Le rappresentazioni della comunità
Questo lavoro si propone di analizzare in che modo la città veneziana rappresentasse se stessa, ai propri occhi e agli occhi altrui, nel momento in cui - nei secoli XV e XVI - andava scrivendo le pagine più note della sua storia. Un mito non si esprime attraverso una serie di "discorsi rivelati", bensì attraverso un insieme di fenomeni multiformi e talora effimeri che conviene interpretare: uno stesso significato può evidentemente, nel contesto mitico, disporre di un gran numero di significanti differenti ed è proprio la messa in relazione di tali elementi - significato e significanti - a produrre il mito, che non sarà giammai un simbolo o un esempio, ma un tutto inestricabile il quale risponde all'interesse di una data società nella misura in cui si rivolge ai membri di essa, parla a ciascuno di loro imponendo loro un significato.
L'immaginario si appropria così del reale per creare una realtà affatto nuova. L'essenziale è dunque tenere bene a mente che temi e figure spesso non hanno senso per se stessi, e che quest'ultimo va cercato innanzitutto nelle leggi della combinazione e della composizione degli elementi, ciò che consente di situare i termini del discorso mitico all'interno di un sistema di relazioni: i racconti mitici vanno assunti in quanto formati da unità costitutive la cui coerenza è determinata dal sistema tutto. Lévi-Strauss ha dimostrato come un segmento narrativo o un tratto pertinente di un mito non rilascino alcuna indicazione al di fuori del sistema nel quale si collocano e al di fuori dei rapporti trasformazionali che li sottendono. L'analisi della produzione delle immagini veneziane induce allora all'inventariazione delle componenti del lessico e delle strutture della narrazione mitica, delle unità discorsive minime proprie di quel genere di racconto le quali costituiscono "unità prive di significato proprio, ma che permettono la produzione di significati nel quadro di un sistema in cui esse si oppongono fra di loro, e per il sussistere stesso di tale opposizione" (1).
Formulazioni siffatte si generano le une a partire dalle altre; l'analisi storica deve quindi badare a mettere in piena luce il processo di trasformazione, di generazione e di autogenerazione delle diverse componenti delle immagini con le quali ha a che fare. La metodologia di Lévi-Strauss rivela la propria assoluta pertinenza allorché dimostra come "il dispositivo generativo dei miti dipende da uno stimolo esterno e si apparenta ai dispositivi cognitivi" (2). Dunque, un rapporto di trasformazione, ben lungi dalla preoccupazione di stabilire dei significati immediati; è dunque essenziale il ruolo dei vincoli interni, che vedono i rapporti fra i termini del discorso ripartirsi, organizzarsi, trasformarsi secondo esigenze di logica pura: il campo veneziano mostra assai bene come si verifichi allora un distacco rispetto al referente.
Se è vero che la finalità del mito è sovente quella di fornire un modello logico per sciogliere una contraddizione, non bisogna farne unicamente una soluzione immaginaria a contraddizioni reali percepite nella società o nell'universo circostante; e, d'altronde, una posizione metodologica del genere è sorpassata da un bel pezzo. La relazione fra il mito e il dato è del tutto certa, sussistendo un rapporto preciso fra il mito e la situazione sociologica, della quale tuttavia il primo non è la pura e semplice rappresentazione; il mito non si limita mai a un solo strato della realtà, ché anzi dice a un tempo e ogni volta assai di più, in particolare integrando gli elementi religiosi o topografici.
Se il mito non è semplicemente il riflesso della società presso la quale lo si incontra, allo storico si prescrive di porre la questione dello statuto originale della funzione di mediazione cui le formulazioni adempiono, ove gli elementi della realtà sociale sono prelevati come lemmi di un lessico la cui vocazione è di essere lo strumento e non già l'oggetto della significazione. L'enunciato mitico non cerca di dar senso a quei termini, bensì si significa attraverso di essi (3), un po' alla maniera di un dispositivo simbolico. Oggi tutti gli storici dell'arte dovrebbero aver coscienza che una ricerca del senso a un livello di immediatezza, vale a dire impalcata sul contenuto isolato di una figura mitica, è votata al fallimento e all'inutilità epistemologica: ciò che Lévi-Strauss e altri nella sua scia hanno dimostrato è appunto che la scelta medesima della rappresentazione non può essere compresa se non a partire dall'operazione logica realizzata dal pensiero mitico, che permette di organizzare gli elementi diversi e di costruire un ordine.
Venezia ci pone al cospetto di tutto un discorso culturale del quale essa è la protagonista. Questo universo semantico della memoria urbana ha ricevuto dalla storiografia recente un'attenzione tale che consente al presente di affrontare nuove questioni. Mentre si sono spesso privilegiate, nell'analisi di una memoria storica delle città, le fonti scritte narrative, si tenta oggi di afferrare la trama e la consistenza di un tessuto che proprio attraverso quei testi ha ricevuto la propria sistematizzazione, la propria funzione propositiva, il proprio rivelatore adattamento. E la stessa storiografia recente ha affermato l'esigenza di rimettere tutto in discussione nel quadro di prospettive aperte sovente da altre scienze umane, dichiarando l'urgenza di analizzare globalmente il quadro urbano mediante lo studio delle categorie della percezione e dell'organizzazione del reale.
Occorre elaborare dei veri e propri strumenti di esplorazione della fisionomia culturale urbana per comprendere la maniera in cui lo spazio e il tempo vi interagiscono, per comprendere come ogni memoria di ogni comunità tenda a dotarsi di una coscienza e di una identità, come la città proceda all'elaborazione di un proprio e specifico profilo culturale e alla costruzione di una "città che parla" attraverso i propri luoghi e le proprie forme urbane e territoriali. Quando si dice "cultura urbana" o "memoria urbana", a Venezia più ancora che altrove si manifesta la presenza di una forma di modello urbano che è durato nel tempo grazie al proprio radicamento in esigenze date di rappresentazione storica dai caratteri largamente culturali, ovvero intenzionalmente politici.
L'identità culturale della città appare come un insieme di processi dalle molteplici stratificazioni, spesso rigidamente connotate dal punto di vista sociale e politico. L'espressione di tale identità, di tale memoria, si articola secondo linguaggi che possono essere rituali come iconografici, architettonici e urbanistici, e procede dal fissaggio negli scritti e nelle immagini di vere e proprie retoriche della memoria. Certi prodotti della memoria e della mitologia urbane operano delle autentiche sistematizzazioni - per temi e per quadri linguistici e comunicativi - del patrimonio elaborato fino a quel momento nell'universo culturale comune ai ceti dirigenti cittadini. L'analisi deve allora sforzarsi di reperire le stratificazioni dei patrimoni di memoria elaborati nella città, provare a misurarne il radicamento nella percezione ed esplorare le vie dell'appropriazione culturale degli spazi tradizionali del quadro urbano.
Conviene, naturalmente, ricollocare l'eccezionale arsenale mitico prodotto e gestito dall'ambiente veneziano frammezzo agli altri grandi miti urbani europei: evocando le immagini essenziali della rappresentazione e della messa in scena dei poteri, questa problematica deve potersi situare nel campo delle figurazioni politiche quali le esibisce - siano i miti di Roma, di Ginevra o di Vienna - la storia culturale e artistica europea (4). Bisogna distinguere qui, dinanzi a un modello di città, dei modelli per la città, ispirati sia da temi più generali di organizzazione sociale e culturale, sia da altri modelli urbani dotati di una speciale forza di suggestione: è il caso, per fare un esempio, dei grandi prototipi di Costantinopoli o di Gerusalemme (5). Alla fine dell'età medievale, sono numerose le città europee che tentano di crearsi una propria rappresentazione, riferendola immancabilmente alle metropoli antiche di Roma e di Atene. Talvolta queste manifestazioni del patriottismo locale si riducono a qualche luogo comune letterario o a vaghi costrutti retorici, e tuttavia accade di frequente che l'appello al retaggio di città del passato s'inscriva in strategie politiche complesse e che per suo mezzo si esprima un autentico ideale di rinnovamento.
E bene sottolineare, d'altronde, come i tempi di crisi si prestino alla formulazione mitica, e per ciò stesso al suo studio. Essi giocano sempre un ruolo fondamentale nell'analisi dei sistemi di rappresentazione, alla cui storia nonché all'esame delle ideologie che li sottendono forniscono occasioni di ricerca particolarmente propizie. "Dopo aver raccolto tutti questi elementi [rammenta Georges Duby>, conviene in primo luogo riunirli, per ricostruire il sistema nella sua coerenza, nel suo ordinamento formale, a partire da tutte le tracce che esso ha lasciato" (6); un metodo di analisi che si raccomanda per il mondo veneziano.
Da questo punto di vista, sei temi appaiono largamente predominanti, i quali attraverso la strutturazione globale dei racconti mitici veneziani suggeriscono tre grandi direzioni di indagine.
La prima dà conto degli aspetti propriamente religiosi del mito e dell'utilizzazione di una iconografia del sacro al fine di presentare e rappresentare la città marciana.
La seconda afferisce al discorso specificamente politico, incentrato sull'immagine della Giustizia - la città che vuole vedersi e farsi vedere sotto le specie della Giustizia - e sull'eredità di Costantinopoli rivendicata dopo che quest'ultima cadde in mano turca.
Infine, risulterebbe impossibile comprendere Venezia senza prendere in esame la percezione del tempo ad essa peculiare che, se non decodificata, renderebbe incomprensibili interi scenari e soprattutto le rappresentazioni storiche; si collega in modo del tutto naturale a quest'ultimo percorso il parallelo che spesso i Veneziani si sono sentiti di tracciare fra la storia e gli obiettivi loro propri e la storia e gli obiettivi dell'Impero romano.
Venezia, "santa Republica", secondo la locuzione di Marin Sanudo. Siamo di fronte a una appropriazione dell'ambito religioso la quale mette bene in evidenza come ogni traduzione per immagini del potere tenda a valorizzarne i rapporti con il sacro, in modo da pregiarsene: "O Vinegia veramente unica e beata fra tutte le città del mondo, vergine intatta, sola, vera, sicuro et unico rifugio de' miseri [...>. Vero e santo ovile del gregge di Dio, e degna e vera imago e simulacro di divinità" (7).
Venezia vuole essere in primo luogo città del rito e dell'autoglorificazione. Si sa quanto la vita pubblica e politica sia incessantemente nutrita da una successione di occasioni rituali e di cerimoniali; qui più che in ogni altro luogo l'elemento spettacolare costituisce una fonte primaria per la comprensione delle figurazioni "politiche" e per la loro interpretazione formale, si pensi alle grandi feste annuali, innanzitutto, ma anche a tutte quelle cerimonie che, altamente simboliche, si legavano ancor più intimamente alla vita interna dello Stato: così la processione settimanale del mercoledì, quando il governo usciva dal palazzo Ducale e il clero da San Marco per "accompagnare il Cristo" - il doge-Cristo - fin dentro la Basilica.
In uno Stato in cui, come ha debitamente rimarcato Rona Goffen, "l'inclinazione all'autoglorificazione poteva essere difficilmente contenuta", a qualsiasi livello ci si collochi della tipologia formulativa di simili immagini politiche, sembra pressoché impossibile non vedere come i privilegi della Vergine supportassero l'immaginario della Repubblica. Così le prime componenti del mito veneziano si cristallizzano per mezzo di connotazioni affatto specifiche, che caratterizzano soprattutto due grandi categorie di immagini: quelle della Vergine e quelle di Gerusalemme.
L'affermazione, tanto nelle immagini quanto nei testi, della verginità di Venezia è - per così dire - storicamente esplicita: " [...> con la sua incorrotta purità" - scriveva Francesco Sansovino - "essa si difende da sola contro l'altrui insolenza". Un simile processo mentale partiva dalla constatazione metaforica della durata politica, proclamata come una delle peculiarità dello Stato veneziano, la cui indipendenza e libertà si erano preservate intatte da ogni dominazione straniera. Nelle formule adottate in numerosi testi poetici del secolo XVI messi in musica (8), Venezia è la Vergine - e la Vergine per eccellenza -, "già mill'anni intatta pura". Questa identificazione con la figura della Vergine, che conferiva alla città una portata iconografica considerevole, nel corso del Rinascimento ha percorso la storia politica veneziana: gli schemi retorici ad essa afferenti si incontrano ad esempio nella celebre orazione scritta per il doge Sebastiano Venier. Se in effetti l'immagine della Vergine la Vergine protettrice, in primo luogo - compariva in molti dei luoghi di elaborazione dei poteri (9), a Venezia essa si presentava in simbiosi e, in numerosi casi, si "fondeva" letteralmente nella rappresentazione allegorica della città (10).
Figura polisemica, se altre ce ne sono, è di certo l'immagine di Venezia assimilata a quella della "Virgine": Maria evocava la personificazione della città. Uno dei risultati maggiormente significativi della riuscita di questo meccanismo d'identificazione è la descrizione della "città vergine" da parte di due viaggiatori inglesi all'inizio del secolo XVII, soprattutto la Venezia vista da Thomas Coryat(11). Pubblicato nel 1611, il suo racconto esordisce con le "osservazioni sulla città vergine di Venezia, la più bella e senza uguale", definita vergine perché non fu giammai conquistata (12), seguitando poi:
[...> è soggetto davvero degno di considerazione pensare che questa nobile città, essendo una vergine pura e immacolata, ha sempre conservato la propria verginità lungo i suoi milleduecentododici anni, nonostante tanti Imperatori, Re, Principi e potentati possenti, attirati dal suo splendore, tentassero di violarla, ma ciascuno incontrandone il rifiuto, cosa questa fra le più strane e meravigliose. E dunque ella è stata sempre la privilegiata fra tutte le città, giacché nella Cristianità non v'è grande città che non sia stata conquistata da forza ostile: solo Venezia, Venezia tre volte fortunata e tre volte benedetta, come fosse stata fondata dagli dei essi stessi, e ricevendo quotidianamente qualche influsso divino e sacro dai cieli per sua alta protezione, si è sempre serbata intactam, illibatam, sartam tectam da sé da sola, mantenendosi fino a oggi monda da invasioni straniere (13).
Siamo di fronte a un vero e proprio compendio delle capacità propositive della macchina propagandistica veneziana: "[...> finisco il trattato su questa città incomparabile, questa regina meravigliosa fra le meravigliose, questa Vergine immacolata, questo Paradiso, questo Tempo, questo diadema, questa ricca e sempre fiorente ghirlanda della Cristianità" (14).
Visitando la sala del maggior consiglio, Coryat restò impressionato dalle "gloriose" scene centrali del soffitto; così egli descriveva la prima Apoteosi di Venezia di Veronese: "Nel primo comparto [...> è dipinta una figura della Vergine Maria con ornamenti di grande ricchezza, e un angelo la incorona". Privo di esperienza al cospetto di un tale montaggio visivo, il visitatore inglese faceva appello alle categorie di analisi che gli erano più familiari. Una bella donna in trono nei cieli, incoronata da una figura alata in presenza di una moltitudine di adoratori: che cosa poteva scorgervi uno sguardo cristiano se non - sottolinea, giustamente, David Rosand (15) - un'Incoronazione della Vergine?
Per meglio osservare il funzionamento di questo processo di trasposizione di senso, mette conto richiamare il programma iconografico pubblicato da Girolamo Bardi nel 1587 e nuovamente stampato nel 1606 (16), vale a dire poco prima del soggiorno veneziano di Coryat. Come ha molto convincentemente dimostrato Wolfgang Wolters, questo opuscolo rappresentava uno sforzo evidente di porgere a un pubblico più vasto lo scenario di una sorta di esibizione imperiale: la volontà di diffusione della formulazione mitica va particolarmente rimarcata nella misura in cui il visitatore inglese non ebbe la possibilità di compulsare il libriccino di Bardi, e proprio per questo motivo la testimonianza di Coryat ci appare particolarmente preziosa. Qui di seguito la sua descrizione di un'altra scena del soffitto del maggior consiglio, eseguita dalla bottega di Tintoretto:
[...> vi è rappresentato il doge, nella sua ducale maestà, accompagnato dai senatori e dai patrizi di maggior prestigio [...>. Poco al di sopra del doge è di nuovo raffigurata la Vergine Maria, con una corona in capo e assistita da due angeli: ella pasce il leone alato con un ramo d'ulivo, ciò che significa la pace (17).
Per Coryat, una donna dai connotati regali e sistemata fra le nuvole doveva necessariamente essere di essenza divina. Egli distingueva i livelli del cielo e della terra, nonché la possibilità di mediazione fra i due regni, onde è stato possibile definire la sua operazione una "semiotica visiva della Salvezza" (18). Le immagini che certamente Coryat aveva presenti sono quelle degli altari e, forse ancora più prossime alla sua sensibilità, le immagini votive quali si presentano nella sala del collegio e in altri luoghi del palazzo Ducale.
È dunque assai significativo che, quando la rappresentazione di Venezia discende dai cieli e guadagna il proprio trono sulla terra, non sia più la componente religiosa quella dominante. E dissolta l'aura sacrale, scompaiono anche i dubbi: nel dipinto di Palma il Giovane - sempre nel soffitto del maggior consiglio - con Venezia sovrana, installata al di sopra delle province conquistate e incoronata da una Vittoria alata, il senso del trionfo imperiale fu, questa volta, perfettamente inteso da Coryat, il quale parlava allora di "uomini armati che conducono una regina sulle spalle, ciò che significa Venezia" (19).
La Venezia di James Howell, così come essa ci viene restituita dalle pagine del suo trattato pubblicato nel 1651 (20), documenta la continuità dell'impatto dell'elaborazione contariniana (21) e della tradizione di tutti gli apologeti di Venezia. Le prime righe di Howell riassumono i principi fondamentali del mito:
Semmai è stato alla portata dello spirito umano prescrivere delle regole allo scopo di insediare una società e un insieme di persone [...>, la Repubblica di Venezia sarebbe il modello di governo più adatto sulla faccia della Terra per essere imitato. Questa Città Vergine [...> ebbe la prerogativa di nascere Cristiana e Indipendente [...>, e si è conservata intatta, Vergine intemerata, per un migliaio di Estati (22).
Non si dà mito senza la formulazione, all'interno dei racconti, di un enunciato delle origini. Numerose narrazioni celebrano la creazione di Venezia, ponendola il 25 di marzo. Il natale della città - alla cui bellezza ben opportunamente allude, pur anche al di fuori della designazione del giorno della settimana, l'espressione giorno di Venere - è inserito in un ciclo temporale. Nessun rischio di sopravalutazione nel rilevare l'importanza del fatto che il giorno dell'Annunciazione, appunto il 25 di marzo, è quello al quale fu miticamente fissata - e pure con largo consenso storiografico - la fondazione di Venezia (23), vero e proprio nodo ipertestuale della formulazione memorialistica veneziana come evocato da uno dei passi più famosi di Marin Sanudo (24). A proposito della collocazione temporale dell'origine divina della città, egli riporta che
Venezia fo comenzata a edificar [...> del 421, adì 25 Marzo in zorno di Venere cercha l'hora di nona ascendendo, come nella figura astrologica apar, gradi 25 del segno del Cancro. Nel qual zorno ut divinae testantur litterae fu formato il primo homo Adam nel principio del mondo per le mano di Dio; ancora in ditto zorno la verzene Maria fo annonciata dall'angelo Cabriel, et etiam il fiol de Dio, Christo Giesù nel suo immaculato ventre miraculose introe, et secondo l'opinione theologica fo in quel medesmo zorno da Zudei crucefisso (25).
L'influenza dell'iconografia della Vergine sulla rappresentazione-personificazione della Repubblica e la sua identificazione con Venezia si consolidavano nell'enunciazione del giorno della fondazione (26). Ci si ricorderà, infatti, come il meccanismo mentale che stava essenzialmente alla base dell'assimilazione della città con Maria, e che, al di là delle figure retoriche tradizionali, tale assimilazione aveva permesso, traesse origine e risiedesse nella tematica stessa dell'Annunciazione e, soprattutto, nella data di essa (27): qui è, evidentemente, una delle chiavi della traduzione in immagini della città marciana.
La versione tipo, evocante il transfert dalla terraferma in direzione della laguna - che, d'altro canto e per molti aspetti, entrava in contraddizione con altre versioni dell'evento originario come quella di Attila, per cui la città sarebbe stata fondata da un gruppo di profughi riparato in laguna per scampare all'invasore -, la si ritrova nella cronaca del padovano Jacopo Dondi, probabilmente redatta a partire dagli anni 1328-1339. Un racconto tanto sovente richiamato - quando non invocato - nel quale peraltro l'autore era assai preciso sul piano della ricostruzione (28): è il 25 di marzo dell'anno 421, verso mezzogiorno, quando un gruppo di Padovani fonda un nucleo di insediamento sul Rivum Altum, nella laguna veneta, e designa tre notabili a reggerlo con il titolo di consoli. La versione della leggenda fornita da Dondi fu tuttavia oggetto di controversia, poiché sembrava assegnare una sorta di primato a Padova, sua città natale. Di qui l'impegno a eliminare i riferimenti padovani, ma non quella datazione al 25 di marzo che si rivelò troppo beneaugurante per essere abbandonata. In effetti, Dondi si basava sulla pratica cerimoniale veneziana risalente forse al secolo XI -, di fare cominciare l'anno con il giorno dell'Annunciazione. E la medesima data, che compare in maniera più o meno ufficiale nella storiografia veneziana, si incontra tanto negli scritti di Martino da Canal (e dunque ben prima di Dondi) che in quelli di Andrea Dandolo, Bernardo Giustiniani, Marin Sanudo, Marc'Antonio Sabellico, Francesco Sansovino.
Marc'Antonio Sabellico, lui pure, non mancava di rammentare, seppure in maniera fortemente generica, che la stessa nascita della città fu posta sotto gli auspici della Vergine: "Dicono alcuni, che dove de hora è la chiesa di San Marco fu il principio di tanta fabbrica, e tutti quasi si accordano che tale principio fosse al XXV di Marzo". Continuava Sabellico:
Per la qual cosa, se noi volemo considerare alcune opere eccellenti in cotal giorno esser state fatte, non sara dubbio a creder che niuna in quel giorno ha principio, la qual non sia grande e maravigliosa, e è perpetua gloria delle cose humane le sacre lettere affermano in quel medesimo giorno l'omnipotenti Dio haver formato il nostro primo parente. Similmente che esso figliuol d'Iddio fu nel ventre della Vergine conceputo.
Comunicando a questo schema una nuova vitalità, Bernardo Giustiniani richiamava anch'egli il medesimo legame nel De origine urbis gentisque Venetorum historiae del 1493:
[...> il giorno sacrosanto fu scelto, lo stesso giorno in cui l'Arcangelo recò il messaggio divino alla Vergine gloriosissima. E fu in quel giorno che la sapienza più alta ed eterna, vale a dire la parola di Dio, discese nel seno della Vergine castissima affinché l'uomo, giacente nelle profondità dell'oscurità miserevole, potesse essere innalzato fino al consesso gioioso degli spiriti celesti. E in effetti non vi sono limiti alla sapienza divina. Giacché Colui che quel giorno scelse la Vergine per la redenzione della razza umana intera rivolgendosi all'umiltà sua, allo stesso modo volle che in quel giorno, in un luogo dei più umili e fra genti le più umili, dovesse cominciare l'ascesa di questo presente Impero, il principio di un'opera tanto grande. L'Impero romano era stato distrutto dalle tribù barbare, e crollata la potenza pagana, Dio nella sua infinita sapienza procurò che a quello sopravvenisse una confacente successione cristiana (29).
Le origini divine della città vergine non mancano mai di essere riaffermate (30). In una preghiera per il doge, datata verosimilmente al secolo XII, già si trova espresso tale convincimento: "Qui dominium venetum ab eterno mirabiliter disposuit" (31). E d'altra parte solo l'affermazione - per così dire - globale, dell'intervento divino poteva ergersi a garante della perfezione ideale della costituzione veneziana, imitazione terrena delle armonie celesti, come per altro verso si evince dalle orazioni ufficiali pronunciate dinanzi alla Serenissima Signoria da taluni inviati delle città soggette al dominio veneto, nelle quali, in modo persino ovvio, costoro inserivano soprattutto immagini del genere: ove si dimostra che gli schemi qui dipanati erano una eco evidente delle costruzioni encomiastiche di cui andiamo dicendo. Nelle orazioni lette lungo tutto il secolo XVI al cospetto del doge neoeletto, Venezia veniva comunemente comparata alla Vergine in base alla metafora Incarnazione-Annunciazione-Fondazione della città (32).
Evidentemente la data dei natali di Venezia era caricata di forti significati rituali. Il giorno della fondazione veniva misticamente collegato all'avvento dell'era cristiana, all'annuale rinascita della natura, ovviamente al primo giorno dell'anno civile e, ancora, al natale di Roma. Questo momento di festa e di commemorazione acquisì, e assai velocemente, un'importanza primaria, indubitabilmente impregnandosi di un suo proprio significato politico in quanto celebrazione dell'Origo Venetiarum, appunto fissata al giorno in cui il calendario marciano faceva principiare l'anno nuovo, rafforzandone dunque la posizione nella strutturazione veneziana dell'ordine del tempo (33). Qualche settimana prima, il 31 di gennaio, nel corso della festività per la traslazione del corpo di san Marco, due religiosi interpretavano i ruoli della Vergine e dell'arcangelo Gabriele in una sorta di sceneggiatura cerimoniale dell'Annunciazione secondo il Vangelo di Luca (1, 28-38) che stabiliva un parallelo gravido di conseguenze. Ma più ancora della ricorrenza dell'Annunciazione, gli scritti di Marin Sanudo (34) mostrano quanto fossero importanti, su questo piano, le feste della Natività e della Purificazione della Vergine; inoltre, durante la festa delle Marie (35), uno degli eventi di maggior rilevanza era precisamente anche qui la messa in scena dell'episodio dell'Annunciazione (36).
Leggiamo inoltre in Francesco Sansovino che l'origine provvidenziale della città significava che i Veneziani avevano ereditato i diritti dalla Roma antica, e ciò non solamente per l'alto simbolismo a quest'ultima intrinseco, ma anche perché quella della discendenza romana era una delle due leggende relative alla fondazione che furono inserite nelle cerimonie ufficiali. Così come la processione dell'Ascensione e la messa solenne in San Marco coniugavano in maniera permanente il destino della città con la volontà divina, altresì la connettevano idealmente con l'armonia della natura e con l'autorità imperiale di Roma. Non per nulla tutti i cronisti ripetono che, con la consacrazione della chiesa di San Giacomo, Venezia nacque nel giorno dell'Annunciazione sopra le rovine dell'Impero romano.
Ogni operazione di renovatio politica e sociale mette in campo il passato, implica le origini. È del tutto conseguente, pertanto, che nei periodi di cambiamento - o almeno di proclamata volontà di cambiamento - tale richiamo si faccia più intenso, veicolato da un linguaggio, da un "Verbo", destinato a essere esibito. Si è sovente sottolineata - con ragione - la peculiare percezione veneziana dell'ordine temporale, ordine in cui la volontà di rinnovamento, con la componente principale data dal ritorno alle origini, non era un ricominciare, bensì, a più forte titolo, una tappa nella continuità, dove il risalire al valore intrinseco dell'origine non costituiva in nulla una rottura. Si vede bene quali e quante comode opportunità questa concezione potesse fornire alla rappresentazione dello Stato.
Ed effettivamente tutto un ordine di rappresentazioni sembra contrassegnato da un procedimento siffatto. Siamo qui in presenza di un fattore non secondario delle formulazioni che veniamo analizzando, ovvero di una spazializzazione dei concetti temporali o, in altri termini, di una poderosa inserzione dei segni del tempo nello spazio.
Quali fossero le implicazioni della sola percezione del giorno della fondazione è facile indovinare; quanto alla connessione mentale, al livello innanzitutto cronologico, dell'episodio in cui l'arcangelo si manifesta con lo spazio urbano veneziano, proprio essa sta in qualche modo alla base dell'equazione Venezia-Vergine, collocandosi il 25 di marzo in primo piano nel quadro di una cronologia mentale affatto specifica. Certo si trattava sostanzialmente di una affermazione pubblica da parte di uno Stato che si identificava con i propri santi protettori: per estensione, poiché l'Annunciazione alludeva alla fondazione dello Stato medesimo, la tradizionale rappresentazione di Maria e di Gabriele a Venezia recava in sé, inevitabilmente, profonde implicazioni politiche e religiose (37).
La stessa scena svetta dalle altezze della basilica marciana - parliamo qui dell'arcone centrale - e si proietta sulla Piazza, alla quale mette a disposizione una delle componenti essenziali della sua simbologia; e in facciata - una facciata pregna di significati politici -, il rilievo marmoreo con la Vergine e l'arcangelo annunziante si accompagna alle raffigurazioni degli altri protettori della città, San Giorgio e san Demetrio e, non ultimo, Ercole, il mitico eroe tribale dei Veneti. Ancora, l'Annunciazione verrà nuovamente rappresentata sul ponte di Rialto, questa volta con l'accompagnamento del primo patrono cittadino, san Teodoro, e di san Marco, suo successore. Come si vede, il punto di partenza della storia della Salvezza è parimenti il punto di partenza della storia dello Stato, concomitanza che fonda una parte dell'iconografia veneziana.
In stretto rapporto con la Vergine Annunciata è l'immagine della Vergine Incoronata e Immacolata e, anzi, l'immagine dell'Immacolata è un corollario dell'Annunciata (38). Una complementarità, questa, che trae con sé molteplici analogie. Ci troviamo alle prese con una struttura fondamentale della rappresentazione di Venezia, cui bene si attagliano le parole di Francesco Sansovino: "Venetia Vergine [...> con la sua incorrotta purità" (39).
L'affresco con il Paradiso di Guariento - pervenutoci in maniera frammentaria - è una delle immagini focali dell'immaginario veneziano (4°). Si sa che, negli anni susseguenti alla celebrazione epistolare della Repubblica da parte di Petrarca, il doge Marco Corner si rivolse all'artista per la decorazione della sala del maggior consiglio, affinché vi rappresentasse una Vergine incoronata e circondata dalla corte celeste, dalle figure di san Paolo, del Battista, delle vergini, dei martiri, dei profeti, degli evangelisti, di Adamo ed Eva, degli apostoli e dei padri della Chiesa d'Occidente. Tuttavia l'organizzazione medesima della composizione esibiva una connotazione assai particolare, là dove, accanto al consesso dei santi, vi erano due edicole con i protagonisti dell'Annunciazione, l'arcangelo Gabriele e l'Annunciata. Questa relazione concettuale e spaziale è centrale per la comprensione dello sviluppo, durante il secolo XIV, della formulazione mitica. Dipinto sulla parete immediatamente dietro al palco sul quale prendeva posto il doge, l'affresco non poteva non avere degli evidenti significati politici (41): se con la commessa al Guariento il governo di Venezia si dichiarava naturalmente posto sotto il patronato della Vergine, questo "trionfo" della Vergine Venezia - in seguito dominato dalle allegorie veronesiane del soffitto - costituiva un aperto rimando alle pretese politico-religiose dello Stato marciano.
Per quanto un simile avvicinamento, una simile contaminazione formale non fossero propri di Venezia soltanto, quella rivendicazione in se stessa rendeva pressoché unica l'immagine veneziana. La tradizione rammenta del resto i versi di Dante - che si trovavano sul trono della Vergine e che si riteneva il poeta fiorentino avesse composti durante un'ambasceria presso la Repubblica - nei quali si contempla Maria e "l'Universo che l'ha fatta Regina". L'allusione era trasparente, e faceva del Paradiso il luogo dell'incontro di due tematiche in sé distinte e ora solidali nella costruzione di una metafora visiva della fondazione, del trionfo e della glorificazione della città. Per via dell'ubicazione, del contenuto e dell'organizzazione interna, l'immagine aveva raggiunto pienamente i propri obiettivi e pertanto, ridotta su scala mondana, fu apprezzata in città come una delle icone della formulazione mitica veneziana: così le toccò di essere copiata a tre riprese e solo nella prima metà del Quattrocento, godendo di considerevole fortuna iconografica. E per la stessa ragione Tintoretto riprenderà la scena dell'Incoronazione della Vergine quale pagina centrale della sua colossale tela con il Paradiso.
Date queste premesse e in presenza di referenze visive così importanti come questo modo di rappresentazione del Paradiso - tanto presso Guariento che presso Tintoretto -, pare inevitabile, seguendo tale logica, che la personificazione secolare di Venezia e le immagini politiche dello Stato si basassero, almeno in parte, sulla figura di Maria. Se il momento trionfale dell'Assunzione è l'atto dell'Incoronazione, così l'evocazione di quell'atto si compendia nell'Assunzione in quanto tale, ciò che trova una corrispondenza nell'iconografia ufficiale della Serenissima: l'immagine della "Virgo Immacolata" riporta al cospetto dell'immagine di Venezia.
Molti indizi permettono di mettere in parallelo la devozione ufficiale e quella individuale. Ad esempio, un'invocazione alla Vergine in favore del doge Nicolò Tron (42) - del quale si può supporre la personale dedizione al culto mariano, ricordando che venne tumulato nel coro dei Frari - si rivolge a Maria come all'"imaculata piena di gracia"; accettato il "saluto angelico" come una prova dei privilegi mariani, la combinazione di questi epiteti nelle laudes veneziane non sorprende. E uno dei successori di Tron, il doge Agostino Barbarigo, era direttamente associato al culto riservato in Venezia all'Immacolata Concezione, essendo stato uno dei patrizi incaricati di sovrintendere alla costruzione di una nuova chiesa specialmente intitolata a quell'evento, Santa Maria dei Miracoli. E proprio nel giorno di detta ricorrenza, nel 1480, fu posta la prima pietra della fabbrica che, una volta completata nel 1489, avrebbe visto accompagnarsi quali dedicatarie l'Immacolata Concezione e la Vergine Immacolata (43): insomma, nella chiesa dei Miracoli, la Vergine Immacolata si identificava con la Vergine patrona di Venezia.
In questo modo e ancora più strettamente, l'immagine della Venezia personificata poteva saldarsi con quella della Vergine, confortata l'operazione dalla dottrina dell'Immacolata Concezione che assicurava una base retorica di maggiore ampiezza (44). Il linguaggio del Cantico dei Cantici, da molto tempo associato dalla liturgia come dalla teologia con il culto dell'Immacolata Concezione, rendeva così perfettamente esplicita la metafora per cui Venezia era come la Vergine Immacolata.
Una iperbole prossima talora a formulazioni quasi blasfeme venne sviluppandosi allora in modo ostensibile facendo aggio sulla liturgia mariana (e sui passi del libro della Sapienza, nell'Antico Testamento, che tale liturgia sottendono); una retorica che sarebbe divenuta corrente nella panegiristica veneziana ed era ancora in qualche modo operante sul finire dello scorcio temporale che qui prendiamo in considerazione, come lo era stata la rappresentazione del Paradiso di Guariento più di due secoli addietro. Nell'Orazione pronunciata davanti al doge Pasquale Cicogna nel 1585, Luigi Detrico da Zara comparava Venezia alla Regina del Cielo:
Di Vinegia dirò adunque per somiglianza quel che con verità canta Santa Chiesa della Regina del Cielo, chi è questa che quasi Aurora, vassene innanzi come il Sol bella, eletta come la Luna, terribile qual d'armati ben ordinata squadra (45)?
Il trittico di Jacobello del Fiore custodito presso le Gallerie dell'Accademia va assunto anch'esso in questa ottica, a misura che interrogazione iconografica, scambio visivo e deliberata ambivalenza concettuale sono manifestamente presenti nell'opera. Si aggiungono infatti alla scena dell'Annunciazione, d'un canto le immagini del leone - ovviamente dalla duplice vocazione - e dall'altro il libro della Sapienza. Si ha qui il risultato di assimilazioni iconografiche che sembrano essersi prodotte durante il Trecento, nello stesso momento in cui l'immagine di Venezia pare strutturarsi in relazione alla tematica del Giudizio di Salomone.
Il dipinto, che per quanto detto sopra è stato denominato il Trittico della Giustizia, in origine faceva mostra di sé nell'aula del magistrato del proprio in palazzo Ducale e, non foss'altro che per questo, la natura ufficiale e pubblica delle tavole di Jacobello è indiscutibile. Una messa in scena dell'Annunciazione che risulta ancora più forte quando la si cali nell'ambiente culturale del primo Quattrocento, nella Venezia di Francesco Foscari e dell'espansione della Serenissima in Terraferma, più precisamente in concomitanza con la celebrazione del millenario della città: e in quell'anno 1421 Lorenzo de Monacis pronunciava la famosa orazione in onore di Venezia (Oratio elegantissima in laude et aedificatione alme civitatis Venetiarum) - un autore e un testo che ritroveremo più volte lungo la nostra esposizione.
Ma riveniamo al trittico di Jacobello, ove nella figura centrale le implicazioni del concetto di sede della Sapienza - che raccorda l'uno all'altro i troni di Salomone e di Maria, intesi questi ultimi come i portatori della parola di Dio - risultano più che rafforzate. Nelle ante laterali sono gli arcangeli Michele e Gabriele, e un'iscrizione dietro alla donna regale al centro attesta che ella adempierà agli avvisi degli angeli e alle parole sante ("Exequar angelicos monitus sacrataque verba"): Michele, il guardiano della giustizia divina, e Gabriele, esplicitamente identificato come l'annunciatore della nascita verginale della pace fra gli uomini ("Virginei partus humane nuncia pacis / vox mea") chiedono umilmente alla Vergine di condurre l'umanità attraverso l'oscurità. Ma è la presenza di Gabriele, il messaggero dell'Incarnazione, che in questo particolare contesto appare maggiormente pregnante ai fini del nostro discorso: l'arcangelo con il giglio è raffigurato nell'atto di rivolgersi alla Vergine, con evidente allusione al suo ruolo. E proprio la posizione di Gabriele e le allusioni contenute nel suo testo alimentano quell'ambivalenza che avvertiamo centrale nell'immaginario iconografico veneziano. La scena dell'Annunciazione evoca la data del 25 marzo, l'Incarnazione teologica che diede avvio alla nuova era della grazia cristiana e l'incarnazione storica nel quattrocentoventunesimo anno di quell'era, l'anno che vide la fondazione della città. Evidente l'intenzione espressa attraverso la struttura di una composizione che elabora uno schema teso dal duplice referente del 25 marzo, l'inizio della storia di una città e, insieme, dell'atto della Salvezza.
La figura femminile in trono, in posizione centrale, possiede una triplice identità. È la Giustizia, cui l'arcangelo Michele si avvicina con la sua bilancia. Ma è anche Venezia, incarnazione civile della Giustizia secondo quello che differenti immagini e documenti veneziani affermano con nettezza, dai biondi, lunghi capelli e incoronata, alla maniera di più tardive figurazioni della Serenissima personificata di Veronese e di altri. Ed è la Vergine Maria, cui a sua volta si approssima l'arcangelo Gabriele in modo da richiamare inevitabilmente l'Annunciazione e con parole che si riferiscono all'Incarnazione del Cristo. In tutta evidenza, Jacobello e i suoi committenti volevano che la figura femminile nella parte centrale dell'opera potesse rappresentare, o per lo meno suggerire, la Vergine Annunciata.
Il linguaggio visivo proposto da questo trittico, peraltro più esplicito di altre immagini dello stesso soggetto, illustra in modo trasparente l'equivalenza delle personificazioni di Venezia e della Giustizia con la Vergine Immacolata. Rammentando a chi guarda il saluto di Gabriele a Maria nel momento dell'Annunciazione, la scena mette dunque in campo la dottrina dell'Immacolata Concezione, là dove l'espressione "piena di grazia" viene assunta quale evidenza scritturale dell'Immacolata Concezione mariana e perciò stesso frequentemente citata nei testi che la affermano. Forse è proprio per questa ragione che Jacobello volle ornare la corazza indossata dalla Giustizia con l'immagine del Sole, la quale a sua volta rimanda a quel passaggio del Cantico (6, 10) cui si rifacevano i partigiani della dottrina dell'Immacolata Concezione.
Un dettaglio ulteriore della composizione rende manifesta l'intenzione di Jacobello - e dei suoi committenti ufficiali - di mostrare la città serenissima sotto le specie della Vergine Immacolata. Il trono è affiancato da due leoni e - si badi - leoni vivi, fiere autenticamente ritratte e non già trasposizioni immaginarie di sculture, del tutto appropriati a ciascuna delle tre identificazioni della figura centrale: ecco allora che, facendo esplicito riferimento agli attributi dell'evangelista Marco, gli animali stessi costituiscono una incarnazione della città lagunare; poiché alludono - e su questo tema faremo ritorno - ai loro omologhi del trono di Salomone, archetipo del sovrano saggio e giusto, non v'è migliore accompagnamento per l'immagine della Giustizia; infine, essi formano la tradizionale ornamentazione del trono della Vergine, propriamente perché la Vergine è essa stessa "sede della Sapienza", la sedes Sapientiae, il trono di Salomone. Tutto ci orienta, ancora una volta, verso la Vergine Immacolata quale si adombra nel libro della Sapienza (46).
La Venezia immacolata di Tiziano è uno dei tentativi maggiori nell'ambito di questo genere di rappresentazione, e segnatamente con la Presentazione al Tempio della Scuola della Carità - uno dei numerosi centri del culto dell'Immacolata Concezione veneziani -, un quadro (ora presso le Gallerie dell'Accademia) in cui l'immagine della Vergine Immacolata è presentata in associazione con altre componenti e che anticipa l'Incoronazione della Vergine per mezzo della figura di un angelo che si avvicina recando la corona ad essa destinata. Anche nell'antica chiesa di San Giacomo dell'Orio (la parrocchia dei Pesaro) si celebrava il culto dell'Immacolata, come pure in almeno due delle Scuole grandi, soprattutto a Santa Maria della Misericordia (fin dal 1493) - dedicata congiuntamente alla Vergine e a San Francesco - e a Santa Maria della Carità (a partire dal 1496). Tuttavia era la chiesa dei Frari il tempio mariano per eccellenza, che appunto veicolava l'immagine di Maria sotto le specie dell'Immacolata: insieme all'altar maggiore, dedicato all'Assunzione, le erano consacrati altri sette altari, fra i quali quelli intitolati dalla famiglia Pesaro all'Immacolata Concezione (47). Inoltre vi veniva venerata la Madonna delle grazie, proveniente dal chiostro della Santissima Trinità (48).
Alla data dell'8 dicembre 1518 Sanudo scriveva: "Fo la Conception di la madona qual si varda in questa terra za pocho, e si fa solenne festa maxime ai Frati Menori et a San Jacomo di l'Orio. Etiam in la Scuola di la Misericordia, la qual ha electo questa Nostra Dona per la sua festa" (49). Si è ipotizzato che queste parole di Sanudo - ben più precise che non quelle relative all'anno precedente, quando il cronista si accontentava di menzionare la festa senza fare commenti - possano essere messe in relazione con la collocazione dell'Assunta di Tiziano ai Frari, che ebbe luogo il 19 maggio dello stesso anno. Con questo dipinto, come con altre tre grandi opere conservate nella basilica, siamo al cospetto di una vera e propria "doppia iconografia", sacra e profana insieme, che combina - come ha dimostrato Rona Goffen (50) - la rappresentazione dell'Immacolata Concezione con evidenti allusioni alla Serenissima. In realtà la cappella della sagrestia propriamente consacrata all'Immacolata Concezione già alla fine del secolo XV era forse inadatta a diventare uno spazio pubblico per la celebrazione di quella ricorrenza; ciò nondimeno la chiesa dei Frari finì per essere particolarmente associata alla festa dell'Immacolata a cominciare dal 1518, vale a dire otto anni prima della sistemazione della Madonna Pesaro sull'altare della cappella della Concezione. Se già l'Assunta costituiva verosimilmente un punto focale di quel culto, è chiaro che la cerimonia dell'Immacolata Concezione venne ad essere sempre di più collegata alla chiesa: fu così che, dopo il compimento dell'opera di Tiziano, la festa si tenne dinanzi all'altare dei Pesaro, come Sanudo descrive sotto l'anno 1526 (51).
D'altronde i Pesaro erano in prima linea nel promuovere la devozione per la Vergine Immacolata nonché - ma su un altro piano - nel prendersi cura che venisse celebrata convenientemente: Francesco, dunque, fece in modo che ogni giorno venisse detta una messa presso l'altare di famiglia, mentre Jacopo ogni 8 di dicembre offriva un pasto ai frati. I due dipinti d'altare dedicati alla Concezione e commissionati dai Pesaro - il trittico di Giovanni Bellini nella sagrestia e la grande tela di Tiziano - avevano la funzione di ricordare all'osservatore i servigi prestati dai Pesaro di San Benedetto alla Repubblica. Se il trittico belliniano assolveva al proprio ruolo con una certa qual discrezione e implicitamente a mezzo della citazione del mosaico d'oro di San Marco, Tiziano e lo scultore del monumento di Benedetto Pesaro (che fu capitano da mar e morì nel 1503) erano ben più espliciti e pronti a utilizzare formule apertamente encomiastiche nell'intento di commemorare le imprese individuali dei donatori in favore dello Stato. E la medesima "doppia iconografia" si rileva nell'Assunta dipinta da Tiziano per l'altar maggiore, pure se qui la traduzione in immagine poteva fare scoperta allusione all'identità di Venezia in quanto tale, suggerendo in tal modo una affiliazione dell'istituzione francescana allo Stato; nella temperie della Venezia rinascimentale, è del tutto credibile supporre presenti nella pala con l'Assunta significazioni civili del genere (52).
Quanto alla Pietà - dipinto concepito da Tiziano per la propria sepoltura presso l'altare del Crocefisso ai Frari -, anch'essa è rappresentazione della Vergine Immacolata (53). Maria, in quanto socia Christi Redemptoris, condivide la sofferenza del Figlio e partecipa così alla sua azione di redenzione: questa è la ragione per la quale il quadro (54) va considerato insieme alle precedenti opere di Tiziano per i Frari e al trittico di Bellini. Il dolore della Vergine si impagina entro un arco ornato di vittorie alate ai lati dell'abside, uno schema e delle decorazioni che ricordano l'altar maggiore dell'Assunzione. In quest'ultimo dipinto, la figura della Madre è giustapposta alle immagini del Cristo morto e del Cristo resuscitato nella cornice, come pure alle Vittorie dipinte sulle pietre angolari. La Madre Dolorosa piange il Figlio, ma il trionfo definitivo sulla morte viene anticipato nel simbolismo della composizione e reso perfettamente comprensibile dall'iscrizione della Sibilla: "Il Signore è risorto".
