziato la presenza di ossa di capre e pecore, mentre non sono stati riscontrati resti umani. Dopo l'abbandono dell'area, avvenuto durante il I sec. d.C., questa zona è stata utilizzata come necropoli, con tombe a fossa per la realizzazione delle quali è stato usato anche materiale di reimpiego proveniente dagli strati sottostanti. La parete di una tomba poco più a nord di quest'area, poi, è stata decorata con una tipica immagine punica, tanto frequente nelle stele dei tofet del Mediterraneo e presente anche nelle stele di Sabratha, il cosiddetto "segno di Tanit", costituito, nella sua realizzazione "originale", da un triangolo sormontato da una linea orizzontale e un cerchio. L'editore ha ipotizzato per questa area un uso sacro, nella quale veniva svolto il rito del mlk 'mr, il "sacrificio dell'agnello", un sacrificio compiuto nei tofet punici e attestato nelle iscrizioni delle stele (Amadasi Guzzo 1986; Bénichou-Safar 1995).
Passando ora a considerare le stele, l'editore di questo gruppo di monumenti ha diviso le stele in cinque tipi, a seconda della forma della parte superiore delle stele stesse. La decorazione, poi, può essere scolpita, incisa o dipinta. Per quanto attiene all'apparato illustrativo, sono riconosciute come costanti "l'assialità e la simmetria, determinate da un simbolo centrale e da una coppia, raramente due, di elementi accessori collocati ai lati a formare una fascia orizzontale, posta approssimativamente a due terzi dalla base della stele" (Taborelli 1992, p. 49). La componente architettonica, quando presente, inquadra gli elementi figurati, rappresentando una cella all'interno della quale si collocano altari, o bruciaprofumi, o il "segno di Tanit". Altri elementi figurati presenti nelle stele di Sabratha sono, oltre a quelli appena citati, il tridente, il caduceo, la palma ‒ i cui rami sono spesso usati come inquadramento al posto degli elementi architettonici ‒, il melograno, più raramente il fiore di loto, solo una volta un volatile. L'impressione generale che se ne ricava è di un gruppo piuttosto omogeneo di stele nel quale si sono associati elementi diversi, sia punici sia libici, che hanno mantenuto la propria vitalità sino alla seconda metà dell'età flavia, corrispondente al periodo di abbandono dell'area.
Un altro gruppo di stele particolarmente interessante è quello cosiddetto "della Ghorfa" (Bisi 1978): si tratta di stele per le quali è stato ultimamente proposto Maghrawa, nei pressi di Mactar, come luogo di produzione. Nella parte superiore delle stele possono comparire il Sole e la Luna, persone rappresentate in diverse attività, uccelli, tralci di vite, frutti, altari, simboli, ecc., in una grandissima varietà di combinazioni e disposizioni. Al di sotto, compare un inquadramento architettonico che può essere di maggiore o minore complessità, all'interno del quale è raffigurata una persona. Nella parte inferiore, infine, vi è la stessa ricchezza e lo stesso movimento presente nella parte superiore: animali, persone, telamoni, scene di sacrificio.
Senza scendere nell'analisi attenta delle caratteristiche formali di queste stele, basti qui ricordare il fatto che i confronti più puntuali per gli elementi architettonici sono da ricercarsi indubbiamente nella tradizione punica di periodo ellenistico o in quella numidica dello stesso periodo; l'analisi dell'abbigliamento dei personaggi raffigurati nelle stele e delle loro acconciature consente di confermare la cronologia ipotizzabile per le raffigurazioni, da riportare a un periodo compreso tra il I e gli inizi del II sec. d.C. (Ghedini 1990). Anche se da un lato questo gruppo di stele rappresenta non un nucleo a sé stante, ma è da confrontarsi con altre stele prodotte in altri centri numidici, dall'altra le grandi originalità e ricchezza "speculativa", che comunque rimangono sostanzialmente puniche, ne fanno un osservatorio privilegiato sulla cultura formale e sulla religione puniche in età ormai pienamente romana. Recentemente è stata analizzata una serie di anfore che, prodotte durante l'età imperiale, si riallaccia direttamente alle produzioni di ispirazione punica (Bonifay 2004), in analogia con quanto avviene nell'Oriente bizantino, dove le anfore fenicie costituiscono la base formale di quelle del tipo Late Roman Amphora 4, che hanno nella zona di Gaza il loro principale centro di produzione. Se da un lato la maggior parte delle anfore di tradizione punica presenti in Africa non è più prodotta dopo i primi tre secoli della nostra era, quelle identificate nel Golfo di Hammamet arrivano sino al periodo vandalo e bizantino. È interessante il fatto che a poco a poco cessa la loro funzione di contenitori da trasporto per divenire contenitori di stoccaggio, pur conservando le caratteristiche formali sino al VII secolo, alla vigilia della conquista araba, quando sono state sostituite da altri contenitori progressivamente uniformati ai modelli bizantini. Secondo la tipologia proposta da M. Bonifay, le anfore vengono suddivise in tre tipi, Hammamet 1, Hammamet 2 e Hammamet 3, ognuno poi suddiviso in diverse varianti. Caratteristica comune di questi tipi è il breve collo più o meno dritto, la forma cilindrica, le anse verticali impostate sotto le spalle arrotondate, il breve puntale; le varianti, poi, sono state identificate in base alla forma degli orli.
Anche nel campo delle tecniche murarie l'architettura di epoca romana risente dell'influsso della tradizione punica. È questo il caso dell'opus africanum, la cosiddetta "opera a telaio", nel quale la tessitura orizzontale della muratura è scandita da elementi monolitici verticali, che significativamente si riscontra, oltre che nell'Africa settentrionale, anche nella Penisola Iberica e in Sardegna ancora in periodo tardoantico.
A conclusione, un'ultima osservazione: G. Garbini prima (1983), S. Moscati poi (1984) sono arrivati, per vie diverse, alla medesima conclusione, che il punico sia penetrato tanto in profondità nella cultura dell'Africa settentrionale a causa della relativa vicinanza tra la lingua berbera e la lingua punica, fatto questo che tra l'altro permette di capire la resistenza che nel Nord Africa vi fu nei confronti del latino. Lo stesso Moscati ha fatto notare che "quanto all'Africa settentrionale, la conquista araba vi risulta ben più profonda di quella romana; e ciò per la compenetrazione con i Berberi" (Moscati 1984, p. 533). Secondo i due studiosi, quindi, fu proprio l'elemento linguistico ‒ che abbiamo visto all'inizio essere particolarmente conservativo ‒ che facilitò, a partire dal VII sec. d.C., il rapido diffondersi della cultura musulmana. Un sottile filo rosso legherebbe i Fenici agli Arabi, due popoli entrambi venuti dall'Oriente che, idealmente, si incontrano nell'Occidente, nel maġrib.
Bibliografia
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