Nell'ambito dei Frari - e, soprattutto, date le relazioni continuative di Tiziano con i francescani di Venezia e di molte altre città -, non v'è dubbio che anche questo dipinto rappresentasse la Vergine Immacolata, tanto più che il pittore richiama qui il motivo leonino della tradizione, pure se i leoni ricorrono con i tratti di sculture. Il tema del trono con i leoni non è certo peregrino in simile contesto: Maria è la Sapienza, cui fanno riferimento i leoni, è la prima creatura di Dio, esaltata in versetti delle Scritture sovente citati per comprovarne l'Immacolata Concezione (55). Il significato della presenza leonina è qui identico a quello trasmesso dal trittico di Jacobello del Fiore un secolo e mezzo innanzi, ché i leoni esprimono a un tempo lo Stato veneziano e la sua identificazione con la Giustizia nonché, implicitamente, con la Vergine quale sedes Sapientiae. I leoni decorano i piedistalli delle statue immaginarie della Sibilla dell'Ellesponto e di Mosè, il quale ultimo si ricollega all'interpretazione globale dell'opera (56). E tale significato viene infine espresso allusivamente per mezzo della citazione del mosaico d'oro nella lunetta dell'arco che inquadra la scena, motivo strettamente connesso a Giovanni Bellini come dimostra il trittico di quest'ultimo ai Frari. Il mosaico, allora, fa apparire vedute di San Marco nelle quali, al di là dell'immagine immediata della chiesa, affiorano le associazioni ricche e diverse delle quali essa è l'oggetto, tanto sul piano religioso quanto sul piano sociale e politico (57), adombrando contemporaneamente, con ogni probabilità, i duraturi rapporti dell'artista con lo Stato e il suo statuto di pittore ufficiale (58).
L'insieme delle quattro opere (l'Assunta, la Madonna Pesaro, la Pietà tizianesche e il trittico belliniano) sta dunque in stretta relazione con la consacrazione dei Frari al culto dell'Immacolata, attraverso immagini che intendono sollecitare l'analogia fra la Vergine - e quindi la sua chiesa - e la Repubblica Serenissima.
Accanto ad altre feste veneziane collegate alla devozione mariana, quella dell'Assunzione ma anche, per assimilazione, quella della Sensa non potevano che rivestire connotazioni civili. Occorre innanzitutto notare che il medesimo testo biblico veniva utilizzato per ambedue le ricorrenze, precisamente allo scopo di sottolineare i rapporti che le univano: l'Assunzione confermava insomma l'Immacolata Concezione, ciò che mostra assai bene l'effigie della Vergine più venerata della Repubblica, vale a dire l'icona bizantina della Nicopeia (59). Attribuita addirittura alla mano di san Luca, questa tavola era considerata dai Veneziani una sorta di palladio repubblicano e portata in processione nella Piazza il 15 agosto, giorno dell'Assunzione. Il racconto della cerimonia fatto da Sanudo per l'anno 1500 lascia intendere che allora l'ostensione della Nicopeia era divenuto un fatto abituale: "Fo fato la precession atorna la piaza, e il patriarcha canto la mesa, e fo portà una Nostra Dona a torno, si dice fata di man de San Lucha" (60). Va da sé che la festività era impregnata di forti significati pubblici.
L'Assunzione della Vergine è equivalente all'Ascensione del Figlio, siccome ci rammentano le statue del Cristo risorto al di sopra dell'Assunta tizianesca e la stessa metafora dello sposalizio con il mare messo in scena nel giorno della Sensa (61). Che l'Ascensione del Redentore (la Sensa, appunto), teologicamente comparabile all'Assunzione della Vergine, venisse egualmente posta in parallelo con quest'ultima sulla base delle implicazioni civiche è un tratto caratteristico del pensiero politico veneziano e, anzi, solo all'interno di questo quadro di riferimento metaforico è possibile situare realmente la maggiore celebrazione civile della Repubblica (62).
La mescolanza di immagini sacre e di immagini civico-politiche trovava ad esempio una delle espressioni di più vasta portata nel carattere sacro del doge (63) lo studio di Sinding-Larsen (64) è uno dei punti di partenza che autorizzano questa analisi - e più generalmente in ciò che Felix Gilbert (65) ha chiamato la "coscienza dell'esistenza di una completa integrazione di tutte le funzioni civili - la politica, la religiosa, la sociale, l'economica". Una integrazione connotata da una evidente volontà propagandistica, utile ad attestare che i grandi avvenimenti del passato di Venezia avevano avuto luogo in coincidenza con i giorni delle feste fondamentali del Cristo e della Vergine (66), vale a dire due trionfi sulla morte similari (67). In un simile contesto, è importante notare come solo dopo aver analizzato tanti e tali contributi di una teologia produttrice di accostamenti, utilizzati poi nei rituali civici, sia possibile portare il discorso su immagini come quelle offerte dalla festa della Sensa, a proposito della quale troppi testi del secolo scorso hanno formulato discorsi privi di fondamento reale. L'essenziale è che, probabilmente, si riteneva soprattutto che la festa dell'Assunzione fosse comparabile in tutte le altre sue componenti a quella dell'Ascensione.
La commemorazione della sempre rinnovata unione simbolica con il mare (68) si ritrova certamente nella rievocazione sansoviniana delle origini della festa (69), ma particolarmente interessante risulta la testimonianza datata al 1497 del cavaliere tedesco Arnold von Harff, che nel suo Diario registrò la descrizione della cerimonia (70), evidente attestato dell'efficacia di tale retorica, visiva non meno che scritta, facente leva sul richiamo alla Vergine Immacolata, da un lato, e sull'evidenziazione dei meccanismi di circolazione dei suoi attributi, dall'altro, ché, infatti, questa Vergine è anche la Vergine di Giustizia, donde appunto le sue qualità essenziali: Verginità, Giustizia, Purezza vanno allora a formare un'unica immagine, quella di Venezia.
A partire dai temi dell'unicorno e della Vergine, anche le allegorie giorgionesche di Venezia debbono venir prese in considerazione, più precisamente rivisitando tre realizzazioni della medesima natura attribuite a Giorgione stesso o alla sua cerchia. Il dipinto giorgionesco del Rijksmuseum di Amsterdam, designato frequentemente come Allegoria della castità ovvero come Santa Giustina di Antiochia, è stato riletto da Lionello Puppi, in termini quasi araldici, come "Allegoria di Venezia" (71), là dove il tema dell'unicorno pertiene appieno al repertorio iconografico del mito veneziano. Siffatta redazione del mito rimanda di necessità ad altre immagini, tale la decorazione del palazzo costruito da Andrea Loredan sul Canal Grande (oggi Vendramin-Calergi) (72), nella quale l'unicorno in posizione centrale fiancheggiava su di un medesimo registro il simbolo leonino dell'evangelista, la cui traduzione in immagine ne perseguiva la più larga diffusione. Il tema (73) implica evidentemente un riferimento alla Vergine e al mistero dell'Incarnazione, ma ulteriori referenze suscettibili di essere applicate al tema in oggetto autorizzano metafore contestualmente connotate; e d'altronde e naturalmente l'immagine riconduce a un'abbondante produzione letteraria e teatrale quale, ad esempio, la tradizione petrarchista dell'astrazione della Castità, o la figura polifilesca del carro del "tertio triompho", o, ancora, gli spettacoli messi in scena presso la "corte" di Caterina Cornaro. E sembra imporsi un'accezione che va nel senso della deutera physis come proposta dalla versione greca del Physiologus, divulgata in Occidente dalla diaspora degli intellettuali bizantini all'indomani della caduta di Costantinopoli, la quale attribuisce all'animale - o, meglio, al suo corno - una specifica virtù: quella di purificare miracolosamente le acque avvelenate.
Nessun dubbio che si tratti allora di una di quelle immagini strumento della comunicazione retorica la cui portata non è mai trascurabile nel processo di affermazione degli orizzonti ideologici, tant'è che nell'arco di anni compreso fra il 1488 e il 1510 due pezzi nuovi, due liocorni, entrarono a far parte del Tesoro marciano, l'uno evocante Gerusalemme e l'altro Costantinopoli, ragguagli ideali e perfetti per la rifondazione quale veniva prospettandosi nel quadro retorico della renovatio. La testimonianza di Sanudo, d'altra parte, rende ben conto dei successi liturgici e - diremmo - processionali di tali nuove acquisizioni.
Lo spessore di significato di un altro dipinto giorgionesco egualmente analizzato secondo i modi della "Allegoria di Venezia", la Madonna leggente di Oxford, è stato ampiamente sottolineato. Anche qui, uno degli elementi iconografici più importanti serve alla cronologia dell'opera, che può essere situata post 1506, giacché solamente a quella data furono completati i due corpi di fabbrica laterali della torre dell'Orologio che compaiono nel quadro. Il possibile committente può ragionevolmente essere collocato fra i dotti benedettini di San Giorgio, essendo accertato che il complesso architettonico visibile sullo sfondo è colto da un'angolatura che è precisamente quella dall'isola che ospita quel monastero. Ma l'aspetto di maggiore rilevanza sta nel valore simbolico che assume qui l'immagine del palazzo Ducale, a confortare l'ipotesi di un'attiva partecipazione di Giorgione al mito di Venezia, all'identificazione della città con la Vergine, insomma a quella speculazione politica di cui Staale Sinding-Larsen ha appropriatamente messo in luce gli aspetti figurativi. Mediante questa metafora, il piccolo quadro oxoniense fa mostra di aver recepito l'assimilazione della Vergine al topos della città giusta, che Sansovino dirà "non per mano d'huomini fabricata, ma [...> per parola del Re Celeste sopra l'acqua sorta". All'immagine della Madonna è dunque conferita la portata e il valore di un'allegoria di Venezia, cui i versi qui di seguito di Francesco de' Alegris offrono una comoda referenza semantica:
Inclita regina, vergine doncella
Del mondo specchio sei, Venetia bella [...>
lei verzen conservata honesta e pura
nel mondo iace come una lumiera [...>.
Gloriar ti poi esser chiamata madre
e ben adoctata figlia de Justitia (74).
La Venezia-Ecclesia, la Venezia-Fides, compare anche in una orazione scritta per il doge Pasquale Cicogna, nella quale all'evidenza dell'equiparazione Venezia-Vergine si fanno conseguire tutti i significanti ecclesiologici che ne discendono: "[...> di Vinegia dirò adunque [...> per somiglianza quel che con verità canta Santa Chiesa della Regina del Cielo" (75). L'abilità con la quale la Repubblica Serenissima giunse a mettere a punto e a sfruttare tal glorificante rappresentazione nel quadro dell'iconografia politica che le era propria è pienamente dimostrata da un dipinto votivo di Domenico Tintoretto nell'Avogaria di palazzo Ducale, nel quale sono ritratti membri di quella magistratura e avvocati. Al di sopra di costoro, su di un globo presentato da un angelo e accompagnato da una figura identificabile come virtù ecclesiale o trionfante e sopra ancora ad altre figure che sono quelle della Collera e dell'Invidia, una Venezia regale riceve il sangue che stilla dal costato del Cristo. A mezzo di questo diretto rapporto con l'Eucarestia, l'immagine politica di Venezia si impossessa del ruolo tradizionalmente tenuto da Ecclesia o Fides e il cui attributo è proprio il calice.
La connotazione apertamente antipontificia della composizione ne fissa l'esecuzione a un periodo precisamente individuato, fra il maggio del 1606 e l'aprile del 1607, cioè entro i dodici mesi della scomunica fulminata sul governo marciano e dell'interdetto proclamato nei confronti del dominio veneto tutto. La sostituzione di Venezia alla Chiesa nel quadro di Domenico Tintoretto trasmuta nell'affermazione - anche se pittorica della politica dello Stato. La sfiducia veneziana nei confronti della Santa Sede, che ebbe nella persona di Paolo Sarpi il più autorevole e facondo assertore, e il conflitto fra lo Stato serenissimo e la Chiesa appassionarono l'Europa intera, primi fra tutti i centri protestanti del Nord; basti qui ricordare l'impatto che avrà d'ora in poi il tipo di iconografia politica emanante da Venezia al livello della formulazione della libertà politica in un luogo come Amsterdam. Ed era ancora un problema spinoso, quello dei rapporti fra Venezia e Roma, allorché Thomas Coryat si imbarcò per il suo Grand tour nel 1608.
Eternamente vergine, Venezia veniva divulgata da tutto un insieme di immagini retoriche e formali alla stregua di una istituzione di origine divina e provveduta di una propria missione storica; e in quanto città incarnata, la sua rappresentazione poteva essere legittimamente presa a sua volta per incarnazione dell'Ecclesia. Nel secolo XV questa parificazione era stata istituita a partire dal concetto di giustizia. Una sintesi tanto speculativa che figurativa attribuiva al personaggio della Giuditta biblica - e talora a Giuditta e a Ester insieme - il valore di imago Ecclesiae, sicché Giuditta che decapita Oloferne poteva essere equiparata all'Ecclesia che combatte vittoriosamente l'Infedele ovvero a Maria che schiaccia il serpente. D'altronde occorre rammentare come il parallelo fra Giuditta e Maria fosse già virtualmente suggerito nello stesso testo biblico (76) - argomento sul quale ritorneremo in seguito, a proposito dell'antica ornamentazione del fondaco dei Tedeschi a Rialto. Ma nessuna immagine riassume altrettanto concisamente questo discorso quanto l'Annunciazione di Bonifacio de' Pitati.
Lo Stato veneziano era divenuto ormai componente di una teologia della Salvezza. Nei pannelli laterali del trittico di Bonifacio, dipinto verso il 1540 per la camera degli imprestidi nel palazzo dei Camerlenghi a Rialto e oggi presso le Gallerie dell'Accademia (77), compaiono l'angelo annunciante e la Vergine, mentre nel pannello centrale sono Dio Padre e la colomba dello Spirito Santo che, librati sopra a una veduta della Piazzetta e del palazzo Ducale, spargono le proprie benedizioni su piazza San Marco. S'è scritto al riguardo che, in ragione della propria raffigurazione, lo Stato appare nel dipinto come direttamente implicato nel movimento teologico della Salvezza. Fatto è che Venezia poteva partecipare in prima persona all'impresa salvifica in quanto simultaneamente ospite e invitata all'atto dell'Incarnazione e, ancora, in quanto beneficiaria di una propria e specifica sanzione divina.
Mentre è chiaro che una metafora del genere doveva rimanere per forza di cose - giacché si tratta della caratteristica primaria di ogni operazione mitica - ellittica negli obiettivi e allusiva nel processo, i suoi significati si inscrivono in un complesso meccanismo di scambio fra storia e teologia mitiche. Nondimeno - e nonostante che i mezzi di comunicazione di tale metafora restassero alquanto indiretti -, la densità politica del messaggio aveva una evidente risonanza: Venezia proclamava il miracolo della propria nascita e la divinità della propria missione, procedendo - per dir così - alla cooptazione dell'Annunciazione. E questo messaggio non poteva che collaborare ad addensare vieppiù e vieppiù complicare il significato della Venezia personificata. La fondazione della città serenissima poteva stare palesemente in parallelo con l'Incarnazione di Cristo.
La "santa Republica", secondo quanto afferma Sanudo, si mostra altresì come Nuova Gerusalemme, ed è nell'ambito di questa tematica che l'immagine precedentemente tratteggiata attinge al pieno funzionamento. Un secondo procedimento di appropriazione del campo religioso si osserva a Venezia al livello del riferimento alla città santa per eccellenza, con la quale la identifica una pletora di formulazioni intese a confermarne la vocazione cristiana. Argomento (78), questo, gravido di conseguenze sul piano del potere e del luogo ove il potere si dispiegava.
Il tema della Gerusalemme Celeste (79) è in effetti una componente tangibile degli enunciati mitici veneziani: Venezia fu probabilmente la città che in modo più marcato trasse da se stessa una immagine urbana, formale e simbolica, legata a un ruolo definito per mezzo di formulazioni mitiche come quelle utilizzate da Francesco Sansovino: "Tolta dall'usanza mortale [...> cosi rappresentando in terra a suo potere quasi Hierusalem celeste" (80). La città vergine e imprendibile viene qui collocata in uno spazio privilegiato che costituisce una vera e propria proiezione mentale.
Ricorre tale esaltazione nel De origine urbis gentisque Venetorum historiae di Bernardo Giustiniani, ove ci si imbatte in formule di sicuro avvenire in quel paradiso della semantica che era la città lagunare, o ancora nel De magistratibus et Republica Venetorum di Gasparo Contarini, senza dimenticare naturalmente gli altri scritti di Sansovino. Siffatta enunciazione di Venezia baluardo della fede cristiana era già codificata nel secolo XIV, accentuandosi ancor più in quello successivo, in seguito ai fatti d'Oriente e alla migrazione greca, il motivo della città che si presenta ad defensionem Dei nostri come ricetto della memoria dei luoghi santi e, su tutti, di Gerusalemme (81).
Certo, le immagini trasmesse dai racconti di viaggio erano opera innanzitutto dei pellegrini che si recavano in Terrasanta e molteplici scritti di questa natura risalenti alla seconda metà del Quattrocento rivestono una importanza particolare (82); ma conviene altresì segnalare la proliferazione della produzione figurativa e letteraria riguardante per l'appunto i luoghi santi durante gli anni immediatamente posteriori alla guerra della Lega di Cambrai, ché par difficile scorgere in tale moltiplicazione un movimento di mera circostanza (83).
Temi di rilievo, e che incontreremo costantemente, compaiono nella descrizione di Venezia lasciata dall'inglese William Wey, che vi soggiornò fra gli ultimi giorni di aprile e i primi di maggio dell'anno 1462. Venezia dunque, "città nobile e grande" (84), si mostrò al visitatore nordico attraverso il filtro delle processioni che la percorrevano, e peraltro la situazione vi si prestava: la morte e le esequie del doge Pasquale Malipiero e le cerimonie per l'elezione del suo successore, Cristoforo Moro. E però è altrettanto vero che Wey stesso esibiva la volontà di presentare la città sotto questa prospettiva, facendo leva innanzitutto sulla materia della fondazione, la quale sarebbe stata contrassegnata, in accordo con la leggendaria visione di san Magno, dall'articolazione delle sette chiese originarie.
In quest'ottica, il pellegrino faceva risaltare il ruolo di Santa Maria Formosa, "dove il doge si reca alla vigilia della festa della Purificazione" (85). Ma era l'insieme di quei luoghi cultuali, che componevano una vera e propria trama urbanistica, a costituire una delle chiavi dell'autoidentificazione politico-religiosa della città e a rischiararne la funzione di protettrice della fede (86) che aveva preso corpo intorno al tempio cittadino per eccellenza, San Marco.
Svariate sono, nei testi dei pellegrini transitati per Venezia, le allusioni al "Mausoleo di san Marco"-cappella ducale; così Sewalt Rieter (87) stabiliva nel racconto del suo pellegrinaggio del 1479 una sorta di rapporto dialettico fra la chiesa di Sant'Elena - della quale non c'è bisogno di sottolineare le connotazioni - e quella di San Zaccaria, ove Rieter notava che "[vi si> vede il Santo Sepolcro [...> come a Gerusalemme" (88).
Riferimenti meno numerosi e più attenuati, invece, nel resoconto di un anonimo pellegrino francese (89), certamente parigino, che si trovò a Venezia nel 1480 (90), nello stesso periodo di Santo Brasca (91); ma resta anche qui il rinvio a Gerusalemme, che si fa perfettamente esplicito per la cappella della Signoria veduta come inseparabile dal palazzo Ducale e dalla Piazza e il cui scenario è inoltre percepito come il medesimo dei trofei di Costantinopoli (92). Per due volte di passaggio in laguna al principio degli anni Ottanta del secolo XV - la prima nel 1480, la seconda, in compagnia di Bernard von Breydenbach (93), nel 1483 -, il domenicano tedesco Felix Faber (94) ci riserva la lettura più penetrante della città con la Nobilissimae Urbis Venetianae fidelis descriptio, inclusa nel suo Evagatorium (95). Le implicazioni che vi si colgono sono molteplici, e numerose componenti significative degli enunciati mitici che andiamo rincorrendo chiaramente formulate. Pur senza sorvolare sulla costruzione da parte di mani angeliche della basilica marciana, l'elemento di maggior rilievo per il discorso che stiamo conducendo sta certamente nel fatto che agli occhi di Faber la singolarità della forma urbana di Venezia si presentasse come il risultato della sua stessa identità; il domenicano spiegava tutto questo, da una parte, con le condizioni certamente privilegiate della formazione della città, dall'altra, e con maggiore insistenza, con l'esaltazione della coscienza ferma e perdurante che la città aveva di sé. Riguardo alle fonti storiche alle quali poté attingere e ai testi che poté leggere Faber dice ben poco, limitandosi infatti a citare - e sovente reiterandole - le Decades di Sabellico. Quanto poi alla fondazione di Venezia, la situa nei contorni di quella historia troiana elaborata dai cronisti due e trecenteschi, ma ciò che suscitava tutto il suo interesse - e ciò che più importa - era il destino di eternità derivante dall'origine divina della città, consapevolezza dalla quale discende il ritratto urbano alquanto stupefacente tracciato dal religioso tedesco (dunque un uomo del Nord), con la celebre enumerazione delle sette qualità conferite a Venezia in opposizione speculare rispetto agli attributi negativi assegnati da sant'Agostino alla città terrena nella Città di Dio (96). Mette conto infine segnalare la sua comprensione dei valori significanti collegati a interventi architettonici in corso - fra i quali ovviamente Santa Maria dei Miracoli -, che egli faceva mostra di apprezzare nel giusto merito, senza comunque tralasciare considerazioni materiali che andavano anch'esse a rafforzare l'immagine santa della città: "[...> non v'è principe tedesco che possa pagare una simile costruzione" (97). Lo stesso vale per la Scuola grande di San Marco - allora rinnovata (1485) - "che, ricchissima, rivestita d'oro all'interno, è bruciata per intero l'anno passato, fino alle fondamenta, ma in verità la stanno ricostruendo di bel nuovo com'era in origine, sorgente dal mare su fondamenta solidissime" (98).
Nelle memorie del canonico milanese Pietro Casola (99), transitato per Venezia nel 1494, si dice della ricostruzione della chiesa dei Certosini, del restauro di San Zaccaria, dell'edificazione della facciata della Scuola di San Marco e di Santa Maria dei Miracoli. Tre anni appresso, nel racconto del mercante Arnold von Harff (100) - siamo dunque nel 1497 (101) - predomina l'impressione della singolarità; punto particolarmente interessante del suo testo, l'attenzione verso la chiesa di Sant'Elena e per conseguenza la sottolineatura del tema della Successione, unificandosi nella presenza in città da oltre tre decenni delle reliquie della Croce (102) i nomi di Costantino e di sua madre Elena. E fra le righe di questo discorso bisogna evidentemente leggere l'accettazione del diritto veneziano a raccogliere l'eredità romana d'Oriente e il ruolo stesso di Venezia quale "Nuova Gerusalemme Celeste" (103).
Identica percezione di Venezia ci tramanda, nell'epoca di Andrea Gritti, la cronaca del viaggio di Denis Possot (104), presente in città sul cominciare della primavera del 1532. Possot coglieva e faceva proprio soprattutto il tema della giustizia e la sua traduzione in immagini salomoniche che la Serenissima non aveva cessato di sviluppare. Motivi insieme culturali, architettonici e urbanistici che fecero di Venezia in piena età umanistica la più straordinaria rappresentazione di un ideale di Gerusalemme Celeste.
In realtà, quello di Venezia-Gerusalemme è un motivo iconografico solo relativamente frequente. Lo studio cartografico permette di mettere insieme elementi concernenti una rappresentazione del mito intrinseca alla forma urbana, quali le Vedute di Werner Rolewinck (1479) (105) e di Foresti (1486), la pianta prospettica di Jacopo de' Barbari (106), come pure le xilografie di Erhard Reuwich e di Hartmann Schedel, il disegno di Sebastiano Serlio (107) custodito agli Uffizi o le piante prospettiche del monogrammista C.S., edite dapprima da Münster nel 1550, quindi da Bertelli nel 1559: si riscontra qui un procedimento che partecipa dell'elaborazione del mito attraverso la coincidenza fra una precisa coscienza dell'identità propria della città impalcata sui punti che andiamo analizzando e l'imago urbis. E giova rammentare che numerosi dei documenti grafici sopradetti furono approntati per illustrare racconti di pellegrinaggio, si pensi al foglio di Reuwich con Venezia o a una pagina di lettura allegorica intenzionalmente semplificata conservata in un manoscritto della British Library o, ancora, alla Venezia di anonimo miniatore del secolo XV contenuta in un manoscritto della Bibliothèque Nationale di Parigi (108).
Per quel che attiene a Erhard Reuwich, oggi ci è possibile assimilarlo senza ombra di dubbio al Maestro del Livre de Raison. Originario di Utrecht, il pittore compì il viaggio di Terrasanta al seguito del potente canonico di Magonza, Bernard von Breydenbach; espressamente chiamato a illustrare con incisioni su legno la relazione del pellegrinaggio progettata dal prelato, Reuwich produsse una serie di grandi vedute delle città incontrate lungo l'itinerario alla volta dei luoghi santi e le sue incisioni servirono da modello a Wolgemut per l'illustrazione della Cronaca di Schedel; e Faber, suo compagno di viaggio nel 1483, parlava dell'artista con grande deferenza (109). La ricezione da parte della cultura pittorica dei significanti così veicolati fu rapida e produsse a sua volta una codificazione metaforica piuttosto precisa.
Questo tipo di visualizzazioni della città servivano innanzitutto alla produzione di "vedute" nonché di sfondi per i quadri, immagini probabilmente esistenti in gran numero ma di cui si ha menzione soltanto per qualcuna: le sappiamo certamente eseguite, in diversi periodi, dai Bellini, da Sebastiano Leonardi e da altri artisti non meno significativi. Constatazione, questa, che dovrebbe incitare, come mostreranno alcuni esempi nel corso della nostra esposizione, all'identificazione delle rappresentazioni di Venezia e più ancora a illuminare il significato di tali rappresentazioni sullo sfondo dei quadri dipinti fra il 1470 e il 1520, che talvolta denotano un certo numero di modalità di trasposizione simbolica.
Nel caso di Jacopo Bellini si è potuta scorgere, sottintesa al disegno con la Presentazione di Maria del British Museum di Londra il cui sfondo sembra riprendere la cornice di palazzo Ducale, una versione della metafora salomonica veneziana.
Ma, proseguendo in questo solco interpretativo, è nell'opera di Carpaccio che si incontrano le immagini più pregnanti: dietro al celeberrimo Leone di San Marco, dipinto nel 1516 e certamente accampante una allegoria della dominazione marittima e terrestre della Serenissima, il pittore mette in scena un complesso ducale di evidente allusione salomonica. Né va scordato che a Carpaccio è attribuita una grisaille di Gerusalemme e, quanto al ciclo pittorico dei Miracoli della reliquia della Croce realizzato insieme a Gentile Bellini, non si insisterà mai abbastanza sulla relazione fra quest'ultimo e le commesse codussiane: si ha qui un vero "ritratto di Venezia", nel quale si afferma inequivocabilmente il legame fra l'imago urbis e la processione della reliquia in possesso della Confraternita di San Giovanni Evangelista.
Conviene al proposito tenere davanti agli occhi l'esempio della tela della Consacrazione dei diaconi, facente parte del ciclo di Santo Stefano, le cui associazioni e connotazioni simboliche hanno nella nostra ottica una indubbia rilevanza. Una piramide, peraltro ricorrente nel ciclo, si profila alle spalle del tempietto quale rammemorazione della meta Romuli; il connotato romano pare confermato dalla presenza del castello nel mezzo dello sfondo e numerosi affiorano i richiami a castel Sant'Angelo e al castello di Ostia. Riguardo alla chiesa, Augusto Gentili (110) vi legge un rinvio a San Pietro e conclude la propria disamina della tela asserendo che questi elementi compongono nel loro insieme un elogio incondizionato della Roma cristiana come Nuova Roma, e nello stesso tempo come Nuova Gerusalemme, poiché è a Gerusalemme che si svolse la vicenda di santo Stefano (111).
Sul San Giorgio e il drago del ciclo per la Scuola degli Schiavoni, Guido Perocco ha scritto di altri monumenti urbani derivanti dall'architettura orientaleggiante veneziana dell'epoca: avremo occasione di ritornare, e a lungo, sulle fonti paraideologiche di tale schema; per adesso ci si accontenti di osservare, nel Trionfo di san Giorgio dello stesso ciclo, il trasparente riferimento a Gerusalemme giusta l'articolazione, rievocata nello sfondo del dipinto, Santo Sepolcro-tempio di Salomone, il cui modello va ricercato in immagini come quelle di Reuwich, più precisamente nelle sue xilografie per il Sanctarum Peregrinationum di Breydenbach, come dimostra assai bene un disegno degli Uffizi.
Fonte ulteriore cui rivolgersi è la produzione giorgionesca, giacché offre un'altra evocazione del Santo Sepolcro e, per tramite delle forme che tale evocazione assume, della Redenzione, così come la si incontra - metafora formulata a mezzo di immagini architettoniche rinvianti a Gerusalemme - nel Giudizio di Salomone degli Uffizi, appunto attribuito al maestro. Nel fondo dell'opera i riferimenti al sito della città santa sono perfettamente enunciati: al di là della grande cupola (112), il palazzo Ducale allude chiaramente al palazzo di Salomone, mentre le arcate sulla sinistra paiono adombrare il porticus columnarum. La relazione con il Santo Sepolcro e dunque con la Redenzione (113) diventa allora un elemento chiave della scena. E referenze del mito marciano a Gerusalemme e a Salomone erano state egualmente illustrate da Bonifacio de' Pitati nel dipinto con Cristo e l'adultera eseguito anch'esso per il palazzo dei Camerlenghi a Rialto: un soggetto che è la trasposizione per eccellenza del concetto di giustizia.
Non fu da meno Paris Bordon, il quale con la Consegna dell'anello al doge allegorizzava la continuità della superiore missione della città sotto l'egida della Provvidenza, anch'egli contando sulle immagini del porticus columnarum e del vestibolo del Giudizio. Quanto a sé, Cesare da Conegliano, nella grande tela realizzata nel 1533 per la chiesa dei Santi Apostoli, ambientava l'Ultima cena nel cortile del palazzo Ducale trasfigurato in guisa di ingresso al tempio gerosolimitano. Un procedimento pittorico ancora perseguito da Tintoretto, con lo schizzo del Doge Alvise Mocenigo presentato al Redentore del Metropolitan Museum di New York, e da Palma il Giovane con la pala per l'oratorio dell'ospizio dei Crociferi commemorante la fondazione del pio istituto.
Queste rappresentazioni metaforiche del palazzo e della cappella ducali costituiscono un'ottima quanto semplice esemplificazione del processo di celebrazione figurativa di questo o di quell'asse della struttura del mito nonché della sua redazione formale. Né va omesso, in questa sede, di esaminare il destino della metafora salomonica veneziana al di fuori di Venezia, poiché essa si rivelò tanto pregna di talenti operazionali sul piano del significato da condizionare addirittura i meccanismi iconografici di tutta una produzione figurativa esterna all'ambiente veneto. Così nella Natività attribuita a Jacopo del Sellaio del Museo Jacquemart-André di Parigi, una Venezia rappresentata dal palazzo dei dogi e dalla Basilica è stata interpretata alla luce della nostalgia per la Gerusalemme Celeste nel clima della predicazione savonaroliana. Ovvero, una Vergine realizzata nella stessa congiuntura e dovuta a Sebastiano Mainardi - si fa riferimento, fra le altre versioni che testimoniano della fortuna di tale raffigurazione, a quelle di Capodimonte a Napoli e della collezione Merton di Maidenhead - è indice della circolazione di una referenza gerosolimitana a Firenze, senonché l'apparizione di una città sul bordo delle acque allude in modo trasparente a Venezia, la cui connotazione resta affidata al segno del palazzo e del tempio, all'interno di un universo urbano nel quale si mescolano componenti edilizie toscane e veneziane, quali l'edificio merlato rassomigliante a palazzo Vecchio: un bell'esempio della fabbricazione e della divulgazione di tali segni. E si pensi ancora, pure se la qualità della fattura è di tutt'altra pasta, agli affreschi della Deposizione e della Resurrezione di Cristo che durante il secolo XVI un mercante realtino commissionò per la sua tomba nella chiesa di San Salvador.
Cuore della "sancta civitas", Rialto lascia vedere nei primi anni del Cinquecento i modelli culturali dominanti all'opera, con il convento di San Salvador che si pone quale vera "rifondazione" ideale mediante la sua chiesa, ricostruita con i materiali dell'immaginario e del mito. L'importante cantiere, aperto nel 1506 e durato fino al 1530 circa, fu voluto dal priore del monastero Antonio Contarini (114) - che sarebbe poi assurto alla dignità patriarcale -, uomo legato al doge da un vincolo personale e dotato perciò stesso di incontestabile influenza. Contarini fu dunque all'origine di una serie di realizzazioni tutte sorrette e innervate da una particolare devozione per la Croce, lasciando la propria impronta sulla ricostruzione di molti edifici religiosi in diversi siti cittadini, come, ad esempio, San Geminiano.
La volontà manifesta della costituzione della città in spazio della pietà si evidenzia nelle formulazioni di Marin Sanudo, particolarmente significative a proposito della funzione delle sante reliquie portate in città dai "maggiori nostri": "Queste è quelle che mantien la città nostra, ch'è senza muraglie". Emerge da queste parole una esplicita interferenza fra la potenza della devozione e l'assetto della città, fra religione e urbanistica. Tornando a San Salvador, nella supplica rivolta al consiglio dei dieci il 29 maggio del 1506 si legge che la chiesa originaria era stata "voluta" nel centro della città da Cristo medesimo. È questo un motivo che si dispiega ancor più vigorosamente nei portati contenuti nella successiva supplica al doge del 7 agosto 1507, nella quale i monaci richiedevano delle facilitazioni per la copertura dei crediti concessi loro; portati che prendevano tutto il proprio valore alla vigilia della crisi cambraica: "[...> li divini templi [sono> muri [...> et propugniacolo di questa catholica et cristianissima republica" (115). E fu in queste contingenze che affiorarono nuove motivazioni, nel novero delle quali spicca il rapporto stabilito fra la tradizionale esaltazione dell'unicità di Venezia (116) e il significato di "baluardo" o di "fortezza" attribuito agli edifici sacri.
San Salvador si situava nel cuore di una cartografia immaginaria procedente dalla Visione di san Magno e delle sette chiese edificate da quel vescovo immediatamente dopo - così racconta Sanudo - aver appreso per via di rivelazione di doversi recare nelle lagune delle isole di Rialto, là dove stava sorgendo dalle acque una città chiamata Venezia; per i suoi meriti, a Magno fu miracolosamente disvelato il modo di costruire quella città (117). Vera e propria cartografia mentale - s'è detto -, essa poggiava anzitutto sulla triangolazione delle primigenie fondazioni ad opera del "primo vescovo di Venezia": le fabbriche di San Salvador, nel centro del tessuto urbano, e, alle due estremità, di San Pietro "in castro olivolensi" e dell'Arcangelo Raffaele. In particolare queste ultime assumevano il senso di bastioni ideali, come indicato dalle rispettive intitolazioni, sicché la figura mentale di Venezia risultava protetta ai capi estremi del proprio territorio dall'apostolo Pietro, in virtù della chiesa a lui dedicata su sua stessa indicazione (118), e dall'arcangelo Raffaele, avendo questi prescritto al vescovo Magno - stando a quanto riporta Sanudo - l'edificazione "in Osso Duro" della sua chiesa "perhoché voleva esser protettor di questa nova città".
Quanto a loro, i monaci e il priore di San Salvador ricordavano che la loro chiesa era stata "miraculosamente constructa et fondata per mano di quello sanctissimo episcopo de Altino messer Sancto Magnio nel mezo el centro di questa amplissima città" (119), sul sito all'uopo designato da Cristo (120) e materialmente segnalato da una nube vermiglia; Sanudo ci rende edotti che, dopo la visione dell'apostolo Pietro, al santo vescovo apparve Gesù Cristo, il quale, presentandosi come il Salvatore del mondo, gli comandò di innalzare una chiesa nel suo nome proprio "in mezo della città", nel luogo in cui avrebbe veduto una "niola rossa"; "et cusì fe' [proseguiva Sanudo>, et si chiamò San Salvador" (121).
L'edificio si voleva dunque come segno di Salvezza perfettamente visibile nel cuore della città - al modo delle metafore cristologiche trasmesse dalla "cartografia delle chiese di san Magno" -, la cui funzione primaria era di testimoniare una origine posta sotto gli auspici della volontà divina (122). Il significato della nuova fondazione cinquecentesca è limpidamente espresso da Sanudo, che la inseriva all'interno della rappresentazione cronologica veneziana:
Adì 25, venere, fo il zorno di l'Anonciation di la Madona, nel qual zorno, del 421, fo principià la cità di Rivoalto et messa la prima piera, nel qual zorno fo formà il mondo, fo crocefixo missier Jesu Christo, secondo Santo Agustin; fo del 1507 in tal zorno posto la prima piera a la nuova redificatione di la chiexa di San Salvador in questa terra (123).
La nuova fondazione di San Salvador si inscriveva perciò in una struttura temporale di matrice divina, un tempo universale scandito dalla Creazione, dall'Annunciazione e dalla Crocefissione, momenti che costituivano altrettante referenze cronologiche per la nascita "divina" della città lagunare. E la data del 25 marzo 1507 scelta per la posa della prima pietra, giorno considerato come "anniversario" degli eventi principali della Creazione, si poneva a sua volta come una struttura retorica di fondamentale importanza ai fini della formulazione del mito veneziano.
Predomina nella sistemazione di Sanudo, e affatto naturalmente data la palese fedeltà allo spirito stesso della realizzazione, il concetto della centralità della presenza cristologica, fatta esplicita mediante l'assimilazione del cuore urbano al luogo consacrato al Salvatore; una convinzione che aveva precise corrispondenze con la mitologia cittadina e radici tanto profonde da venire ancora formulata nel secolo XVIII (124).
La chiesa sorge - per usare le parole di Marino Zorzi - "in humbilico urbis", e quando sia così evocato un intervento concepito "in visceribus urbis", non si può pensare ad altro se non a quell'"idea di Venezia" espressa dal patriarca Contarini in una delle sue lettere redatte nel 1515: "Questa a Domino benedetta città imbibita sanguine Christi ab ipsis incunabulis et cum ipso nutrita, argumentata et ad incrementum perducta". Lungo tutto il secolo XVI l'iconografia attesta la montata di un processo che condurrà ad applicare a Venezia il versetto del Salmo 86: "Fondavit eam altissimus" (125).
Tuttavia si tratta di uno soltanto degli strati significanti, poiché la sedimentazione semantica solidale all'architettura della chiesa di San Salvador è plurima. I moduli dell'immaginario collettivo - che si sviluppano in prima istanza in luoghi marcati dalla propria valenza sacrale - ne erano il fattore principale, cosicché siamo al cospetto - lo hanno evidenziato molti studi (126) - di una semantica nel cui ambito il sacro legittimava e consacrava i valori più saldi della comunità lagunare: un amalgama di fede profonda e di inalterabile orgoglio repubblicano cementava una sorta di patriottismo - "pietà repubblicana", in effetti - che si riconosceva nell'origine divina della città. San Salvador ricostruita sarà intesa, allora, anche come segnale di riforma della società sul filo di un'autentica ortodossia religiosa e soprattutto in piena coerenza ai rapporti fra quest'ultima e lo Stato. È, questa, una sottolineatura supplementare dell'essenza civica della religione veneziana (127), di quel "senso della religione e del divino da cui far scaturire idealmente la norma dell'agire politico", di quella spiritualità che rifletteva i paradigmi mentali di un patriziato intimamente persuaso dell'analogia esistente fra la giustizia celeste e la giustizia repubblicana.
Ci troviamo in presenza di uno dei primari meccanismi di funzionamento del processo di identificazione di Venezia quale Nuova Gerusalemme, processo costitutivo di una delle maggiori caratteristiche della mitologia politica della città-stato i cui caratteri formali - ma altresì il contesto cerimoniale dell'apertura del cantiere - conferivano al nuovo edificio tratti simbolici manifesti emergenti da una fitta trama di allegorie e di metafore religiose. Limpide allusioni cristologiche e trinitarie traslucono dalla pianta a croce latina, dal numero delle cupole e delle absidi, dall'iconografia dei capitelli e da tanti altri particolari secondari. E peraltro la chiesa, nel solco di tradizioni ancora vive nel secolo XVI, presentava fin dall'origine modalità strutturali ritenute essere quelle del Santo Sepolcro. La mescolanza di sacro e di profano non poteva essere più scoperta: stando a un anonimo scritto medievale (128), la primitiva chiesa di San Salvador, con grate inserite nel pavimento dalle quali era possibile vedere l'acqua sottostante, rispecchiava il modello gerosolimitano, riferimento assai significativo per la storia dell'identificazione di Venezia con Gerusalemme, di Venezia in quanto sigillum Veritatis e sede della giustizia salomonica. E anche le forme architettoniche della nuova chiesa-simbolo segnalano il medesimo vincolo con la nascita e la storia della città, con San Giacomo di Rialto e San Marco. Un linguaggio formale siffatto aveva dunque lo scopo di confermare e dimostrare la fermezza della pietà pubblica quanto il valore sacrale della tradizione e delle antiche istituzioni.
Politica e religione collaboravano intimamente a designare l'edificio come luogo "delle origini", depositario della volontà divina intesa a fare di Venezia il ricetto di una giustizia universale, perfettamente emblematica dell'indipendenza della Serenissima e innanzitutto dimora del primo protettore della città. Sopra un tal sito polisemico si depositarono inoltre memorie di importanza essenziale per l'identità politica di Venezia. Nel 1177 il papa Alessandro III aveva dedicato un altare al Salvatore nella chiesa primigenia, procedendo poi con rito solenne, il 29 agosto dello stesso anno, a una ulteriore consacrazione dell'edificio sacro (129). Orbene, il pontefice si trovava in laguna per celebrare la pace appena conclusa con l'imperatore Federico Barbarossa, grazie anche ai buoni uffici interposti dalla Repubblica, un'opera mediatrice che sarà assunta a Venezia con una molteplicità di significati. La tesi "nazionale" - o "nazionalista" - veneziana non fu forse sanzionata, dopo lo storico incontro di Alessandro e Federico, con la bolla papale del 1180 che ripartiva la giurisdizione già pertinente al patriarcato aquileiese fra Aquileia filoimperiale e Grado filoveneta? E comunque la mediazione veneziana fu esaltata come manifestazione di indipendenza tanto nei rispetti del Papato quanto dell'Impero, interpretazione destinata a installarsi, come si vedrà anche in seguito, nel posto di elemento centrale della mitologia ufficiale della Repubblica. Non fu dunque fortuito che, dopo la consacrazione di Alessandro III, la chiesa di San Salvador venisse ricostruita "in ampliorem, ornatioremque formam" (130).
L'impresa di San Salvador faceva dunque allusione a una rinascita della città a partire dalla simbologia dei linguaggi della tradizione e al seguito della direttrice principale della politica ecclesiastica di Contarini, affermata nei sinodi del 1514 e del 1519, i quali, attraverso la canonizzazione di Lorenzo Giustiniani, sollecitavano l'elaborazione di quella che si è in diritto di considerare una vera e propria devotio veneta (131) (sulla cui formulazione lo storico dell'arte sarebbe in dovere di interrogarsi). San Salvador doveva essere il segno di un rinnovamento della sacralità di un sito altamente simbolico della realtà urbana: proprio in virtù della sua rifondazione, condotta nel linguaggio rinascimentale, la chiesa sita nel centro geometrico e nel centro simbolico (propriamente sul piano devozionale) dello spazio cittadino, a metà del percorso fra le due piazze di Rialto e San Marco, fu - come ha fatto notare la recente storiografia dell'architettura (132) - l'episodio cardine del fenomeno della renovatio che abbiamo richiamato in precedenza. Si comprende così come l'intreccio dei percorsi delle processioni che si svolgevano in città conferisse - anche enfatizzandola - la dimensione del vissuto all'immagine di Venezia quale vera Gerusalemme terrena.
Gli itinerari processionali, pur rinviando in parte, qui come altrove, al retaggio costantinopolitano, ci lasciano vedere in che modo funzionasse il processo di valorizzazione dei tratti simbolici collegati a certi edifici, fossero la Scuola di San Giovanni Evangelista o la chiesa di San Zaccaria o, ancora, la basilica di San Marco.
Tappa esemplare delle processioni veneziane, la Scuola di San Giovanni Evangelista fu concepita come un tempio della glorificazione urbana, ricercandovi Mauro Codussi una reale trasparenza fra le sale superiori della costruzione e l'esistenza concreta della città. Lo scalone conduce alla sala nella quale si trovava il ritratto allegorico di una Venezia posta sotto le insegne della Croce e di Gerusalemme, spazio immaginario e allegorico della cerimonia urbana dipinta da Carpaccio e Bellini: il famoso ciclo dei Miracoli della reliquia della Croce, oggi nelle Gallerie dell'Accademia. La rappresentazione fornita dal ciclo pittorico svolge figurativamente una duplice intenzione allusiva: un'immagine di Venezia che si carica simbolicamente della valenza della propria perennità in quanto "terra di Gerusalemme" e insieme l'immagine della realtà urbana, dell'esistenza fattuale della città. Occorre a questo punto seguire la dimostrazione di Lionello Puppi (133):
[...> la macchina dello scalone di San Giovanni Evangelista conclude ed esalta, nella sua scoperta allusività all'impianto del Santo Sepolcro, l'iter urbano della reliquia della Croce, nel momento in cui apre alla celebrazione pittorica ed istoriale della sua presenza veneziana, suggellando un convergere di suggestioni rinviante alla referenza, garante e assoluta, di Gerusalemme.
Sul piano architettonico non meno che su quello figurativo, lo scalone sottolineerebbe così la relazione sussistente con l'esaltazione del legno evocatore della Croce, ben al di là della sistematica convocazione dell'urbanesimo immaginario e simbolico di una Venezia-Città di Dio, ciò che certamente spiega, ad esempio, la decisione dei membri della Scuola di San Marco di insistere (134), nel loro edificio, su di un tratto ideologico costante e preminente nella cerchia dei committenti di Codussi, tanto le precedenti realizzazioni dell'architetto si prestavano all'enfatizzazione del desiderio veneziano di emulazione autocelebrativa nello specifico contesto sociale e culturale di fine Quattrocento.
Fra il 1492 e il 1493 Philippe de Commynes (135) poneva all'attenzione il risultato di questo processo di renovatio christiana. La famiglia Badoer, che rivendicava la fondazione della chiesa originaria di San Giovanni Evangelista nel contempo promuovendo la figura storica del doge Orso II, incarnava il topos di una politica pacifica, in equilibrio fra Oriente e Occidente, messo avanti dagli agiografi della famiglia medesima. Un motivo peraltro accolto dalla storiografia umanistica fin dal Trecento e l'età di Dandolo, così cara agli ambienti che qui ci interessano, in forza dei suoi valori di riferimento al livello dei rapporti fra la vita spirituale e la vita civile. Il fatto poi che Maria, moglie del grande benefattore di San Michele, Andrea Loredan, fosse una Badoer non fa che confermare lo stretto e ben documentato legame fra le due famiglie, il che basta verosimilmente ad assicurarci che di nuovo nel cantiere di San Giovanni Evangelista Mauro Codussi agiva in piena sintonia con l'entourage istituzionale dei propri committenti.
Le fonti tipologiche cui Codussi attinse furono probabilmente la risposta a una richiesta della committenza, che l'allestimento dello scalone consente di immaginare: si è così proposto di vedere in esso la restituzione di una analoga struttura, formata da due rampe convergenti, ma fatta di legno e posta in opera provvisoriamente in occasione della visita dell'imperatore Federico III a Venezia nel febbraio del 1469; si tratterebbe quindi, al di là di ogni considerazione di funzionalità e di comodità, di una sistemazione intesa a una sorta di rito di glorificazione.
L'evocazione codussiana induce a esaminare un altro luogo, il convento dei Certosini, a partire dall'importante testimonianza costituita da un dipinto di Marco Basaiti che lo rappresenta e che adombra la metafora raccordante il bacino di San Marco e il mare di Galilea. Quando gli stabilimenti di un monastero per lungo tratto occupato dagli Agostiniani furono assegnati ai Certosini, si procedette alla loro ristrutturazione, e soprattutto si chiese a Codussi di ricostruirne la chiesa. I lavori, intrapresi forse su commessa della famiglia Morosini (136), si situano fra il 1490 e il 1510, ricadendo in ogni modo il completamento dell'edificio ecclesiale nel periodo del patriarcato di Antonio Surian (1504-1508) (137); ora, negli anni in cui esercitò la carica, quegli che fu a lungo priore del monastero seppe convogliare una non comune generosità verso la fabbrica cui pervennero tutti i fondi necessari a portare a buon fine l'impresa, sicuramente ultimata nel 1510, l'anno di esecuzione del quadro di Basaiti intitolato La vocazione dei figli di Zebedeo - oggi nelle Gallerie dell'Accademia -, che fu collocato sull'altar maggiore della chiesa dei Certosini (138). Nell'eremo di Camaldoli è conservata una lettera di Paolo Giustinian - datata all'anno stesso dell'ascesa di Surian al patriarcato - nella quale egli, ben noto per la sua posizione di estrema rigidità riguardo alla vita solitaria (139), descrive lo sconcerto suscitato dall'elezione del monaco. E a quella missiva dovette pensare Surian allorché volle, in quanto patriarca, farsi committente della Vocazione.
Il piccolo mondo della comunità certosina vedeva riuniti e riprodotti in un'unica tela tutti gli elementi costitutivi della vita quotidiana dei monaci e le scelte di base che li avevano condotti in quel sito: il mare in cui si specchiava il loro monastero e dal quale ricevevano sostanza vitale e sostentamento, vivaio materiale quanto spirituale, era il loro mare di Galilea, che aveva assistito alla vocazione dei figli di Zebedeo. Non per niente il grande chiostro al centro del complesso monastico di Sant'Andrea alla Certosa veniva designato con il nome di "Galilea", che - seguendo san Gerolamo - significa "trasmigrazione" (140). Sul bordo di terra al quale sono approdate le barche dei pescatori ha luogo un cambiamento radicale ove si contempla l'esistenza umana innalzarsi alle vette dello spirito: cielo e acqua occupano più della metà della superficie del dipinto in cui l'artista ha raffigurato il Cristo e i suoi nuovi discepoli nel momento della rottura con la vita precedente; e le persone che non sono coinvolte in quella scelta, coloro che sfuggono alla vocazione, sono ritratte solo parzialmente o di spalle. La composizione di Basaiti restituisce un mondo "chiuso", e dalle catene di montagne in lontananza forse adombranti il paesaggio "natale" della prima certosa sorta in Francia (141). Alcuni personaggi, Ebrei vestiti dell'abito liturgico prescritto per le cerimonie delle feste pasquali, stanno separati da una linea di terra e dislocati in un livello inferiore: l'allusione all'"estraneità" del popolo ebraico è manifesta (142) e tuttavia in sede storico-critica non è stato sufficientemente messo in risalto come questo dipinto del 1510 preceda di poco i provvedimenti relativi al Ghetto Novo che datano al 1516.
I concetti di Nova Gerusalemme e di Parva Gerusalemme vanno affrontati parallelamente. Se il centro della città è di fatto contrassegnato dal simbolo della Croce, "lo spazio del suo corpo, delle sue membra più vitali" (143) - per proseguire lungo un tracciato di interpretazione metaforica -, non potrà mai essere disponibile per coloro che negano la divinità di Cristo o che, pur praticandone il culto, osservano devozioni differenti dal rito latino o dal mos venetus. Le mozioni e le deliberazioni in ordine agli Ebrei veneziani e al Ghetto Novo (144) appaiono quindi motivate - e non in misura secondaria - dal problema del "tener sinagoga", di "far sinagoga" nello spazio urbano più compiuto, presentandosi in realtà come complementari e non solo concomitanti nel tempo alla concezione religiosa e simbolica della città quale andiamo esaminando. L'inizio del Ghetto Novo - giova ricordarlo - è fissato al 1516 e le conseguenze della situazione sui portati antisemiti sono evidenti: erano "li zudei" i veri colpevoli dei disordini, delle "perversità" che ammorbavano la Repubblica, giusta quanto si affermava all'atto della proposta di rinchiuderli in un'area strettamente delimitata. Le decisioni riguardanti il nuovo quartiere ebraico del Ghetto Novo non furono che una e una sola delle componenti di un movimento più generale.
Un certo numero di espressioni all'epoca impiegate in modo esplicito - denotanti uno sforzo linguistico in appoggio alla costruzione del mito - sembrano avere una fonte diretta nell'insegnamento dei predicatori: un Dolfin poteva così sostenere in consiglio dei dieci la necessità di parlare "sicome li predicatori predicano". Conviene allora rifarsi ai sermoni pronunciati fra il 1514 e il 1515 ai Frari come a San Marco, ai Santi Giovanni e Paolo, ai Servi e in altre sedi consacrate dei quali è rimasta traccia; per fare un solo esempio, l'inquisitore fra Pietro Pisani si scagliava contro eretici e scismatici, e pure contro quelle veneziane che mantenevano rapporti con gli Ebrei. Senza procedere oltre nell'elencazione di voci siffatte, basti dire che il nesso fra gli orientamenti della politica religiosa del patriarca Antonio Contarini e la svolta antisemita della società veneziana e, per conseguenza, della Repubblica è ampiamente documentato.
La rete di relazioni sottesa a questi avvenimenti può essere assai bene definita in termini di persone, quando si identifichi uno dei tre capi del consiglio dei dieci, che nel maggio del 1506 avevano deliberato in vista di una cospicua partecipazione della pubblica finanza all'imminente ricostruzione di San Salvador (145); stiamo parlando di Giorgio Emo, procuratore dei Domenicani dei Santi Giovanni e Paolo e artefice della proposta volta a trasferire gli Ebrei nell'isola della Giudecca. Il provvedimento del 1516 ammette allora di essere inteso come atto decisivo della rifondazione di uno spazio omogeneo della sancta civitas, quella che, sola fra tutte, intendeva proclamarsi, nell'accezione sansoviniana, "nata Christiana e libera in un medesimo tempo" (146): gesto di devozione e, insieme, ritorno sacrale alle origini. Ma tutto ciò non impedirà - ché, invero, vale il contrario - la trasposizione in immagini di una Venezia-Gerusalemme o, forse più esattamente, di una Gerusalemme-Venezia da parte degli artisti di stirpe ebraica; fenomeno di lunga durata come attestato, ad esempio, da una ketubbah precisamente datata al 1769 di collezione privata veneziana e recentemente pubblicata (147).
Ma è utile prendere in esame altre tematiche provenienti dalla xilografia della Submersione di Pharaone di Tiziano, vale a dire quelle della laguna-mar Rosso e del "popolo eletto da Dio". Si legge nella Bibbia, scriveva Girolamo Priuli nei Diarii, quanti popoli antichi furono puniti, mortificati e rovinati, e partirono in esilio a causa dei loro peccati, e questo per non aver voluto obbedire ai comandamenti e ai precetti divini (148). Nei Diarii di Priuli come in quelli di Sanudo alberga l'identico convincimento: deludente e scoraggiante era la disillusione dinanzi all'accanimento dei nemici - e di avversari tanto numerosi quanto determinati - contro uno Stato proclamato esemplare quanto solido. Impossibile allora che taluni enunciati mitici a proposito dell'alterità e dell'esemplarità veneziane non conoscessero una trasformazione senza precedenti. È in questo contesto mentale che va interpretata la grande xilografia tizianesca con l'episodio biblico del passaggio del mar Rosso (149), come d'altro canto dichiarato dal cartiglio che si accompagna all'incisione diffusa da Domenico dalle Greche nel 1549: "La crudel persecutione del ostinato Re, contro il popolo tanto da Dio amato, con la sommersione di esso Pharaone goloso dil inocente sangue". Questa xilografia era stata in effetti eseguita, a partire dal disegno di Tiziano, su una serie composta di dodici tabelle, probabilmente non utilizzate, e finì per essere acquisita da dalle Greche (150), il quale procedette alla pubblicazione dell'opera esorbitando - a quanto pare - dal significato originario di essa, ma in conformità al suo notorio interesse per le cose bibliche e la Terrasanta. Circa la cronologia, i dubbi sono pochi: il concepimento della Submersione di Pharaone nelle acque del mar Rosso risale verosimilmente al 1513, mentre nel febbraio del 1515 lo stampatore Bernardino Benalio inoltrò richiesta di privilegio.
Siamo dunque nel 1513, anno decisivo della crisi veneziana dopo Cambrai, quando gli eserciti imperiali portano la distruzione e il saccheggio a poca distanza dalla città lagunare. La temperie storica permette di precisare l'iconografia della scena e di comprendere il senso e i modi dell'identificazione, operata da Tiziano, del popolo veneziano salvato dai contadini, che riuscirono a fermare il nemico sul limitare delle acque salse, così come i flutti avevano trascinato via l'armata del faraone. La lettura iconografica della grande xilografia proposta da Loredana Olivato (151) ha il merito di averne rivelato le principali direttrici tematiche, la cui convergenza con le cronache contemporanee vale a illustrare una delle metafore di maggior interesse del motivo della Nuova Gerusalemme.
L'aggancio alla narrazione biblica è letterale (152): il popolo di Israele esiliato e perseguitato fu tratto in salvo dal Cielo; Venezia, la città eletta e inviolabile, scampa al pericolo grazie al mare - l'insormontabile barriera delle lagune - e al miracoloso intervento divino - la ristabilita attenzione celeste. L'immagine è chiaramente allegorica: allo stesso modo degli Ebrei sfuggiti all'esercito del faraone per l'ultraterrena "protezione" del mar Rosso, anche Venezia si sottrae al nemico perché protetta dal bastione della laguna. Si è potuto così dimostrare come la rappresentazione del popolo ebraico salvato dalla furia degli inseguitori alludesse in maniera alquanto trasparente alle vicende della disastrosa impresa militare veneziana seguita alla guerra della Lega di Cambrai. Nondimeno, è difficile riconoscere intorno al re egiziano - il nemico beffato -, fra le insegne dei guerrieri, citazioni della realtà concreta, fatto che mostra assai bene il disinteresse dell'artista verso una strumentalizzazione del motivo grafico in senso politico immediatamente riferibile a uno specifico episodio storico; piuttosto, nelle straordinarie figure dei soldati in rotta, vestiti in foggia moderna, Tiziano sottintendeva gli eserciti che a due differenti riprese, nel 1509 e nel 1513, giunsero a minacciare da vicino la sicurezza e l'integrità della città serenissima.
È di sicuro interesse capire come fu tentata la rappresentazione del popolo di Israele (153) e ciò che la metafora comunicata da tale rappresentazione volesse dire rispetto al dato storico soggiacente. Soprattutto interessante è osservare che il popolo prima "umiliato" dalla collera divina e poi miracolosamente trionfante sul nemico in disfatta porta modesti abiti rurali. Questa scelta figurativa - che peraltro si conciliava perfettamente con il racconto biblico - rimanda alle voci diffuse dai cronisti negli anni fatidici fra il 1509 e il 1513, quasi a voler significare la consapevolezza del ruolo giocato nel corso della guerra dai più umili abitanti della Terraferma (154) da parte di Tiziano e dei suoi committenti. Lo sbigottimento di un Merlini dinanzi a un fatto che aveva tuttavia una propria giustificazione storica (155) fu in seguito ripreso e trasfigurato da Priuli (156), ad esempio, in autentico sentimento di riconoscenza qual sembra già trasparire dalla figura della donna che allatta un bambino, in primo piano nella xilografia, chiara evocazione della rappresentazione usuale della Carità che sembra qui impaginarsi come immagine del tangibile aiuto recato dai contadini alla città.
Una formulazione analoga e figurativamente tradotta da Tiziano nel 1511 sui muri della Scuola del Santo a Padova è la scena del miracolo del neonato. Le tre storie di sant'Antonio dipinte da Tiziano mostrano infatti in primo luogo l'episodio della donna accusata di adulterio e discolpata dal bimbo che ha appena dato alla luce, il quale prende miracolosamente la parola; al centro degli altri due affreschi sono una donna che, pugnalata dal marito geloso in circostanze simili, guarisce e si riappacifica con il consorte, e un giovane che, avendo colpito la madre con un calcio durante un violento alterco, per il rimorso si amputa il piede, ma viene anch'egli risanato e riconciliato alla genitrice. L'esemplarità di queste scene ne fa delle rappresentazioni agiografiche che, nell'ambito in cui si collocano, diventano compiute metafore di una tematica del perdono e della riconciliazione, la quale a sua volta, in riferimento al contesto padovano, assume un valore di forte connotazione politica (157). Gli episodi antoniani di ritorno all'armonia mettono in allegoria il rinnovato accordo fra Padova e Venezia dopo le vicende belliche del 1509.
Ritornando alla Submersione di Pharaone, bisogna riconoscere un altro protagonista dello straordinario scontro avvenuto in quel mare dalle onde lente e allungate, reso dall'artista quasi fosse uno specchio d'acqua lagunare: la laguna, appunto, nella quale le fonti contemporanee vollero vedere una barriera insormontabile per il nemico e la causa della sua definitiva perdizione semmai l'avesse imprudentemente affrontata (158). Si può allora fissare con maggior aderenza il significato dei diversi elementi della composizione nell'ottica non solamente figurativa, ma anche culturale e politica del peculiare momento storico interpretato da Tiziano. Fin dal 1421 il doge Tommaso Mocenigo aveva predetto a Francesco Foscari (159), capo del partito avverso, un futuro gravido di pericoli se si fosse continuato sulla strada di una politica di vessazioni e di guerra, "perché Dio è paxe e chi vuoi guerra vadi a l'Inferno"; lo stesso tipo di profezie che si leggono nelle pagine dei letterati e dei cronisti nel periodo immediatamente precedente il disastro di Agnadello. Nel marzo del 1509 il vicentino Luigi da Porto dava conferma nei suoi scritti (160) dei timori nei confronti di una specie di "coalizione cosmica" destinata a compromettere irrimediabilmente il destino della Repubblica, e d'altronde quantità di avvenimenti venivano considerati in termini catastrofici quali segni premonitori di una prossima sventura (161). Allorché i fatti d'arme vennero a giustificare tal genere di previsioni, si trattò di cercare una causa cui attribuire l'accumulo di eventi tanto avversi: al di là della poco propizia "disposizione del Cielo" e dello "strano gioco [...> della fortuna", circolava fra i Veneziani la convinzione di essere colpevoli agli occhi del Creatore. Con l'aumento di testi di attualità dai toni esacerbati provenienti da un settore politico facilmente identificabile e ben saldo nel proprio convincimento, e sotto la spinta di una opinione pubblica sempre più diffusa, il "peccato" veniva additato nella cupidigia di ricchezza e di guadagno che aveva indotto l'oligarchia senatoria a intraprendere l'espansione in Terraferma e a trascurare le tradizionali attività mercantili, quelle che avevano fatto di Venezia una nazione grande e prospera. Insieme a molti altri, alla vigilia della crisi militare Domenico Morosini nel De bene instituta re publica criticava severamente la politica espansionistica condotta dalla Serenissima, sicuro fomite di conflitti. E, nel pieno della crisi cambraica, da Porto concludeva che il mare era l'unica fonte di sicurezza, mentre dal fasto e dal lusso che caratterizzavano la vita cittadina, dal desiderio di tentare cose nuove era venuta la rovina dell'antica vocazione mercantile.
Non è difficile riconoscere, alla luce di quanto detto, l'identificazione che si produsse a livello figurativo fra la gente veneziana e quella ebrea, esiliata in terra d'Egitto e perseguitata a causa dei suoi peccati - parallelo d'altro canto sollecitato dalla tradizione derivante da Machiavelli, là dove questi comparava l'Italia al "popolo di Israele [...> schiavo in Egitto". Il clima dell'anno 1513 giustificava la realizzazione di una xilografia come quella di Tiziano, le cui intenzioni di sostegno alla politica veneziana appaiono del tutto palesi. Ed è forse in quell'anno che, declinando l'invito per un viaggio a Roma, l'artista si offrì come pittore della Repubblica, proponendo l'esecuzione di un'opera "che è la più difficile e che taluni non hanno voluto fare"; sarà allora Tiziano a cimentarsi con la rappresentazione della battaglia di Spoleto, che con il consenso delle autorità trasformerà significativamente in battaglia del Cadore. La grande tela - ultimata solo nel 1537 e andata distrutta nell'incendio di palazzo Ducale nel 1577, della quale non resta oggi che qualche copia e un disegno preparatorio conservato al Louvre - costituisce l'illustrazione dell'impegno apertamente politico di Tiziano, come attesta il cambio del soggetto, da una Spoleto ormai distante nel tempo a fatti militari assai recenti - 1508 -, che videro il successo delle armi veneziane, agli ordini di Giorgio Corner, sulle truppe imperiali.
Rimonta d'altra parte a qualche anno prima, precisamente al periodo 1512-1513, la xilografia con il Trionfo di Cristo, nella quale Tiziano mette in scena una spettacolare processione della fede. Nella stessa prospettiva e sul medesimo piano muove la Submersione, che si pone anzitutto a testimonianza dell'attiva partecipazione dell'artista agli avvenimenti presenti - la Lega di Cambrai, con l'umiliazione del popolo veneziano (come fu quella del popolo di Israele in Egitto), e il superamento della crisi con la disfatta degli eserciti avversari. Ci troviamo davanti alla presa di coscienza da parte di Tiziano della funzione ben definita dell'opera realizzata, nella quale vengono traslati in termini di metafore figurative i conflitti e le polemiche più vivaci del momento storico in cui fu eseguita. Soprattutto essa vale all'esaltazione dei valori incarnati dalla Repubblica, la certezza della sua vittoria e la volontà, egualmente politica, di affermare che il popolo veneziano, contro tutte le profezie malauguranti, è quello tanto da Dio amato. Il significato si impone immediatamente: non stupisce minimamente che Tiziano volesse narrare l'episodio biblico alla luce delle vicende che videro Venezia messa in pericolo mortale dalle forze venute dalla Terraferma; né la città che emerge sullo sfondo pare legarsi all'antichità egizia e, quindi, per logica estensione, al regno di Massimiliano (162), quanto piuttosto rileva dei segni dalla Gerusalemme del popolo eletto. Conviene a questo punto prendere in considerazione il riferimento al grande tempio circolare del Santo Sepolcro: si pensi alle immagini miniate della Città di Dio - specchio, peraltro, di ulteriori e reali realizzazioni urbane quali Firenze o Roma (163) - che conferiscono a Venezia le forme della città immortale. Allora le schiere nemiche cozzano contro un mare insormontabile creato dalla divina disposizione, e si stringe il legame con la Nuova Gerusalemme che è Venezia, urbs perennis protetta da Dio, e il popolo salvatore, che sono i contadini della Terraferma. Non si possono dimenticare le parole messe in bocca a san Marco durante la processione del 20 ottobre 1511 e rivolte alla città con toni profeticamente allusivi:
San Marco Evangelista tuo tutore
ch'è sempre avanti Dio e protetore.
Non creder figlia m'abi smenticato:
a tua corona illesa l'ho servato.
Cessa i sospir, cessa li to pianti
che felice ti farò più ch'a inanti.
Il doge Leonardo Loredan (164) non si riteneva forse in dovere di rendere una pubblica confessione, accusandosi di aver condotto in passato una vita troppo dispendiosa e opulenta (165)? E Venezia stessa, in seguito a una condotta sventurata, non avrebbe forse tradito la propria missione di pace e di giustizia compendiata nella formula "Gesta Dei per Venetos"? Sì, perché circolavano anche le immagini delle infedeltà (autoproclamate) ai postulati del mito veneziano. Molteplici sono i richiami al mandato assegnato alla città per l'atto divino della sua fondazione, ché Venezia avrebbe rinunciato a preservare e a praticare i valori che soli le garantivano di poter serbare intatto il fiore della propria verginità, donde l'eclissi del ruolo veneziano messo in relazione antagonistica con la pulchritudo urbis, riflesso e portato di quei valori.
L'astrologo, una incisione di Giulio Campagnola del 1509, illustra bene il sentimento di inquietudine a fronte di minacce che incombevano sulla vocazione stessa all'identificazione fra il destino della città e quello di Gerusalemme. Nella Morte di Adone, dipinta da Sebastiano del Piombo nel 1512 e oggi agli Uffizi, la scena si staglia su una luce crepuscolare - che bagna il palazzo Ducale e la basilica marciana, un complesso di San Marco restituito giusta uno schema allusivo e rappresentativo per eccellenza della città, vero e proprio motivo musicale della partitura del mito trasportato sul terreno figurativo - secondo una disposizione che soprattutto si sarebbe adattata a un Compianto su Cristo morto. Il tema insiste una volta di più sull'assimilazione Venere (Venusia)-Venezia (166): nella fiduciosa attesa di una nuova primavera, l'immagine si muterà in Venere che piange Adone; al dolore innescato dalla tragica morte sembra unirsi, nell'opera di Sebastiano, il lamento per una Venezia punita a cagione del suo tradimento. Si pensi a Edgar Wind, il quale a proposito della Tempesta giorgionesca parlava di una Venere equiparata alla Vergine come Mater Dolorosa.
Da allora le sorti della Nuova Gerusalemme potranno sfociare nell'immagine potenziale di Sodoma e Gomorra-Venezia. Pur facendo uso di strumenti allegorici di diversa natura, un dipinto di Savoldo ora nella collezione Castelbarco (167), il Riposo durante la fuga in Egitto, attinge a fini dimostrativi identici. Qui la massa della grande torre diroccata in primo piano, che introduce un profilo urbano ugualmente dominato dal palazzo Ducale, pare denunciare lo sprofondamento nelle tenebre della dannazione della sorte gloriosa già promessa alla Nuova Gerusalemme, specie di Babilonia peccatrice e perversa dalla quale la Vergine e il Figlio si allontanano, allo stesso modo che un'altra Vergine, la Venezia-Vergine, la Vergine di Giustizia, abbandonò gli uomini quando si scatenò la violenza: Venezia che brucia, Venezia che rivive la punizione di Sodoma e Gomorra e proprio nel suo sito più sacro, a San Marco, come nello sfondo di un quadro inquietante qual è la Santa Margherita di Tiziano al Prado. Riecheggiano i toni dell'invettiva di metà secolo rivolta alla città da Giangiorgio Trissino (168):
Sopra gli aurati tuoi superbi alberghi
che umil tetti fur già di canne e fronde,
salgano, empia città, de l'Adria l'onde,
si che ogni tuo tiranno si sommergi.
S'è visto finora come la città si percepisse, si pensasse, si proclamasse differente dalle altre, e proprio qui sta l'essenza della formulazione del mito - dirlo, comunicarlo, spiegarne le causalità; ma il contenuto di tale alterità si esplicava propriamente e in primo luogo nell'immagine della città della Giustizia. Ebbene, davvero Venezia avrebbe - ai propri occhi - disatteso la propria missione di giustizia? O non si tratta invece, nei testi che andiamo esaminando, nelle immagini del secondo decennio del secolo XVI, di una versione complementare e resa ancor più complessa del "detto mitico"?
È possibile distinguere due grandi categorie di rivendicazioni politiche tradotte in immagini. La prima, d'ordine tutto interiore, esprimeva una intenzione assai chiara: persuadere chiunque che la città lagunare era il luogo di una società pressoché ideale e, soprattutto, la sede di un sistema di poteri senza eguale. Quella programmatica volontà di certezza e quella convinzione, che si esigeva fossero presenti dappertutto nei testi, stavano all'origine, nel campo della cultura figurativa, di giochi allegorici multipli nel cui ambito la Giustizia personificata aveva naturalmente una parte considerevole, al modo di un'immagine autopersuasiva che segnalasse e quasi annunciasse un sito conclamato del potere. Avendo presente tutto ciò, non stupisce la ricchezza delle modalità di assimilazione di tale immagine a quella della città.
Quanto alla seconda categoria, essa si applicava - in architettura, specialmente con l'impiego di talune forme elementari - non soltanto alla reiterazione degli appelli all'eredità di Bisanzio ma, di più, a dar corpo a quella tradizione, conferendole un certo numero di attitudini e di idee, e soprattutto proclamando le istanze di una politica che a buon diritto si può definire pacifista.
Contesto filosofico e motivazioni politiche erano al fondamento dell'identificazione fra due giovani vergini, Venezia e la Giustizia. Tutta la letteratura veneziana è disseminata delle tracce e dei bagliori della volontà di rappresentare la città quale concretizzazione terrena di questa virtù, trasposizione il più possibile perfetta delle teorie politiche enuncianti il metodo del "buon governo". Gli schemi mentali precedentemente esaminati ci hanno condotto a misurare i confini dell'utilitarismo veneziano, così come si dispiegava in materia di immaginario teologico, di gnosi politica, di retorica sociale; ma alle spalle di queste connotazioni si profilano delle precise concezioni dello Stato nonché delle rivendicazioni sul piano dell'organizzazione della società che dovevano anch'esse essere convertite in immagini e delle quali occorreva gestire i modi della rappresentazione. Conviene tenere davanti agli occhi i meccanismi generali allora in funzione negli spazi urbani europei per dare forma alle pretese di giustizia delle compagini statuali e delle ideologie che esse divulgavano; ciò vale anche per il ruolo svolto dalle formulazioni giuridiche nel simbolismo dello Stato in Europa, con particolare riguardo al posto da queste occupato nel repertorio degli utensili simbolici impiegati per la rappresentazione dello Stato stesso: molto significativo, al proposito, l'esempio inglese, egregiamente studiato da Frances A. Yates.
A questo livello di percezione delle immagini veneziane, si coglie l'onnipresenza della figura della Giustizia o dei simboli ad essa collegati. La tematica del luogo della Giustizia come rivendicazione di una costituzione ideale è innegabilmente una delle chiavi di volta del mito di Venezia. Così un tal Masenetti, padovano:
Le braccia, le mani et tutto il corpo di questa Regina è la santa Giustizia; però chi la vede con la spada, et bilancia in mano tener per sua fede il leone non può dir altro che: quella è l'immagine della Giustitia di Venetia, o per dir meglio di Venetia giusta, come in ogni effetto si vede (169).
Ipotizzare l'identità Venezia-Giustizia era innanzitutto una maniera per affermare alto e forte, a fini che vorremmo per amor di semplicità dire propagandistici a uso interno quanto esterno, l'esistenza fattuale, qui e ora, di una costituzione pressoché perfetta sotto il segno dell'intervento divino. Fu così che l'identificazione letterale dell'immagine della città con quella della Giustizia poté produrre, dal punto di vista figurativo, una molteplicità di elementi metaforici. E va notato, su questo terreno, l'apporto del pensiero ebraico nonché quello, altrettanto essenziale, dei teorici fiorentini: tutti questi aspetti del mito di Venezia non avrebbero potuto svilupparsi nella misura in cui si svilupparono senza la riflessione iniziata in certi ambienti intellettuali di Firenze, soprattutto durante la crisi attraversata dalla città toscana intorno al 1500.
Molte figure di retorica formale ben riassumono tale indirizzo: l'allegoria della virtù assimilata alla "personificazione" di Venezia, la convocazione di figure bibliche quali Salomone, Giuditta, Abele, Noè..., ma anche certi sincretismi - per così dire, allo stato puro - messi avanti dalla produzione letteraria. In questo campo, forse più che in altri, si è in presenza di una semantica dalle molteplici accezioni, ché infatti la difficoltà degli enunciati mitici a integrare delle formulazioni di risonanza utopica spiega i problemi che si incontrano nella denominazione di un certo numero di immagini. Si tratta qui propriamente della rappresentazione di uno spazio teorico di rivendicazioni di legittimità spesso nuovamente argomentate ovvero apertamente avanzate (170). Particolare importanza riveste a Venezia il rapporto con il retaggio ellenico, con i lasciti di quel mondo greco segnato dalla figura del dikaion - si pensi ad Aristotele, alle sue analisi del concetto di giustizia nell'Etica nicomachea, o anche alla Repubblica di Platone, specie i libri III e IV (171).
Si comprende allora il successo che, all'interno di questa concezione, incontrò uno schema come quello della giustizia salomonica. E ricordiamo inoltre come Aulo Gellio stampato assai presto a Venezia - nelle Notti attiche prendesse in prestito dalle fonti stoiche un ritratto letterario della Justitia qual "vergine che ispira terrore, dagli occhi penetranti, e la cui dignità parsi congiungere a venerabile dolore", accompagnata dal giudice perfetto che Aulo Gellio chiamava significativamente Justitiae antistes, "sacerdote della Giustizia". Una visione, questa, altresì correlata a una funzione di mediazione - Justitia mediatrix - fra le leggi divine e le leggi umane ovvero fra la Ragione e l'Equità.
La città marciana vedeva se stessa alla stregua della petrarchiana "Domus Justitiae", né va dimenticato che proprio Petrarca fu il cantore dell'alterità veneziana. Ora, tal concetto di alterità - al pari di ogni altra categoria di distinzione o di specificazione costituisce un'autentica manna per le costruzioni mitiche: "Mundus alter Venetia dicta est", scriveva il poeta nelle Senili. E la memoria dei suoi soggiorni veneziani, insieme agli elogi formulati intorno all'immagine della città, va sovente a braccetto con l'idea di un "mundus alter" che appare in numerosi passaggi della sua corrispondenza. L'equazione Venezia-Giustizia poteva dunque vantare una tradizione cui Petrarca - che la storiografia identifica tradizionalmente con uno dei protagonisti di quello sforzo di concettualizzazione mitica - serviva a conferire nuovo dinamismo e forte carica retorica. Discende dalle elaborazioni petrarchesche il valore di Domus Justitiae attribuito al palazzo Ducale, pietra angolare dell'edificio mitico serenissimo e della elaborazione delle sue formulazioni.
In una lettera indirizzata a Pietro da Moglio sul finire del 1362, Petrarca lasciò una descrizione della città che è certamente uno dei maggiori apporti alla struttura mitica che qui andiamo analizzando (172). Ancora, una formula ulteriore definiva Venezia "solo porto a cui [...> possano riparare a salvezza le navi degli uomini": attitudine laudativa e senza ombre, evocante una città di pace e di libertà, "unico rifugio dei buoni" e unico attracco ove possano gettare l'ancora i vascelli di coloro che, sbattuti dalla "tirannia e dalla guerra", cercano di "condurre tranquilla la vita" (173). Punto di partenza di Petrarca era la constatazione dello statuto affatto specifico e particolare di Venezia, sito nel quale regna la Giustizia, città stessa della Vergine di Giustizia.
Vuole la tradizione che il poeta fosse richiesto di redigere le iscrizioni a commento delle scene in maggior consiglio "eternizzanti" l'incontro fra il papa Alessandro III e il doge Sebastiano Ziani. E fu forse Petrarca che fece conoscere Guariento ai Veneziani, onde fu incaricato della rappresentazione del Paradiso nella nuova sala del maggior consiglio (174).
Nel lascito di una biblioteca alla città si concentra il succo dell'attitudine petrarchesca, e addirittura il poeta finì per essere in certo qual modo sovrastato dai suoi stessi costrutti. Quella donazione fatta di sapere - e pregna anche di implicazioni politiche - fu al centro di un gioco multiforme di richiami e di rinvii, perciò stesso costituendo un dato fondamentale per le enunciazioni mitiche e coinvolgendo altresì i due grandi filoni della messa in immagine delle rivendicazioni politiche veneziane. Pensava dunque Petrarca di stabilirsi a Venezia e che, lui morto, i suoi libri non venissero dispersi, ma formassero il primo e cospicuo nucleo di una biblioteca pubblica. L'idea era infatti quella di legare la sua biblioteca alla Repubblica, o piuttosto alla basilica di San Marco, in cambio di una residenza in città (175). Rimpiangeva, il poeta, di non aver di già compiuto quell'atto, fin dai tempi del dogado di Andrea Dandolo, e si domandava perché prima di lui a nessun altro fosse venuto in mente di fare altrettanto. Il successo del contributo petrarchesco quale elemento fondante delle formulazioni mitiche volte alla descrizione della città veniva innanzitutto dalla sua concreta e piena adesione al vissuto e alla politica della Serenissima, agli antipodi dunque di ogni fascinazione utopica e ben diversamente dall'atteggiamento tanto ambiguo quanto severo tenuto nei confronti di Roma. Nella primavera del 1366, quando si trovava a Venezia, descrisse a papa Urbano V le condizioni miserevoli della città di san Pietro, la cui stessa basilica cadeva in rovina come quelle di San Paolo e di San Giovanni in Laterano.
Che Petrarca in quegli anni avesse sposato in pieno la causa veneziana appare chiaro dalla posizione da egli assunta in ordine alla questione candiota, sul finire del 1363, conclusasi con una feroce repressione salutata dai voti del poeta, che non tentava neppure di dissimulare la propria avversione verso i "barbari" - macchie di lordura sul "volto di questa città magnifica" -, pure se i rapporti con l'Oriente lo interessavano fino a un certo punto. Nondimeno, nell'ultima parte di una lettera indirizzata al papa (176), Petrarca parlava dei rischi comportati dall'offensiva turca contro la cristianità e specialmente contro i Greci di Bisanzio; egli si rendeva lucidamente conto che la minaccia rappresentata dagli Infedeli avrebbe potuto rivelarsi esiziale per la vera fede: non sul Rodano, allora, doveva sedere il successore di Pietro, ma sul mare Egeo (o sullo Ionio o sull'Ellesponto o sul Bosforo o sulla Propontide). E quando Petrarca assistette al ritorno trionfale di una galera recante la notizia della sconfitta della rivolta a Creta, subito scrisse una lettera entusiastica in onore di Luchino dal Verme, vincitore dei ribelli, mentre il doge ordinava di celebrare in San Marco solenni uffici di ringraziamento. Nella lettera descriveva l'aspetto della città in quella occasione, quando cominciarono gli spettacoli e i giochi: questa descrizione è il miglior attestato dell'adesione del poeta all'orizzonte di valori veneziano (177).
Nella corrispondenza di Petrarca si incontra la vivida immagine della folla che animava le calli e i campi di Venezia nel giorno dell'Ascensione (178): gusto del pittoresco, realismo, emozione sono gli strumenti cui il poeta fa ricorso per dire dei sentimenti di giustizia, di equità e di coesione suscitati in lui dalla visione della società veneziana; sentimenti, dichiarazioni e descrizioni che formano la base del concetto di "città di Giustizia" così come esso emerge dalle sue lettere (179). Tanto era partecipata l'adesione di Petrarca al modo di essere e di intendersi di Venezia, quanto indifferente si mostrava nei rispetti delle attività economiche cittadine e dello sviluppo commerciale, per i quali non v'è traccia alcuna di simpatia nei suoi scritti.
Con la Venezia di Filippo Calendario si è al cospetto dell'immagine di una virtù antropomorfizzata e assimilata alla storia della città; sulla facciata del palazzo Ducale è rappresentata allora l'onnipresente Giustizia, la cui manifestazione monumentale e ufficiale ben si compendia nel rilievo che qui ci accingiamo ad analizzare, forse messo in opera fin dalla metà del secolo XIV (180). La scultura conserva ancora una di quelle iscrizioni che, nei secoli XIV e XV, mantenevano una specie di distinzione nominale fra le allegorie della Repubblica propriamente detta e le allegorie della Giustizia cui il Cinquecento definitivamente rinuncerà. Ancora leggibile dietro al rilievo, la scritta individua - esplicitamente quanto inutilmente - tale imponente forma femminile come "Venecia": malgrado la collocazione preminente sulla facciata verso la Piazzetta, questa precisazione la dice lunga sulla perdurante necessità, al tempo di Calendario, di differenziare il soggetto rappresentato dal prototipo più antico, vale a dire dalla Justitia. Ma sul piano visivo solo l'assenza della bilancia segnala la distinzione, nel contempo accentuando il peso simbolico della spada: insomma, è incontestabilmente una Giustizia distributiva quella che ci si para dinanzi. Nella sua nicchia Venecia sta assisa su di un trono leonino al di sopra delle onde, matrona regale e trionfante con la spada nella mano destra, quella spada che è in effetti uno degli emblemi della Giustizia.
La spada nella destra, abbiamo detto, e nella sinistra un cartiglio che recita: "Fortis / Iusta / Trono / Furias / Mare / Sub Pede / Pono": la giustizia, la forza e il dominio sui mari sono qui messi avanti come qualità intrinseche della città, secondo un parallelismo tracciato fra il concetto di giustizia e la posizione di Venezia "maris dominatrix Adriatici" elaborata da Albertino Mussato. Non solo, la spada rinvia alla Fortezza, della quale è egualmente attributo, sì che ai piedi di Venecia due prigionieri, due vinti, si torcono nel dolore: sono la Discordia civile e la Minaccia militare, sulle quali si dispiega il trionfo della matrona regale; i gesti degli sconfitti rimandano ai vizi dell'Ira e della Superbia, raffigurati nei capitelli del palazzo Ducale, e conferiscono per opposizione alla personificazione della città le virtù della Temperanza e dell'Umiltà.
Occorre segnalare a questo punto che una rappresentazione comparabile a questa - ma sotto le specie della Giustizia - si trova nel Codice Bartoli, attribuita a Giusto de' Menabuoi che fu attivo nella vicina Padova. Inoltre la figura della Giustizia nel trittico di Jacobello del Fiore o quella commissionata nel 1436 alla bottega dei Bon e sistemata sopra la porta della Carta nel 1441 replicheranno questa precisa referenza: una figura femminile coronata con spada e bilancia, installata su di un trono con due leoni. E d'altra parte la ricca decorazione del grandioso balcone Steno, sulla facciata del palazzo Ducale prospiciente il bacino, culminava appunto con l'effigie di Venezia in forma di Giustizia andata distrutta durante il terremoto del 1511. Completato nel 1404 sotto il doge Michele Steno, il compito di progettare il balcone era stato dato a Pietro Paolo delle Masegne nel 1399, reggendo il ducato il predecessore di Steno, Antonio Venier.
Virtù chiave rivendicata dallo Stato marciano, l'iconografia della Giustizia domina in modo così naturale le facciate pubbliche del Palazzo che esso ne restò esplicitamente definito come un luogo di giustizia, come - appunto - un Palazzo di giustizia, "ad jus reddendum". L'identificazione fra quella virtù cardinale e lo Stato era tuttavia un topos relativamente banale nell'ambito della comunità medievale: si pensi soltanto, fra le metafore del potere, a quella del principe quale fons iustitiae, poi avocata, per fare un esempio, dalle posteriori teorie dell'assolutismo francese. Una volta di più, siamo di fronte a un discorso polisemico, incarnato da quella identificazione, e in stretto rapporto con il programma plastico della decorazione esterna del Palazzo, ove al tema del Peccato, con l'immagine di Adamo, fa da contraltare la generica proclamazione delle specificità della Repubblica, tali l'attaccamento al diritto locale e alle proprie radici. Ma si tratta soltanto di un simbolo del buon governo? La vittoria contro Zara nel 1346 è un riferimento probabile, che va tenuto presente.
L'identificazione diventa davvero letterale, allora, nella misura in cui la tradizionale rappresentazione della Giustizia trasmuta in modello essenziale per l'immagine stessa di Venezia. Dapprima affidata pressoché esclusivamente alla figura del santo patrono ovvero, per via di sineddoche, a quella del suo leone alato, fu alla metà del Trecento che la rappresentazione della città vide cominciare a impiantarsi un nuovo emblema visivo, una Venetia più complessa per composizione ed evoluzione, ma soprattutto più sottile ed efficace sul piano della funzione politica. In palazzo Ducale l'immagine di Venezia nonché il tipo figurativo della virtù personificata si modificarono in dipendenza da quella recente affermazione. È questo un terreno di analisi estremamente stimolante, dal momento che tale operazione visiva rivela un'immaginazione politica - quella veneziana - all'opera nel capitalizzare tutte le possibilità latenti della propria propaganda. Una volta fissata in questo modo, la figura di Venezia-Giustizia assunse dunque uno statuto canonico, anche se, presi singolarmente, i suoi elementi costitutivi conservarono sempre qualcosa del significato originario.
Rappresentazione utilmente ambivalente, essa continuò a funzionare come immagine composita della virtù e, insieme, immagine della città. Il più delle volte, infatti, la bilancia sta in mano a Venezia, rafforzando così, per conseguenza, l'assimilazione della virtù allo Stato. Le numerose figure che compaiono sulle superfici e nei profili del palazzo Ducale, culminanti con i contributi di Alessandro Vittoria nelle due facciate (1579), sintetizzano un tema dominante sia dal punto di vista del disegno che dal punto di vista del significato, e solo le rispettive iscrizioni valgono a distinguerle in quanto immagini della Giustizia o personificazioni della città propriamente dette. Ma - quel che è più importante - tutte esibiscono un'ambivalenza, per così dire, costitutiva: un gioco che attingerà la sua forma più pura nel soffitto di Veronese nella sala del maggior consiglio. Che una simile operazione visiva si dispiegasse nel palazzo Ducale, luogo votato all'esercizio della giustizia, non può sorprendere e tuttavia le cose non sono così semplici quanto se ne è scritto.
La rappresentazione della Vergine di Giustizia mostra assai bene tutta la ricchezza semantica offerta dalla titolare della bilancia e della spada (181). All'inizio della celeberrima quarta ecloga, Virgilio preconizzava un'età dell'oro sul punto di risorgere con il ritorno della Vergine (182), dovendosi intendere sotto quella denominazione, spiegava Dante interprete di Virgilio, la Vergine Astrea, o Giustizia, che abbandonò il mondo allorché gli uomini si incattivirono durante l'età del ferro. La poesia latina sottolineava l'identificazione di Astrea, vergine giusta dell'età dell'oro, con la Virgo, il segno zodiacale agostano; e Seneca, dicendo del "fier Leone" che "alla fugata / Astrea lascia parte dell'anno" (Hercules Oetaeus, 69) proprio a questo alludeva, al passaggio del sole dal Leone alla Vergine nel mese di agosto. I poeti elisabettiani, ad esempio, conoscevano bene questa tradizione, ed essi pure (si pensi a Spenser) assimilavano Astrea alla costellazione della Vergine, la cui posizione nello Zodiaco, fra il Leone e la Bilancia, risulta particolarmente evocativa. Senza contare che, talvolta, venne ricollegata a Venere: la vergine giusta è, non c'è che dire, una figura complessa.
Nel poema astrologico di Manlio (Astronomica), largamente frequentato nel Rinascimento, si mostra l'influenza della Virgo che, sia pure vergine, porta fecondità e si presenta giusta, ragionevole e pia. Nei versi di Manlio si parla della "Vergine dell'età dell'oro" chiamata Erigone, e si sottolinea fortemente il legame fra "colei che regnò sui primi secoli" ("quae rexit saecula prisca") e la giustizia del potere imperiale, fino a designarla - per tutto questo e per l'attributo della "pietà" di cui ella si ammanta - come idonea a farsi oggetto di un culto di Stato (183). D'altro canto la vergine che ritorna sulla terra appare trasformata: non semplicemente la Vergine Astrea della nuova età dell'oro dell'Impero, ma ben di più, la Vergine Maria. Fu Lattanzio (184) a mettere le basi per la trasposizione del mito dell'età dell'oro in termini di misticismo cristiano, nel cui vocabolario il linguaggio pastorale della quarta ecloga, già prossimo a quello del profeta Isaia, trova spazio accanto al Cantico dei Cantici.
Dante, poi, nel De Monarchia piegò il tema di Astrea all'esigenza di cristianizzazione e di santificazione dell'idea imperiale: la vergine giusta si realizza presso di lui nell'Impero "sacro", legittimato proprio dal fatto di essere stato la culla dell'età dell'oro augustea, diventando così vergine imperiale, sacra, divina. L'epistola XI all'imperatore nella quale Dante sembrava connettere l'idea di un'azione riformatrice imperiale con l'annuncio virgiliano del ritorno della Vergine Astrea ebbe una vasta risonanza, diffusa per il tramite di Anton Francesco Doni che pubblicò nel 1547 una raccolta assai letta di lettere e brevi testi di diversi autori - fra i quali Petrarca - che si apriva con l'epistola dantesca, al cui proposito va notato che la citazione da Virgilio circa il nuovo avvento della Vergine compare fin dalla prima pagina (185).
La città giusta tiene il posto di topos ricorrente in quell'autentico repertorio che sono per noi - e in quanto tali di grande interesse - gli scritti di Francesco Sansovino (186). "La nostra città, che volendosi figurare, figura una santissima giustizia" (187): ecco dunque Venezia-Giustizia, su cui si incardinano il discorso sansoviniano e i suoi commenti alle trasposizioni per immagini del mito della città. Scendendo nel profondo di questo tema, occorre dunque tener presente tale formulazione: così la Venecia di Filippo Calendario, Sansovino la dirà Giustizia in Venezia città nobilissima - "una Giustizia scolpita in una lunetta" -, lasciando da parte il resto della decorazione plastica delle facciate del palazzo Ducale e di San Marco. E nel dialogo Delle cose notabili che sono in Venezia, il veneziano spiega al forestiero cui fa da guida i rilievi che il padre dell'autore aveva fatto collocare nella Loggetta di fronte al Palazzo e che, diciamo subito, rappresentano un ammirevole commento all'edificio dirimpetto: nella figura centrale dell'attico della Loggetta il figlio scorge allora, e in modo del tutto naturale, "una Venezia in forma di Giustizia", Venezia personificata con le sembianze di una Giustizia giacché la città "volendosi figurare, figura una santissima giustizia".
L'atrio quadrato decorato da Tintoretto in palazzo Ducale fornisce un altro esempio di scrittura allegorica della Giustizia che ci permette di spingerci un po' più in là nell'analisi del senso di queste costruzioni retoriche. Si sa che le quattro allegorie mitologiche attualmente nella sala dell'Anticollegio furono pagate a Tintoretto il 10 novembre del 1578, dopo essere state valutate da Veronese e da Palma il Giovane. La loro primitiva collocazione era tuttavia sulle pareti dell'atrio quadrato, del quale il pittore aveva già decorato il soffitto (oggi ancora in situ) negli anni 1559-1567, durante il dogado di Girolamo Priuli:
Doi dei quali sono dalla parte della porta detta Cancellaria, cioè uno con le tre Gratie et l'altro con Vulcano con i Ciclopi alla fucina; l'altri due veramente dalla parte della porta che passa nella nova Salla all'incontro delli detti l'uno con il sposalizio di Ariana con Bacco alla presenza di Venere, et l'altro Pallade che abbrazza la Pace et la Concordia et scaccia Marte, i quali tutti quattro insieme significa unione (188).
Entrando nel salotto dalla scala d'Oro, sulla parete di sinistra accanto all'entrata di quella che fu la cancelleria ducale, si trovavano Mercurio e le tre Grazie e la Fucina di Vulcano; sulla parete di destra, da una parte e dall'altra dell'ingresso alla sala delle Quattro porte, erano Bacco e Arianna e Marte scacciato da Minerva. Questa disposizione è confermata sia dai documenti che dalle dimensioni stesse dei dipinti, non essendo ipotizzabile alcun altro posizionamento. Fatto essenziale, questo, ai fini del nostro discorso poiché solo la considerazione d'insieme della sala, per un verso, e dello stretto rapporto intercorrente fra le allegorie delle pareti e le rappresentazioni del soffitto permette un'analisi esaustiva del portato iconografico del complesso.
Il soffitto: nell'ottagono centrale compare il doge Girolamo Priuli, accompagnato dal santo eponimo, dinanzi alla Pace e alla Giustizia, insieme al leone di san Marco; all'intorno, nei comparti paralleli alle pareti, quattro scene a monocromo - molto probabilmente prodotti della bottega - con episodi biblici di chiara vocazione allegorica e negli angoli, infine, quattro piccole tele rettangolari con putti. Là dove questi ultimi stanno a simboleggiare le stagioni, le rappresentazioni tratte dalla Bibbia - il Giudizio di Salomone, Ester e Assuero, Salomone e la regina di Saba e la Morte di Sansone e dei filistei - evocano rispettivamente la Giustizia, la Temperanza, la Prudenza e la Forza, virtù riferite alla funzione dogale, come rimarcava peraltro Francesco Sansovino riguardo alle figure di Virtù poste a ornamento della porta della Carta. La prima fonte letteraria a menzionare e descrivere i dipinti del salotto quadrato è Il Riposo di Raffaello Borghini (1584): "Vi è effigiato [si parla qui del soffitto> Jeronimo de Priuli Principe de Vinegia inginocchiato avanti alla Giustizia, a San Marco e a Vinegia". Ma è soprattutto il contributo di Carlo Ridolfi a dover essere ricordato, specialmente quanto alle identificazioni da questi operate nella Vita del Tintoretto (Venezia 1642) (189) e in seguito tradizionalmente accettate. Soltanto la storiografia del nostro secolo le contesterà - e talora maldestramente -, ma ciò che conta è il fatto che da questo testo traspare il fondamentale processo di ricezione e di percezione di tali rappresentazioni. Evidentemente è la lettura del soffitto quella che ci intriga maggiormente; ebbene, anche Ridolfi vedeva nella figura del santo in compagnia del doge l'evangelista Marco e, ancor più importante, nella figura femminile posta all'estrema sinistra Venezia stessa: "[...> fece il ritratto del Doge Girolamo Priuli a cui la Giustizia, accompagnata da Venetia, porge la spada e le bilancie conferendole il dominio de' popoli; vi assiste in aria S. Marco Protettore in atto di leggere un libro in gratiosa attitudine".
Se pochi o alcun problema poneva e pone il riconoscimento della Giustizia, non così quello della sua accompagnatrice, spesso e volentieri bistrattata dagli storici; ad esempio, un de Tolnay, incapace di cogliere la peculiarità della scrittura formale veneziana e restio all'unanimità delle fonti, si ostinava a scorgervi un'immagine della Pace, desumendone l'identità dal ramo di ulivo che essa porta al braccio, quando fin dal Trecento Venezia si fregiava dell'appellativo di "Pacis et quietis amatrix" (Jacopo Piacentino).
Lungo tutto il secolo XVI la retorica pacifista fu componente primaria dell'ideologia cittadina, come dichiara il principale dipinto nella sala del maggior consiglio, nel quale Tintoretto ornò la figura di Venezia con il "ramo della pace" stante il programma di rappresentare una Pax Veneta quale risultato della politica dello Stato marciano. E, ragionando di altre immagini, Francesco Sansovino interpretava Pace e Giustizia come "effetti della rettitudine" del governo veneziano. Di fatto la stessa coppia appare nel soffitto della sala del collegio con la valenza di custodes libertatis, questa volta per rendere omaggio a Venezia. Gli studi di Staale Sinding-Larsen hanno d'altronde dimostrato che Pace e Giustizia designano nella più parte delle ricorrenze "due aspetti di Venezia". Ha osservato Wolfgang Wolters che la Pace si incontra sovente nel palazzo Ducale, senza tuttavia che si arrivi alla sostituzione della più tradizionale delle formulazioni mitiche, Venezia in forma di Giustizia, con una Venezia in forma di Pace. Normale, allora, che Tintoretto riservasse lo spazio più importante nell'ottagono del soffitto del salotto quadrato alla figura di Venezia, in primo piano, che guida amicalmente la Giustizia, ciò che rende il rapporto con il doge, il quale tende la mano verso la spada offertagli da quest'ultima, se possibile ancora più stretto. Di fronte a Venezia-Giustizia-san Marco, la figura dogale induce una evidente impressione di stabilità. Quanto poi alla rappresentazione del santo eponimo con i tratti di san Marco, sembra essere stata un'iniziativa dell'artista.
Ma torniamo a Ridolfi e alle allegorie delle pareti, oggetto di una descrizione affatto rivelatrice (190): i ciclopi che forgiano armi per gli dei nella fucina di Vulcano alluderebbero alla forza militare della Repubblica, le Grazie alla prudenza e alla liberalità del senato, Marte e Minerva alla saggezza che allontana la guerra, Bacco e Arianna al favore divino e alla grazia accordata a Venezia.
In questa ottica, l'apparato decorativo della sala veniva a significare il "buon governo" di Girolamo Priuli, un governo giusto, fondato sulle virtù illustrate nelle scene veterotestamentarie del soffitto come pure - forti della propria efficiente attualità - nelle scene mitologiche delle pareti. La storiografia veneziana sottolineava peraltro ampiamente le qualità civili di Girolamo Priuli: valga fra tutti l'esempio della orazione funebre incisa sulla sua pietra tombale (191) nella navata sinistra della chiesa di San Salvador.
Quando poi alla morte di Bertucci Contarini questi lasciò qualche dipinto alla Repubblica - fra gli altri, il Ratto di Europa di Veronese e la Partenza per Canaan di Jacopo Bassano - e le quattro allegorie di Tintoretto vennero spostate nell'Anticollegio - dove Zanetti le vide nel 1733 -, sostituite da dipinti senza grande interesse, fu ormai chiaro che il senso complessivo della decorazione non importava più e che le immagini simboliche in essa presenti, ridotte alla sola dimensione estetica, erano diventate mute.
Le formulazioni encomiastiche del poeta Francesco de' Alegris - studiate qualche tempo addietro da Barbara Mazza (192) - illustrano egregiamente le potenzialità tematiche di questo genere di letteratura. Due dei suoi scritti consentono di valutare al meglio la relazione fra retorica testuale e linguaggio formale, e di delimitare gli aspetti più interessanti di una delle inflessioni più spesso evocate della struttura mitica veneziana. Anzi e meglio, fungendo da illustrazione e ponendosi come transizione fra le due tematiche che veniamo qui esplorando, testimoniano non solo di quell'aspetto del mito di Venezia consistente nel vedere la città sotto la specie di una "santa Repubblica", ma pure di fissare la cronologia, intorno al 1500, per quel processo di trasformazione che vide quest'ultima immagine diventare una sorta di icona di un modello di "buon governo".
Il 1º marzo del 1501 usciva a Venezia il poemetto intitolato La summa gloria di Venetia con la summa delle sue victorie, nobiltà, paesi e dignità e officii, e altre nobilissime illustre cose di sua laude e gloria. E un altro breve quanto enfatico componimento in lingua volgare che rivisita tutto il repertorio gratificante della poesia encomiastica recava il titolo di Summa gloria di Venezia, dicta est gloria cronice nove Venetorum, uno dei testi redatti parallelamente agli scritti latini dei grandi cronisti che si citano sempre - Marc'Antonio Sabellico o Bernardo Giustiniani o, ancora, Paolo e Domenico Morosini -, nel cui frontespizio, sopra al titolo, compaiono il leone dell'evangelista con il libro e accanto ad esso l'effigie della Venezia personificata sotto le specie di "donna regale". L'esposizione prende le mosse dalla descrizione della città, la cui bellezza doveva in primo luogo impressionare, donde l'importanza, fra le magistrature minori menzionate da Domenico Morosini nel De bene instituta re publica, dei provveditori di comun nonché l'idea che la stima della quale Venezia godeva e comunemente intesa come capacità di salvaguardia dai pericoli dipendesse in larga misura dall'ostentazione di forza e di magnificenza - essa stessa oggetto di propaganda - fondata sulle fortune e sulle ricchezze dei mercanti serenissimi. Alla descrizione-esaltazione della città lagunare segue una significativa enumerazione delle città suddite di Terraferma prese a modello di fedeltà (193) - non si dimentichi che erano quelli anni drammatici, segnati dalle recrudescenze della peste e dall'organizzarsi ai confini dello Stato marciano di truppe ostili - e una altrettanto significativa menzione di Cipro, con esplicito riferimento all'abdicazione strappata a Caterina Cornaro (194). E come questo, altri testi poetici dello stesso genere - quelli di Jacopo d'Albizzotto, per fare un esempio - attestano che fin dagli inizi della costruzione le connotazioni mitiche del palazzo Ducale erano evidenti a tutti e da tutti "leggibili" (195).
La figura di Salomone o, in taluni casi, il ricorso a un simbolismo parziale ma comunque allusivo della figura salomonica costituivano in tutta evidenza un asse ulteriore delle rappresentazioni dello Stato veneziano a partire dal tema della giustizia: veniva così trasposta per immagini la saggezza della Repubblica della quale il doge era il supremo depositario. Una tematica onnipresente, questa, le cui potenzialità di sviluppo a Venezia erano tali che, collegate ad essa, è possibile individuare molteplici allusioni ad altri percorsi e ad altri orizzonti.
Il trono di Salomone fiancheggiato dai due leoni (196), sede naturale della Giustizia e già identificato in quanto sede della Sapienza con il trono della Vergine, fu accaparrato da Venezia: anche qui la coincidenza quanto mai opportuna con l'emblema marciano offriva all'iconografia veneziana un largo spettro di possibilità sul piano delle corrispondenze e dei rimandi, e soprattutto una nuova risonanza sul piano della circolazione.
Episodi diversi della vita di Salomone erano associati a numerose corti e amministrazioni: non solamente quelle insediate nelle stanze del palazzo Ducale ove si svolgevano le principali attività giudiziarie, ma anche molti servizi amministrativi disseminati un po' dappertutto in città. Si sa, ad esempio, che un dipinto con Salomone e la regina di Saba stava nel secolo XVII negli uffici della Zecca, mentre il Giudizio di Salomone di Bonifacio de' Pitati era nelle sale realtine della magistratura del sale.
L'interesse della pittura veneziana contemporanea per la messa in scena architettonica di derivazione salomonica è trasparente, basti ricordare le ante d'organo attribuite a Sebastiano del Piombo in San Bartolomeo a Rialto nelle quali la sorprendente utilizzazione di tonalità dorate può considerarsi un rinvio all'opulenza della corte di Salomone; avendo creato tale composizione, non v'è dubbio che Sebastiano abbia disegnato diverse scene evocanti l'atto del giudizio, ché d'altra parte doveva certamente esistere un certo numero di interpretazioni veneziane anteriori non pervenute fino a noi. Winckler ha suggerito - e, occorre dire, plausibilmente - che il disegno di Dürer con il Giudizio di Salomone riflettesse appunto un dipinto veneziano perduto. Ma c'erano altre fonti ancora, quali ad esempio una incisione che mostra Salomone in trono tenere udienza in uno spazio apparentemente semibasilicale; l'opera è compresa nella Bibbia Malerni, la quale - giusta quanto Wind ha dimostrato - fu sfruttata da Michelangelo nel momento stesso in cui il tema del "Giudizio di Salomone" veniva dipinto a Venezia.
L'assimilazione del palazzo Ducale al palazzo salomonico è un dato focale per la comprensione del mito veneziano. A pochi passi dalla residenza dogale, nel nartece della basilica marciana, si trova un primo Giudizio di Salomone a mosaico datato 1538; e nell'angolo verso San Marco dell'ala occidentale del Palazzo prospiciente la Piazzetta, quindi per chi guarda a destra della principale entrata pubblica dell'edificio la porta della Carta, un gruppo plastico con il medesimo soggetto fissa il tema iconografico di base, che si pone come uno dei mitologemi portanti e, anzi, determinanti l'organizzazione stessa dell'intreccio delle referenze e delle enunciazioni del mito veneziano: è dunque a Venezia, nel palazzo dei dogi, che si rinnova il palazzo di Salomone, luogo archetipo della Giustizia.
Il rilievo angolare con il Giudizio acquista così pienezza di senso, ma è inoltre indispensabile capire che con la sua presenza esso riassume e stabilisce il significato spaziale autentico della Piazzetta giusta una continuità essenziale per il simbolismo dello spazio veneziano che, passando per il porticato del palazzo Ducale, si proietta sulle due colonne all'intersezione con il Molo, a loro volta direttamente evocanti quelle del Tempio di Salomone descritte nel Libro primo dei Re (197). La Piazzetta costituisce allora - non potrebbe essere più chiaro - il "vestibolo del giudizio" che anticipa il luogo della Giustizia, vale a dire il Palazzo. Viene in chiaro perché qui venissero celebrate le sentenze capitali, ma bisogna spingersi ancora più in là per cogliere appieno la carica simbolica conferita a questo spazio, liberandosi dai fraintendimenti perpetrati dagli autori romantici - ignari dei riferimenti qui evocati - circa le esecuzioni fra le due colonne della Piazzetta per rammentare invece le due colonne bronzee fatte innalzare da Salomone dinanzi al vestibolo del Tempio (198).
La concezione del palazzo Ducale come Templum Justitiae (199) si inscrive nel processo di sistemazione dell'edificio cominciato nel Trecento e soprattutto nei programmi iconografici che ne guidarono lo svolgimento tanto sul piano architettonico quanto su quello decorativo. Kantorowicz ha ampiamente sottolineato l'importanza della metafora del Templum Justitiae che, nello specifico che ci riguarda, ha fondato - per dire così - le coordinate obbligatorie della lettura appunto metaforica del monumento durata in maniera automatica e quasi inconscia fino al secolo XVII, come mostra assai bene la celebre incisione di Cornelius I Galle per una vita di Ignazio di Loyola (200).
Ma la migliore illustrazione di tale metafora è forse la Presentazione della Vergine al Tempio di Tiziano. Il pittore aveva già avuto modo, prima di elaborare l'ambientazione della scena per il dipinto ora nelle Gallerie dell'Accademia, di formulare la referenza gerosolimitana, a partire dall'immagine della Domus Justitiae, nel cosiddetto Ritratto Goldman (forse Jacomo di Alvise Dandolo) della National Gallery di Washington, come pure aveva esplicitato l'annodarsi delle tematiche di Venezia-Vergine e di Venezia-Giustizia nella pala di Ancona instaurando la stupefacente relazione fra la Madonna e il palazzo Ducale sulla base dell'evocazione metaforica del Templum e del Palatium di Salomone.
È noto che la Presentazione fu eseguita fra il 1534 e il 1538, destinata alla sala dell'albergo della Scuola della Carità. Fra i maggiori motivi d'interesse di quest'opera, è che Tiziano, nel rappresentare la reggia di Salomone, alludeva esplicitamente al palazzo Ducale: non solo il porticato citazione del passo biblico richiamato più sopra -, ma soprattutto il famosissimo motivo a losanghe rosa e bianche caratteristico delle facciate della fabbrica dogale illuminano detto riferimento, nonché il coronamento policromo delle parti superiori.
Occorre mettere l'accento sulla forza evocativa della corrispondenza stabilita da Tiziano; oltre alla nitidezza del discorso iconografico, questo procedimento di inserzione del testo biblico nella Venezia contemporanea, hic et nunc, si collega a tutte quelle contiguità che siamo indotti a riconoscere fra citazioni dell'architettura antica e il presente veneziano. Allo stesso modo dei dipinti nel salone del maggior consiglio - alla cui decorazione Tiziano sarà indotto a partecipare -, le figure che nella Presentazione attorniano la Vergine sono dei ritratti, e specificamente quelli dei responsabili della Scuola. E infatti è un raccordo con il luogo deputato del potere che questi ultimi vollero suggerire attraverso la partecipazione di un'altra virtù che si accompagna alla Giustizia nella rappresentazione dello Stato e del potere stesso: la Carità. È stato dimostrato come il motivo della donna con il bambino in braccio sulla sinistra della composizione sia ripreso a tale effetto da uno schema antico perfettamente conosciuto all'epoca di Tiziano, che commemorava nelle monete traianee l'institutio alimentaria (201) con la raffigurazione della misericordia dello Stato: sostituita la cornucopia con il bimbo, il simbolo della liberalità dell'imperatore si muta in celebrazione della carità della Repubblica Serenissima, tassello ulteriore di questa tizianesca traduzione figurativa delle virtù del governo veneziano. Riguardo alla Sapienza, essa è restituita per mezzo del paesaggio alle spalle della Carità, di fronte al Templum e al Palatium, mentre nella folla (202) che sta dietro alla scalinata il pittore collocò le immagini di un turco con turbante e dell'imperatore Vitellio con un bastone, le quali secondo David Rosand starebbero a indicare le generazioni dell'umanità e le nazioni in quanto destinatarie della diffusione della Sapienza divina (203) ispiratrice della Rivelazione che, incarnata dalla Vergine e drammatizzata nella composizione tizianesca dai gesti della figura posta a tergo di Maria giovinetta, ci si presenta nei modi di un paesaggio simbolico mozzafiato (204): la fonte scritturale vettore di un simile parallelo era fornita dai testi sapienziali (205), di conserva con il concetto della Maria aeterna celebrato nella liturgia con parole tratte dall'Ecclesiaste (206).
E d'altro canto l'impostazione del testo vecelliano risultava essenziale per il successo della dottrina dell'Immacolata Concezione (207): non per nulla dal 1496 i confratelli della Scuola della Carità avevano deliberato di celebrare questa festa ogni anno. David Rosand ha dimostrato come il concetto dell'eternità della Vergine in quanto Sapienza divina sia rappresentato nella composizione di Tiziano dall'alta piramide inserita nel paesaggio (208). Resta poi la nuvola che si profila sullo sfondo della piramide, per la quale è stato ugualmente proposto il riferimento ai libri sapienziali che ebbero parte fondamentale nel vocabolario visivo del Rinascimento e in particolar modo nella scrittura formale di Tiziano (209). In effetti il discorso della Sapienza nell'Ecclesiaste veniva applicato a Maria Vergine da tutta la liturgia, mentre il pittore già prima della Presentazione aveva utilizzato l'immagine della nuvola come simbolo di Maria. Al modo del Cristo, che era il sole splendente, così la Vergine era equiparata alla nuvola che quella luce conteneva: la sua nascita era come l'emergere del sole dalla nuvola che lo ammantava, basti pensare all'Annunciazione di Treviso compiuta verso il 1519. In questa forma la divinità domina tutto il paesaggio della Presentazione, facendosi la piramide sorta di geroglifico monumentale dell'immanenza divina, come asserisce David Rosand, emblema di una presenza reale di fronte al Templum e al Palatium (dei dogi e di Salomone) (210).
La città lagunare deve assicurare ai propri abitanti la Salvezza, questo è il senso della pagina tizianesca che affronta uno dei temi chiave del mito veneziano: una città sorta per divina volontà, città della Vergine e perciò beneficiaria della sapienza somma. Sta qui il punto di partenza di una ulteriore formulazione iconografica che vede il leone della Sapienza accompagnarsi alla personificazione di Venezia.
La rappresentazione della Giustizia nel palazzo di Andrea Loredan sul Canal Grande ci traghetta dal referente dato da Salomone a quello dato dalla Giustizia-Prudenza. Il committente dell'edificio, stante il tenore delle sue facoltà, poteva permettersi una simile realizzazione, pur largheggiando altresì a vantaggio della chiesa di San Michele - dove avrebbe ricevuto sepoltura dopo la sua morte in combattimento nel 1513 - e della relativa decorazione. Fu probabilmente nel momento stesso in cui eseguiva gli affreschi del fondaco dei Tedeschi che Giorgione ricevette da Loredan l'incarico per il complesso (ora perduto) di figure allegoriche che ornava l'atrio terreno della nuova costruzione (211).
L'orizzonte ideologico di Andrea Loredan non sembra molto lontano dalla prospettiva ideologica del De bene instituta re publica, al tempo sovente espressa nei modi della retorica della renovatio imperii christiani, onde il palazzo si inscriveva per il committente in un processo di rifondazione simbolico. Fin dall'ingresso le parole del salmista sono scolpite nella pietra secondo uno schema mentale che tornerà di lì a qualche anno, durante la guerra della Lega di Cambrai, nella massiccia produzione dei "lamenti su Venezia" - ricorrenza che testimonia di una intenzione culturale e politica della quale i motivi decorativi della residenza di Andrea Loredan costituivano il commento figurativo. Il ricorso ai servigi di un pittore come Giorgione da parte di un personaggio della statura di Loredan acquista allora un supplemento di interesse nella misura in cui lascia trasparire lo sforzo dell'artista, attraverso l'impiego di immagini cariche di significato e in accordo con una precisa volontà significante, di segnare in tal modo lo spazio architettonico di una struttura molto articolata.
La figura della Giustizia-Prudenza attribuita a Giorgione, e oggi scomparsa, adornava, come si è detto, l'atrio terreno a ridosso della facciata del palazzo: oltre a dei fregi emblematici, Boschini ha tramandato la descrizione di una figura muliebre che, posta sopra a una porta, raffigurava a suo dire la Diligenza, dirimpetto alla quale, sopra alla porta opposta, stava la rappresentazione della Prudenza (212).
L'insieme della decorazione offriva allo sguardo tutto un sistema iconografico relativamente coerente, anche se la scomparsa degli affreschi (che non si limitavano, a quanto ci è dato di sapere, alle allegorie della Prudenza e della Diligenza) ci toglie la possibilità di valutare il peso formale del contributo giorgionesco, così come risulta oggi impossibile acquisire agli atti il senso, innanzitutto in rapporto alla definizione architettonica dell'involucro esterno della fabbrica, della serie eseguita dallo stesso Giorgione nella facciata sul Canal Grande del fondaco dei Tedeschi. Né consentono giudizi rigorosi sul ciclo realtino l'incisione edita da Albrizzi nel 1740, troppo tenue e poco definita, e i disegni fatti dal Fadiga (213).
Non è tuttavia indifferente constatare che l'ornamentazione di palazzo Loredan contemplava un'aquila e un leone scolpiti, tuttora in loco. Per Lionello Puppi si tratta dei simboli delle virtù richieste dalla gestione dei retaggi politici rivendicati, ché d'altronde un Francesco de' Alegris collegava chiaramente la Prudenza alla Giustizia per il tramite della figura di Salomone (214): non va infatti dimenticato quanto risalti nel contesto della decorazione plastica del palazzo Ducale il rilievo del Giudizio di Salomone illustrato dal motto "Rex sum Justitiae" peraltro richiamato nel 1508 in un trattatello del medesimo de' Alegris (Tractato nobilissimo della Prudentia e della Justitia).
Concatenazioni non estranee all'ipotesi, assai ragionevole, formulata da Michael Hirst di un Andrea Loredan committente del Giudizio di Salomone di Kingston Lacy, opera di Sebastiano del Piombo. Pare infatti che il suo palazzo sul Canal Grande venisse completato verso il 1509 - o, più probabilmente, prima -, anno in cui Andrea fu eletto fra i capi del consiglio dei dieci: è a questa cronologia che si può situare la commessa del dipinto a Sebastiano, giacché il contesto permette di ritenere che questa interpretazione di Salomone - di natura evidentemente e anzitutto giudiziaria - fosse originariamente destinata a una delle sale riservate ai dieci in palazzo Ducale per passare poi in realtà in qualche luogo di palazzo Loredan. E anche dopo la partenza di Sebastiano del Piombo per Roma intorno al 1511, il dipinto potrebbe esservi rimasto, pure a dispetto dei cambiamenti di proprietà, fino alla metà del secolo XVII, quando le fonti lo descrivono; il salone al primo piano è sufficientemente vasto per accogliere opere di queste dimensioni, ma è pur vero che il testamento di Andrea, nel 1513, non ne fa menzione. Comunque sia, l'ordine di un quadro di soggetto biblico non aveva nulla di eccezionale, anche per una dimora privata.
Il Giudizio di Salomone ora a Kingston Lacy è una delle più complesse riuscite della pittura veneziana di inizio Cinquecento, nella quale l'artista scelse forme tali da ricreare con la massima precisione il luogo della sentenza emanata dal re quale si ricava dal Libro primo dei Re, ciò che ne attesta per un verso lo scrupolo di restituire nella propria composizione l'ambiente architettonico di una basilica antica e per l'altro l'attenzione verso l'attualizzazione dei personaggi, resi nelle fogge veneziane contemporanee. È un dipinto di grande formato - oltre tre metri di lunghezza -, fra i maggiori per proporzioni fra quelli prodotti a Venezia ai primi del secolo: misure cospicue che vanno di conserva con il trattamento ambizioso del soggetto.
I motivi per cui fu attribuito a Giorgione sono ben noti, intendendosene una eco nell'incisione di Ridolfi nelle Maraviglie dell'Arte (1648) ove l'opera era per l'appunto a questi assegnata; e sempre sotto il nome del maestro di Castelfranco compariva, qualche anno dopo l'esecuzione dell'incisione di cui abbiamo detto, negli inventari di palazzo Vendramin-Calergi, già Loredan. Fatto è che Giorgione aveva realizzato un dipinto per la stanza delle udienze dei capi del consiglio dei dieci durante l'inverno 1507-1508, datazione confermata in sede documentaria, là dove si evince che nella primavera del 1508 il quadro era ultimato (215). Senonché il Giudizio di Kingston Lacy è manifestamente incompiuto, mancante com'è dell'anello centrale del racconto veterotestamentario, il tema del bambino morto e del bambino conteso; ma la trasposizione operata da Giorgione - al di là dei problemi che essa solleva circa i modi della manipolazione e della trasformazione del paesaggio - non può francamente sorprendere in ambito veneziano, dove il posto della tematica salomonica è illustrato da questo dipinto non meno che da altre scene di mano giorgionesca.
Fu l'immagine di Giuditta a tenere a battesimo presso il fondaco dei Tedeschi l'identificazione Venezia-Giuditta-Giustizia. Connotazioni di prudenza da un lato, connotazioni di monito dall'altro, le rappresentazioni della Giustizia serbano intatta la loro forza, a cominciare da quelle realtine cui ci conduce una nuova variante del suo spettro iconografico.
Fu costretto, Vasari, a confessare di non aver capito nulla del programma dipinto nelle facciate del fondaco da Giorgione e da Tiziano (216). Difatti le immagini veneziane comunicavano - lo si è già veduto - per percorsi mentali ai quali l'artista aretino ben difficilmente avrebbe potuto accedere, per non dire "partecipare". Restandogli allora estranei siffatti percorsi, Vasari non riuscì a penetrare i simboli e le allegorie di cui erano certamente intessuti gli affreschi del fondaco, né a leggervi - come sarebbe stato normale a Firenze - alcun episodio afferente a personaggi storici, sia catapultati fin lì dalla storia antica e dunque quasi mitici, sia proposti dal presente, grandi uomini ed eroi dell'oggi. Al contrario, si compenetravano nel discorso decorativo sistemi narrativi, allegorici e simbolici al limite del "segreto", ma pur frammezzo a tanta confusione emerge, a detta di Vasari e forse a maggior effetto, il passaggio relativo a quella "femmina seduta al modo di una Giuditta".
L'approccio vasariano, malgrado le difficoltà di comprensione dell'autore, ha il pregio di aver rischiarato almeno un fatto, vale a dire che nell'insieme degli affreschi del fondaco dei Tedeschi, visibile nella sua integrità all'epoca di Vasari, una figura si ammantava di una rilevanza affatto particolare (ai suoi occhi e probabilmente a quelli di ogni viaggiatore o spettatore), tanto da meritarsi non già una citazione pura e semplice bensì un ampio excursus descrittivo: la Giuditta, che il toscano dava erroneamente al pennello di Giorgione. La notorietà veneziana del soggetto indusse verosimilmente Vasari a discernere proprio quella raffigurazione quale componente di maggior significato del ciclo decorativo nonostante si trovasse sulla facciata verso le Mercerie, a Venezia considerata secondaria rispetto a quella sul Canal Grande. Non sembra che per lo scrittore toscano la rinomanza dell'opera si dovesse a qualità intrinseche della pittura di Giorgione, potendosi per conto nostro avanzare piuttosto l'ipotesi che tale immagine racchiudesse tanta densità di significati culturali e politici da meritarsi di essere valorizzata con una collocazione confacente in una delle facciate dell'edificio, in modo da convogliare su di sé l'attenzione del risguardante.
È questo un punto scarsamente meditato dalla critica e forse giudicato di importanza relativa; eppure la visibilità della scena e la sistemazione in facciata appaiono determinanti per il senso ultimo della rappresentazione. La Giuditta sormontava la porta centrale dell'emporio, che lo metteva in comunicazione con il traffico commerciale fluente lungo le Mercerie e che si apriva su di un ponte di legno, prospiciente un sito fatto di piccoli edifici di abitazione di poco o nessun interesse artistico e civile, dal quale il ciclo degli affreschi si vedeva perfettamente. Culmine urbanistico e spaziale delle Mercerie, la "femmina a sedere" dipinta in realtà da Tiziano ha sollecitato una miriade di interpretazioni discordanti, dovute all'ambiguità stessa dell'immagine evidentemente non riconducibile a un'unico nome o a un'unica referenza che ne possa conchiudere il significato. Se davvero era una Giuditta, vien da chiedersi che cosa ci facesse sopra la porta di un magazzino e sede mercantile? Era forse una Giustizia, ma allora perché scegliere di illustrarla mediante una figura sì collegata a tale virtù, ma tanto rara e individuata? Insomma, l'interpretazione dell'allegoria come rappresentazione pura e semplice della Giustizia non è soddisfacente.
Esistono a Venezia degli esempi - tre per la precisione, e tutti risalenti al primo Quattrocento - nei quali la Giustizia è simbolizzata dal personaggio di Giuditta (217), ma una sola concezione era davvero compendiata nella giovane donna assisa su di un trono: la duplice allegoria, bifronte, di Venezia-Giustizia. È a questa volontà che strettamente si legava il ciclo del fondaco dei Tedeschi, ed è all'interno della tradizione veneziana di decorazione e di iconologia politiche che essa poté istituire - e qui ne risiede l'importanza autentica - una serie sintetica di passaggi concettuali: Venezia = Giustizia, Giustizia = Giuditta, perciò Venezia = Giuditta.
È risaputo che una sintesi insieme speculativa e figurativa vedeva in Giuditta talvolta insieme a Ester - un emblema della Chiesa; di conseguenza Giuditta che decapita Oloferne veniva assimilata a Ecclesia vincitrice dell'Infedele o a Maria che schiaccia il serpente. D'altro canto è bene ricordare che l'identificazione con la Vergine è già virtualmente contenuta nello stesso testo biblico (218).
Ma nella facciata del fondaco dei Tedeschi Giuditta non appariva completamente conforme alla tradizione della Virtus triumphans cui l'affresco faceva solo allusione, ancorché in maniera diretta e caricandosi peraltro dei significati abitualmente connessi a tale tematica: alla combattente era qui preferita una Giuditta seduta, in atteggiamento fin lì sconosciuto nelle rappresentazioni dell'eroina biblica denotante il potere e l'autorità iconicizzati. Se ne deve concludere la deliberata intenzione di sommare ai rimandi altamente evocativi suscitati dalla figura della liberatrice del popolo di Israele una ulteriore figura femminile assisa in postura autorevole.
Ciò che assicura sulla bontà dell'equivalenza è la comune referenza data dal concetto di castità, del quale abbiamo avvertito più sopra la portata semantica e mentale, modo originale di riproporre una personificazione politico-morale di eroina casta, che appunto per mezzo della propria purissima dirittura trionfa dei nemici e salva la propria città. Facile capire come i due concetti di giustizia e di castità potessero compenetrarsi fino all'identificazione e come la celebre preghiera di Giuditta - nella quale ella si rivolge supplice a Dio, che le dia il coraggio di condurre
vittoriosamente la propria impresa (219) - potesse assumere per i Veneziani un valore straordinario. Restava così istituito un parallelismo che annunciava motivi di speculazione figurativa che non avrebbero tardato a diventare tradizionali.
La donna giusta, specchio della Giustizia stessa, e anche casta, saggia e forte come Giuditta e come lei capace di sconfiggere gli avversari e di liberare il proprio popolo è un'allegoria di Venezia; una Venezia quale vergine inviolata e inviolabile - ipostatizzazione della quale già abbiamo detto -, pronta a sollevare la spada in difesa della città contro un nemico che nell'affresco del fondaco possedeva un'attualità e una fisionomia precise: un soldato dell'imperatore Massimiliano, tedesco come coloro che erano alloggiati e che commerciavano alle spalle di quel muro dipinto, affinché giungendo alla sede loro concessa dalla Repubblica percepissero forte e chiaro l'ammonimento.
Si può dubitare di questa lettura? Basta guardare dietro alla spada protettrice, dettaglio sommariamente accennato nella trascrizione di Anton Maria Zanetti ma quanto importante, ché vi si scorgono la laguna e il profilo della città.
Le possibilità di tradurre in immagini dei concetti si rivelavano in effetti molteplici all'epoca, cosicché non fa stupore veder nascere in quel momento della storia veneziana, e in quel luogo, un meccanismo iconografico dei più importanti. Al di là del dipinto in sé e della figura rappresentata, è propriamente l'assimilazione delle due immagini, della Giustizia con quella di Venezia, ad essere provata una volta ancora. Tra la fine del 1508 e i primi mesi dell'anno seguente, allorché Massimiliano abbandonò ogni residua ambiguità per schierarsi a fianco delle forze riunite contro Venezia nella Lega di Cambrai, i magistrati preposti al fondaco dei Tedeschi si prefissero la più netta affermazione delle virtù civiche dei Veneziani, sostenute dalla protezione celeste, con l'assegnarne a Tiziano la versione figurativa e la responsabilità politica. Ora che la città è minacciata, la trasposizione per immagini della storia di Giuditta nel cuore di Rialto (220) si lascia intendere come la dichiarazione della certezza in un esito favorevole della contesa in forza della volontà divina che aveva marcato le origini stesse di Venezia. Una enunciazione che - malgrado le perplessità, di lì a cinquant'anni, di Vasari - doveva all'epoca risultare chiara a tutti e specialmente ai mercanti dell'Impero.
La piccola statua della Giustizia situata all'angolo del palazzo dei dieci savi alle decime in Rialto, di fronte al fondaco dei Tedeschi sulla sponda opposta del Canal Grande, riprende la stessa formulazione. In uno spazio strategico per la gestione della memoria pubblica, è assolutamente significativo constatare che si tratta - come ha esemplarmente dimostrato Gustavo Traversari in uno studio recente - del riutilizzo di un pezzo greco-romano raffigurante Iside come Koré e lì sistemato verso il 1521, una volta finiti i lavori del palazzo condotti dallo Scarpagnino sotto il dogado di Leonardo Loredan. Proveniente - parrebbe - da un santuario cretese dedicato a divinità egizie (forse Gortyna), la statuetta fu, per dir così, assemblata da uno scultore attivo a Venezia nel primo quarto del secolo XVI, che mise insieme tre frammenti di un medesimo manufatto antico con l'aggiunta di una bilancia, di una spada e, sulla testa, di una corona ottenendone una immagine estremamente pregnante di Venezia-Giustizia.
Il reimpiego di reperti del passato e la realizzazione "all'antica" sono tecniche per le quali vale la pena di spendere qualche parola. Così una statua femminile acefala del Museo archeologico di Venezia (164A) sembra corrispondere a quella che Marc'Antonio Michiel vide nel 1532 nella raccolta di Andrea Odoni assegnandola alla bottega di Tullio Lombardo. Nell'opinione di Debra Pincus come in quella di Peter Meller, sarebbe questo il modello della Giustizia eseguita per il monumento funebre del doge Andrea Vendramin nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo (trasportatovi nel 1812 dalla chiesa soppressa dei Servi), in cui le ascendenze antiche sono palesi.
Dall'immagine di Giuditta quale si configurò a Venezia non si può in alcun modo separare quella di Abele (221) o, ancora, quella di Noè. Abele il giusto forniva anch'egli una personificazione della "città di Giustizia" in opposizione a Caino, inchiodato al ruolo assegnatogli da Agostino nella Città di Dio e agganciato alla creazione della città terrena (222) e poi ancora da Giuseppe Flavio, che a lui "maligno, e solamente dato al guadagno" contrapponeva il fratello giovane "che osservava la giustizia" (223).
La costruzione della prima città, che portava in sé e per l'avvenire il destino di tutte le altre città edificate da mano umana, fu incontestabilmente un atto sacrilego, un gesto di ribellione di conseguenza inseparabile dalla maledizione divina. Ma il privilegio di una storia predestinata differenziava essenzialmente Venezia dalle altre città, nelle quali viceversa si rispecchiava la ribellione blasfema e fratricida di Caino. Si converrà che la trasposizione per immagini di questo enunciato rischiava di essere alquanto delicata, ma fu nondimeno intrapresa con decisione.
Staale Sinding-Larsen (224) ha potuto così dimostrare che la decorazione musiva di uno spazio privilegiato quale la cappella di San Clemente, ove si svolgevano le cerimonie più prestigiose della liturgia ducale, si proponeva l'intento di conferire alla basilica marciana proprio una rappresentazione di Caino e Abele. Le fonti di tal montaggio semantico sono importanti: non è forse Matteo a insistere sulla funzione di colui che egli chiama il "giusto Abele" (23, 35), la cui persona adombra il Cristo e il suo sacrificio? Impostazione poi ripresa da Tertulliano, che a proposito di Abele parlava del "sacrificio del Redentore".
Con le figure dei figli di Noè, le immagini della derisione e del giudizio sembrano condurci alla presenza di un' allegorizzazione dell'impossibilità dell'eguaglianza sociale. Ancora Sinding-Larsen (225) ha analizzato la traduzione figurativa del piano divino della Salvezza come tematica unificante il complesso della decorazione marciana, culminante nella cupola dell'Ascensione. La Creazione di Adamo e di Eva, con il Peccato originale e la Cacciata dal Paradiso terrestre, e le Storie di Noè e di Giacobbe acquisirebbero così il valore di prodromi veterotestamentari della venuta di Cristo e del compimento del piano salvifico per mezzo della sua Passione, Morte e Resurrezione. Così pure Noè, alla stregua di pressoché tutti i personaggi maschili dell'Antico Testamento, è stato sempre interpretato come prefigurazione di Cristo, tanto in relazione all'arca del Diluvio - a sua volta metafora della Chiesa o simbolo della Salvezza - quanto alla vicenda dell'ebbrezza, naturalmente intesa come immagine della Passione giusta un riferimento del tutto trasparente al calice offerto a Gesù nell'orto di Getsemani. Speciale interesse riveste la raffigurazione di Noè sulla volta dell'atrio della Basilica, elemento di un ciclo musivo con le Storie della Genesi.
In San Marco, ma in una scena differente, si trovano egualmente effigiati Sem e Jafet in atto di coprire le nudità del padre. Riguardo a Cam, si sa che per il suo atteggiamento indegno vedrà condannata la propria discendenza a essere schiava delle progenie dei fratelli. Il testo principale concernente questo tema iconografico è senz'altro una lettera di sant'Ambrogio a Simpliciano (226) nel quale la maledizione fulminata su Cam e sulla sua schiatta è presentata come l'atto che stabilisce la necessità per il popolo ignorante di venir governato dai saggi. Il passo ambrosiano e soprattutto l'interpretazione di esso in termini strettamente politici elaborata da Nicola Cusano sono stati messi in rapporto con il gruppo plastico sull'angolo verso il ponte della Paglia della facciata sul Molo del palazzo Ducale, che rappresenta infatti Noè ebbro e i figli: per sant'Ambrogio il patriarca sarebbe propriamente "auctor publicae salutis" in quanto autore di un giudizio, ed è questa una costante tipologica anche delle sculture nella facciata della basilica marciana.
Giova ricordare che i tre gruppi scultorei del perimetro esterno del palazzo Ducale mettono in scena, oltre al Giudizio di Salomone e a Noè ebbro e i figli, un ulteriore giudizio per mezzo delle figure di Adamo ed Eva, e che tutti sono sormontati da una statua con le sembianze di uno dei tre arcangeli, Raffaele, Gabriele e Michele. Appaiono, questi elementi figurativi, solidalmente collegati da un'unica concezione, che regge l'insieme dell'impianto decorativo del Palazzo, improntata alla legge e alla giustizia esercitate dai governanti, manifestazione terrena della lex gubernationis.
Effettivamente l'evidenza della separazione fra Cam e i fratelli nel rilievo con Noè ebbro, essendo Cam effigiato nella parte opposta dell'arco su cui insiste il gruppo e pertanto discosto dalla facciata, implica giocoforza un giudizio. "Qui la distinzione fra il Bene e il Male è valida al livello sociologico: non c'è dubbio che la definizione dei patrizi come portatori di virtù e di coloro i quali sono sottomessi al loro potere come non sufficientemente virtuosi corrisponde alla differenziazione della società politica, ove gli uni sono assunti nella categoria della valentior pars mentre gli altri ne sono esclusi" (227). Innegabile allora la valenza sociale e politica di questa rappresentazione, veicolata da aspetti religiosi e mistici.
L'utilizzazione dei quattro sensi dell'ermeneutica biblica medievale è variamente pertinente (228) in funzione del contesto in cui l'exemplum è fatto operare, valga per tutti l'assimilazione dell'ebbrezza di Noè con la Passione di Cristo o, ancora e soprattutto, di Noè deriso con il Cristo deriso, giacché "Noè Christum significat" ammonisce la Biblia Pauperum (229). È dunque dal significato mistico della nudità di Noè - cui solo i chiamati e i predestinati, secondo sant'Agostino, possono accedere - che occorre partire per sviscerare appieno il messaggio trasmesso dalle immagini relative all'episodio, là dove quegli che il mondo accoglie con derisione è in realtà la manifestazione visibile della sapienza autentica, come la intendeva san Paolo (Prima lettera ai Corinti, 1, 17-26; 2, 6-8; 3, 18-20) (230). Ebbene, il regolo interpretativo, a proposito di Noè deriso, delle cose "facunde di prophetici intendimenti e velate di coperte figure" lo si incontra nel capitolo XVI della Città di Dio: la vigna piantata dal patriarca rappresenta il popolo di Israele, mentre il vino che se ne produce rimanda all'Incarnazione di Cristo e l'ebbrezza di Noè alla Passione. Ma, più d'ogni altro elemento, è la nudità a caricarsi di un valore simbolico come prefigurazione della Crocefissione (231).
Il distanziamento di Cam, segno visibile della sua inferiorità, della sua subalternità ai fratelli, volge in immagine un concetto fondamentale del pensiero politico e religioso medievale, dichiarando come inevitabile e addirittura ineluttabile la divisione gerarchica dell'umano consorzio. In un quadro ideologico del genere qualsiasi ribellione doveva essere sanzionata e punita - fosse contro la Chiesa o contro lo Stato, non faceva differenza -, poiché essa suonava a critica di un ordinamento fondato dalla volontà divina. La scena della punizione di Cam aveva dunque valore di ammonimento rivolto a quanti non potevano fare altrimenti che accettare l'assetto vigente - schiavi, eretici o Ebrei -, sotto pena di definitivo allontanamento da un corpo sociale voluto e istituito da Dio.
Stefano Coltellacci ha messo in evidenza il fatto che l'Ebbrezza di Noè di Giovanni Bellini è in qualche modo una immagine di crisi. Qui Cam non è isolato dal resto della famiglia, tutt'altro, ché infatti agisce nel seno di essa; lungi dall'osservare le nudità paterne, pare quasi domandare ai fratelli di ricoprirle. Il quadro belliniano prende allora la consistenza di immagine della crisi di una specifica formula politica e sociale. È certamente dall'episodio della derisione, con Cam che scorge il padre nudo, allungato con un braccio dietro alla nuca e la testa appoggiata su una mano, che deriva una immagine come quella del dipinto conservato a Besançon (232), nel quale il pittore si sforzò di operare una sintesi del racconto biblico; e la saldatura dei due momenti suggerisce la possibilità di scelta fra l'atteggiamento negativo di Cam (Genesi, 9, 22) e la pia reazione di Sem e Jafet (Genesi, 9, 23). L'evidenza conferita da Bellini alla ciotola contenente il vino, in posizione centrale, possiede anch'essa un significato mistico, simbolo infatti del sangue versato dal Redentore.
Siamo quindi incontestabilmente - o per lo meno così ci sembra - di fronte a una testimonianza della crisi del primo Cinquecento, che investì le concezioni urnanistiche con i loro fondamenti religiosi, progressivamente minati nel corso del secolo, e l'intero patrimonio intellettuale della ristretta élite culturale che incessantemente si incontra nelle fucine in cui si forgiava il mito veneziano. Crisi, allora, degli enunciati culturali della città funzionanti da cent'anni e perciò stesso crisi del mito o di certuni aspetti di esso; e crisi, dunque, delle rappresentazioni politiche, con tutti gli indizi in questa sede successivamente analizzati convergenti attraverso una sorta di considerazione delle diverse declinazioni del mito. Se l'impatto degli eventi che contrassegnarono la fine del primo decennio fu una realtà, esso pare esser stato curiosamente sottostimato sul terreno della sua traduzione formale e della produzione artistica in generale. Altri tipi di messa in immagine dovrebbero essere esaminati nell'identica ottica: così nel polittico della chiesa di Saint Maximin, datato fra il 1518 e il 1520, Antoine Ronsen poté impaginare la scena della Derisione di Cristo, svoltasi nel cortile del Tempio gerosolimitano (233), nella Piazzetta dominata dal prospetto del palazzo Ducale.
Poco conveniente, tuttavia, considerare il destino delle figure della Giustizia affrontate fin qui senza giustapporle a quelle che costituiscono l'altro asse portante lungo il quale giungono a compiuta formulazione le rivendicazioni politiche più o meno apertamente affermate: parleremo allora delle immagini della Nuova Costantinopoli.
C'è dunque un altro versante del mito veneziano che occorre esaminare - al livello delle formulazioni di natura politica -, dislocato al crocevia dei diversi assi strutturanti il discorso del mito della città: è il parallelo con Costantinopoli, la sua evocazione e perfino la sua presenza, dovuta a un certo numero di rifugiati spesso prestigiosi, e non solo a questo. E però un punto, di indole per così dire temporale, differenzia siffatta referenza dall'approccio tematico precedente: se le enunciazioni relative al concetto di giustizia serbarono la propria attualità e il proprio potenziale operativo all'incirca per tre secoli, va detto immediatamente che la temperie cronologica ridusse il margine di validità e di pertinenza dell'immagine costantinopolitana a mezzo secolo di storia reale. Per contro questa faccia del mito, o questo mito tout court, volendo seguitare nell'accezione plurima che sottende l'impianto generale della nostra riflessione, fu certo un mito della potenza per eccellenza o quanto meno della suggestione della potenza.
È dunque indubbio che ci troviamo alle prese con un dibattito storiografico superato. Le autorappresentazioni mitiche di Venezia presupponevano obiettivi politici ben determinati, sui quali direttamente o indirettamente erano tagliate le rispettive trascrizioni figurative; e che si debba leggere sotto il profilo della rivendicazione politica l'autorappresentazione con i tratti della Nuova Costantinopoli - cioè tutti quei richiami formali a connotazioni neobizantine - è fatto riconosciuto da almeno tre decenni di storiografia, pure se recentemente tale interpretazione è stata in qualche modo sfumata (234). Ed era precisamente un messaggio politico quello che un settore del patriziato intendeva divulgare promuovendo questa immagine della città.
Le pagine del De bene instituta re publica propongono la rappresentazione tanto mentale quanto materiale di una Venezia trionfante, programma svolto figurativamente da Carpaccio segnatamente nei teleri del ciclo per la Scuola di Sant'Orsola. Ebbene, l'opera del pittore mostra che con Domenico Morosini e Mauro Codussi la battaglia di immagini era comune, che partecipava anch'egli di quei significati, secondo quanto dimostrano i riferimenti ai temi e all'architettura codussiani dei quali - come è stato dimostrato - sono pieni i suoi dipinti.
Va da sé che la fortuna critica di questa impostazione fu considerevole. D'altronde le attitudini delle frange superiori del patriziato lungo tutto il secolo XVI sono ben compendiate da Morosini stesso (235), a proposito del quale Gaetano Cozzi ha individuato ulteriori convergenze, in particolare con Guicciardini (236). Era una linea politica che avrebbe condotto ad Andrea Gritti e poi alla cerchia dei committenti di Palladio, per mezzo dei quali l'eco della politica del primo, che aveva ripreso (237) la sostanza di tali formulazioni inquadrandola in un vasto piano di riorganizzazione politica ed economica, sarebbe durata fino alla metà del secolo.
Le pale di Giovanni Bellini e di Sebastiano del Piombo in San Giovanni Crisostomo ribadiscono che la pittura non fu estranea al movimento neobizantino.
Prendiamo in esame il dipinto belliniano con i Santi Girolamo, Cristoforo e Agostino ancor oggi nella chiesa di San Giovanni Crisostomo. Se sul piano cronologico va rimarcata la conclusione di Augusto Gentili (238), il quale dopo un'analisi esemplare delle due pale vi legge i sintomi del lento esaurimento del revival greco-bizantino a favore della renovatio umanistico-romana (239), rimane peraltro un bell'esempio di elogio degli studi greci l'iscrizione, naturalmente in quell'alfabeto, con il secondo versetto del Salmo XIV (240), che evoca bene la situazione veneziana di quegli anni.
La scelta della lingua greca per una scritta apposta su di un'arcata di evidente foggia bizantina è assolutamente coerente con la dedica della chiesa a san Giovanni Crisostomo, patriarca di Costantinopoli e dottore della Chiesa orientale, nonché e soprattutto con gli elementi neobizantini contenuti nel programma di ricostruzione e di ridecorazione della stessa - dalla croce greca della nuova pianta all'iscrizione sul libro che il santo reca, tornante ideologico della pala dell'altar maggiore opera di Sebastiano. È in questo clima che qualcuno, verosimilmente Ludovico Talenti, fornì a Giovanni Bellini il testo greco del salmo citato: come non ricordare che il salterio greco era stato stampato in una edizione di grande raffinatezza da Aldo Manuzio nel 1496 e nel 1498, e incluso a più riprese nelle edizioni poliglotte dei primi anni del Cinquecento? Sta inoltre, l'iscrizione della pala belliniana, in stretto rapporto con la figura e l'opera di san Girolamo, artefice della revisione e del commento a detto salterio. Quanto al Salmo XIV, esso appartiene al gruppo dei salmi sapienziali, nei quali il tema fondamentale è quello delle sofferenze del giusto in terra, sulla quale si sparge il benessere ingannevole ed effimero del sacrilegio. Ribaltando più antiche concezioni punitive, la teologia salmodica afferma la necessità del patimento quale prova di iniziazione per il giusto e non già a espiazione del peccato.
Il Salmo XIV svolge l'argomento seguente: dopo aver invocato Dio, poiché nel mondo a quel che appare non c'è posto per il giusto, il salmista dichiara ancora una volta la propria fede nella potestà divina e, riconoscendo il disegno di una sapienza superiore, accetta le proprie sofferenze all'interno di un percorso di elevazione verso la redenzione finale. La tematica del salmo si incarna allora, sul piano del contenuto figurativo della pala di Bellini, nell'immagine di Girolamo (241), costituendo le privazioni dell'eremita il passaggio iniziatico per accedere alla Resurrezione-Redenzione e comprendere infine la volontà di Dio. Il carattere di elezione spirituale indispensabile per unirsi al divino affiora trasparente dal commento dello stesso Girolamo al versetto in questione, ove si trova altresì la sottolineatura della funzione apostolica. Fermo tutto questo, ciò che nella pagina belliniana viene messo in gioco è essenzialmente la relazione fra le origini e il destino della città lagunare e la divina cognizione.
Identica pregnanza nell'esempio di Cima da Conegliano. Negli anni della costruzione dei principali monumenti neobizantini veneziani, Cima ebbe svariate occasioni di eseguire soggetti sacri in ambientazioni architettoniche, nel momento stesso in cui queste venivano progettate e realizzate. Per Ennio Concina (242), che a giusto titolo ha messo in evidenza questo tipo di processo, immagini simili consentono di approfondire la nostra interpretazione del fenomeno. I significati attribuiti dal pittore a quelle architetture sono di sicuro il riflesso delle discussioni che dovettero aver luogo allora nei circoli artistici di Venezia; tutta una serie di indicazioni al riguardo, e assai puntuali, ci vengono dalla Vergine in trono con il Bambino e santi del duomo di Conegliano, opera eseguita intorno al 1492-1493. Così lo spazio cubico sovrastato da una cupola su pennacchi non sarebbe tributario di qualche prototipo di Bellini o Vivarini, quanto piuttosto della disposizione del coro di San Giobbe: referenza importante, tanto più che l'architetto che lo progettò era quel Pietro Lombardo che insieme al figlio si sarebbe poi occupato - come già s'è detto - del cantiere di San Salvador.
Idee desunte dalla sfera dell'architettura appaiono sviluppate in diverse stanze dell'opera di Cima, e anzi, in due casi la decorazione a mosaico che ricopre cupole e pennacchi rappresentati dal pittore sono citazioni dirette di manufatti riconoscibili. Nella pala di Conegliano i tondi sui pennacchi provengono dall'atrio della basilica di San Marco (con le probanti sottolineature, per questo luogo, di Sinding-Larsen), mentre nella Vergine con il Bambino e santi di Berlino, dipinta fra il 1495 e il 1497, il mosaico della cupola è una replica diretta e fedele di quello che orna la cupola di San Giuseppe nel nartece della medesima Basilica. Importante per il discorso che qui andiamo dipanando la ricezione quasi sistematica dell'exemplum marciano, anche sul piano iconografico (per il quale ogni dimostrazione è inutile!) e più ancora - insistiamo su questo aspetto - per via dell'originaria localizzazione dell'ultimo quadro qui menzionato: la sacrestia di San Michele in Isola. Eccoci riportati ancora, nell'ultimo terzo del Quattrocento - al termine di questa tappa centrale sulle enunciazioni del mito veneziano -, nel piccolo mondo dei camaldolesi. Qual è il senso di tante commesse sullo stesso tema? Una pura combinazione nella storia del gusto? Come faceva notare Sansovino, le architetture neobizantine evocavano sovente e in primo luogo l'architettura della basilica marciana, ma dall'apparente banalità di questa constatazione si possono trarre elementi supplementari di comprensione. L'interesse per gli edifici a cupola di Cima da Conegliano induce significati estremamente precisi dei quali le analisi di rado tengono conto. Numerosi gli esempi: nella tela con San Giovanni fra quattro santi, tuttora nella chiesa della Madonna dell'Orto, la scena è contornata da un riquadro di marmo la cui esecuzione richiama da vicino la maniera di Pietro Lombardo. Vale la pena di ascoltare Ridolfi: "San Giovanni Battista in piedi sotto ad antica tribuna, imitando con molta accuratezza le macchie de' marmi e le rotture che vengono causate dal tempo".
Esiste un tempo veneziano: altra concezione, altra idea della sua evoluzione, altra attitudine verso di esso che Venezia non cessa di manifestare, secondo un procedimento capace di indurre il concetto stesso di storia che la città vorrà produrre e utilizzare, e di conseguenza esibire. Delle modalità di tale messa in immagine occorre allora analizzare la percezione, la stratificazione e la formulazione, innanzitutto facendosi carico, punto per punto, di questi fattori (243).
La percezione del tempo, in primo luogo, è importante nei racconti mitici, poiché a Venezia la rappresentazione dello Stato, l'atto di "scrivere" il potere, è anche la "scrittura" del tempo, che è necessario decifrare sotto pena di omettere l'essenziale. Non è solamente questione di approccio globale alla struttura temporale, ma pure di ortografia delle origini che vi si inscrivono, quelle origini che si continuano a vivere e a voler vivere, come il dibattito innescato dalla costruzione del nuovo ponte di Rialto insegna; più in generale, la matassa da dipanare è quella del movimento del tempo e delle inflessioni del passato. Infiniti itinerari mentali si schiudono, fino a che il superamento stesso del tempo giunge a spogliarsi del proprio senso più pertinente e normativo, a metamorfizzarsi quasi impercettibilmente in un processo continuo. Se ne coglie pienamente l'utilità nel momento in cui si debba mostrare lo Stato e anche trovargli giustificazione, in tutta l'ampiezza etimologica che il vocabolo comporta: presentare lo Stato, rappresentarlo, significa altresì rappresentare il tempo.
La percezione del tempo a Venezia è dunque un altro elemento della costruzione degli elaborati mitici, dei quali non si può fare a meno di sottolineare i molteplici punti di contatto con le categorie temporali, prime fra tutte quelle che attengono all'inizio, alla creazione, alle origini e che stanno al centro della concettualizzazione-narrazione portata avanti da ogni mito. Grazie a un settore della sua élite intellettuale e sociale - del resto ampiamente responsabile dei programmi iconografici -, la città lagunare ha sempre dimostrato uno spiccato talento nella gestione del proprio passato: ci si prospetta quindi la necessità di indagare il racconto veneziano della storia propriamente detto, ma anche le suggestioni del "tempo di Roma", senza trascurare le loro interazioni con gli altri referenti temporali in gioco.
Riferirsi alle origini e perciò risalire al valore intrinseco che esse possiedono non è pensarsi in termini di rottura, bensì concepirsi come una tappa sul percorso: vi è qualcosa di innegabilmente circolare in questo genere di rappresentazione del tempo (244). Un Sanudo o un Sabellico - intanto che illustravano con il proprio approccio i meccanismi stessi della formulazione mitica - insistevano su una Venezia "eletta" fin dal più lontano passato e dotata di una peculiare concezione del tempo per la quale il momento della nascita si identificava con quello della rinascita. Questo "tempo veneziano", legittimato per via parateologica, ammetteva dunque un procedimento rappresentativo in qualche modo ciclico: Genesi, Concezione, Morte e Resurrezione di Cristo erano indissolubilmente legati ai destini della Serenissima, ciò che confermava la stessa rappresentazione ufficiale della città. A Venezia una rinascita non avrebbe saputo essere altro che renovatio, sviluppo consequenziale dell'essenza della città contenuta nel tempo della genesi, giammai restitutio, giammai "ritorno" a una perfezione che i secoli precedenti avrebbero disperso.
La stratificazione del tempo nelle narrazioni mitiche: molteplici livelli devono essere tenuti in conto per definire le categorie discorsive e le categorie temporali, delle quali la più inafferrabile è quella delle origini. Di qui inizia ogni codificazione, qui si incarnano i valori fondanti e il minimo comun denominatore della compagine sociale. E lo sguardo costantemente puntato sulla tematica degli inizi fa da stimolo all'assiduo rinnovarsi di una continuità che già possiede in sé la propria perfezione. Il racconto delle origini è il fulcro di qualsiasi narrazione mitica, e Venezia non faceva eccezione.
Nella descrizione della laguna fatta da Cassiodoro gli storici umanisti scoprirono l'immagine di una vita primitiva virtuosa in un ambiente in cui, aggiungeva Cassiodoro, la linea delle isole che separano la zona lagunare dal mare creava una protezione permanente e sicura. Allo stesso modo, i Veneziani disponevano di leggende analoghe intorno alle loro origini, con un primo gruppo di racconti a fissare la discendenza degli antichi colonizzatori e un altro a spiegare quando e perché costoro abbandonarono la terraferma per vivere in acquitrini inospitali.
Uno dei documenti essenziali per la formazione delle rappresentazioni mitiche di Venezia è certamente la famosa epistola di Cassiodoro nonché l'immagine della città originaria che ne fu ricavata; un documento largamente impiegato a fini istituzionali, nel quale si rinvenivano la giustificazione dello sforzo a salvaguardia di un diritto proprio fondato sull'arbitrium del giusdicente e la rivendicazione della specificità delle leggi venete nei rispetti dello jus romanum (245). L'indipendenza costitutiva di Venezia suonerebbe allora come cauzione del concetto di libertà veneziano, parimenti rappresentando agli occhi di un Gasparo Contarini (246) la fonte della stabilità repubblicana giusta il raccordo comparativo instaurato tra la fondazione della città lagunare, contrassegnata dalla ricerca collettiva di "honore", "chiarezza" e "virtù" da parte degli iniziatori, e la fondazione di modelli quali Atene, Sparta e Roma (247) da parte di un unico eroe-legislatore. Fino a che una coscienza storica già strutturata ma non ancora vincolata da legacci cronologici troppo stringenti - i quali, una volta annodati, avrebbero messo a mal partito l'edificio del pensiero mitico - conobbe sviluppi consistenti, quelle origini mitiche continuarono a mantenere un'influenza ragguardevole sull'elaborazione dell'ideologia politica repubblicana. A questo stadio, la loro importanza era tutt'affatto reale.
Un mito non tollera di essere ignorato (248). Se un certo numero di informazioni e di racconti così veicolati non tardano ad abbandonare la memoria collettiva, e altri sopravvivono come formule nell'ambito di una letteratura elitaria, più numerosi sono quelli che resistono al tempo e agli attacchi: è il caso delle leggende che ci accingiamo ad esaminare, che improntarono di sé l'immaginario veneziano fin dentro l'età moderna.
La maggior parte di tali narrazioni faceva provenire i primi colonizzatori dalla Gallia, lignaggio che confermava i rapporti privilegiati fra Venezia e la Francia, ovvero da Troia; opzione, quest'ultima, che trasferiva per via diretta al sangue veneziano la nobiltà degli aristocratici guerrieri troiani i quali, si supponeva, avrebbero trovato rifugio in laguna dopo il saccheggio della loro patria.
Durante il secolo XV, nei Rerum Venetarum ab urbe condita [...> libri XXXIII - o, nella traduzione in volgare del 1554, Le historie vinitiane -, fortemente impregnate di orgoglio patriottico, Marc'Antonio Sabellico prendeva posizione per la teoria "gallica", nonostante il suo predecessore Bernardo Giustiniani avesse affermato che durante la spedizione di Attila in Italia gruppi di profughi dell'entroterra veneto presero la fuga in direzione delle isole scarsamente popolate nelle pacifiche lagune dell'alto Adriatico. Aggiungeva Giustiniani, gettando un ponte fra enunciazioni la cui compatibilità fu assai presto problematica, che frammezzo a quegli immigrati vi erano dei nobili di Padova espressamente scelti da Dio per edificare una nuova città destinata a raccogliere l'eredità di Roma, giustamente punita. Impianti narrativi di questo tipo incoronavano comunemente la fondazione di una città come la genealogia di una famiglia o di un popolo, assoggettandosi ben presto a ragioni e mode politiche (249).
Il successo del papa Leone I, che fermò Attila lanciato alla conquista dell'Italia, diede in mano ai costruttori del mito un elemento ulteriore, di indole religiosa e, beninteso, miracolosa. Fu così che, in qualche modo, il re unno si ritagliò un posto di primo piano nella storia cristiana; e i Veneziani seppero amplificare la leggenda della fondazione ad opera di rifugiati sospinti nel sito originario dall'invasore al punto che l'episodio di Attila entrò di diritto nel patrimonio mitico dell'Europa moderna.
Nel 1622 un inglese appassionato di storia veneziana, Sir Henry Wotton, delineò la vicenda delle origini della città in una lettera indirizzata alla marchesa di Buckingham nella quale si riscontra un bell'esempio di utilizzazione del repertorio cresciuto intorno al personaggio di Attila (250), il cui mito sopravvisse addirittura alla morte della Repubblica nel 1797 (251): una conferma in più, semmai ce ne fosse bisogno, dell'efficacia propagandistica di questo genere di racconti.
Una seconda sedimentazione, chiaramente reperibile, è quella del "tempo che scrive la storia". La percezione di tal permanente riscrittura dell'evento - vissuto e perciò rappresentato nei termini di una cronologia che non è la sua - è sovente assente dai commenti e dalle analisi. A essere celebrato è l'avvenimento di secoli addietro, rivissuto quale esso fu oppure, più spesso, rivisitato e immaginato quale esso non fu mai, con la voluttà propria dell'immagine - il suo mezzo - ad arricchirne notevolmente i modi della narrazione. Lo statuto, in senso proprio, di quel che viene mostrato, il fatto che l'avvenimento continui a perpetuarsi - nel secolo XII come nel XV, ad esempio - è il più delle volte ciò che dà senso alle trasposizioni visive: un senso che va inteso nell'accezione polisignificante di un inesausto processo di riformulazione del significato. Fu precisamente quest'attitudine a fornire il quadro di riferimento iconografico del palazzo Ducale e, a più forte titolo, della decorazione della sala del maggior consiglio. Di quest'ultima, l'insegnamento principale non consiste in uno scenario parzialmente conservatosi fino ai nostri giorni (anche se si tratta evidentemente di un fattore che le conferisce un surplus di comodità descrittiva), quanto piuttosto nella possibilità di individuarne le declinazioni successive.
La scrittura della storia non smise dunque di evocare il tema della pace di Venezia, evento continuamente messo in scena talché i fatti del 1177 appaiono come la pietra angolare dell'approccio veneziano al tempo storico e, anche, l'esempio più probante di una semantica che costituì uno dei piedistalli del mito veneziano.
Poco importano, a questo livello, i fatti storici in se stessi: la narrazione in quanto tale conta assai meno dei meccanismi mentali e dei mitologemi che la articolano e la orientano, meno del mutuo rapporto che regge il funzionamento delle singole componenti delle immagini. Al di là dello stravolgimento della struttura degli avvenimenti, quel che balza in primo piano è l'opportunità offerta da uno spazio aneddotico - che avrebbe potuto essere del tutto dimenticato: si parla, in fin dei conti, del 1177 - per "dire" di un luogo e della sua indipendenza e del suo ruolo; e, ancora, per lasciare che un potere "si dica", si riassuma in ciò che crede di rappresentare, attraverso il corpo sociale o - nel caso - un'azione diplomatica.
Uno dei versanti di maggior fascino di tal sorta di storie figurate è che esse disvelano come l'importante fosse l'autenticità della tradizione del racconto nonché, correlativamente, la tradizione propria della rappresentazione di esso; i problemi sorgevano là dove siffatta tradizione non esisteva ovvero, come nella Venezia di fine Cinquecento, quando il processo finiva per rapprendersi e persino a fossilizzarsi.
Nell'Europa all'inizio della modernità, ogni potere avvertiva il bisogno di una giustificazione storicamente fondata per le proprie aspirazioni, di un'avventura ben collocata nel tempo (piuttosto che nella dimensione mistica) capace di dare gambe a linee ideologiche appoggiate su vicende necessariamente umane. E quel sostegno, quell'impianto discorsivo "forte", si ha l'impressione che la Repubblica pensasse di averlo trovato nella venuta di papa Alessandro III a Venezia: la struttura narrativa della storia veneziana a partire dal Trecento considerò infatti quell'episodio come un autentico crocevia semantico. Fra il governo serenissimo e il racconto della pace di Venezia si instaurò una relazione che non smise di influenzare il racconto medesimo e la sua propagazione; per il tramite della storiografia e dell'iconografia, su quel lontano evento furono incardinate alcune delle grandi rivendicazioni della città lagunare (252).
L'immagine di una Venezia protettrice della Chiesa poté così alimentare il magazzino retorico della propaganda politica che la Repubblica non si faceva scrupolo di utilizzare, giocando la carta dei presunti privilegi ricevuti da papa Alessandro: il pensiero va subito a Girolamo Bardi, il quale nell'ultimo scorcio del Cinquecento illustrava la scelta delle tematiche svolte nella sala del maggior consiglio, ma va pure detto che la narrazione della storia dello scontro fra il pontefice e l'imperatore era cominciata con gli scritti di Bonincontro de Bovi per concludersi con le perplessità di Cesare Baronio o di Paolo Sarpi, non senza strascichi finali nella Venezia del secolo presente - addirittura - eccitati da un'ultima trascrizione letteraria di quel racconto leggendario (253).
La decorazione della sala del maggior consiglio precedente all'incendio del 1577 ammette di essere letta anche soltanto in questa prospettiva. Nella scena con Federico Barbarossa incoronato a Roma da papa Adriano IV, raggruppati all'interno della basilica di San Pietro, si scorgevano numerosi cardinali, uomini politici veneziani e stranieri, altri ecclesiastici e intellettuali umanisti, poeti e dotti greci, personaggi della Venezia contemporanea e il pittore stesso, Gentile Bellini (254). E L'imperatore Federico Barbarossa riconosce il papa scismatico Ottavio di Veronese, dipinto realizzato probabilmente sulla base di uno schema comprovato da tre disegni giunti sino a noi, proponeva alla vista innanzitutto una quantità di ritratti: il doge Alvise Mocenigo, ma anche Agostino Barbarigo, Paolo Tiepolo, Marcantonio Barbaro, Marcantonio Grimani e altri ancora (255). Vasari e Ridolfi menzionavano inoltre quattro figure allegoriche sopra la finestra, il Tempo, la Fede, la Pazienza e l'Unione, a simboleggiare la stabilità della Repubblica grazie alle virtù cristiane dei suoi cittadini.
Quanto alla scena in cui Il Papa Alessandro III scomunica Federico Barbarossa (256), Lodovico Dolce rimproverava a Tintoretto di avere - anche lui - riempito il telero di troppi contemporanei, constatazione confermata tanto da Sansovino quanto da Ridolfi, i quali sottolineavano la presenza in effigie di alcuni dei più grandi nomi della Venezia dei primi anni Cinquanta (257). Al centro della parete verso la Piazzetta stava La consegna del cero benedetto al doge, opera in cui Gentile Bellini aveva ricostruito la cerimonia durante la quale Alessandro III avrebbe rimesso quel dono emblematico a Sebastiano Ziani, l'uno e l'altro rappresentati con i rispettivi seguiti dinanzi alla basilica marciana: a sentire Ridolfi, vicino al papa si scorgeva il cardinal Bessarione, affiancato da Leonardo e Bernardo Giustinian, procuratori di San Marco. Un folto contingente di patrizi veneziani assisteva all'episodio in cui Ottone discute la pace con l'imperatore (258), e altri ne comparivano nella Visita ad Ancona e consegna dell'ombrello al doge: ritratti, soprattutto di letterati, dei quali Ridolfi ci ha tramandato la lista. Nel Ritorno del papa a Roma con l'imperatore e il doge facevano corona ai protagonisti Ermolao Barbaro, Angelo Poliziano, Girolamo Donà, Antonio e Zaccaria Corner: la descrizione fattane da Vasari situava l'incontro con il clero e il popolo capitolini presso castel Sant'Angelo, con gli otto stendardi al vento e al suono delle trombe d'argento, insegne di distinzione conferite dal pontefice allo Ziani. Infine nell'Incontro del papa con l'imperatore e il doge nella basilica di San Giovanni in Laterano si vedeva Alessandro III, con accanto Federico, nell'atto di offrire a Sebastiano Ziani quello scranno che sarebbe diventato un ulteriore segno del potere ducale (259): si distinguevano nella nutrita scorta di figure partecipanti all'evento Gregorio Amaseo, Giorgio Merula e, soprattutto, lo storiografo Marc'Antonio Sabellico, vale a dire l'autore di una parte almeno delle iscrizioni che illustravano i dipinti nella sala del maggior consiglio e - più importante ancora - il responsabile del programma iconografico complessivo, quasi a sottoscriverne l'esecuzione con la propria immagine.
Non si può fare a meno di notare l'insistenza posta sugli spazi della rappresentazione. Così - come nel dipinto di Gentile Bellini con l'Invio dell'ambasceria di pace all'imperatore - la basilica di San Marco e lo stesso palazzo Ducale tenevano il posto di elementi privilegiati nelle scene delle pareti ovest e nord, peraltro sistemate in modo da trovarsi in direzione del cortile palatino e delle cupole della chiesa (260). Riguardo poi alla Consegna della spada al doge, il criterio della rappresentazione era naturalmente il frutto di una organizzazione semantica interna alla composizione, là dove il simbolismo ad essa sotteso esigeva connotazioni rituali di portata massima: ed ecco, allora, la fabbrica basilicale sullo sfondo dell'opera. E l'ultima fatica pittorica di Gentile Bellini, La consegna dell'anello al doge (261), esplicita messa in valore della tradizione dello sposalizio con il mare, era dunque nel mezzo della parete dirimpetto al balcone dal quale si poteva guardare verso San Nicolò del Lido, dove effettivamente si officiava la cerimonia nel giorno della Sensa. Davanti a San Marco stava la figura del pontefice nella Sottomissione dell'imperatore Federico Barbarossa, ove la scena della pace del 1177 era popolata da una quantità di contemporanei: dato quanto mai significativo se si pensa trattarsi dell'immagine fondatrice dell'immaginario politico veneziano, messa in scena non per caso dinanzi alla porta della Basilica (262) rappresentata con il relativo mosaico in un trionfo di stoffe e abiti preziosi. Con la Messa del papa in San Marco - eseguita con grande attenzione ai dettagli, a detta di Francesco Sansovino - si entrava finalmente all'interno della chiesa (263) in compagnia di una serie di porporati veneziani (264).
Forgiare l'azione storica in maniera da mettere sotto gli occhi di chi guardava un certo numero di formulazioni: era questo l'intento che presiedette alla redazione visiva della Consegna degli stendardi e delle trombe al doge, ché infatti questi e quelle erano entrati a far parte, dal giorno leggendario in cui papa Alessandro li donò allo Ziani, del corredo simbolico del potere ducale (265). Ma è forse il dipinto con la battaglia detta di Spoleto che meglio riassume certuni meccanismi all'opera sul piano della traduzione in immagini posta in essere nella sala del maggior consiglio.
Si potrebbe in effetti pensare che questa celebre (e perduta) composizione tizianesca, ultimata sul finire del 1537, intendesse raffigurare la distruzione della città pontificia di Spoleto da parte del Barbarossa, senonché essa pone un problema, e segnatamente sul piano della rappresentazione, nella misura in cui uno slittamento di senso è facilmente operabile in questo tipo di immagini. L'economia della storia enunciata in maggior consiglio prevedeva che in quel luogo fosse installata una "battaglia terrestre", come la chiamano i documenti (266), e nello specifico la Battaglia di Spoleto, con lo scontro fra truppe imperiali e papaline e la disfatta di queste ultime, secondo quanto dichiarava la scritta di commento (267). Ed è d'altra parte noto che in precedenza a tal soggetto si era esercitato Guariento stesso. Ora, emerge a questo punto un fatto all'apparenza singolare, ma che a ben vedere non lo è per niente: le Maraviglie dell'arte di Carlo Ridolfi sono il primo testo conosciuto nel quale l'opera di Tiziano viene designata con il titolo di Battaglia di Cadore (268), combattimento nel corso del quale i Veneziani, condotti da Bartolomeo d'Alviano, ebbero ragione degli Imperiali a Pieve di Cadore (1508). Tale cambiamento si produsse forse dietro suggerimento di Andrea Gritti, del quale si sa bene che fu uno degli animatori della resistenza ai confederati di Cambrai. Il principale elemento a conforto dell'identificazione dell'avvenimento illustrato come "battaglia di Cadore" risiede nei vessilli innalzati dai combattenti, ed effettivamente in un disegno del Louvre, in una copia degli Uffizi e in una incisione di Fontana datata al 1569 sono riconoscibili le insegne di Bartolomeo d'Alviano e di Giorgio Cornaro (rispettivamente la bandiera a bande verticali e quella con i tre leoni rampanti). Per Vasari, autore peraltro della migliore descrizione in nostro possesso del dipinto, il teatro dello scontro si spostava dal Cadore alla Ghiara d'Adda, che è come dire Agnadello: un episodio assai poco confacente alle intenzioni celebrative della decorazione del palazzo Ducale e meno ancora della sala del maggior consiglio. Allora perché questa interpretazione vasariana? Una volta di più, i giochi figurativi veneziani risultavano del tutto estranei al visitatore aretino (269), pure se quella scena drammatizzata allo spasimo, nella quale il turbine delle figure creava violenti effetti di chiaroscuro, poteva davvero richiamargli alla mente la composizione della Battaglia di Anghiari; e d'altronde un rivale di Tiziano - il Pordenone - non aveva forse da poco, verso il 1530-1532, affrescato i suoi famosi cavalli sulla facciata del palazzo d'Anna sul Canal Grande? Ma ogni ambiguità si sarebbe dissolta dopo l'incendio del 1577, quando a Francesco Bassano fu assegnata l'esecuzione della vittoriosa Battaglia di Cadore per il soffitto del maggior consiglio, prova supplementare - qualora servisse - del procedimento veneziano di assimilazione iconografica e perciò stesso del gioco con i meccanismi del tempo.
La fine di un'avventura storiografica dà luogo comunque a un'ultima produzione di immagini: fu così che nella sala del maggior consiglio, accanto all'illustrazione dei privilegi conferiti alla città per i meriti acquisiti con la pace del 1177, un altro tentativo di riferimento al tempo storico si realizzò nel richiamo alle crociate. Ma proprio qui viene in chiaro come la coniugazione finale della pretesa alla manipolazione del tempo della storia si riversasse in un programma ormai inidoneo a padroneggiare interamente la specificità di questa o quella struttura temporale. Le venti tele celebranti la pace di Venezia e la quarta Crociata, tuttora visibili in maggior consiglio, raccontano dunque due storie differenti e separate nel tempo dal tornante dell'incendio del 1577.
Escluso ogni radicale cambiamento nelle tematiche, quando si mise mano all'ultima versione della decorazione della sala si trattò piuttosto di conservarle mediante una operazione appoggiata da un cospicuo settore di personalità dell'epoca favorevole al mantenimento e alla riproposta di quei caposaldi dell'immaginario collettivo, in condizione di essere ancora sfruttati come non avrebbe tardato a dimostrare la contesa dell'interdetto. E però è proprio tale atteggiamento a dare la misura della svolta subita dalle formulazioni mitiche veneziane; lo dimostra il fatto che Paolo Sarpi consigliava di non insistere troppo nel dibattito sull'autenticità degli avvenimenti narrati.
A dispetto delle distruzioni, le immagini degli antichi eventi continuarono così ad abitare nel Palazzo, permanenza impensabile senza quel tipo di approccio temporale che abbiamo tentato di enucleare. Nel 1578 fu la linea conservatrice e tradizionalista a sostenere tal decisione, affidando il compito di redigere il programma iconografico della nuova sala del maggior consiglio a Girolamo Bardi - un camaldolese! -, a Jacopo Marcello e a Jacopo Contarini, gratificato quest'ultimo di "difensore della Chiesa" dal nunzio Alberto Bolognetti in una delle sue relazioni alla Santa Sede (270).
La traslazione visiva di questi temi evidenzia tuttavia un ulteriore elemento di interesse, che non ristà tanto nella ripresa di cicli anteriori quanto nell'osservanza a un programma che, per quanto certamente incentrato su reminiscenze storiche "forti", non beneficiava più dello stesso retaggio formale di cui i cicli precedenti avevano goduto. Insomma, nella decorazione della sala del maggior consiglio quale essa ci si presenta, la storia illustrata denunciava uno scarto nei riguardi della storia comunemente tramandata. L'attenzione - e il rispetto - nei confronti di un piano iconografico concepito da storici risultavano meno pregnanti e pervasivi che non in presenza di un racconto che riferiva i fatti in modo leggendario per non dire fantastico, ma che era potentemente ancorato a una sorta di memoria politica collettiva.
È che un mito conclude il suo percorso quando l'ordinamento cronologico e autenticamente storico si introduce all'interno dei suoi enunciati, punto sul quale l'analisi di Lévi-Strauss ha particolarmente insistito. E proprio per questo motivo la figurazione attuale della sala del maggior consiglio è altamente significativa, come posta conclusiva delle costruzioni mitiche veneziane.
L'opera di Carpaccio si segnala come testimonianza a sua volta di un modo di evocazione del passato immerso nel presente, secondo un movimento di andata e ritorno dall'uno all'altro che attribuisce ad esempio, come è stato rilevato dai critici, ai cicli di Sant'Orsola o di Santo Stefano i contorni attenuati del mondo coevo (271). "Il rituale del suo racconto [ha scritto Françoise Bardon a proposito di Sant'Orsola> sarà dunque quello di Venezia; la città, i cittadini, i moduli architettonici, i battelli, la politica saranno gli autentici soggetti della sua pittura, donde le possibilità di sdoppiamento del racconto rituale" (272) che "risulta operato dalla storia di Venezia [...>. E il racconto della memoria particolare e comune ai Veneziani quello che Carpaccio leggerà innanzitutto nella Leggenda" (273). Un procedimento che si inscrive di diritto nella pratica veneziana di messa in immagine del discorso storico, nell'utilizzazione di un motivo narrativo - nel caso, la vicenda leggendaria di sant'Orsola per procedere di lì a un altro enunciato espresso esso pure al presente in quanto suscettibile di essere sempre rinnovato: così si transita da sant'Orsola - a Caterina Cornaro e alla politica orientale della Serenissima, così si svelano le radici rituali dell'attività diplomatica di Venezia.
Lo stesso vale per gli inserti antico-romani: Ludovico Zorzi riconosce nella rotonda il mausoleo di Augusto, mentre la torre isolata in prossimità del fiume potrebbe essere la torre all'estremità delle mura aureliane che si distingue nella mappa di Pietro del Massaio e in altre piante dell'epoca (274). A suggerire una integrazione lagunare della scena provvedono i ritratti di diversi rappresentanti della colonia veneziana di Roma, da riconoscersi, a parere di Ludwig e di Molmenti, fra i personaggi effigiati in primo piano.
Anche la processione papale contiene degli elementi immediatamente riconoscibili ad occhi veneziani: parliamo dei dodici vessilli in tutto assimilabili agli otto che aprivano la processione ducale e che sfilavano in piazza San Marco durante le cerimonie e le feste ufficiali della liturgia di Stato, o che venivano portati per le calli quando il doge si recava in visita in un sestiere (275); e parliamo inoltre della figura del trombettiere, rinviante essa pure alla processione ducale così come la foggia dell'ombrello pontificale, identica a quella dell'ombrello (276) che riparava il doge nelle sue apparizioni pubbliche. In definitiva, è la tradizione dei privilegi accordati a Sebastiano Ziani da papa Alessandro III nel 1177 a venire in luce, attestato dell'impiego "politico" di ingredienti dei quali le nostre immagini potevano agevolmente nutrirsi (277).
Ma gli oggetti evocati erano probabilmente l'emblema delle prerogative già accordate al doge dall'imperatore romano d'Oriente, come quella di fregiarsi del titolo di protosevastos (l'Augusto, il "più venerabile"), di cui l'ombrello era l'insegna; matrice, questa, condivisa da altri attributi esposti alla vista nel corso delle occasioni processionali veneziane quali la spada e gli speroni d'oro, la sedia, il cuscino, il cero e persino - forse - il corno ducale (278). Il testo di Carpaccio dunque, alludendo alla vulgata "patriottica" di quella tradizione e associandola alla processione papale (279), mostrava un'adesione completa e priva di remore alla versione ufficiale della leggenda, sempre attenta, giova ripeterlo, ad accreditare il mito della libertà originaria della Repubblica passando sotto silenzio l'antica dipendenza dai dinasti bizantini. Un'operazione che richiedeva capacità spiccate di manipolazione del tempo.
Veniamo allora all'illustrazione delle origini nella "camera grande" sita "avanti all'Anticollegio": è la sala delle Quattro porte o Antipregadi, del cui programma iconografico Francesco Sansovino si presentava in Venetia città nobilissima come l'artefice. Particolarmente interessante sarà poi nel programma del 1578 - per intendersi, quello di Bardi, Marcello e Contarini - il progetto ornamentale delle quattro porte, ciascuna chiamata a indicare la destinazione della sala alla quale dava accesso. In maniera più generale, la pagina sansoviniana prevedeva la rappresentazione della fondazione della città, della sua indipendenza fin dall'inizio e strettamente collegato al tema delle origini - del ruolo della sua aristocrazia: si ritrovano qui echi delle teorie dello Stato di un Girolamo Contarini o di un Donato Giannotti.
La stesura pittorica di tali concetti fu affare di Tintoretto verso la metà degli anni Settanta; purtroppo però il progetto dei dipinti del soffitto non ci è stato conservato nella sua intenzione primitiva, ciò che oggi pone il problema di uno scarto palese fra la proposta sansoviniana e le opere realizzate, senza contare che la lettura di Ridolfi, ad esempio, attesterà una interpretazione posteriore ancora differente. È il caso, viene da chiedersi, di ampliare a questo soggetto le riflessioni metodologiche che Staale Sinding-Larsen ha dedicato a Veronese, evidenziando la parte avuta dall'artista nella discussione, facilmente immaginabile, intercorsa fra la redazione del testo programmatico vero e proprio e le tappe della sua esecuzione formale?
D'uopo tenere bene in vista gli aspetti eminentemente rituali delle rappresentazioni veneziane. Il rituale - e tutto ciò che lo può significare - costituisce in effetti la trasposizione per eccellenza del tempo mitico e delle sue inflessioni. I lavori di Georges Dumézil hanno precisamente isolato questa equazione figurativa: in un saggio di importanza fondamentale, Temps et Mythe (280), l'autore si soffermava sull'" ampiezza" del tempo mitico, quali che siano le differenti connotazioni assunte dal rapporto fra mito e rito. Per mezzo della commemorazione e dell'imitazione, il rito assicurerebbe dunque corrispondenza con la risonanza a largo spettro dell'evento mitico - ove beninteso si tratti di un fatto appartenente al passato... Nell'ottica di una ermeneutica della coscienza storica, commemorare, attualizzare, prefigurare sono tre funzioni che sottolineano la scansione del passato come tradizione, del presente come effettività, del futuro come orizzonte dell'attesa ed escatologia; funzioni tali da realizzare quella "congiunzione del mito e del rito" della quale parla a sua volta Paul Ricoeur (281) e che interpreta perfettamente, come recentemente è stato dimostrato, una "concezione rituale della storia" - felicemente studiata da Patricia Fortini Brown (282) nel quadro della concezione veneziana del tempo - la cui testimonianza migliore resta la formulazione di Girolamo Bardi.
Uno dei principali attori di questo "ritualismo" trasportato nel campo della descrizione visiva fu Paolo Veronese, il quale sembrava possedere una enorme facilità a rispondere alle esigenze della decorazione palatina. Ma fu proprio tale capacità a creare qualche grattacapo a uno degli artisti che si vorrà fra i primi contestatori degli enunciati mitici (283): egli cercherà così di adattarsi più o meno bene ai portati di queste posizioni e attitudini rituali. Si prenda il dipinto con un Sacrificio antico nel soffitto del collegio; si è qui alle prese con una composizione che potrebbe essere definita una "struttura monofasica", con un'unica azione direzionale principale come quella che caratterizza lo Sposalizio mistico di santa Caterina delle Gallerie dell'Accademia o la Venezia in atto di conferire ricompense e onori della sala dell'Anticollegio, anche se qui lo sguardo della Venezia personificata rivolto verso lo spettatore, la torsione delle figure in primo piano e il movimento rotatorio che domina la tela, tendono a instaurare una relazione con i beneficiari degli onori dispensati e anzi li implicano, per così dire, direttamente. E ciò ci induce a far entrare nel nostro discorso le referenze romane.
"Urbs Venetum salve [...> / [...> salve, altera Roma", esclamava Filippo Morandi da Rimini intorno al 1440 (284). Fu a partire dai primi anni del secolo XVI che questo nuovo asse formulativo, progressivamente sviluppatosi, si rafforzò accanto alle diverse componenti della panoplia concettuale del mito di Venezia. Ma era stato nel Quattrocento che i primi elementi della rappresentazione di una Venezia altera Roma avevano preso a diffondersi (285).
Pure se l'orientamento della storiografia coeva è affatto noto, gli anni della Lega di Cambrai sono ben lungi dall'aver inventato paralleli già in corso da lungo tratto fra le due città. Ma ciò non significa che, dopo forti resistenze durate fin verso il 1460 - dovute ai meccanismi stessi del mito, che tal contrasto consente di vedere in azione - e una successiva fase di progressiva accettazione della tematica, all'inizio del Cinquecento e in maniera relativamente puntuale l'equivalenza Venezia-Roma venisse a prendere posto nella sequenza dei concetti chiave, sui quali si reggevano le strutture mentali inerenti al mito veneziano, e diventasse un termine di riferimento portante come gli altri, che, in materia di produzione storiografica, artistica e letteraria, avevano finalità di autentica propaganda politica. Esito, questo, cui non furono estranei i contraccolpi dei conflitti del primo decennio del secolo, anche di fronte - e in un certo senso, grazie - ad altri moduli rivendicativi: quelli fiorentini. In questo senso, numerosi strati allusivi possono essere chiaramente delimitati, ciò che faremo con l'ausilio di alcuni grandi nomi della storiografia e della letteratura veneziane e non.
Converrà partire dalla questione del ruolo della storiografia umanistica a Venezia nel Quattrocento e rammentare che lungo tutto il secolo essa si pose al servizio dell'ideologia della Repubblica, in particolare mediante l'argomento principe delle origini cui si doveva far risalire l'organizzazione costituzionale contemporanea. Allora la storiografia era ancora terreno esclusivo del patriziato e, gerarchicamente distinta dagli altri generi letterari, continuava ad alimentarsi di categorie ad essa proprie e impermeabili alle innovazioni dell'umanesimo. Certo, il Filippo Morandi più sopra menzionato intratteneva stretti rapporti con il cronista Giorgio Dolfin e la sua famiglia, ed è altrettanto certo che quest'ultimo utilizzò il racconto della caduta di Costantinopoli, redatto dall'umanista riminese, come materiale documentario per la propria opera storica; ma poco resta nella di lui cronaca (286), e ancora di meno in quella di suo figlio Pietro - che pure denota una nuova e diversa concezione -, dell'ammirazione riversata da Morandi sulla Roma antica o del tono aulico del quale il riminese infarciva le lodi indirizzate a Venezia. Nonostante ciò, in contrasto con la tradizione storiografica che ricollegava il crisma di nobiltà del patriziato veneziano alle cariche tribunizie detenute dalle famiglie degli ottimati nel più remoto passato, certi patrizi simpatizzanti della retorica umanistica avrebbero volentieri ricondotto le proprie origini all'antichità classica, come fecero effettivamente i Barbarigo autodichiarandosi eredi della gens Emilia in base all'assonanza fra il virgiliano "barbarico" e "Barbardico"! Un modo di procedere che al contempo svela e attesta i meccanismi mentali della società veneziana di quel periodo.
In realtà, fin dal volgere del secolo XIII circolava l'affermazione - e, si badi, affermazione senza appello - di una Venezia più antica di Roma, il cui nocciolo ideologico stava nella versione veneziana della leggenda di Troia, nell'evocazione di quel pugno di uomini liberi che, sbarcati sulle sponde venete in anticipo su Antenore, avrebbero scelto, per impiantarvi una colonia troiana, un luogo indipendente da qualsivoglia altrui giurisdizione: Olivolo, nucleo iniziale di quel che sarebbe diventato il sestiere di Castello.
Quegli stessi Troiani richiamati, prima di Roma, da Andrea Dandolo (287), ché infatti uno dei punti di partenza del paragone Venezia-Roma sarà segnatamente quello dell'anteriorità della città lagunare. Dandolo raccolse e coordinò il materiale molto diseguale fornito dalle cronache precedenti, premettendo alla storia propriamente veneziana, in guisa di prologo, una specie di sommario cronologico del basso Impero. Ma la sua redazione non si avvicinava in nulla al tipo di biografismo aulico del De viris illustribus, inaugurato giusto in quel momento a Padova sotto l'egida di Petrarca, riservando bensì un posto essenziale nella storia di Venezia alla visione provvidenziale: passaggio tanto più decisivo in quanto egli interpretava l'antagonismo fra Venezia e Roma in termini di irriducibile contrasto spirituale. Se dal secolo XIV la storiografia veneziana avrebbe insistito sul rapporto con Roma, alla volta quella imperiale o quella pontificia, ciò sarebbe avvenuto sempre nell'orbita di una riflessione sulla storia propria della città lagunare e, soprattutto, in un'ottica certamente negativa destinata a rimanere a lungo d'attualità.
Tema centrale, quello della fondazione di Olivolo precedente alla fondazione di Padova da parte di Antenore, che fu ripreso da Andrea Dandolo (288) e passò per suo tramite negli scritti successivi di Lorenzo de Monacis. In primo piano è dunque l'argomento troiano o perfino, si sarebbe tentati di dire, l'"ideologia" troiana. Naturalmente la presunzione di una discendenza privilegiata basata sul racconto di un gruppo di fuggiaschi provenienti da Troia era in sé alquanto banale e condivisa inoltre da una pletora di città, e tuttavia la scrittura storica veneziana investì l'episodio leggendario di una peculiare funzione ideologica che metteva in campo lo stesso processo di colonizzazione del territorio lagunare. L'avventura dei profughi troiani giunti sulle sponde di Olivolo fu gestita come anticipazione mitica delle migrazioni posteriori provocate dalle invasioni unne e longobarde, in modo da eliminare fin dal principio non solamente ogni pretesa politica, ancorché sfumata o lontana, che l'Impero potesse accampare, ma anche qualsiasi possibilità di filiazione culturale come quella avanzata da Pier Damiani, il quale vedeva nella città serenissima una figlia spirituale di Roma.
Così, decisamente negativa e polemica fu la lettura delle Vite dei Cesari di Svetonio, trasmesse da fra Paolino; là dove lo sfondo faceva balenare il clima delle persecuzioni anticristiane, ciò suonava come deliberatamente antitetico al racconto della predicazione di san Marco e del martirio dei santi Ermagora e Fortunato tradizionalmente venerati a Grado. E la stessa ascesa di Roma, anch'essa soltanto "serva sub regibus nata", appariva pervertita originariamente dal vizio della superbia, cosicché la caduta dell'Impero ammetteva di essere presentata da una penna veneziana come un esempio carico di significati apocalittici, quasi assimilabile alle storie bibliche della distruzione di Babilonia o di Ninive. "Romae ad certum finem Deus dedit orbis imperium; at non libertatis conservationem": questo annunciava de Monacis nel Chronicon (289), come a dire che la Provvidenza avrebbe affidato la missione di protettrice della libertà non già a Roma ma a Venezia. Veicolo privilegiato di questo modo comparativo fra le due città sarà, come è stato scritto (290), una letteratura panegirica fatta generalmente di compilazioni intorno al tema delle origini, come quelle che già abbiamo incontrate e che proprio allora conobbero un processo stringente di codificazione, il quale spiega in qualche misura le difficoltà che si incontrano per venire a capo di ciascuna occorrenza. Nella nostra analisi terremo allora presenti soprattutto i cambiamenti di valore fatti registrare nel tempo dal raffronto fra le due città.
Sintomo ulteriore del desiderio dei ceti dirigenti veneziani di darsi un passato eroico è il rinnovato successo quattrocentesco della leggenda di Attila (291). La vita del re degli Unni, rivestita di una patina agiografica, non ispirò solo la cronachistica contemporanea ma anche, a quanto pare, le genealogie delle famiglie patrizie accampanti una parentela diretta con la "famiglia reale ungherese". Ma tutte le narrazioni fantastiche ammettono al loro interno delle opposizioni e il mito veneziano, al pari di tutti i grandi miti, si prestava ai giochi delle opposizioni e alle diversificazioni narrative. Che dunque un simile ravvicinamento storiografico, dati i tratti romanzeschi in esso contenuti, si rivelasse nel contesto della cultura italiana del tempo come il segno di un certo provincialismo non poteva sfuggire a quei patrizi veneziani che aderivano alle idee umanistiche, al cui fianco si schierarono grammatici e poeti di altre regioni, ma attivi in città, i quali, svincolati com'erano dai presupposti ideologici fissati dalla tradizione locale e imposti dalla ragion di stato della Repubblica, erano in condizione di valutare con maggior libertà il "ritardo" culturale di Venezia a confronto con la situazione generale.
L'Oratio elegantissima in laude et aedificatione alme civitatis Venetiarum (292) composta per il giubileo del 1421 dal notaio cretese Lorenzo de Monacis, segna una tappa importante, in stretta interdipendenza con la Chronica di Dandolo, ché infatti de Monacis prese in carico e radicalizzò la relazione antagonistica fra Roma e Venezia, indicando nella seconda il vero scudo della libertà. Ancora l'esaltazione delle origini, sulle tracce della celebre epistola di Cassiodoro divenuta ormai incunabolo di una verità immaginaria: ma dipingendo la vita sobria e pacifica dei primi abitanti della laguna, dediti alla navigazione e alla raccolta del sale e immuni dalla bramosia di potere e dal lusso sfrenato della Roma imperiale, de Monacis si allontanava dalla corrente storiografica tendente ad accreditare la fondazione di Venezia unicamente alle famiglie patrizie; e probabilmente questa sua interpretazione dovette scontentare certuni uditori.
Per converso, celebrando l'annessione appena conclusa del Friuli alla Terraferma veneziana, il nostro notaio cadeva in una incresciosa contraddizione, capace di smentire la retorica di Venezia vessillifera della libertà che egli stesso propugnava. Nel proemio agli Statuti della Patria, riformati sotto la supervisione della Serenissima nel 1429, il grammatico e umanista Giovanni da Spilimbergo salutava nella Repubblica una seconda Roma. L'equivalenza prendeva in questo caso una colorazione politica per lo meno ambigua: come Roma aveva spogliato di tutti i poteri le province conquistate sottomettendole al diritto romano, così Venezia aveva privato il Friuli della sua autonomia sopprimendo in parte le tradizioni locali. Va ricordato che nello stesso momento Pisanello stava ultimando i suoi affreschi in maggior consiglio: il periodo 1419-1421 vide così la conclusione di un cantiere - quello, appunto, del ciclo decorativo della sala e, insieme, l'enunciazione di un discorso gravido di conseguenze sul terreno della psicologia collettiva. Di qui la nostra necessità di sviscerare il rapporto di connessione fra immagini e testi, sia pure all'insegna del massimo rigore, giacché da allora e per un quarto di secolo il ciclo pittorico rimase al suo posto segnalando la volontà ufficiale di una rappresentazione formale non troppo in contraddizione con la politica di espansione che avrebbe caratterizzato l'azione della Repubblica negli anni immediatamente seguenti. Si percepisce qui la difficoltà di solennizzare delle conquiste in Terraferma e contemporaneamente presentare la Serenissima come investita dalla Provvidenza della missione di tutrice della libertà - una difficoltà che nei secoli a venire e in altre realtà scemerà fino a banalizzarsi.
Venezia era incontestabilmente l'altra Roma per un giovane poeta, al quale la sua arte e le circostanze avrebbero permesso di parlare con superiore chiarezza. In effetti Filippo Morandi - è ancora di lui che parliamo - s'incaricò di celebrare apertamente, al contrario di de Monacis, il retaggio della Roma imperiale agendo sulla figura e sulle referenze di una Venezia, la quale talvolta sembrava curiosamente ignara delle nuove costruzioni del pensiero che in quel torno di tempo venivano elaborandosi poco distante. Morandi, forse influenzato dall'esempio di Sigismondo Pandolfo Malatesta, tenta di traslare il culto augusteo al doge di Venezia; operazione che, in controluce, metteva a nudo la tendenza imperialista del dogado di Francesco Foscari, del resto energicamente contestata dalla diplomazia veneziana dell'epoca. E però tale atteggiamento si sposava con la situazione materiale della città e con le esigenze di rappresentazione che essa andava scoprendo: e la risoluta volontà di potenza che contrassegnava il presente veneziano non poteva non accogliere con emozione le suggestioni "imperiali" evocate da Morandi.
Affiorano intorno alla metà del secolo i primi esiti del modo di formulazione umanistico e della ricezione da parte di certi ambienti patrizi di quel nuovo sguardo portato sui tempi antichi. Talune famiglie giudicarono allora conveniente stabilire un vincolo di discendenza con la nobiltà romana: così i Barbarigo, lo abbiamo già detto, si reclamarono continuatori della gens Emilia, mentre già prima, nel trattato De republica veneta, Pietro Paolo Vergerio aveva sostenuto la tesi del legame fra i due patriziati, il romano e il veneziano. È facile immaginare ciò che alcuni patrizi potevano aspettarsi dalla storia, specie se scritta da una penna capace di delineare in maniera adeguata le ascendenze antiche delle grandi famiglie. Al novero di questi scrittori apparteneva Filippo Morandi, che dopo aver frequentato Roma, ma anche Bologna e Padova, giunse a Venezia nel 1435 e vi insegnò, dapprima nella parrocchia di Santa Marina, quindi, forse a partire dal 1446, nella Scuola di San Marco. In concomitanza con il soggiorno veneziano di Francesco Sforza, verso il 1440-1441 compose il Carmen, il cui incipit, certo assai suggestivo, fu in seguito imitato a più riprese: "Urbs ego sum Venetum pelagi regina sonori". Nei suoi versi Filippo si spingeva fino a proclamare una eguaglianza di fondo fra Roma e Venezia, paragonando il "condottiere" Sforza a Furio Camillo, quegli che liberò la patria romana dai Galli, in un crescendo amplificato dalle reminiscenze petrarchesche:
Urbs Venetum salve o celsis elata triumphis
Salve, sidus Italis radians, salve altera Roma
Foelix perpetuum tellus dignissima mundi.
Ritroviamo qui il quadro di riferimento iconografico della porta della Carta - della quale certi passaggi morandiani sembrano l'esatto corrispettivo retorico -, pensata e voluta come l'entrata a una via triumphalis (293), con un andito e un arco di trionfo di ispirazione antica costruiti durante il dogado di Francesco Foscari. Monumenti in cui l'antico si impone appunto come cifra del nuovo dux augustus e che si fanno leggere come manifestazione del rafforzamento della potenza militare veneziana.
E però, adattata in maniera confacente o meno, l'identificazione della Serenissima quale altra Roma non incontrò soverchio favore nella Venezia del secondo Quattrocento, proprio perché rendeva fin troppo esplicite una ideologia e una strategia che erano precisamente l'oggetto di tutte le interrogazioni rivolte alla Repubblica dalle corti italiane ed europee contemporanee; una ideologia e una strategia che sovente dovettero essere coperte, sul piano formale, da immagini più generiche e da parole divagatorie. Forse involontariamente, Filippo si collocò alle radici di un modello retorico originale fondato sull'immediatezza di quel riconoscimento, attraverso il corpo stesso del suo racconto, che si opponeva essenzialmente all'enunciato storico primario, esemplificazione - una volta di più - di una obbligata reticenza verso ogni esposizione lineare degli avvenimenti.
Per la verità, in tutte le occasioni politiche o universitarie di esaltazione della città gli oratori continuavano a rimarcare l'anteriorità della fondazione di Venezia rispetto a quella di Roma, argomento posto a suggello dell'eccellenza dei ceti dirigenti marciani. Ma, ottimo conoscitore dell'ambiente culturale veneziano, Filippo Morandi poteva con qualche ragione affermare - di fronte a Francesco Barbaro, che più di tutti si era adoperato per introdurre a Venezia una storiografia di taglio umanistico - che la crescita politica della Repubblica e la sua potenza non avevano ancora ricevuto una congrua attenzione letteraria. Inoltre scorgeva nel patriziato veneziano l'ideale discendente dei Romani, anche là dove s'imponeva di prammatica il riferimento alle origini troiane. "I Catoni del Senato veneziano, di cui si era già preso gioco un altro letterato del calibro di Dante Alighieri, venivano finalmente innalzati a dignità storica" (294). Una volta fissato il quadro concettuale, le categorie antiche potevano innestarsi facilmente sulla realtà lagunare; tuttavia le tessere di quella sorta di puzzle mentale, moltiplicatesi di colpo, rischiavano di accavallarsi con i frammenti dell'abituale enunciazione degli inizi di Venezia, reclamando dunque una superiore abilità compositiva. In fondo - e Filippo se ne rese conto - era impossibile "instaurare un nesso logico tra gli elementi mitici collegati alla narrazione delle origini [...> e l'apologia della città come altra, nuova Roma" (295). Sicché l'umanista riminese si vide in certo modo costretto a fare a meno dell'argomentazione strettamente storica per ricondurre il paragone a un livello astratto e iperbolico che farà scuola all'apologetica del secolo successivo.
Sebbene relegata a genere letterario inferiore, la poesia encomiastica produceva espressioni magari di gusto non eccelso - tocca dire -, ma comunque accettate sotto il segno della pura e semplice licenza poetica. Inviando a Bernardo Bembo, un patrizio disponibile a ricevere quel dono, una raccolta di epigrammi in lode della città lagunare, alcuni dei quali erano stati composti durante il dogado di Francesco Foscari, Filippo Morandi ne raccomandava la lettura al nobiluomo quale svago inoffensivo a sollievo delle fatiche del governo.
La comparazione con Roma operava di per sé un inevitabile slittamento di senso che riscontriamo, otto anni dopo il giubileo di Venezia, nel proemio agli Statuti del Friuli di Giovanni da Spilimbergo. In ogni modo, nell'ultimo quarto del secolo, la panegiristica aveva ormai attinto a una attitudine classicheggiante che, di pari passo con l'andamento della vita politica italiana nella seconda metà del Quattrocento e con il prestigio crescente della Repubblica, tendeva ad attribuire a Venezia una funzione storica sempre più decisiva. In virtù del suo glorioso passato e della stabilità delle sue istituzioni, la Serenissima doveva apparire, ben più che seconda Roma, superiore a Roma stessa per decreto provvidenziale e intrinseco destino. Proiettato tal concetto nel passato, esso si ricollegava per forza di cose ai motivi canonici della storiografia veneziana sulle origini - basti qui citare la poesia scritta intorno all'anno 1446 dal veronese Antonio Brognanigo e intitolata De divina origine florentissimae rei publicae Venetorum. Ancora alla metà del secolo i componimenti del genere, denotanti una sollecita adesione alle istanze umanistiche, e la prosa encomiastica ufficiale o semiufficiale - fossero le orazioni recitate dagli ambasciatori al cospetto del doge ovvero discorsi in onore di giovani patrizi veneziani in occasione del conferimento della laurea presso lo Studio patavino, nei quali cantare le lodi della patria era un atto retorico dovuto - differivano anche di molto circa la maniera di trattare il parallelo fra Venezia e Roma, pure se gli oratori, come abbiamo già detto, riprendevano volentieri l'argomento cronologico della maggiore antichità della prima, quasi che la sua continuità secolare valesse da sola a provare l'eccellenza morale del ceto di governo.
Nel 1442 il patrizio veneziano Nicolò Barbo, nella Laudatio pronunciata per la laurea in arti di Francesco Contarini, ne esaltò la schiatta ascrivendola addirittura alla genealogia dell'imperatore Commodo, non mancando tuttavia di introdurre uno scarto retorico fra questo discorso di pura immaginazione e quello storicamente documentato inerente i singoli membri della famiglia. Toccò a Giordano Orsini dare consistenza erudita alle affermazioni del suo predecessore Barbo nell'orazione tenuta a Padova nel 1447 celebrandosi le nozze di Contarina Contarini con un rampollo della medesima famiglia, Francesco di Nicolò, ma per far ciò dovette ricorrere ad acrobazie storiografiche tanto false quanto stravaganti. Ma al più tardi nel secolo XVII l'ascendenza romana venne scalzata da un'altra versione non meno cervellotica che faceva derivare il nome dei Contarini da "conti del Reno", avocando cioè alla famiglia il lignaggio di conti palatini e perciò stesso mettendone avanti l'unione vivificante con il Sacro Romano Impero nel medioevo.
Disseminando il proprio testo di esempi antichi giusta l'influenza di Lauro Quirini, ma anche del Panormita, Orsini aveva pensato di indurre sentimenti di ammirazione verso uomini di grande caratura storica, onde sollecitare i contemporanei alla loro emulazione. Intendimento poco felice: se un secolo appresso tutto questo sarebbe stato ammesso a mo' di iperbole dal valore meramente retorico, in rapporto al concetto di storia vigente alla metà del Quattrocento e alle idee correnti sull'origine della città dovette suonare come una provocazione smaccata far provenire i Contarini da un imperatore, Commodo, dalla vita tanto dissoluta. Né Orsini, nel mettere in circolazione il discorso nel 1449, aveva previsto l'indignazione delle altre famiglie del patriziato veneziano che ritennero fosse messo in discussione per quella via uno dei punti fermi del loro orizzonte ideologico, cioè a dire la parità di base fra patrizi storicamente radicata nell'anonimato primigenio. L'autore fu dunque accusato di aver volontariamente falsificato la verità storica per collocare i Contarini al di sopra delle altre casate; reazione in fondo prevedibile da parte di un ceto che, quando presumeva si attentasse all'immagine della Repubblica e sua propria in quanto classe dirigente, faceva scattare come limite posto alla libertà dell'oratore le sempiterne ragioni dei racconti di fondazione, sancite dalla tradizione e dalla solidarietà di casta.
Simile levata di scudi lascia scorgere assai bene l'enorme valore politico attribuito alla raffigurazione di una Venezia, altra Roma, imperniata sulla missione imperiale dell'Urbe proposta quale modello delle mire imperialistiche della città e della famiglia che in quel momento deteneva la preminenza. Per i critici di Orsini, che a metà Quattrocento costituivano la fazione di maggioranza, anche se non vanno necessariamente identificati con i nemici della politica espansionistica di Foscari, il raccordo delle famiglie patrizie ad antenati romani, e romano-imperiali, e la rappresentazione della Serenissima sotto le specie di altra Roma veicolavano valori politici precisi. Significavano infatti il riconoscimento ufficiale del legato imperiale romano in una fase storica in cui, dopo la morte di Filippo Maria Visconti nel 1447 - e al riguardo i rapporti con il mondo lombardo sono essenziali -, l'ambigua strategia della Repubblica (che avrebbe costretto il Foscari all'abdicazione nel 1457) bastava già a sollevare più di un sospetto intorno alle ambizioni per l'appunto imperiali di Venezia.
Emerge nel De republica di Lauro Quirini l'exemplum fiorentino. Con ogni probabilità, la redazione del trattato quiriniano, datato al 1449-1450, rispecchiava uno dei versanti dell'importante dibattito, cui parteciparono umanisti e teorici, sviluppatosi a Venezia al calare degli anni Quaranta, ma già in un precedente opuscolo, il De nobilitate del 1449, egli aveva tentato di riprendere in rude polemica con Poggio Bracciolini la logica argomentativa proposta da Leonardo Bruni nella Oratio de laudibus Florentie urbis, scritta nel 1403 o 1404 (296). La Republica sarebbe insomma una risposta indiretta e tardiva alle formulazioni bruniane, ben note fin dall'inizio del secolo e senz'altro rappresentative dell'atteggiamento verso l'eredità romana (e repubblicana) di tutta una cerchia fiorentina.
Carichi di buone intenzioni, taluni passaggi di un carme apologetico ragionevolmente attribuito a un versificatore di facile ispirazione quale fu Porcellio Romano sono rivelatori di certo sentire veneziano sul finire della guerra combattuta contro Milano, additando e glorificando, peraltro alquanto ingenuamente, la vocazione ultima della Serenissima:
Te sibi reginam mundus petat, ac velut olim
Romano imperio totus tibi serviat orbis [...>.
E in altre sue opere Porcellio persisteva nel parallelo Venezia-Roma in funzione dello scontro bellico con Milano e della politica di allargamento territoriale di Francesco Foscari: così è nei Commentari, dedicati nel 1453 al doge, dove la guerra milanese è rappresentata sulla falsariga dell'Africa di Petrarca, con il senato veneziano equiparato al senato romano e i condottieri Francesco Sforza e Nicolò Piccinino rispettivamente a Scipione e Annibale. Eppure tal comparazione rischiava di essere più dannosa che utile, stanti soprattutto le rivendicazioni di Firenze che continuava a vedersi e a dirsi erede esclusiva del lascito romano, identificato non già - attenzione! - nell'espansionismo imperiale bensì nella libertas dell'età repubblicana. Nell'esemplare dei Commentari di dedica dogale, Porcellio procedette perciò a un cambiamento di prospettiva, volgendosi in primo luogo all'essenza dell'istituzione senatoria e riformulando il paragone nel verso dell'antichità della sua costituzione e della sua dignità piuttosto che della politica da esso condotta (297).
Si colgono qui i segni palmari di un blocco psicologico che merita di essere portato ad altri livelli della vita culturale: siamo alle prese con una ipoteca insieme politica e culturale che per anni sembrò determinare la difficoltà della storiografia umanistica a imporre un nuovo modo di dire, figurare e figurarsi la storia. Insistere troppo sul concetto di Venezia altera Roma avrebbe quindi significato accreditare la propaganda avversa dei nemici del momento e quella fiorentina, città che gli umanisti locali dipingevano come l'unico stendardo della vera libertà repubblicana.
Di grande interesse è il confronto fra questa coniugazione del verbo umanistico e i riflessi da essa lasciati nella decorazione della sala del maggior consiglio, con l'eventuale riscontro dell'eco della tematica imperiale nell'opera di sostituzione delle scene ivi affrescate all'inizio del secolo: occasione che, come avremo agio di vedere, fornì il destro di riprendere lo stesso racconto senza ripetere gli stessi avvenimenti e soprattutto di mostrare altrimenti il potere, il simbolismo gestuale di coloro che ne erano investiti, il contesto spaziale e i luoghi che ne impalcavano la strutturazione e il senso.
Al livello dell'evocazione romana, gli anni 1460-1470 segnalano un tornante culturale sostanziale.
La trasformazione è evidente. Si può affermare che con Flavio Biondo, diventato storiografo ufficiale della Repubblica nel 1462, e in seguito con Marco Antonio Sabellico l'eredità storica romana si avviava ad essere accolta:
Nell'intervallo trascorso fra il De origine et gestis Venetorum del Biondo, pure dedicato al Foscari nel 1554, e la candidatura all'incarico di storiografo [...> posta dall'umanista nel 1462, l'opposizione alle idee umanistiche nel campo della storia locale veneziana andò via via smorzandosi, fino a che, con Marco Antonio Sabellico, l'eredità culturale di Roma, e in particolare la storiografia rivestita dalla lingua di Livio, venne integrata e armonizzata nelle tradizioni lagunari (298).
Giusto in quel torno di tempo, a partire dalla fine degli anni Sessanta, il motivo della Nuova Costantinopoli s'impose al punto da suscitare il massimo dispiegamento delle strutture mitiche nella società veneziana. Fu in questo clima che nel 1474 la nuova scenografia del maggior consiglio fu affidata a Gentile Bellini, a proposito del quale ci sentiamo autorizzati a emettere l'ipotesi di un'influenza o almeno di un impatto della decorazione della sala sul dibattito e sulle elaborazioni teoriche.
Nei libri delle Rerum Venetarum ab urbe condita, Sabellico fissava nel 1487 i contorni del legame fra Venezia e Roma, anche se per lui si trattava pur sempre di evidenziare la superiorità veneziana mobilitandone le origini divine. E sul declinare del secolo, il Poema de omni Venetorum excellentia del bresciano Francesco Arrigoni precisava che all'epoca della fondazione di Venezia l'Impero romano era virtualmente in pezzi e i primitivi fuggiaschi, venuti che fossero da Troia o dalle Gallie fino in laguna, seppero preservare il "genus antiquum Latii" consegnando ai secoli futuri il retaggio romano più autentico.
Andrea Gritti svolse un ruolo di primo piano nella gestione del mito di Venezia. In effetti il simbolismo principesco fu utilizzato negli anni critici del primo Cinquecento con finalità propagandistiche destinate a rinvigorire il ruolo e la coesione interna del patriziato. Era questo il messaggio trasmesso dalle orazioni funebri di Andrea Navagero per lo sventurato capitano della guerra cambraica Bartolomeo d'Alviano nel 1515 e per il doge Leonardo Loredan nel 1521, nelle quali l'autore proponeva ai membri del suo stesso ambiente sociale una sorta di nuovo eroismo che, giocato sulle nozioni di "virtù" e di "fortuna", si realizzava per moduli perfettamente encomiastici. Non per caso Navagero fu scelto nel 1516 quale storiografo ufficiale della Repubblica, primo patrizio a ricoprire tale incarico dopo la sequela degli umanisti "di professione". Quando il 20 maggio del 1523 Andrea Gritti fu eletto alla dignità dogale, la crisi politica apertasi con l'inizio del secolo sembrò definitivamente superata, tanto da poterla scaricare sulle spalle del predecessore di Gritti, quell'Antonio Grimani che, già capitano generale da mar, era stato giudicato e condannato in un processo quale responsabile della gravissima sconfitta inflitta nel 1499 dai Turchi alla flotta veneziana nelle acque dello Zonchio e che solo in un secondo tempo era riuscito a farsi riabilitare: torneremo in seguito sull'inverosimile (o deliberata) gaffe di Bembo, che auspicava di poterne menzionare il nome in una iscrizione all'interno del palazzo Ducale. Il nuovo doge, al contrario, personificava la ripresa della Repubblica, non ultimo per il fatto altamente simbolico di aver giocato una parte cospicua nel recupero di Padova allo Stato marciano e, ancora, nella restituzione di Verona nel 1517. Tuttavia l'arrivo di Gritti al dogado avvenne, come ha fatto rilevare Gaetano Cozzi, in un clima culturale - del quale la sua stessa elezione dà la temperatura - caratterizzato da una crisi di identità in cui si riverberavano pur con un certo ritardo le conseguenze del tempo di guerra. Fondamentale per i nostri propositi è prendere atto della proliferazione, più che mai durante quel periodo, delle discussioni intorno al modello che Venezia poteva offrire ai propri cittadini e ai forestieri; un dibattito profondamente segnato da idee e letture maturate al di fuori dell'ambiente veneziano.
La lezione eroica fu interpretata nel segno della storia cesarea e non solo dall'umanista Giovan Battista Egnazio (299). Per il peso economico di cui disponeva, Gritti rappresentava innanzitutto la tradizione mercantile che era stata il fondamento della grandezza di Venezia, ma una tradizione, come non si è mancato di sottolineare, mai canonizzata da alcun investimento mitico. E d'altronde, se così fosse stato, nel gioco formulativo degli enunciati essa avrebbe subìto lo stesso trattamento delle connotazioni utopiche in seno all'apologetica cittadina. La persona del nuovo doge finì per attirare e concentrare su di sé le aspirazioni più diverse, sorte dalle speranze suscitate da un mecenatismo che sembrava dar corpo a una volontà innovativa di portata generale e che aveva esso stesso determinato un rapporto essenziale fra la creazione artistica e l'immaginario mitico. Dietro alla cortina di lodi smisurate indirizzate al futuro mecenate dogale, si profilava in tutta chiarezza il travestimento del mito repubblicano di Venezia come apologia del principe che, al di là del fondamentale versante pubblico, agiva anche sul modello dell'homo privatus pervenuto al vertice del potere grazie alla propria virtus: il campione "eroico" che la virtù e le doti personali con il concorso di una "fortuna" propizia rendono capace di resistere e prevalere sul mutevole destino delle venture politiche.
Gli scritti di Pietro Paolo Vergerio sono in questo senso uno specchio relativamente fedele delle discussioni e dei presentimenti eccitati dall'avvento e dalla personalità del nuovo doge, il quale - va riconosciuto - appariva agli occhi di Vergerio quale compendio personificato di un momento storico privilegiato, in perfetta sintonia con la politeia aristotelica (300); anzi, la posizione del filosofo greco dinanzi al caso eccezionale dell'individuo superiore alla legge si colorava presso Vergerio di inflessioni machiavelliane onde la figura di Andrea Gritti vista dal nostro autore si rivela sempre più interessante. Tuttavia, date le oscillazioni fra i livelli testuali e la commistione degli argomenti, il De republica Veneta sembra riflettere esitazioni e una certa qual perplessità di fronte alla tentazione di assimilare le teorie del principato all'immagine di Venezia. E in effetti Venezia offriva degli spazi di libertà culturale in un frangente in cui altrove tal sorta di libertà andava restringendosi: la città dava ospitalità a rifugiati politici di ogni provenienza e di qualsiasi tendenza, che vi affluirono da Firenze ma anche da Roma, dopo il Sacco del 1527, e dal Trentino, in seguito al fallimento dell'insurrezione contadina del 1525; e Gritti stesso si compiacque di raccogliere intorno a sé un circolo di intellettuali decisamente anticonformisti, per non dire isolati e marginalizzati. Se il dialogo vergeriano era stato concepito in funzione di omaggio al doge e in vista della promozione di un nuovo mito, esso muoveva dalla persuasione che l'età di Gritti coincidesse con una significativa fase di trasformazione. Ciò nonostante l'appello che Vergerio gli rivolgeva nulla concedeva a volgari suggestioni cesaristiche (301); piuttosto l'immagine di Gritti emergeva come l'emblema di un cambiamento imminente, secondo una visione storica legittimata addirittura da Platone (302), che si schiudeva ottimisticamente nel segno delle grandi virtù individuali: sapientia, potentia, auctoritas. Non più, di conseguenza, sul convincimento della natura ottima delle assise collettive della Repubblica si sosteneva la proiezione della grandezza veneziana, bensì sull'autorità condizionante del personaggio dogale. Contrasto stupefacente, questo, ché infatti tale immagine non poteva non denunciare la propria doppiezza al cospetto di un sistema che negava il potere personale per concentrarlo nell'idea dello Stato. Ben si sa che tutti gli sforzi praticati da quella personalità d'eccezione per svincolarsi dalle norme imposte dallo spirito di casta e per assumere in pieno - e in maniera davvero regale - le prerogative della sua funzione furono accolti con sospetto dai membri del patriziato.
Pietro Bembo e Pietro Paolo Vergerio furono gli autori di due opere essenziali che è bene esaminare in parallelo quanto alla rispettiva utilizzazione degli schemi di riferimento "romani". Una qualche ambiguità di dette referenze viene in luce nelle pagine di Bembo, e non è forse esagerato situare in ambito patavino, e più precisamente in seno al cenacolo da questi creato dal 1521 nelle sue case di Padova e di Noniano (303), un epicentro culturale che si organizzò seguendo linee e presupposti differenti da quelli cari al patriziato veneziano, né è superfluo rammentare che nello stesso senso procedeva la riflessione di Nicolò Leonico intorno ai rapporti fra translatio imperii e translatio studii (304).
Sembra comunque naturale che Bembo guardasse anch'egli con simpatia al tipo di mecenatismo praticato da Gritti, stimando che di lì potessero germogliare fermenti di innovazione qualora il doge decidesse di avocare a sé la politica universitaria. Qualche tempo prima, gli era stato chiesto di comporre una iscrizione commemorativa per la sala delle Teste nel palazzo Ducale, resa disponibile da Gritti per ospitarvi le antichità provenienti dal legato del cardinale Domenico Grimani morto nell'agosto del 1523. Era senza dubbio un riconoscimento delle sue competenze in materia di reperti antichi e di umanesimo, ma nell'occasione Bembo mancò quanto meno di senso politico giacché nella versione definitiva della scritta fu soppressa la menzione del padre del cardinale, il doge Antonio Grimani, che l'umanista aveva voluto inserire: si capisce bene perché Gritti e il suo entourage giudicassero superfluo il ricordo del predecessore.
Non si può che essere, forse ingenuamente, stupiti dalla ricerca ostinata di strutture di identità che i Bembo incarnavano in tutti i settori della formulazione mitica, compreso quello della lingua, là dove si trattava di arricchirne i campi metaforici. D'altro canto Pietro sapeva di aver ampiamente contribuito al tentativo di apertura del mondo culturale veneziano agli impulsi provenienti dalla Roma di Leone X. In qualche modo egli si volle protagonista di una metamorfosi del mito di Venezia inteso quale messaggio culturale espresso per mezzo di una lingua volgare elevata al rango di strumento per una nuova foelicitas.
Nell'aprile del 1526 vedeva la luce il De republica Veneta di Pietro Paolo Vergerio il Giovane, un dialogo ambientato nella villa di Noniano nel quale l'autore si era dato per interlocutori Pietro Bembo e Nicolò Leonico Torneo. In questo testo il mito di Venezia risulta condizionato da nozioni e da motivi in corso di elaborazione ed estranei alla tradizione veneziana; e alla fine dello scritto Vergerio metteva in rilievo la precarietà di un assetto giudiziario fluttuante (305) a paragone del solido impianto del diritto romano. Nell'esplorarne dunque le possibili dimensioni culturali, Vergerio faceva uso di modalità schiettamente utopiche proiettando il discorso verso una futura "integra et perfecta foelicitas" della quale egli credeva di vedere i segni premonitori e della quale riteneva di poter descrivere le caratteristiche.
Il ragionamento sviluppato nel De republica Veneta, incentrato sulla figura del doge-principe, si poneva ai limiti dell'ortodossia politica. Per comprendere la singolare presa di posizione antitradizionalista di Vergerio, del resto già manifestata in precedenza, è sufficiente riandare ai cinque libri del De magistratibus et republica Venetorum di Gasparo Contarini, in cui la sovranità della legge, nel solco della Retorica aristotelica, è posta a garanzia contro le ambizioni individuali, con conseguente sottolineatura della fisionomia collettiva del potere serenissimo nei riguardi del potere del doge (306). Siamo qui in presenza di una eco sufficientemente fedele dei dibattiti e delle aspettative suscitati dall'atteggiamento di Gritti; quanto al nostro autore, sembra altamente probabile che nutrisse simpatia per il progetto di revisione legislativa intrapreso dal doge.
Il linguaggio degli dei, che forniva un arsenale concettuale particolarmente pertinente alle esigenze della rappresentazione veneziana, non può essere lasciato fuori dalla nostra analisi.
Uno dei modi di appropriazione dell'immagine di Roma fu propriamente la trasformazione dell'antica dea Roma in una Venetia, come espressamente dichiarato nel programma iconografico del soffitto della sala del maggior consiglio: "[...> un'altra Vinegia [...> ad imitatione della Roma", scriveva Girolamo Bardi (307). È una Venezia munita di scettro, al modo di una Giunone regale in uno scenario d'Olimpo, quella raffigurata nell'Apoteosi veronesiana, momento culminante della sequenza del soffitto, ma secondo Bardi - nonostante l'affinità - ispirata a una fonte differente: " [...> risedendo sopra diverse Torri & Città, ad imitatione della Roma, che si vede nelle medaglie sedere sopra il Mondo; ha di sopra della testa una Vittoria alata, che la incorona di alloro".
Il primo indizio di una personificazione di Venezia giusta il modello di Roma trionfante si presenta nel 1393 con una medaglia pseudoantica disegnata e coniata da Marco Sesto sulla falsariga di un sesterzio dell'imperatore Galba (308); sul verso, una figura femminile con il vessillo di san Marco sta ritta sopra alla ruota della Fortuna. L'iscrizione trasmette un enunciato perfettamente tradizionale, ma là dove non sarebbe scontato attenderselo (cosa che fa venire in mente le analisi di Lévi-Strauss sulla circolazione interna alle rappresentazioni mitiche): "Pax Tibi Venetia".
Un'articolazione posteriore attestante l'evoluzione della medesima iconografia si ritrova in una medaglia del doge Francesco Foscari (309); adattando il tipo del medaglione del palazzo Ducale e il referente numismatico antico, l'incisione sul verso conferisce all'oggetto un aspetto conforme all'immaginario umanistico: se lo scudo connota una figura "all'antica", l'iscrizione "Venetia Magna" annuncia in maniera più aperta le nuove ambizioni imperiali della città.
Il ricorso a tipologie numismatiche antiche per la modellizzazione dell'immagine di Venezia era un procedimento chiaramente indicato da Bardi (310). E però, quando la si compari alle rivendicazioni sotto specie metallica di altri Stati e principi italiani, l'elaborazione di questa "Venetia figurata" lascia trasparire un evidente ritegno nel modo di congegnare i processi figurativi, d'altronde prevedibile nel campo del riferimento all'antico.
"Venetia, Venetia, chi non ti vede non ti pretia" (311): le parole di Shakespeare ben riassumono l'idea di una Venezia-Venere dalla quale si svilupparono una semantica e un immaginario all'impronta della divinità antica. In effetti Venere è un'altra componente della fabbricazione della Venezia personificata, e forse la più sorprendente; gli esempi iconografici e letterari dell'identificazione Venere-Venezia non mancano: le stesse associazioni mentali che facilitarono e incoraggiarono il passaggio interpretativo realizzato nella triade Venezia-Giustizia-Vergine funzionavano anche qui, sotto l'impulso dello schema ideale della nuova Roma.
Regale e "piena di gentilezza", autentica dea Venetia, questa visione della città sussumeva altre formulazioni, anche se all'interno della nostra panoplia visiva essa può apparire scarsamente compatibile con la figura più normativa della sovrana rivestita di gentilezza o di sontuosità, e persino contraddire l'immagine della Venezia-Vergine, la Venezia dell'Annunciazione; e tuttavia quel parallelo assicurò un rigoglioso avvenire a una rappresentazione resa operativa dal suo stesso valore semantico, in una città che viveva in una specie di ludo verbale.
Tal legame formale e retorico, vera e propria alleanza iconografica tra le figure di Venezia e di Venere, si era stabilito "naturalmente" sulla base di un'affinità semantica: come la dea nacque dalle spume marine, facevano rimarcare i mitografi, così la città lagunare era sorta dalle acque. Questa metafora, scaturita da una visione poetico-retorica destinata a diventare un topos alquanto banale fu nondimeno il prodotto di una tradizione che giocava etimologicamente con i due nomi, a rischio di esitare dinanzi all'anteriorità dell'una rispetto all'altra:
Aut Venus a Venetis sibi fecit amabile nomen,
Aut Veneti Veneris nomen, & omen habent.
Questo è scritto - citazione di un componimento poetico anonimo - nelle pagine iniziali di Venetia trionfante et sempre libera, pubblicato nel 1613 da Giovanni Nicolò Doglioni. E, poiché entrambe nacquero dal mare, per tutta conclusione:
[...> qui Veneta urbem
non amat, hunc numquam debet amare Venus (312).
L'anonimo ripreso da Doglioni celebrava così le origini mitologiche della "città miracolosa". Ritroviamo lo stesso gioco semantico dalle ghiotte implicazioni mitiche nel testo di James Howell sull'agglomerato di piccole isole emergenti dalle lagune (313). La sua esposizione è caratteristica dello sguardo portato sulla città:
Nella misura in cui si può pensare che la Dea Venere e la città di Venezia ebbero una nascita identica dal Mare, è altrettanto verosimile che Afrodite, amabile Signora, ebbe origine dalla stessa schiuma che Nettuno getta su queste piccole isole dolci, sulle quali Venezia ha posto il suo ricetto (314).
Scritti come quello di Howell sono evidentemente più apertamente politici che non il testo shakespeariano, anche se la conclusione è analoga: "[...> è l'Occhio il miglior giudice di Venezia". Ma era questa una posizione che aveva influenzato un buon numero di scrittori veneziani e teneva un proprio posto nell'ambito della tradizione petrarcheggiante della città, espressa in parole e immagini. Intorno al 1410, in un manoscritto intitolato Primo trionfo della gloriosa città di Venexia, un tal Cecchin da Venezia immaginava la città come una bella creatura e riccamente abbigliata, con al fianco l'inevitabile leone (315); e nello stesso torno d'anni un cronista descriveva la figura apparsagli in sogno con le sembianze di una donna incantevole - "Piena di gentilezza e ben ornata" -, che così si era presentata: "Venexia son chiamata qui per nome" (316). Dame gentili di taglio cortese che in certo senso corrispondono alle vergini marziali alludenti alla Giustizia spesso impiegate nella prima metà del Quattrocento per rappresentare Venezia.
Il secolo XV ci propone immagini semiufficiali di tale tipologia. Ad esempio, in un manoscritto miniato datato al 1486 con l'orazione panegirica di Vittore Cappello per il doge Agostino Barbarigo, la miniatura che adorna il frontespizio presenta una scena di omaggio al cospetto di una figura femminile che la corona ducale e lo stendardo marciano lasciano riconoscere come Venezia (317).
Ma il documento iconografico più interessante della linea interpretativa che connette Venere a Venezia si colloca nell'età di Andrea Gritti: è una medaglia di Sebastiano Renier dall'incontestabile valore pubblico, stante la personalità di quel patrizio la cui carriera politica è ampiamente documentata nei Diarii di Marin Sanudo. Al verso si vede una donna nuda sorgente dal mare che tiene nelle mani il vessillo di san Marco, visualizzazione tanto sintetica quanto perfetta della tradizione che si identifica in una Venetia anadyomene, come peraltro dichiarato dall'iscrizione "MEMORIAE ORIGINIS VENET. [IAE>" (318).
All'inizio della seconda metà del Cinquecento una Venezia siffatta compare nel soffitto della sala del consiglio dei dieci, complesso decorativo notoriamente ispirato da Daniele Barbaro a dieci anni di distanza dalla morte di Gritti: qui Giambattista Zelotti mise in scena una bella Veneziana fra Marte e Nettuno, con un Cupido che depone un serto di alloro sul capo della divinità marina. Ma solo il leone che, singolarmente mansueto e persino domestico, sta accanto alla fanciulla ne segnala l'identità come Venezia: attraverso la realizzazione pittorica riconosciamo l'apogeo di una tipologia espressiva che conobbe un forte impulso dopo la pace di Bologna. La concezione iconografica di Daniele Barbaro testimonia di un "momento olimpico" della rappresentazione formale veneziana, punto culminante di una tradizione aulica che si era impadronita del pantheon degli dei antichi. Ma dopo l'apparizione di una Venezia bella e nuda di risonanza pagana, la figura ufficiale della Serenissima sarebbe ben presto ritornata all'immagine di superiore portata decorativa della donna drappeggiata in vesti sontuose, "ben ornata" alla stregua della Venezia trionfante dipinta da Veronese nel soffitto della sala del maggior consiglio, esito maggiore e più celebre di questa mutata impostazione iconografica che sarebbe tuttavia troppo facile attribuire al clima controriformistico (319) e alle prescrizioni emanate sulla base delle enunciazioni tridentine. Certo, Venezia si riveste, ma mantiene presso di sé la corte d'Olimpo, con gli dei ancora impegnati, e fino agli ultimi anni della Repubblica, a svolgere il ruolo dei cortigiani, mettendo i loro significati antichi e moderni al servizio politico dello Stato marciano.
L'episodio della costruzione dello scalone Barbarigo - meglio noto come scala dei Giganti - è una ulteriore illustrazione dello stesso processo. Per Michelangelo Muraro, man mano che la cultura veneziana veniva scoprendo e assimilando le tradizioni del mondo romano, ciascuno dei gesti del doge acquisiva un valore nuovo sull'onda dell'interesse esercitato dai suoi significati antichi: negli epitaffi, nelle targhe commemorative, nelle medaglie celebranti la pax augusta che Venezia pretendeva di restaurare, il latino delle cerimonie di culto cominciò a prendere dei ritmi classici. La scala edificata da Antonio Rizzo fra il 1485 e il 1494, vale a dire nei primi anni di dogado di Agostino Barbarigo (320), ben si inseriva in quel clima "trionfale" (321). Si dice che durante i fastosi banchetti del Barbarigo in palazzo Ducale, Cassandra Fedele componesse versi latini, mentre Ventura di Malgate cantava in terzine le glorie di Agostino: "Sereno Duce et Principe della Nuova Roma"; e nella Visione Barbariga Venezia veniva presentata come un modello di "Giustizia e Fede" e il doge paragonato a Numa Pompilio. "Barbadico postes auro spoliisque superbi", proclamerà un poeta, alterando un verso dell'Eneide per assegnare una origine romana alla famiglia del principe.
I rilievi ai lati della scala dei Giganti sarebbero difficilmente interpretabili senza tenere nel debito conto i caratteri quanto meno particolari rivestiti dall'autorità ducale negli ultimi anni del Quattrocento. Evocata numerose volte, l'effigie dogale certamente più interessante è il ritratto sul pilastro d'angolo del cortiletto dei Senatori, nel quale si compendiava una temperie politica e figurativa assai specifica, fatta di affermazioni e controaffermazioni sui fasti di una sola famiglia glorificata qui più delle virtù dello Stato.
Dopo l'incendio del 1483, già si era deciso di ricostruire l'asse del Palazzo sul quale poggia la scala dei Giganti, e a soli tre mesi dalla data del documento in cui si parla della rimozione delle macerie del corpo di fabbrica preesistente - 8 marzo 1484 -, lo scultore architetto presentava il progetto per la nuova ala (322). Tuttavia, qualche tempo dopo, nel marzo del 1494, fu deliberato di innalzare nel campo dei Santi Giovanni e Paolo la statua di Bartolomeo Colleoni, e il fatto stesso di celebrare il condottiero bergamasco su una pubblica piazza suona a conferma dei timori e delle inquietudini sull'evoluzione politica della Repubblica. Né va dimenticato che quel medesimo periodo vide gli esordi dell'accademia di Ermolao Barbaro alla Giudecca, sorta nel 1484.
Molto opportunamente in riferimento alla scala dei Giganti è stato notato che negli anni intorno al 1480, e con significato del tutto paragonabile, Mattia Corvino aveva fatto erigere nei suoi palazzi di Buda e di Visegrad degli scaloni monumentali, venuti alla luce nel corso di campagne di scavo. L'atmosfera eroica del momento veneziano era sottolineata dal continuo ritorno dei motivi trionfali e, d'altra parte, le grandi ambizioni della Serenissima fecero sì che si rapportassero alla città lagunare le iniziali classiche di Roma, S.P.Q.V. La tradizione archeologico-antiquaria padovana non fu estranea alla volontà di erudizione manifestata fin nei minimi dettagli, là dove si percepisce il desiderio di far rivivere in qualche modo l'età augustea e, anzi, di rivaleggiare con essa (323). Ogni particolare dei Trionfi Barbarigo è completo in se stesso, un po' al modo delle preziose pietre antiche che Piero Barbo accumulava; ma è chiaro che ciascuno di questi elementi si raccorda agli altri per formare un "racconto" unico, sotteso da un linguaggio aristocratico (324) funzionale a un'arte di corte comprensibile solo da qualche iniziato (325). La critica è rimasta alquanto discosta da questa fase specifica dell'umanesimo veneziano, come d'altronde dalle sculture del monumento Tron. Si rammenti di passaggio che, prima di ascendere alla dignità dogale, tanto Marco quanto Agostino Barbarigo erano stati bibliotecari alla Marciana, da poco aperta al pubblico (1473) (326). Particolarmente significativo fu l'apporto di Antonio Rizzo, che consacrò pressoché esclusivamente al servizio dei Barbarigo due interi decenni di attività artistica, alla trasposizione in immagini della tematica Venezia-Roma; non per nulla egli veniva dalla "felicissima Verona", della quale Scipione Maffei affermerà che, tolta Roma, non v'era città che custodisse altrettante reliquie della magnificenza romana (327).
La rappresentazione di Venezia giunse a convocare presso di sé il pantheon olimpico al completo. A partire dalla pace di Bologna la Venezia grittiana andrà assumendo un'attitudine sempre più "retorica", e anche la sua politica dipenderà in misura sempre maggiore da quell'eloquenza cui partecipava a pieno titolo l'architettura di Jacopo Sansovino (328). Il valore retorico della Loggetta ristà allora nelle figure che ne articolano l'ordinamento architettonico e nei rilievi dell'attico: perciò essa è forse il monumento più indicativo di quella congiuntura politico-formale. Nelle quattro nicchie, fra le colonne marmoree, Sansovino pose le statue di Minerva, di Apollo, di Mercurio e della Pace, ma in mancanza della spiegazione fornita dal figlio dell'artista, Francesco, questo programma iconografico sarebbe difficilmente analizzabile nella sua molteplicità allusiva. Occorre riandare una volta ancora al dialogo Delle cose notabili che sono in Venetia, il cui testo è meno formale di quello più conosciuto della Venetia città nobilissima et singolare: salutando la longevità della Repubblica, il giovane Sansovino riprendeva gli enunciati del mito veneziano così come elaborati negli anni del dogado di Andrea Gritti (329), disvelando il processo mitografico di trasformazione dell'antico filone figurativo in moderna tessitura politica. L'autore attribuiva al procuratore di San Marco Antonio Cappello l'ideazione del programma della Loggetta, che sembra un adattamento piuttosto letterale dell'immagine di Venere alla figurazione del governo veneziano e si presta ad essere letto complessivamente in modo diretto e motivato (330).
Non era la prima volta che quelle divinità erano state chiamate a sostenere la rinomanza di Venezia. Precisamente all'inizio del Cinquecento, nella celebre pianta disegnata da Jacopo de' Barbari (331) si incontrano Mercurio e Nettuno in vesti di numi tutelari della città. Seduto come su di un trono fra le nuvole, Mercurio, la cui presenza assicura la prosperità commerciale di Venezia, si dichiara protettore dell'emporio lagunare. Al di sotto, in groppa a un delfino, è Nettuno trionfante nel bel mezzo del bacino, protettore del porto e garante del favore dei mari nei confronti della flotta veneziana. Ma fra la xilografia del 1500 e il bronzo di quarant'anni appresso si nota un cambiamento nel significato allegorico di Mercurio. E in effetti all'inizio del secolo la Serenissima era al vertice delle proprie velleità imperiali, prima della crisi cambraica e prima del viaggio di Vasco de Gama e dell'apertura delle nuove rotte atlantiche: aveva ancora un senso assegnare a Mercurio la funzione di patrono dei traffici.
Viceversa, nella nicchia della Loggetta il dio mostra tratti di maggiore eleganza; seppure manierato, il suo atteggiamento è in certo modo meno impregnato di potenza. In luogo del potere economico, il Mercurio sansoviniano rappresenta la realtà di una Venezia modificata dalla storia recente: insieme mitologema e immagine sistemica, la sua figura non esprime più una forza effettiva bensì una forza politica e diplomatica. In un periodo segnato dal trasferimento della potenza commerciale della Repubblica dal mare alla Terraferma sarebbe stato difficile immaginare un Mercurio, che è forse il più "cittadino" degli dei, trasportato in campagna... Alla fine del Quattrocento i confini del dominio veneziano si erano stabilizzati fra mare e Terraferma, come bene dimostra il leone marciano dipinto da Carpaccio nel 1516, appena trascorsi in sequenza gli anni più sicuri e gli anni più pericolosi nella storia della Serenissima: le zampe dell'animale sono posate sul mare come sulla terra, a significare al contempo l'estensione e i caposaldi dell'impero veneziano.
E poiché fattori strutturali dell'assetto repubblicano erano anche l'insieme delle magistrature e il loro meraviglioso assortimento, forieri di una armonia inabituale perpetuante il governo immortale della Dominante, ecco comparire Apollo, emblema appunto dell'Armonia (332). Si potrebbe pensare che l'artefice del programma decorativo della Loggetta abbia in certa misura forzato tale interpretazione, che la sua immaginazione andasse alla ricerca di una giustificazione persin troppo letterale al fine di costruire una simbolica di quello Stato unico al mondo. E però l'armonia ci riconduce alla pratica musicale, a proposito della quale studi recenti hanno evidenziato il collegamento sussistente con l'idea e con il mito di Venezia.
"La Musica ha la sua propria sede in questa città", diceva Francesco Sansovino. E questa una affermazione che di primo acchito sembra banale, ma che nondimeno resta essenziale ai nostri propositi quando si tenga in vista lo stretto rapporto individuato da Lévi-Strauss fra musica e mito, addirittura più pertinente nella sua elaborazione di quello fra linguaggio e mito.
La quarta statua della Loggetta raffigura la Pace (333), quella pace che, sempre auspicata fra gli attributi dello Stato ideale, si caricò di significati più intensi negli anni successivi alla pace di Bologna. Grazie ancora a Francesco Sansovino e alla sua trascrizione del progetto iconografico dei procuratori di San Marco, possiamo udire la voce di una Venezia trionfante ancorché prudente.
Iniziata negli ultimi anni del dogado di Andrea Gritti, ma portata a compimento solo dopo la sua morte, la Loggetta sintetizza una fase per così dire "olimpica" nella trasposizione formale dell'immagine ufficiale della Serenissima, con il ribadirne le ambizioni imperiali pure se con qualche ritardo - distorsione cronologica usuale e, anzi, obbligata - rispetto al processo storico reale. Ciò evidenzia in modo ancora più significativo i timori del potere prima della guerra nei riguardi di tale formulazione: adesso, superato il pericolo maggiore, le si poteva infatti dare libero corso.
Per comunicare il suo messaggio - e qui si pone una volta di più la questione della funzione del mito - lo Stato veneziano si appropriò della schiera degli dei antichi: procedimento assai comune nella cultura del Rinascimento, ma nessun'altra compagine statuale - questa la differenza - era allora in grado di sfruttare fino in fondo le risorse della retorica olimpica. Probabilmente non c'era Stato europeo - ma gli studi al riguardo, come abbiamo sottolineato fin dall'inizio, sono lacunosi - capace di autodefinirsi in modo contemporaneamente tanto astratto e tanto concreto. Ulteriore dato significativo per la riuscita dei procedimenti mitici, l'efficacia del discorso della Serenissima sulla propria costituzione e sul proprio orizzonte legislativo fece sì che l'"idea di Venezia" venisse confermata dalla Venezia reale, cosicché l'invocazione delle divinità greco-romane, a un millennio e più dalla fondazione della città, implicò soprattutto una nuova dimensione storica del racconto mitico.
Uno dei concetti maggiormente produttivi della storiografia recente è quello della "classicità" dello Stato. Ai piedi del campanile, la Loggetta sansoviniana si lascia intendere come il simbolo più singolare della renovatio urbis propugnata dal dogado di Andrea Gritti e ispirata, progettata e realizzata da Jacopo Sansovino. Edificio in apparenza sprovvisto di ragion pratica, esso possiede tuttavia una propria funzione urbanistica nella costruzione dell'asse concettuale raccordante la Piazzetta e la Piazza. Per la forma e per i colori si collega al Palazzo, e più precisamente alla porta della Carta, ma vale innanzitutto quale commento al Palazzo stesso e ai suoi significati: le sue sculture parlano dei valori tradizionali dello Stato. La facciata, che ripete il motivo dell'arco di trionfo, costituisce un elemento specialmente significativo di quello "stile ideologico" definito come "classicismo di Stato" (334). Il "miglior ordine, secondo l'antica disciplina di Vitruvio" - parole di Vasari - si mutava così in rappresentazione ufficiale e trionfale della Venezia sortita dal movimento della renovatio, della Venezia sopravvissuta alle angosce di una guerra che ne aveva minacciato la stessa sopravvivenza, della Venezia restaurata nel dominio del proprio impero. Così va letta una lettera inviata da Pietro Aretino al doge nel 1530: d'un lato Gritti, l'uomo della renovatio compiuta dalla città, dall'altro Aretino, grande conoscitore al cospetto dell'Eterno della formulazione di tutte le cose.
Traduzione di Ernesto Garino
1. Claude Lévi-Strauss, Le regard éloigné, Paris 1983 (trad. it. Lo sguardo da lontano, Torino 1984), p. 199.
2. Cf. Marcel Henaff, Claude Lévi-Strauss, Paris 1991, pp. 177-181.
3. Cf. Claude Lévi-Strauss, Anthropologie structurale, II, Paris 1958 (trad. it. Antropologia strutturale, II, Milano 1990), p. 261.
4. Quanto al mito di Lisbona, recentemente Angel Crespo, Lisboa mitica e literaria, Lisboa 1990, in particolare il capitolo II, As origens e o nome da cidade, ha mostrato - ancorché in modo alquanto sommario - l'importanza della questione delle origini e di quella del nome. A proposito del mito di Parigi, diverse componenti ne sono state enucleate e studiate per il secolo XVI, ma anche per la fine del XIX: quanto al periodo che qui ci interessa, innanzitutto il motivo di Parigi "Nuova Roma" e poi quello di Parigi "Nuova Gerusalemme". Nel febbraio del 1553, questo scriveva della città il re Enrico II: "Se la città di Gerusalemme è stata rinomata e chiamata la Santa per la Legge e i profeti e i sacrifici che si facevano anticamente nel Tempio di Dio, costruito dal Re Salomone [...>; se Roma è stimata e detta Santa per la sua grandezza e per il Soglio papale, e così [si dice> di altre città, più di tutte a questo mondo deve essere la nobile città di Parigi rinomata, magnificata e chiamata bella, santa, ricca, grande e eccellente [...>. A Parigi la fede cristiana è sostenuta, protetta la legge di Gesù Cristo, obbedita e onorata la sua sposa la Chiesa, osservate le leggi divine e umane e puniti e scacciati i perturbatori dell'unione concorde, cosicché essa può essere chiamata il convivio di un altro Salomone, che è il Re Cristianissimo [...>. Parigi può essere chiamata la città di Dio". Ancora, occorre menzionare il mito ginevrino, ricordando l'analisi fattane da Alain Dufour, Le mythe de Genève au temps de Calvin, "Revue Suisse d'Histoire", 9, 1959, pp. 489-518, ma anche Id., Quelques réflexions sur l'historiographie du XVIème siècle: histoire politique et psychologie historique, Genève 1966 (Bibliothèque d'Humanisme et Renaissance, XXV), il mito di Roma quale emerge dal lavoro di Gérard Labrot, L'image de Rome. Une arme pour la Contre-Réforme. 1534-1677, Paris 1987, il mito di San Pietroburgo studiato da Ettore Lo Gatto, Il mito di Pietroburgo, Milano 1960 (nuova edizione Milano 1991), o, infine, il mito di Berlino, forse uno dei meglio noti per l'età contemporanea, basti pensare alle pregevoli considerazioni di Lyonel Richard per gli anni Venti di questo secolo.
5. Images et mythes de la ville médiévale (Atti della tavola rotonda organizzata dall'École française de Rome), "Mélanges de l'Ecole franpise de Rome, Moyen Âge", 96, 1984, pp. 397-602. Si v. pure il contributo, assai bello, di Anna Imelde Galletti, Motivations, modalités et gestions politiques de la mémoire humaine, in AA.VV., L'historiographie médiévale en Europe, Paris 1991, pp.189-197.
6. Georges Duby, Storia sociale e ideologie delle società, in Fare storia. Temi e metodi della nuova storiografia, a cura di Jacques Le Goff - Pierre Nora, Torino 1981, p. 127 (pp. 117-138). "Tuttavia il materiale da raccogliere rischia di essere più abbondante ancora tra i documenti non scritti, perché l'ideologia trova un'espressione talvolta più diretta e più pregnante nelle articolazioni dei segni visibili. Gli emblemi, i costumi, gli ornamenti, le insegne, i gesti, il quadro e l'ordinamento delle feste e delle cerimonie, il modo in cui si dispone lo spazio sociale, testimoniano infatti di un certo ordine sognato dell'universo. In questo campo particolare e centrale della storia delle società, la ricerca deve dunque prestare molta attenzione a tutti gli oggetti figurativi, alla struttura dei monumenti, al loro scenario, e a quel materiale di prim'ordine che sono tutte le immagini scolpite o dipinte. Infatti in tutte le civiltà e nella maggior parte del passato storico, le rappresentazioni figurative sono state cariche di un senso più profondo e di portata più immediata che non la scrittura. Sono state armi di difesa e di aggressione di eccezionale efficacia" (ibid., p. 126).
7. Oratione di Mad. Issicratea Monte Rodigina nella congratulazione del Sereniss. Principe di Venetia Sebastiano Veniero, Venezia 1577.
8. Cf. Ellen Rosand, Music in the Myth of Venice, "Renaissance Quarterly", 30, nr. 4, 1977, pp. 511-537 (trad. it. in Renovatio urbis. Venezia nell'età di Andrea Gritti [1523-1538>, Atti del convegno, Dipartimento di storia, Istituto universitario di architettura di Venezia, Venezia giugno 1983, a cura di Manfredo Tafuri, Roma 1984, pp. 167-186).
9. Cf. Marina Warner, Sola fra le donne. Mito e culto di Maria Vergine, Palermo 1980; René Laurentin, Court traité sur la Vierge Marie, Paris 1968.
10. Un buon esempio di tale "fusione" in Lina Padoan Urban, Tra sacro e profano. La festa delle Marie, Venezia 1988.
11. L'attitudine dei due viaggiatori di fronte alla città è stata studiata da David Rosand, Venetia Figurata: the Iconography of a Myth, in AA.VV., Interpretazioni veneziane. Studi di storia dell'arte in onore di Michelangelo Muraro, Venezia 1984, pp. 177-196.
12. Coryats Crudities, London 1611, p. 158.
13. Ibid., pp. 278-279.
14. Ibid., p. 290.
15. Ibid., p. 200. D. Rosand, Venetia Figurata, pp. 187-188.
16. Girolamo Bardi, Dichiaratione di tutte le historie che si contengono ne i quadri posti nuovamente nelle Sale dello Scrutinio, et del gran Consiglio del Palagio Ducale della Serenissima Republica di Vinegia, etc., Vinegia 1587. Utilizziamo qui la seconda edizione, del 1606.
17. Coryats Crudities, p. 200. Si tratta del comparto centrale dell'ordine mediano del soffitto della sala del maggior consiglio, con Venezia regina, circondata da divinità marine, in atto di porgere un ramo d'ulivo al doge Nicolò da Ponte, che le presenta gli omaggi del senato e i doni delle province soggette. La dimostrazione di Wolters è in Wolfgang Wolters, Der Programmentwurf zur Dekoration des Dogenpalastes nach dem Brand vom 20 Dezember 1577, "Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz", 12, 1966, pp. 271-318.
18. D. Rosand, Venetia Figurata, p. 188.
19. Coryats Crudities, p. 200.
20. James Howell, S.P.Q.V., A Survey of the Signorie of Venice, of Her Admired Policy, and Method of Government, etc., with a Cohortation to All Christian Princes to Resent Her Dangerous Condition at Present, London 1651. Non solo Coryat e Howell, ma gli Inglesi in genere per tutto il secolo XVII - e anche oltre, fino al secolo XIX - guardavano in modo affatto particolare alla Repubblica di San Marco, specie in relazione allo sforzo di definizione e di difesa di certe posizioni politiche in occasione delle crisi storiche di oltre Manica. Anche a questo riguardo, le avventure semiologiche dei nostri due visitatori sono emblematiche.
21. V. Gasparo Contarini, De magistratibus et republica Venetorum libri quinque, uscito a Basilea nel 1547, indi a Venezia nel 1551 e tradotto in inglese fin dal 1599 con il titolo di The Commonwealth and Government of Venice.
22. J. Howell, S.P.Q,V., p. 1.
23. Le conseguenze di tale assimilazione non sono state sempre intese nel loro giusto valore, nella fattispecie in rapporto a certi momenti chiave della vicenda culturale veneziana. Proprio questo abbiamo cercato di mostrare, relativamente agli anni 1520-1530, nella nostra comunicazione in occasione del convegno di Clermont-Ferrand su Les Jésuites parmi les hommes aux 16. et 17. siécles, Clermont-Ferrand 1987.
24. Marin Sanudo, De origine, situ et magistratibus urbis Venetae, ovvero La città di Venezia (1493-1530), a cura di Angela Caracciolo Aricò, Milano 1980, pp. 12-13.
25. Ibid.
26. Cf. Francesco Marchiori, Maria e Venezia, Venezia 1929, e soprattutto Edward Muir, Il rituale civico a Venezia nel Rinascimento, Roma 1986, pp. 84-85 e 162-163. V. Giovanni Musolino, Culto mariano, in Il culto dei santi a Venezia, a cura di Silvio Tramontin, Venezia 1965 (Biblioteca agiografica veneziana, 2), pp. 241-274.
27. Cf. M. Warner, Sola fra le donne, e Marc Joulin, Marie, Paris 1990.
28. Jacopo Dondi, Liber partium consilii magnifice comunitatis Padue, in Vittorio Lazzarini, Il preteso documento della fondazione di Venezia e la cronaca del medico Jacopo Dondi, "Atti del Reale Istituto di Scienze, Lettere ed Arti", 75, 1915-1916, pp. 1264-1265 (pp. 1263-1281). V. anche E. Muir, Il rituale civico, pp. 84-85, e Sarah Wilk, The Sculpture of Tullio Lombardo. Studies in Sources and Meaning, New York-London 1978, pp. 112-113.
29. Bernardo Giustiniani, De origine urbis gentisque Venetorum historiae, Venetiis 1492. Si v. Patricia H. Labalme, Bernardo Giustiniani: A Venetian of the Quattrocento, Rome 1969, p. 267 e soprattutto il capitolo X, History of the Origin of Venice, pp. 247-304.
30. Così titolava il periodico "Gente Veneta" del 21 marzo 1992: La nascita di Venezia. La città sarà in festa il 25 marzo. E proseguiva: "Il prossimo 25 marzo l'anniversario sarà ricordato ornando di fiori la statua della Madonna davanti alla stazione".
31. Citata da Rona Goffen, Piety and Patronage in Renaissance Venice: Bellini, Titian, and the Franciscans, New Haven-London 1986.
32. Numerosi esempi in Staale Sinding-Larsen, L'immagine della Repubblica di Venezia, in Architettura e Utopia nella Venezia del Cinquecento (Catalogo della mostra, Venezia, Palazzo Ducale luglio-ottobre 1980), a cura di Lionello Puppi, Venezia 1980, p. 40 (pp. 40-49).
33. Alberto Tenenti, Il senso dello spazio e del tempo nel mondo veneziano nei secoli XV e XVI, in Id., Credenze, ideologie, libertinismi tra medioevo e età moderna, Bologna 1978, pp. 75-118.
34. Marin Sanudo, Le vite dei dogi, a cura di Giovanni Monticolo, in R.I.S.2, XXII, 4, 1900-1911, p. 88.
35. Di quest'ultima festa, che si teneva nel giorno della Purificazione (2 di febbraio), E. Muir, Il rituale civico, pp. 160-169, ricorda l'organizzazione a cura delle contrade. Cf. anche G. Musolino, Culto mariano, pp. 256-260; Silvio Tramontin, Il Kalendarium veneziano, in Il culto dei santi a Venezia, a cura di Id., Venezia 1965, p. 290 (pp. 275-327); e Giustina Renier Michiel, Le origini delle feste veneziane, I, Milano 1817, pp. 91-108.
36. Si rimanda alla descrizione fattane da L. Padoan Urban, Tra sacro e profano.
37. Si vada alle pagine sulle cerimonie rievocanti la translatio delle spoglie dell'evangelista e la festa delle tre Marie in E. Muir, Il rituale civico, pp. 164-166.
38. Fondamentali, per l'insieme delle questioni che qui si affrontano, i lavori di Rona Goffen, sui quali si fondano le presenti analisi: Piety and Patronage, e Devozione e committenza. Bellini, Tiziano e i Frari, Venezia 1991.
39. Francesco Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare descritta in XIIII libri, Venetia 1581, p. 323.
40. Cf. Francesca Flores D'Arcais, Guariento, Venezia 19742, pp. 72-73.
41. Cf. Staale Sinding-Larsen (con il contributo di Annette Kuhn), Christ in the Council Hall. Studies in the Religious Iconography of the Venetian Republic, Rome 1974 (Institutum Romanum Norvegiae, Acta ad archaeologiam et artium historiam pertinentia, V), pp. 45-54.
42. "O sacra imaculata piena di gracia / Madre de Christo nostro salvadore / Ti priego per mio amore / Che tu me exaudi o dolze madre pia / [...> / Che la serenitade del nostro doxe te sia ne la mente": questa preghiera del secolo XV (Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. VII. 299 [= 7868>) è citata in R. Goffen, Devozione e committenza, p. 105.
43. Il 31 dicembre del 1489 il patriarca consacrava la chiesa pronunciando le seguenti parole riportate in Tommaso Minotto, Brevi Notizie della Chiesa e dell'ex convento di Santa Maria dei Miracoli unica chiesa in Venezia col titolo della Immaculata Concezione, Venezia 1855, pp. 13-14: "Margherita, affido alla tua carità e al tuo fervido zelo queste ottime suore. Prega in un con esse la Madre delle Misericordie che ottenga da Dio alla nostra Repubblica prosperità e pace perenne". Si v. John R.H. Morman, A History of the Franciscan Order from Its Origins to the ϒear 1517, Oxford 1968, p. 574, e Paolo Prodi, The Organisation of the Church in Renaissance Venice: Suggestions for Research, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, pp. 409-430.
44. Cf. Allan B. Wolter, Doctrine of the Immaculate Conception in the Early Franciscan School, "Studia Mariana", 9, 1954.
45. Orazione di Luigi Detrico da Zara al doge Pasquale Cicogna, in Agostino Michele, Scielta delle Orazioni fatte nella creatione del seren.mo prencipe di Vinegia Pasqual Cicogna alle Diriti immortali di sua serenità da Agostino Michele in segno della infinita sua divotione consacrata, Vinegia 1587. Il riferimento obbligato è il Cantico dei Cantici, 6, 10: "Chi è costei che s'avanza quale aurora / bella come la luna, / eletta come il sole, / tremenda come esercito schierato". Cf. S. Sinding-Larsen, L'immagine della Repubblica, p. 40.
46. Sapienza, 1, 4: "La Sapienza non entra in un'anima abituata al male".
47. Hellen S. Ettlinger, The Iconography of the Columns in Titian's Pesaro Altarpiece, "Art Bulletin", 61, 1979, pp. 59-67.
48. Antonio Sartori, Guida storico-artistica della Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari, Padova 1949.
49. Marino Sanuto, I diarii, L, a cura di Federico Stefani - Guglielmo Berchet - Nicolò Barozzi, Venezia 1898, col. 92.
50. R. Goffen, Devozione e committenza, pp. 68-79.
51. "Fo la Conception di la Madona, et si varda, et fasi la festa a la Misericordia, etiam in altre chiesie et ai Frari menori a l'altar hanno fatto i Pexari in chiesia" (Marino Sanuto, I diarii, XLIII, a cura di Federico Stefani - Guglielmo Berchet - Nicolò Barozzi, Venezia 1895, col. 396).
52. R. Goffen, Devozione e committenza, cap. III.
53. Ci si ricorderà della posizione dei teologi francescani, i quali sostenevano l'Immacolata Concezione della Madonna perché fin dall'inizio, ab initio, ante saecula, era stata prevista la caduta dell'uomo e perciò stesso la necessità della Redenzione. In questo modo, in quanto preesistente alla creazione del genere umano, Maria era monda del peccato originale cosicché poteva a buon diritto partecipare all'opera redentrice del Figlio. Di conseguenza, essendo Cristo in quest'ottica un secondo Adamo, la Vergine come seconda Eva equilibrava l'azione di colei che l'aveva preceduta, poiché erano stati il primo uomo e la prima donna a rendere indispensabile la morte di Gesù e, prima ancora, l'Immacolata Concezione di Maria, la cui purezza era la condizione necessaria affinché potesse assumere il ruolo, conferitole fin dall'origine, di madre del redentore. Ecco il motivo per cui le immagini che si incaricavano di sostenere il concetto dell'Immacolata Concezione includevano di frequente la rappresentazione di Adamo e di Eva: lo stesso Tiziano farà apparire questa associazione dipingendo delle foglie di fico - simboli del precipitare nel peccato e della Redenzione - nel registro superiore della Pietà. Che sia questa la ragione della loro presenza in palazzo Ducale? Come che sia, conosciamo questa tematica grazie ad alcuni studi recenti, fra i quali André Chastel, Sur deux rameaux de figuier, in AA.VV., Studies in Late Medieval and Renaissance Painting in Honor of Millard Meiss, I, New York 1977, pp. 83-87.
54. Non c'è dubbio che la tela non fu mai sistemata sull'altare del Crocefisso, come è probabile che la dislocazione della sepoltura di Tiziano ai Frari non tenesse conto dei suoi ultimi desideri. Resta tuttavia che il dipinto fu concepito espressamente per quella chiesa e per quella collocazione: l'autoritratto dell'artista e la sua originaria intenzione di essere tumulato ai Frari lasciano poche perplessità al proposito; inoltre, la struttura triangolare di quest'ultima opera per i Frari riecheggia intenzionalmente la struttura della prima tela per l'altare Pesaro, diagonalmente opposto a quello del Crocefisso.
55. Cf. il discorso della Sapienza nell'Ecclesiaste, 24, 3-6: si v. oltre, n. 210.
56. In effetti l'apparizione del roveto ardente dinanzi a Mosè veniva comparata all'Immacolata Concezione di Maria.
57. Rona Goffen, Icon and Vision: Giovanni Bellini's Half-Length Madonnas, "Art Bulletin", 57, 1975, pp. 487-518.
58. Sembra qui che Tiziano intendesse tradurre l'elemento tradizionale del mosaico in citazione di se stesso, rammentando i propri esordi artistici, l'apprendimento giovanile di quella tecnica, il proprio debito nei confronti del vecchio Bellini e la guadagnata indipendenza da lui fino al primo grande successo nella stessa chiesa dei Frari, con l'Assunta dell'altar maggiore.
59. La Nicopeia, la Vittoriosa, fu portata da Costantinopoli dal doge Enrico Dandolo nel 1204 e donata a San Marco nel 1234: cf. R. Goffen, Icon and Vision, pp. 508-509, e G. Musolino, Culto mariano, pp. 245-246.
60. Giuseppe Dalla Santa, Di alcune manifestazioni del culto dell'Immacolata Concezione in Venezia dal 1480 alla metà del secolo XVI, in AA.VV., Serto di fiori a Maria Immacolata, Venezia 1904, p. 8.
61. Salita in cielo e incoronatane regina, Maria prende posto accanto al Cristo re e per analogia, come si sa, la Chiesa personificata da Maria diventa la sposa di Cristo. Per questa ragione Maria veniva comunemente paragonata alla sposa del Cantico dei Cantici, e si metteva l'accento sulla connotazione della sottomissione che appariva concomitante a queste immagini familiari del vincolo matrimoniale: Maria è umile e sottomessa a Cristo come la donna al marito. Tal parallelismo con la sposa del Cantico si ritrova ad esempio nei sermoni sull'Assunzione di san Bonaventura, ma anche di san Lorenzo Giustiniani, e nei due uffici per la festa dell'Immacolata Concezione.
62. Lina Padoan Urban, La festa della Sensa nelle arti e nell'iconografia, "Studi Veneziani", 10, 1968, pp. 291-353, ma anche Gina Fasoli, Liturgia e cerimoniale ducale, in Venezia e il Levante fino al secolo XV, a cura di Agostino Pertusi, I, Firenze 1973, pp. 261-295.
63. G. Fasoli, Liturgia e cerimoniale ducale, pp. 279 ss.
64. S. Sinding-Larsen (con il contributo di A. Kuhn), Christ in the Council Hall.
65. Felix Gilbert, Venice and the Crisis of the League of Cambrai, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, p. 278 (pp. 274-292).
66. S. Wilk, The Sculpture of Tullio Lombardo, p. 112.
67. L'interpretazione specifica del privilegio di Maria, che rivaleggia con la vittoria di Cristo, si fondava sulla sua perfetta conformità al Figlio, come spiegava nel suo primo Sermone sull'Assunzione san Bonaventura: "Chi è colei che si eleva dal deserto [...>? [Maria> è là [nei cieli> corporalmente; infatti [...> ella ha dato i natali al secondo corpo [della Trinità> [...> e il corpo del Cristo viene dal suo". Allo stesso modo san Bernardino, in un suo Sermone sull'Assunzione, affermava: "Come il corpo del Cristo non poteva corrompersi, così pure quello di Maria; e si legge che, quando ella morì, così salì al cielo". È questo uno degli elementi principali per l'identificazione di Maria in Gesù, e la conformità dell'una all'altro comportava la certezza del privilegio della Vergine, mentre qualche dubbio sussisteva circa l'ascesa al cielo di san Giovanni evangelista: il francescano Bartolomeo da Pisa scriveva con convinzione che Maria era stata assunta anima e corpo, ma non così Giovanni, che solo secondo alcuni fu preservato dalla morte nella stessa maniera. Nel Paradiso di Dante, lo stesso san Giovanni dichiara che le sue spoglie sono terra in terra, e che solamente i due astri, Cristo e la Madre, salirono all'Empireo con la loro carne; non solo, l'evangelista chiede al poeta di confermare tutto questo agli uomini. La certezza dell'Assunzione della Vergine si caratterizzava dunque per la sua esclusività, essendo Maria l'unica ad aver condiviso tale beneficio con Gesù.
68. E. Muir, Il rituale civico, pp. 135-147 e 153-157 (note), là dove si parla appunto dello sposalizio con il mare, che il doge celebrava nel giorno della Sensa.
69. "Ricevi questo [avrebbe dichiarato papa Alessandro III al doge Ziani offrendogli un anello>, col quale tu, & tuoi successori, userete ogni anno di sposare il mare. Accioche i posteri intendino, che la Signoria d'esso mare, acquistata da voi per antico possesso, & per ragion di guerra è vostra. E che il mare è sottoposto al vostro Dominio, come la moglie al marito": F. Sansovino, Venetia città nobilissima, p. 501.
70. "Di più, ogni anno nel giorno dell'Ascensione il doge tiene una cerimonia davanti al porto, in acque profonde, durante la quale getta un anello d'oro nelle onde, segno che egli prende il mare per sposa, come chi ha intenzione di essere signore del mare intiero. E il battello sul quale il doge officia [la cerimonia> è una piccola ma maestosa galera, ricoperta di splendidi ornamenti. A prua vi è una Vergine dorata che tiene in una mano una spada sguainata e nell'altra una bilancia d'oro, segno che, come la Vergine è sempre Immacolata, anche il governo [veneziano> è sempre vergine e giammai fu preso con la forza. La spada nella mano destra della vergine significa che ella renderà giustizia e per lo stesso motivo regge con la sinistra la bilancia" (The Pilgrimage of Arnold von Harff [...> 1496-1499, a cura di Malcom Letts, London 1946, p. 59).
71. Cf. Lionello Puppi, ... nel vero non si ritrova storie che habbino ordine, in Id., Verso Gerusalemme. Immagini e temi di urbanistica e di architettura simboliche, Roma-Reggio Calabria 1982, p. 93, nonché Id., Il purissimo liocorno, ibid., p. 107. L'opera, pur incontestabilmente di alta qualità, si presenta oggi in stato di conservazione estremamente precario; comunque in questa sede non ci interessa prendere in esame i criteri di attribuzione che, del resto, non avrebbero alcuna importanza per l'analisi iconografica dell'opera medesima.
72. Si sa che la decorazione pittorica dell'edificio fu in prima battuta affare di Giorgione, se si accetta la conferma delle fonti recata dalla testimonianza grafica di Zanetti, soprattutto un disegno rivelatore attualmente a Salisburgo.
73. Che, come è noto, deriva dal Physiologus latinus, a partire dall'esegesi biblica di sant'Agostino, ma anche da Isidoro di Siviglia e sant'Ambrogio.
74. Francesco de' Alegris, La summa gloria di Venetia con la summa delle sue vittorie, nobiltà, paesi e dignità e officii, e altre nobilissime illustre cose di sua laude e gloria, Venetia 1501.
75. L. Detrico da Zara, Oratione al doge Pasquale Cicogna.
76. Giuditta, 13, 18: si v. oltre, n. 218.
77. Tuttavia i commenti sono sempre esitanti e insufficienti. Un'opera recente - L'histoire de Venise par la peinture, a cura di George Duby - Guy Labrichon, Paris 1992 - ne propone l'analisi seguente: "[...> vi si coglie, probabilmente, un'associazione fra la città e la Vergine. Il libro, come si comprende bene, non è necessario, a meno che non si vada alla ricerca di un cumulo di banalità [...> ". Per quanto segue nel testo, cf. D. Rosand, Venezia figurata, p. 182.
78. Cf. Lionello Puppi, Verso Gerusalemme, saggio che dà il titolo al volume omonimo già citato (v. supra, n. 71), pp. 62-76.
79. Cf. il catalogo della bella mostra organizzata nel 1983 dall'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano: La dimora di Dio con gli uomini. Immagini della Gerusalemme Celeste dal III al XIV secolo, a cura di Maria Luisa Gatti Perer, Milano 1983.
80. Francesco Sansovino, Delle orationi recitate a Principi di Venetia nella loro creatione da gli Ambasciadori di diverse città libro primo, Venetia 1562.
81. S'è sovente fatto notare come, in termini urbanistici, tale immagine si focalizzasse naturalmente nella basilica di San Marco che, riflettendo per tradizione gli esempi dell'Apostoleion di Costantinopoli, distrutto nel 1462, e del San Giovanni di Efeso, assumeva su di sé, specie all'interno, quel significato cosmologico che ebbe per prototipo prezioso Santa Sofia: il dialogo dei riferimenti alle due - capitali orientali - Gerusalemme e Costantinopoli - sarà una delle costanti delle formulazioni artistiche. La pianta quadrata a croce inscritta, lo stretto rapporto con il palazzo Ducale, l'emergere e il quasi incorporarsi alla superficie delle acque, tutto questo fa del complesso marciano il punto nodale di un simbolismo formale della città come Gerusalemme Celeste.
82. Cf., ad esempio, The Itineraries of William Wey to Jerusalem, A.D. 1458 and A.D. 1462; and to Saint James of Compostella, A.D. 1456, London 1857.
83. Una produzione - per restare alla parola scritta - nel cui ambito molti testi si rivelano esemplari: cf. Il Viaggio da Venetia al sancto Sepulcro et al Monte Sinaj, Venetia 1518; Il Viazo de andare in Jerusalem e per tutti i lochi santi, Venetia 1522; Il Viaggio del Sepolchro di G. Christo da un valente uomo [...>, Venetia 1523; o ancora L'opera nuova chiamata itinerario de Hierusalem, Venetia 1524.
84. "Veneciam, civitatem nobilem et grandem" (The Itineraries of William Wey, pp. 83-90, 117-118).
85. Si tratta naturalmente della festa della Purificazione della Vergine, il 2 di febbraio.
86. "[...> ad defensionem fidei nostrae".
87. Das Reisebuch der Familie Rieter, a cura di Reinhold Röhricht - Heinrich Meisner, Tübingen 1884.
88. "Seet das heyling Grab aber conterfett als zu Jerusalem" (ibid., p. 38).
89. Nel quale si ritrova la percezione di una struttura urbana dominata dai luoghi che attirano le visite, i pellegrinaggi e le processioni; una organizzazione spaziale la cui gerarchia appare evidente al visitatore francese: "[...> è la città più popolata che si possa vedere, poiché non si scorgono né giardini né piazze vuote, e tutte le strade sono molto strette".
90. Le voyage de la Saincte Cyté de Hierusalem fait l'an mil quatre cent quatre vingt, a cura di Charles Schefer, Paris 1822, pp. II-XLII, 11-29 (la prima edizione di questo testo comparve a Parigi nel 1517).
91. Del racconto di Brasca esistono diverse edizioni: la prima del 1481, pubblicata a Milano nel 1487, 1497 e 1519. La più recente è stata pubblicata, ancora a Milano, nel 1966.
92. Tuttavia tali constatazioni non instaurano un implicito parallelo con il foro di Costantinopoli; è piuttosto il riferimento alla Terrasanta che sta in primo piano nel pensiero dei pellegrini.
93. Cf. Bernard Von Breydenbach, Sanctarum Peregrinationum [...> opusculum, Magonza 1486; l'Opusculum, che ebbe numerose edizioni, è stato ristampato in anastatica a Wiesbaden nel 1961. Cf. Hugh W. Davies, Bernhard von Breydenbach and His Journey to the Holy Land, London 1911.
94. Fratris Felicis Fabri Evagatorium in Terrae Sanctae [...> peregrinationem, a cura di Conrad D. Hassler, I-III, Stuttgart 1843-1849; ci riferiamo qui specificamente al volume III, pp. 399-436.
95. Ibid. V. anche Franz D. Haeberlin, Dissertatio historica sistens vitam, itinera et scripta Fr. Felicis Fabri, Gottingen [1742>, pp. 5-30; Hilda F.M. Prescott, Friar Felix at Large. A Fifteenth Century Pilgrimage to Holy Land, New Haven, Conn. 1950; Id., Once to Sinai. The Further Pilgrimage of Friar Felix Fabri, London 1957.
96. F. Fabri Evagatorium: "Sciendum [est> quod septem faciant fundationem illius urbis celebrem: I) quia non est fundata in terra, sicut aliae mundi civitates sed in mari; II) non est aedificata a tyrannis, sicut Ninive, Babylonia, sed a tyrannide fugientibus; III) non est aedificata a latronibus, raptoribus, ignobilibus, rusticis, pastoribus, sicut Roma, sed a divitibus, dominis honestis et nobilibus Venetorum; IV) non est constructa a paganis et idolatris, sicut Troja, Athenae, sed a Christianis et Crucifixi cultoribus; V) non est aedificata communibus lapidibus vel lignis, sicut Ulma, Augusta et Costantia, sed lapidibus in Troja nobilitatis [...>; VI) non habet murum, sicut aliae civitates, communem, sed qualibet domus est quasi castrum, ex qua resistentia adversariis fieri potest, et idcirco est inexpugnabilis, tot munitionibus protecta; portum habet mirabilem, quem nulla externa classis ingredi potest, nec formidat alicuius hostis incursum".
97. Ibid.: "Nullus princeps Alemannie posset talem structuram exsolvere".
98. Ibid.: "[...> praetiosissimam, auro ab intus vestitam, quae anno praeterito exusta fuit usque ad fundamenta, nunc autem omnia de mari ex integro nova resuscitant cum solidissimis fundamentis".
99. Canon Pietro Casola's Pilgrimage to Jerusalem in the ϒear 1494, a cura di Mary M. Newett, Manchester 1907, pp. 24 ss., 124-145.
100. The Pilgrimage of Arnold von Harff, pp. 60-68.
101. Per uno sguardo metodologico sull'utilizzazione di questo genere di testi, ricco di numerosi esempi, si rimanda alle pubblicazioni del Centro Internazionale di Ricerca sui Viaggiatori in Italia diretto da Émile Kanceff. I testi dei pellegrini costituiscono tuttavia un caso particolare, che richiede un approccio più complesso: cf. Margherita Azzi Visentini, Le testimonianze dei viaggiatori, in Architettura e Utopia nella Venezia del Cinquecento (Catalogo della mostra, Venezia, Palazzo Ducale luglio-ottobre 1980), a cura di Lionello Puppi, Venezia 1980, pp. 71 ss. (pp. 71-79).
102. Si v. al proposito R. Frolow, La relique de la vrai Croix [...>, Paris 1961, pp. 563 ss., e Carlo Ginzburg, Indagini su Piero. Il Battesimo, il ciclo di Arezzo, la Flagellazione di Urbino, Torino 1981, pp. 36-38.
103. The Pilgrimage of Arnold von Harff, pp. 60-68.
104. Le voyage de Terre sainte composé par maître Denis Possot et achevé par messire Charles Philippe [...> de Champarmay, a cura di Charles Scheffer, Paris 1890, pp. 73-107.
105. Werner Rolewinck, Fasciculus Temporum, Coloniae 1479; Jacobus Philippus Forestus, Supplementum Chronicarum [...>, Venetiis 1490; Hartmann Schedel, Chronicarum liber [...>, Nuremberge 1493. Cf. anche Giuliana Mazzi, La cartografia per il mito: le immagini di Venezia nel Cinquecento, in Architettura e Utopia nella Venezia del Cinquecento (Catalogo della mostra, Venezia, Palazzo Ducale luglio-ottobre 1980), a cura di Lionello Puppi, Venezia Ig8o, pp. 50 ss. (pp. 50-58).
106. Cf. Juergen Schulz, The Printed Plans and Panoramic Views of Venice (1486-1797), "Saggi e Memorie di Storia dell'Arte", 7, 1970, pp. 20 ss., 41 ss. (pp. 7-169); Massimo Quaini, L'Italia dei cartografi, in Storia d'Italia, VI, Atlante, a cura di Lucio Gambi - Giulio Bollati, Torino 1976, pp. 6-24; Lucio Gambi, La città da immagine simbolica a proiezione urbanistica. Introduzione, ibid., pp. 217-228.
107. Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 5282 A.
108. Si tratta di una veduta prospettica immaginaria, indicata da Lionello Puppi, alla c. 132 del manoscritto del Tolomeo segnato lat. 4802: cf. Lionello Puppi, "Rex sum justicie". Note per una storia metaforica del Palazzo dei dogi, in I dogi, a cura di Gino Benzoni, Milano 1982, p. 199 (pp. 183-224), nonché Id., Verso Gerusalemme, p. 70.
109. F. Farri Evagatorium, I, p. 329: "Eruditum virum [...> subtilissimum pictorem".
110. Augusto Gentili, Nuovi documenti e contesti per l'ultimo Carpaccio. II: I teleri per la Scuola di San Stefano a Venezia, "Artibus et Historiae", 9, 1988, nr. 18, pp. 82-83 (pp. 79-108).
111. Gentili menziona figure significative, come quelle in secondo piano a sinistra, dal profilo veneziano e dai lunghi capelli biondi sotto il berretto rosso.
112. L. Puppi, Rex sum justicie, p. 199: "E se la gran cupola tonda riduce alla sintesi di una unica emergenza - d'accordo con un procedimento che assume la mediazione di Santa Sofia, e Costantinopoli, alla costruzione del traslato gerosolimitano: come nell'incisione della Processione dogale in Piazzetta di Jost Amman - la situazione reale per alludere al Templum Salomonis, la sede dogale è assunta a rappresentare il Palatium, mentre le arcate sulla sinistra forse propongono il Porticus columnarum, e la torre con copertura a cono introduce nell'assemblaggio, complicato ma non equivocabile nelle sue implicazioni di celebrazione dei destini veneziani, un richiamo al Santo Sepolcro e, quindi, alla Redenzione".
113. Cf. Daniele, 7, 27; Amos, 9, 11; Atti degli apostoli, 1, 6; Apocalisse, 11, 15.
114. Sul Contarini si v. Alessandro Orsoni, Cronologia storica de' vescovi olivolensi, Venezia 1828, pp. 329 ss.; Josè Ruysschaert, Contarini, Antonio, in Dictionnaire d'histoire et de géographie ecclésiastiques, XIII, Paris 1956, p. 771.
115. Supplica del convento di San Salvador al doge e al consiglio dei dieci, 7 agosto 1507, cit. in Manfredo Tafuri, San Salvador: un tempio in visceribus urbis, in Id., Venezia e il Rinascimento. Religione, scienza, architettura, Torino 1985, p. 35.
116. La città, scriveva Felix Faber, aveva "pro pavimento mare, pro muro frectum, pro tecto caelum, pro stratis et regis viis [...> pelagi acquas" (cit. ibid., pp. 35-36).
117. V. al proposito Nicolò De Manerbi, Legendario, Venezia 1473.
118. M. Sanudo, De origine, situ et magistratibus urbis Venetae, p. 16.
119. Supplica del convento di San Salvador, già citata (v. supra, n. 115).
120. N. de Manerbi, Legendario, cc. 226-227 (cit. in Ennio Concina, Una fabbrica in mezo della città: la chiesa e il convento di San Salvador, in Progetto San Salvador, un restauro per l'innovazione, a cura di Fulvio Caputo, Venezia 1988, pp. 85-86 [pp. 73-154>): "[…> al divino oraculo ricevette la risposta che dovesse andare [...> a edificare la cità veneta, nella cui cità sarebono futuri li frequentissimi culti delli divini officii; la qual cosa dopo alquanto puoco tempo l'exito della cosa comprobo. Onde, orando el sanctissimo uomo come era de costume suo, essendo rapito in spirito, li apparve l'apostolo Pietro, dicendo: Al qual dixe Magno: Et egli a lui dixe: Dixeli Magno: Rispose l'apostolo: Et avendo egli dicto questo, etiam l'Angelo, parlandogli con tale parole dixe: Dixeli Magno: Risposeli: Dixe egli: Al quale rispose: A la qual avendo posto cura Magno, quella parte della cità è appellata Dorsoduro. Etiam a questo beatissimo uomo fundatore della christiana religione apparve lesu Christo, figliolo de Maria Virgine, el quale li dixe essere el Salvatore del mondo, el quale etiam comando che li fusse facto el tempio in mezo della cità, dove si ritrovarebbe la nebula rubea. Lo quale tempio insino al di d'ogi videmolo ridrizato in esso proprio luoco. Etiam apparve al prefato vescovo la Virgine Madre gloriosa Maria, portando dopo di sé uno maximo adornamento, et con tale parole li parlo, la quale comando a sé essere facto el tempio dove voderebe in le lacune una candida nebia: Comanda essere el nome della casa de Maria Formosa, per lo quale essa chiesa rectissimamente ricevette el nome de Formosa. Certe molto formosa, unica speranza di christiani, Virgine Gloriosa Madre de Misericordia apparve a Magno, adcioché etiam per quel tempio apparesse essere appellata Maria Formosa. Et etiam chiedette el beato Ioanne Baptista che a sé e al padre suo Zacharia dovesse fare fabricare i templi. Et consegnati li luochi, a uno puose il nome del padre, e l'altro puose il nome del figliolo. El qual luoco dal vulgo soleva esser appellato Bragora. Et etiam la beata Iustina virgine, circundata de una nube, pregollo fusse a lei facto uno tale tempio in uno luoco dove li dimostrarebbe la vite producente di novi fructi. Nel cui loco infine al presente è esso tempio. Ultimamente, al comandamento de li dodece apostoli et con singulare deprecatione, egli in quel luoco facesse fabricare el tempio, dove el sanctissimo Magno ritrovarebbe dodece grue a laude loro. Lo quale tempio insino al di d'ogi è in piedi e giamai non è stato mutato. Onde, dopo che 'l sanctissimo Magno percepette con la mente tale cose fece a sé compagni li principi, tribuni et preclari uomeni. Li quali, accesi per molto ardore dal Vescovo per cagione della devozione sua, circundando optimamente a parte l'insule et lacune, retrovate tutte le cose da Dio revelate, con summo gaudio et immensa letizia referirono laude a Dio et finalmente, non dopo longo tempo, fabricorono le predicte chiesie. Per la qual cosa si dimostra manifestamente da Dio essere fabricata la cità veneta".
121. M. Sanudo, De origine, situ et magistratibus urbis Venetae, p. 16. Cf. anche N. de Manerbi, Legendario.
122. Cf. M. Tafuri, San Salvador, p. 33.
123. Marino Sanuto, I diarii, LIII, a cura di Guglielmo Berchet - Nicolò Barozzi - Marco Allegri, Venezia 1899, col. 72.
124. Flaminio Corner, Ecclesiae venetae antiquis monumentis, II, Venetiis 1749, p. 244, potrà ancora scrivere: "Itaque Ve. Viro Magno Episcopo dum ipse Venetias degeret, quo eum Divini Spiritus illustratio evocaverat, quadam die [ut traditur> ferventius oranti Salvator humani generis conspiciendum se dedit: praecepitque, ut in ipsius Urbis medio, ubi purpuream nubem conspexisset, cibi Templum aedificari curaret".
125. Cf. Rolandini Patavini Cronica, a cura di Antonio Bonardi, in R.I.S.2, VIII, 1, 1905-1908; Gio. Antonio Gasparini, La vita ovvero memorie dell'opere mirabili di S. Magno nobile di Altino e Vescovo di Eraclea, Venezia 1736.
126. Si v. in particolare Innocenzo Cervelli, Machiavelli e la crisi dello stato veneziano, Napoli 1974. 127. Ibid., p. 15.
128. Un anonimo del secolo XIII citato da F. Corner, Ecclesiae venetae, II, p. 244, così scriveva: "Tabernarii fecerunt Ecclesiam ad honorem Domini et Salvatoris: in gratis ferreis pavimentum fecerunt: sumptus autem meatum acquae rigantur, in ea forma sicut in Hyerosolimis ad Domini tumulum ibique Ecclesia facta videtur".
129. Ibid., p. 249.
130. Ibid., pp. 249-250: "Monasterio per annos duos cum dimidio optime administrato, Martinus [Venerio> ad meliorem vitam assumitur anno 1182 die duodecima Novemb. Canonicse regimen suscepit Gregorius Floravanti, supralaudati Viviani nepos Juris Pontificii Doctor, qui Templum angustum et incendio pene combustum, in ampliorem, ornatioremque formam a fundamentis sollicita cura renovari curavit. Id validus citiusque ut praestaret, ex Gregorii VIII sibi concessa authoritate, oeconomum ordinavit, qui Monasterii, et Ecclesiae negotia utiliter administraret [...>. Erecto Templo ac turri campanaria perfecta, ipsaque Congregatione multis praedis adaucta, benemeritus Prior ex hac luce migravit anno Domini 1209, mense Decembris".
131. Cf. E. Concina, Una fabbrica in mezo della città.
132. Cf. M. Tafuri, San Salvador.
133. L. Puppi, Verso Gerusalemme, p. 64.
134. Cf. Loredana Olivato Puppi - Lionello Puppi, Mauro Codussi, Milano 1977.
135. Cf. L. Puppi, Verso Gerusalemme, p. 65.
136. Seguiamo qui le molteplici suggestioni iconografiche di Alessandra Ottieri, Laguna di Venezia, mare di Galilea: La vocazione dei figli di Zebedeo di Marco Basaiti, "Artibus et Historiae", 9, 1984, pp. 77-89. La sala capitolare era detta anche cappella Morosini e aveva al centro una tomba. Questa la descrizione dell'interno di Sant'Andrea fatta da Ermolao Paoletti, Il fiore di Venezia, ossia i quadri, i monumenti, le vedute ed i costumi veneziani, I-IV, Venezia 1837-1840: "[...> chi poi osservava l'altra metà posteriore dell'intermezzo muro trovava prima il coro de' monaci e nel mezzo il sepolcro di Girolamo Morosini (grande protettore mostrossi specialmente di questo monastero della Certosa, compì il coro e l'abside incominciati dal padre suo, e nel mezzo del coro stabilì la propria tomba, nella quale volle esser interrato co' suoi discendenti), indi la cappella maggiore, opera sontuosa della pietà di un Marco Morosini, nella quale vedesi la celebre tavola di Marco Basaiti". Le affermazioni di Paoletti, come ha notato John McAndrew, Sant'Andrea alla Certosa, "The Art Bulletin", 51, 1962, pp. 15-28, si fondavano molto probabilmente su un equivoco. Il legato ordinato da Marco Morosini nel suo testamento del 1493 per il completamento di un coro e di una abside concerneva infatti la cappella intitolata alla famiglia ma non il coro e l'abside effettivi della chiesa.
137. Figura di imponente rilievo religioso e sociale, Antonio Surian - nato a Venezia nel 1450 da famiglia patrizia - lasciò il segno della propria personalità sull'insieme dei lavori presso il monastero dei Certosini e, anzi, ne fu con ogni probabilità il committente; di sicuro fu lui l'artefice della scelta del soggetto del quadro di Basaiti. Sanudo riferisce sugli incarichi che Surian assolse per conto del suo ordine quale visitatore delle certose di Francia e di Germania, ma pure il governo serenissimo, ben conscio del prestigio che lo circondava, fece ricorso ai suoi servigi in qualità di informatore segreto nel corso della crisi politica di fine secolo. Nel 1504 Surian fu eletto patriarca: la solenne cerimonia dell'investitura, durante la quale Gianfrancesco Filomusio tenne un discorso celebrativo in latino incentrato sulla vita solitaria dell'eremo, ebbe luogo alla presenza del senato al completo e delle più alte magistrature della Repubblica. È stato tuttavia sottolineato come anche in queste circostanze Surian manifestasse una certa qual reticenza verso le funzioni del suo nuovo ruolo, e del resto già aveva provveduto a consegnare la propria visione dell'esistenza e del contributo di quanti esercitano il sacerdozio nel mondo laico a tre scritti ascetici redatti intorno al 1502; probabilmente mai date alle stampe, tali opere, che avrebbero certamente contribuito a una migliore valutazione dei temi ascetici dibattuti in quegli anni, vanno nondimeno assunte nel quadro di una letteratura, peraltro ben nota e dovuta a patriarchi e a monaci contemporanei, che ci consente di ricostruire il contesto storico e religioso in cui venne eseguita La vocazione dei figli di Zebedeo.
138. L'episodio della vocazione di Giacomo e di Giovanni, figli di Zebedeo, si trova nel Vangelo di Marco (1, 19-20), che a differenza di Matteo, 4, 21-22, e Luca, 5, 10-11, menziona la presenza di taluni garzoni a bordo della barca di Zebedeo, uno dei quali, visto di schiena, è rappresentato nel dipinto.
139. Cf. Eugenio Massa, I manoscritti originali del Beato Paolo Giustiniani custoditi nell'Eremo di Frascati, Roma 1967, p. 62.
140. Secondo san Gerolamo, il nome di Galilea significa trasmigrazione.
141. Un altro esempio di gabbia come emblema di vita monastica è nell'Annunciazione di Carlo Crivelli (1486), oggi presso la National Gallery di Londra. Per la precisione, vi compaiono due gabbie, l'una in alto a sinistra, accanto a due monaci, l'altra al centro, sormontante la Vergine; quest'ultima, come sembra certificare l'angelo dell'Annunciazione del Trittico di Camerino (sempre di Crivelli), esso pure sormontato da una gabbia, potrebbe suggerire l'ipotesi di una connotazione mariana che meriterebbe di per sé uno studio specifico.
142. Commentando il Vangelo di Matteo, e in particolare il versetto "Venite post me, et faciam vos fieri piscatores hominum", san Gerolamo metteva espressamente l'accento sull'origine dei primi apostoli.
143. Cf. Ennio Concina - Ugo Camerino - Donatella Calabi, La Città degli Ebrei, Venezia 1991.
144. Cf. Abraham Melamed, The Myth of Venice in Italian Renaissance Thought, in Italia Judaica. Gli ebrei in Italia dalla segregazione alla prima emancipazione (Atti del I congresso internazionale, Bari 1981), Roma 1983, pp. 401-413.
145. Si v. in merito Marino Sanuto, I diarii, XX, a cura di Federico Stefani - Guglielmo Berchet - Nicolò Barozzi, Venezia 1887, coll. 65-66; Bartolomeo Cecchetti, La Republica di Venezia e la Corte di Roma nei rapporti della religione, II, Venezia 1874, pp. 349-350; Alvise Zorzi, La vita quotidiana a Venezia nel secolo di Tiziano, Milano 1990, pp. 129, 188, 261, 268-269, 281, 283, 300.
146. Francesco Sansovino, Delle cose notabili che sono in Venetia, libri due, Venetia 1565, c. 13v.
147. E. Concina - U. Camerino - D. Calabi, La città degli Ebrei, pp. 38-39.
148. Girolamo Priuli, I diarii, in R.I.S.2, XXIV, 3, vol. I, a cura di Arturo Segre, 1912, p. 137.
149. Cf. Michelangelo Muraro - David Rosand, Tiziano e la silografia veneziana del Cinquecento (Catalogo della mostra, Venezia, Fondazione Giorgio Cini, 1976), Vicenza 1976, e soprattutto Loredana Olivato, La Submersione di Pharaone, in Tiziano e Venezia (Atti del convegno internazionale di studi, Venezia, Fondazione Giorgio Cini, 1976), Vicenza 1979, pp. 529-537, della cui eccellente disamina della xilografia tizianesca seguiremo qui le indicazioni.
150. Stando almeno a Terisio Pignatti, Il Passaggio del Mar Rosso di Tiziano Vecellio, Vicenza 1973.
151. L. Olivato, La Submersione di Pharaone.
152. L'esercito egiziano lanciato all'inseguimento del popolo d'Israele nel varco apertosi miracolosamente nelle acque del mar Rosso per lasciar passare i fuggitivi viene sommerso dal turbine dei flutti che si richiudono su di esso.
153. Non è il caso, in questa sede, di andare alla ricerca di eventuali elementi magico-ermetici, forse compresi nella figura di Mosè, né di un rapporto con la prisca philosophia, le cui origini e i cui primi sviluppi, come si ricorderà, si collocano appunto nell'antico Egitto. Resta comunque la tradizionale e ben nota identificazione fra Mosè ed Ermete Trismegisto, certo non ignorata da Tiziano stanti i suoi contatti con Francesco Giorgi e ancor più con Giulio Camillo Delminio, il più autorevole filosofo ermetico ed esperto di mnemotecnica della Venezia cinquecentesca, del quale si conoscono le relazioni con Sebastiano Serlio, Pietro Aretino, Ludovico Dolce, oltre che, ovviamente, con Tiziano.
154. "Non he veramente possibelle descrivere la grande et svisserata demonstratione quale facevano li contadini, zoè li vilani de tutti li territorii, che heranno statti sotto il dominio veneto [...> et haveanno scolpitto il nome veneto nel chore et parati de patire mile morte, se tante potessero patire, per la Republica Veneta, né altro haveanno in bocha salvo ῾Marco, Marco', et veramente che l'hera chossa incredibelle, né sapeva judicarlo" (Marino Sanuto, I diarii, VIII, a cura di Nicolò Barozzi, Venezia 1882, coll. 476, 492).
155. I. Cervelli, Machiavelli e la crisi dello stato veneziano, pp. 347 ss. Su Merlini, ibid., pp. 143, 163, 172-173, 187-189.
156. "Et cum veritade non posso dechiarire et descrivere questa affestione di questi viliani verso il Stato Veneto [...> et in memoria loro mi ha parso il debitto mio de volerne fare nota di questa cossa in perpetua memoria et a ricordo deli posteri nostri [...> Et il Principe, senatori nobelli, citadini et populari dela citade veneta doveriano in perpetuum non tanto loro, quanto li sui heredi essere obligatti et tenutti a questi contadini et sempre in ogni loro ocurentia et bisogno prestarli ogni adiucto et favore, considerando masime che, essendo cum verità la citade veneta ruinata et perduto lo Stato loro terrestre fino alle ripe salse, questi vilani cum il favor suo et cum il sangue loro l'hanno recuperato in bona parte" (G. Priuli, I diarii, p. 137).
157. Cf. Lionello Puppi, Tiziano tra Padova e Vicenza, in Tiziano e Venezia (Atti del convegno internazionale di studi, Venezia, Fondazione Giorgio Cini, 1976), Vicenza 1979, pp. 545-558.
158. "Etiam la gente francese et il loro esercito hera malissimo apto et espertto in lo exercittio maritimo, et maxime in chanali, paludi et chanedi, che quelli che heranno stati anni 25 in simel paludi et chanedi, anchora haveanno la praticha di queli, né sapevano molte volte venir a Venetia, che rimanevano in secho. Quanto magis li inexperti Francexi deli canali et paludi et veline venete d'intorno la citade, che sarianno anegati et morti gran parte de loro, avanti se fusseno achostatti alla citade! E invocava: [...> doverianno desiderare [i Veneziani> cum tuto il chorre et affectione loro che questo grande et potente Roy de Franza dovesse venire alo asedio del citade; circhundato dale acque et in tanta forteza constituita, che hera quasi impossibelle a poterla prendere, et che questo grande Roy cum la sua potentia et lo suo exercito et forze saria necessario et astrecto ritornare indietro cum jactura et vergogna assai, et che potrianno ettiam fare vendecta dele tiranie et jniuria ricepute da Francexi, et haverianno lassato il nome veneto in perpetua memoria" (G. Priuli, I diarii, p. 137).
159. Si v., oltre a I. Cervelli, Machiavelli e la crisi dello stato veneziano, F. Gilbert, Venice and the Crisis of the League of Cambrai, pp. 274-292, e Gaetano Cozzi, Domenico Morosini e il "De bene instituta re publica", "Studi Veneziani", 12, 1970, pp. 405-458.
160. Cf. Achille Olivieri, Dio e Fortuna nelle Lettere storiche di Luigi da Porto, "Studi Veneziani", 13, 1971, pp. 253-273.
161. L'incendio dell'Arsenale durante il mese di maggio del 1509, in primo luogo, seguito in ordine sparso dalla comparsa di comete nel cielo, da nascite mostruose, dall'entrata di lupi entro il perimetro cittadino, da bagliori folgoranti, da scosse sismiche violente che aprivano fenditure nelle montagne e, soprattutto, dall'inquietante e grottesca presenza di un uomo vestito di due pelli d'orso a ricoprirne le spalle curve e il petto villoso che, in termini intenzionalmente e sinistramente ambigui, andava parlando di propositi di guerra davanti alla residenza di Bartolomeo d'Alviano, casa Corner, in quartier de San Benedetto. "Onde temo [scriveva da Porto> di qualche influsso di stelle, invidioso di cosi lunga quiete, e della immensa letizia che in essa [Venezia> si vede": cf. A. Olivieri, Dio e Fortuna.
162. Non si tratta necessariamente dell'imperatore, ma forse del re di Francia.
163. Si v. in merito André Chastel, Un épisode de la symbolique urbaine au XVème siècle, in AA.VV., Mélanges Lavedan, Paris 1954.
164. Cf. F. Gilbert, Venice and the Crisis of the League of Cambrai.
165. "E confessa lui Principe fu di primi che disfò la lanziera a San Canzian in la soa casa per meter la tavola di la soa festa" (Marino Sanuto, I diarii, XIII, a cura di Federico Stefani - Guglielmo Berchet - Nicolò Barozzi, Venezia 1886, col. 246).
166. Cf. il numero di "Quaderni degli Uffizi" pubblicato in occasione del restauro del dipinto.
167. Si v. al riguardo il catalogo della mostra su Savoldo, Brescia 1990.
168. Rimandiamo agli Atti del Convegno di studi su Giangiorgio Trissino, Vicenza 1980.
169. Oratione fatta nella creatione al principato del Serenissimo Francesco Veniero Principe di Vineggia del Masenetti Padovano, Padova 1544, cit. in Francesco Sansovino, Delle orationi recitate a Principi di Venetia nella loro creatione da gli Ambasciadori di diverse città libro primo, Venetia 1562, pp. 45-55: Oratione del Masenetti Padovano al Principe Veniero.
170. V. ad esempio Jean Bodin, Methodus ad facilem historiarum cognitionem nell'edizione parigina del 1566.
171. Uno degli elementi più importanti per il discorso che andiamo conducendo è incontestabilmente il concetto di "giustizia armonica", sovente enunciato in termini musicologici - si pensi al processo di trasposizione in musica di tematiche mitiche studiato per Venezia da Ellen Rosand (cf. l'articolo già citato Music in the Myth of Venice, tradotto in Renovatio urbis, pp. 167-186), giacché la Giustizia era ritenuta implicare un ordine o una organizzazione gerarchica analoghi a quelli dell'armonia musicale. E d'altronde, come si sa, Platone stesso affermava che è la substruttura matematica a fare di ciò che è giusto l'equivalente dell'armonia nella musica. Il parallelo fra funzionamento strutturale del mito e della musica instaurato sul piano metodologico da Lévi-Strauss trova dunque qui il proprio naturale campo di applicazione, ogni volta che nell'ambito veneziano compare una tematica forte, pertinente e pienamente operativa.
172. "[...> città ricca d'oro ma più di nominanza, potente di forze ma più di virtù, sopra solidi marmi fondata ma sopra più solide basi di civile concordia ferma e immobile, e, meglio che dal mare ond'è cinta, dalla prudente sapienza de' figli suoi munita e fatta sicura" (Francesco Petrarca, Le Senili, a cura di Guido Martellotti, Torino 1976, IV, 3, 682: pp. 51, 53).
173. Ibid., p. 51.
174. Una composizione che assai felicemente Saxl definiva la più significativa di tutta l'Italia settentrionale, il soggetto meglio rispondente alle ambizioni politiche del momento. Sempre più deciso a trarre la città dal dorato isolamento di un nazionalismo fattosi ormai tradizione, Petrarca - con i suoi amici letterati - auspicava un maggiore inserimento veneziano nel più vasto contesto della penisola.
175. Se ciò si fosse realizzato, scrisse al cancellier grande Benintendi de' Ravagnani il 28 agosto 1363, sarebbe andato a maggior gloria del cancelliere stesso, dei suoi discendenti e della Repubblica.
176. Le Senili, VII, lettera del 29 giugno 1366.
177. "Compiute queste dimostrazioni di religiosa pietà, tutti gli animi si volsero a giuochi e a spettacoli. E troppo sarebbe lungo il noverare singolarmente le varie specie di questi giuochi, le forme, il dispendio, la solennità e l'ordine in essi tenuto. Rara cosa peraltro, di ricordo e di ammirazione degnissima, si è che in tanto concorso di genti nessun tumulto, nessun disordine, nessuna rissa avesse luogo e altro per ogni dove non si vedesse che gioia, cortesia, concordia e amore. Regnar si parve nella città la magnificenza e il fasto, ma non per questo ne andarono in bando la moderazione e la sobrietà, le quali anzii avresti detto aver diviso con quelli l'impero, moderarne il governo e reggerne il freno" (ibid., IV, 3: pp. 55, 57).
178. Ibid., IV, A: pp. 694-696.
179. Un piccolo aneddoto vale a rischiarare la genesi delle formulazioni petrarchesche. Durante la notte del 9 aprile 1363, nel mentre il poeta si apprestava a iniziare una missiva per Francesco Bruni, udì improvvisamente delle grida di marinai: dal punto più alto della casa, vide sul mare in tempesta sotto il cielo notturno uno dei due grandi vascelli da parecchio tempo ormeggiati in porto prendere lentamente il largo, a dispetto del fortunale, alla volta dell'Oriente lontano. Il procedere lento ma risoluto della nave incurante del cattivo tempo, i marinai che rischiavano la vita per guadagnarsi il pane, quello slancio insieme sentimentale e metaforico si arricchirono dunque largamente, nella pagina di Petrarca, di considerazioni morali. Cf. ibid., II, 3.
180. Se le cronache fanno menzione di Filippo Calendario come architetto e scultore del Palazzo, in compenso non dicono nulla sull'autore del programma iconografico qui sviluppato. Quanto alla datazione del rilievo con Venecia, non è evidente: uno studio recente assegna l'opera a una cronologia anteriore al 1365, anno della morte di Calendario cui la attribuisce, ma altri lavori critici la situano assai più tardi, intorno al 1420.
181. Analizzata, tal ricchezza, da Ernst H. Kantorowicz, I due corpi del Re. L'idea di regalità nella teologia politica medievale, Torino 1989, da Frances A. Yates, Astrea. L'idea di Impero nel Cinquecento, Torino 1978, e da Jean Seznec, La sopravvivenza degli antichi dei, Torino 19902. A proposito della Vergine di Giustizia, Ovidio nel primo libro delle Metamorfosi attingeva a fonti greche, e in effetti la tradizione dell'età dell'oro, suggerita da Esiodo nelle Opere e i Giorni, fu sviluppata dal poeta e astronomo greco Arato nel passo dei Fenomeni in cui si tratta della costellazione che dà il nome al sesto segno dello Zodiaco. Spiegava Arato che, dopo aver lasciato il mondo durante l'età del ferro, la Vergine Giustizia ascese alla propria celeste dimora sotto forma di costellazione, Virgo: risplende ora nel cielo la vergine giusta e tiene in mano una spiga di grano, attributo - Virgo spicifera - ripreso e ripetuto dai traduttori ed epigoni latini di Arato, e d'altronde la tradizionale raffigurazione della costellazione è appunto quella di una donna alata recante una spiga, ché quest'ultima segna la posizione di Spica, stella particolarmente brillante della costellazione medesima. Il poema astronomico di Arato ebbe, come già accennato, numerosi traduttori e imitatori nel mondo romano: fra gli altri, Cicerone, Germanico e Festo Avieno lo volsero in latino, mentre l'Astronomia poetica di Igino l'Astronomo ne denuncia l'influenza. Uno scolio di Germanico ai Fenomeni di Arato cita una versione del mito della Vergine Astrea, ad opera di Nigidio Figulo, che sembra aver incontrato particolare favore nel Rinascimento: essa riassume la storia della dipartita dal mondo della vergine giusta e afferma che il posto assegnatole nei cieli fu la ricompensa per la sua pietà. Arato e successivamente i suoi commentatori discutevano delle diverse genealogie e dei mutevoli aspetti di Virgo-Astrea, la cui ascendenza resta poco chiara: taluni la volevano figlia di Zeus e di Temi, altri di Astreo e di Aurora, e altri ancora vedevano in lei Erigone, figlia di Icaro, la vergine pia guidata dal suo cane fino al cadavere del padre. Come che sia, la figura di Astrea presenta svariate affinità con altre dee: la spiga adombrerebbe una identificazione con Cerere, ma qualcosa Virgo-Astrea possiede anche di Iside, suggestione più tardi seguita da Marziano Capella nel De nuptiis Mercurii et Philologiae. Tuttavia la divinità femminile alla quale somiglia certamente di più è la siriana Atargatis, titolare di un culto cartaginese sotto il nome di Vergine Celeste, ricollegata a Urania e, come Iside, alla luna: dunque feconda e sterile di volta in volta, ordinata e rettilinea, ma anche portatrice di sfumature orientali di misticismo lunare.
182. Un bambino sarebbe nato - proseguiva il poeta -, evento che avrebbe segnato il declino della stirpe del ferro e il nuovo avvento di quella dell'oro. Un bimbo destinato a regnare sul mondo riconciliato, durante la cui vita le quattro età del ferro, degli eroi, del bronzo e dell'argento si sarebbero avvicendate fino a risalire all'età primigenia dell'oro. Possa venire al più presto questa creatura, pregava Virgilio, e ricevere gli onori sovrani che le sono dovuti, ché il mondo intero lo attende. Letta più tardi alla luce della storia immediatamente successiva, la quarta ecloga accreditò la posizione di Virgilio, ora veduto alla stregua di un profeta annunciante la missione imperiale di Roma.
183. Esiste tuttavia un altro versante interpretativo alla fama della quarta ecloga virgiliana. Si sa infatti che questo canto in onore dell'età dell'oro imperiale fu trasposto dai cristiani in termini di profezia messianica: il bambino salvifico sarebbe allora il Cristo, nato sotto Augusto, il cui regno spirituale debellerà la genia peccatrice dell'età del ferro, schiudendosi allora il mondo all'età dell'oro, della pietà e della giustizia cristiane.
184. Così Lattanzio, Divinae institutiones, V, 7: "Rediit ergo species illius aurei temporis, et reddita quidem terrae, sed assignata paucis iustitia est: quae nihil aliud est, quam dei unici pia et religiosa cultura". La religione cristiana è l'età dell'oro, ma essa è nota a pochi soltanto, a coloro che testimoniano la devota e profonda adorazione dell'unico Dio. Ma la giustizia è già qui presente, e chi ad essa anela e ad essa si accompagna, accettando il Cristo nella propria anima, conoscerà allora l'età aurea: "Estote aequi, ac boni, et sequetur vos sua sponte iustitia, quam quaeritis. Deponite omnem malam cogitationem de cordibus vestris, et statim vobis illud tempus aureum revertetur: quod aliter consequi non potestis, quam si verum deum colere coeperitis" (ibid., V, 8). Come si vede, Lattanzio metteva in relazione l'età dell'oro e il mito della vergine giusta con la pietà cristiana in generale; il poeta - affermava - ci insegna che la giustizia regnò in terra durante l'età dell'oro di Saturno, ma dalla terra dovette poi ritirarsi: questa non è finzione poetica bensì verità, ché durante l'età aurea Dio era manifestamente adorato e gli uomini amavano vivere in semplicità, "ed è questa la caratteristica della nostra religione". Fu in seguito, nelle età successive, che la pietà diminuì al segno che la vergine giusta dovette abbandonare il mondo.
185. Ricordiamo inoltre l'utilizzazione dell'immagine della Vergine di Giustizia da parte di Cola di Rienzo, nell'attesa di una renovatio urbis romana.
186. Cf. August Buck, "Laus Venetiae" und Politile im 16. Jahrhundert, "Archiv für Kulturgeschichte ", 57, 1975, nr. 1, pp. 186-194.
187. Francesco Sansovino, Delle cose notabili, libro II, Venezia 1583, p. 57.
188. Il brano è in Giambattista Lorenzi, Monumenti per servire alla storia del Palazzo Ducale di Venezia, Venezia 1866, nr. 880, p. 449. Si v. altresì Sandro Sponza, Le allegorie del Tintoretto nella sala dell'Anticollegio, "Quaderni della Sovraintendenza", nr. 8, Venezia 1979.
189. V. la recente edizione per i tipi dell'editore Filippi, Venezia 1994.
190. "Nel salotto dorato posto nella cima delle scale, che guidano al Collegio, dipinse in quattro quadri di mezana grandezza soggetti adequati al ministerio di quella Republica. Contiene il primo Vulcano con i Ciclopi, che vicendevolmente percotendo il ferro sopra della incudine tentano ridurlo ad una perfetta forma, inferendo l'unione de' Senatori Venetiani nell'amministratione della Republica; ò l'armature varie, che si veggono tratte per terra, accennano gl'apparati, che si fanno da quel Dominio delle cose militari, poiché l'armi servono di ornamento alle Città, & rendono terrore a nemici. Nel secondo sonovi le Gratie accompagnate da Mercurio; l'Una è appoggiata ad un dado, poiche le gratie si corrispondono gl'uffici. L'altre due tengoni il mirto e la rosa sacrata all'amorosa Dea, che sono simboli di perpetuo amore, si veggono accompagnate da Mercurio, perché le Gratie si devono concedere con ragione come vengono conferite da quel Senato verso i benemeriti suoi. Il Prencipe riconoscitore della Virtù e de' prestati servigi si appressa à Dio, che non lascia alcun bene non guiderdonato. Nel terzo Marte vien cacciato da Minerva, mentre la Pace, & l'Abbondanza insieme festeggiano. Minerva è qui intesa per la sapienza di quella Republica nel tenere le guerre lontane dallo stato, da che ne nasce la felicità dei sudditi, & ne cagiona l'amore verso il Prencipe. Nel quarto vedesi Arianna, ritrovata da Bacco sul lido, coronata da Venere d'aurea corona, dichiarandola libera, & aggregandola al numero delle celesti immagini, che vuol dinotare Venetia nata in una spiaggia di mare resa abondevole non solo d'ogni bene terreno, mediante la celeste gratia, ma coronata con corona di libertà dalla divina mano il cui dominio è registrato a caratteri eterni nel Cielo, e sono così nobili l'idee, & così delicati i corpi di quelle Deità, che ritengono certo che di spirate divinità, che soavemente fa rapina de' cuori; e se giammai si verificò, che la Natura fosse vinta dall'Arte qui senza dubbio ella cesse all'emula sua Pittura la palma, e due de' detti componimenti si veggono in stampa dal Carraccio mentovato".
191. "HIERONIMUS PRIOLO / DUX IUSTITIAE PRUDENTIAE LEGUM / VINDEX TUTOR URBEM / IDEM SPECIMEN TEMPLIS / EXORNATIV AUCTAVIT PACEM ITALIAE CONFIRMAVIT / REMP.SARTAM TECTAM / AB OMNI PERICULO SERVAVIT / FRATERNAE VIRTUTIS EMULUS".
192. Barbara Mazza, Un tassello del "mito" di Venezia. Due cinquecentine di Francesco de' Alegris, "Antichità viva", XVII, 1978, nrr. 4-5, pp. 53-57.
193. "Gloriare ti poi di Patavia, degna / Essere posta sotto tua bandiera / Con quel bel Studio che tanti si adegna / Vedi tanti doctori a schiera a schiera / Magnificare la tua grande insegna".
194. "Molte isole e citate ti fa honore / Come sia Cipro gran regno in sta carta / Del qual sei incoronata per amore"; "O quanto splende el glorioso palazzo / dove dimora lo tuo excelso duce / Risplende tanto quel si nobel stazo / Ben historiato tutto si conduce / Par vive lor figure che un solazo / O quanta fama quello si traduce".
195. "[...> un palazzo tanto sontuoso / Fatto di pietre vive e molte storie, / [...> nelle quali si vede la memoria / del savio Salomon colla Giustizia".
196. Libro primo dei Re, 10, 18-19: "Il re Salomone costruì ancora un gran trono d'avorio, e lo rivestì d'oro puro. Il trono aveva sei gradini, delle teste di toro alla spalliera, due bracci, uno di qua e uno di là, ai lati della sedia; un leone stava accanto a ciascuno dei due bracci; dodici leoni stavano sopra i gradini, sei da una parte e sei dall'altra. Non fu mai costruito un sì magnifico trono in nessun altro regno".
197. Ibid., 7, 6-8: "Fece [Salomone> il vestibolo delle colonne [nel Tempio>, lungo cinquanta cubiti e largo trenta, con un piccolo porticato davanti [...>. Costruì pure il portico del trono, dove giudicava le cause [...>. La sua reggia, dove abitava, fu costruita nello stesso modo in un secondo cortile, dopo il portico".
198. Ibid., 7, 15-22: "Fuse [Salomone> due colonne di bronzo, ognuna delle quali misurava diciotto cubiti d'altezza e dodici di circonferenza. Lo spessore di ciascuna era di quattro dita; dentro erano vuote. Fece pure due capitelli di bronzo fuso da collocare sulla sommità delle due colonne [...>. Sui capitelli, posti sulle colonne, vi fu aggiunto un lavoro in forma di giglio: questa sovrastruttura misurava quattro cubiti. Salomone fece poi innalzare le due colonne davanti al vestibolo del Tempio: eresse la colonna di destra e le diede il nome di Iachin [῾Stabilità'>; elevò quindi quella di sinistra e la chiamò Boaz [῾Forza'>; nomi augurali, Iachin e Boaz, della durata del tempio. Poi sulla sommità delle due colonne sistemò quel lavoro fatto a giglio. E così fu compiuta l'opera delle due colonne".
199. Vale sempre al riguardo l'analisi condotta da David Rosand, Titian's "Presentation of the Virgin in the Temple" and the Scuola della Carità, "Art Bulletin", 58, 1976, pp. 55-84.
200. Cf. la nostra comunicazione al convegno di Clermond Ferrand su Les Jésuites parmi les hommes.
201. Immagine pubblicata, ad esempio, nel Discorso di Sebastiano Erizzo sopra le medaglie degli antichi, Venezia 1568.
202. D. Rosand, Titian's "Presentation of the Virgin in the Temple", p. 73: "Un tipo diverso di espansione storica si manifesta tra le figure dei testimoni in basso, spettatori immediati dell'ascesa di Maria al Tempio piuttosto che della scena complessiva di cui essi stessi fanno parte".
203. Sapienza, 7, 27: "Sebbene sia unica può tutto, / pur rimanendo in se stessa, / rinnova ogni cosa / e attraverso le generazioni, / penetrando nelle anime sante, / prepara gli amici di Dio e i profeti".
204. D. Rosand, Titian's "Presentation of the Virgin in the Temple", p. 69: "I due grandi picchi, così come il fuoco prospettico della costruzione, vengono intenzionalmente riferiti alle figure di Anna e Gioacchino - che altrimenti risulterebbero quasi smarrite nella folla [...>. Data la loro distinta preminenza formale, [...> intrattengono con la Vergine relazioni alquanto precise: anch'esse elevate al di sopra della folla, il loro colore lontano modifica l'azzurro della veste di lei [...>. Come la luce del sole, quindi, le montagne parrebbero fornire il paragone naturale che dà la misura dello splendore eterno della Vergine".
205. Proverbi, 8, 22-25: "In Dio ero quale principio degli atti suoi, esistente prima ancor delle opere sue. Da tutta l'eternità io fui costituita, in principio, prima dell'origine della terra. Quando l'abisso ancor non esisteva, io fui concepita, quando ancor non zampillavan le fonti. Prima che sorgessero le maestose montagne, prima dei colli, io fui generata".
206. Ecclesiaste, 24, 9: "Prima dei secoli, nel principio mi ha creata e per sempre continuerò a sussistere".
207. Ufficialmente riconosciuta da papa Sisto IV circa mezzo secolo innanzi rispetto alla formulazione di Tiziano: 1476-1480.
208. D. Rosand, Titian's "Presentation of the Virgin in the Temple", p. 69: "Gli egittologi del Rinascimento conoscevano le antiche associazioni solari della piramide o dell'obelisco, e sapevano che queste erano le forme per mezzo delle quali gli egiziani imitavano i raggi del sole, da essi venerato. In quanto simbolo architettonico dell'irraggiamento solare, la piramide si erge a testimonianza dell'incarnazione della Sapienza divina nella remota antichità, e dunque della sua eternità".
209. Ecclesiaste, 24, 3-4.
210. Ibid., 24, 3-6, la Sapienza divina loda se stessa con le parole seguenti: "Uscii dalla bocca dell'Altissimo, / e come nube copersi la terra. / Posi la mia abitazione nei cieli / e il mio Trono era su una colonna di nubi. / Sola percorrevo la volta del cielo, / e passeggiavo nella profondità degli abissi. / Nelle onde del mare e su tutta la terra, / su ogni popolo / su ogni nazione presi dominio". Cf. D. Rosand, Titian's "Presentation of the Virgin in the Temple", p. 70: "Sul lato opposto del dipinto, la radiosità della Vergine comunica la sua finale incarnazione per la salvezza dell'umanità".
211. Si v. il contributo di David Rosand, Giorgione e il concetto della creazione artistica, in Giorgione (Atti del convegno internazionale di studio per il 5º centenario della nascita, 29-31 maggio 1978), Castelfranco Veneto 1979, pp. 135-139.
212. Marco Boschini, Le ricche miniere della pittura veneziana. Breve instruzione, Venezia 1674. Il tema della Prudenza dovette avere un forte significato per il circolo dei Vendramin e dei Contarini, prossimo a Bernardo Bembo e a Ermolao Barbaro ma pure ad Andrea Gritti e ad Aldo Manuzio, per essere emblematicamente raffigurato nella facciata di palazzo Vendramin a Santa Fosca; e la stessa immagine ricorre nella facciata di palazzo Trevisan-Cappello sul rio della Canonica.
213. I disegni del Fadiga sono presso Venezia, Museo Correr, inv. 7773. Si v. I tempi di Giorgione (Catalogo della mostra, Castelfranco Veneto, luglio-settembre 1978), Firenze 1978.
214. Così il de' Alegris: "Sopra una porta [...> una figura di donna rappresentante la Diligenza, e di sopra l'altra corrispondente, la Prudenza".
215. L'indicazione è desunta dall'atto di pagamento del 23 maggio: "[...> per la tenda di la tella facta per la Camera di la audientia nuova".
216. Giorgio Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, a cura di Carlo Ludovico Ragghianti, I-IV, Milano-Roma 1942-1949: II, pp. 39-40: "Segui in Venezia l'anno 1504 al ponte del Rialto un fuoco terribilissimo nel fondaco de' Tedeschi, il quale lo consumò tutto con le mercanzie e con grandissimo danno de' mercatanti, dove la signoria di Venezia ordinò di rifarlo di nuovo, e con maggior comodità di abituri e di magnificenza e d'ornamento e bellezza fu speditamente finito: dove essendo cresciuto la fama di Giorgione, fu consultato e ordinato da chi ne aveva la cura che Giorgione lo dipignesse in fresco di colori secondo la sua fantasia, perché e' mostrasse la virtù sua e che e' facesse un'opera eccellente, essendo ella nel più bel luogo e nella maggior vista di quella città. Per il che messovi mano Giorgione, non pensò se non a farvi figure a sua fantasia per mostrar l'arte; ché nel vero non si ritrova storie che abbino ordine o che rappresentino i fatti di nessuna persona segnalata o antica o moderna, ed io per me non l'ho mai intese, né anche per dimanda che si sia fatta ho trovato chi l'intenda; perché dove è una donna, dove è un uomo in varie attitudini; chi ha una testa di lione appresso, altra con un angelo a guisa di Cupido, né si giudica quel che si sia. V'è ben sopra la porta principale che riesce in Merzeria una femmina a sedere c'ha sotto una testa d'un gigante morta, quasi in forma d'una Iuditta che alza la testa con la spada e parla con un Tedesco quale è a basso, né ho potuto interpretare per quel che se l'abbia fatta, se già non l'avesse voluta fare per una Germania".
217. Stiamo parlando della decorazione plastica dei monumenti funebri Venier ai Santi Giovanni e Paolo e Fulgosio al Santo di Padova, cui va aggiunta quella del balcone meridionale della sala del maggior consiglio nel palazzo Ducale. Tuttavia in tutti questi casi la Giustizia è raffigurata insieme alle altre tre virtù cardinali, a istanza di uno schema decorativo molto diffuso a partire dal Trecento specie nella scultura funeraria, ma privo di rilievo in altri ambiti e pertanto avulso da significati o intenzioni particolari.
218. Giuditta, 13, 18: "E Ozia le disse: ῾Benedetta sii tu, o figlia, da Dio Altissimo più di tutte le donne della terra' ".
219. Ibid., 9, 2-3: "Signore, Dio di mio padre Simeone, cui armasti la mano di una spada per far giustizia di quegli stranieri, che avevano violato il seno di una vergine, per sua vergogna, e che avevano nudato la sua coscia, per suo disonore, e profanato il suo seno per suo oltraggio - mentre avevi detto: ῾Non sia mai così!'; eppure essi lo fecero. Ma per questo tu abbandonasti al massacro i loro principi".
220. Ibid., 9, 5: "Tu hai fatto il passato, il presente e l'avvenire; hai concepito il presente e l'avvenire, e quello che accade già lo avevi nella mente".
221. Cf. L. Puppi, "Rex sum justicie", pp. 188 e 192.
222. "Quae ratio fuerit inter principia generis humani conderet civitatem", asseriva Agostino.
223. Così Giuseppe Flavio nelle Antichità giudaiche: "Mutò la semplicità, ne la quale prima viveano gli huomini, trovando misure e pesi, et condusse la vita loro intiera, e per non cognoscer tali cose magnanime, e l'accortezza et corrotione. Pose egli primieramente su le terre i confini, e la città cinse di mura" (citiamo da Giosefo de l'antichità giudaiche tradotto in Italiano per M. Pietro Lauro Modonese, in Vinegia 1543).
224. S. Sinding-Larsen (con la collaborazione di A. Kuhn), Christ in the Council Hall, dove è svolta una analisi particolarmente pertinente della cappella di San Clemente. Si v. inoltre L. Puppi, "Rex sum justicie", p. 192.
225. S. Sinding-Larsen (con la collaborazione di A. Kuhn), Christ in the Council Hall, pp. 185-192.
226. Sant'Ambrogio, Ad Simplicianum, in Jacques-Paul Migne, Patrologiae cursus completus. Series latina, XVI, I-CCXXII, Parisiis 1841-1864: XVI, coll. 130 ss.
227. S. Sinding-Larsen (con la collaborazione di A. Kuhn), Christ in the Council Hall, p. 170.
228. Cf. Georges Didi-Huberman, Fra Angelico dissemblance et figuration, Paris 1990.
229. "Noe Christum significat, quem iudei deriventes / Ipsum corona spinea coronaverunt, et denudaverunt / et sicut infideles filii eum tamquam stultum subsannaverunt". Cf. Paul O. Kristeller, Biblia Pauperum, Berlin 1906.
230. Cf. Stefano Coltellacci, Studi belliniani: la "Derisione di Noè" di Besançon, in AA.VV., Giorgione e la cultura veneta tra '400 e'500 (Atti del convegno), Roma 1981, pp. 80-87.
231. De Civitate Dei, XVI, 1-2: "Cioè patio et rimase nudo pero che lui fu diminuto cioè apparve la sua infirmitade della quale dicie lo apostolo et see crucifixo per la infirmitade".
232. Cf. S. Coltellacci, Studi belliniani, e Id., "Oboedite praepositis vestris, et subiacete illis". Fonti letterarie e contesto storico della "Derisione di Noè" di Giovanni Bellini, "Venezia Cinquecento", 2, 1991, pp. 119-156. Si v. altresì Daniel Arasse - Orsola Sveva Barberis, Giovanni Bellini et la mythologie de Noé, ibid., pp. 157-183.
233. Marco, 14, 54; Matteo, 26, 57; Giovanni, 18, 15.
234. Cf. E. Concina, Una fabbrica "in mezo della città".
235. Cf. Angelo Ventura, Genesi e caratteri delle relazioni degli ambasciatori veneziani, introduzione a Relazioni degli ambasciatori veneziani al Senato, a cura di Id., Roma-Bari 1980.
236. G. Cozzi, Domenico Morosini.
237. Cf. Renovatio urbis.
238. Augusto Gentili - Chiara Bertini, Sebastiano del Piombo. Pala di San Giovanni Crisostomo, Venezia 1985.
239. Ibid., pp. 29-30.
240. "Il Signore dal cielo / mira tra i mortali / per vedere se c'è un savio / che ricerchi Iddio".
241. Cf. Rona Goffen, Giovanni Bellini, New Haven, Conn. 1989.
242. E. Concina, Una fabbrica "in mezo della città".
243. Difficilmente lo storico potrebbe oggi affrontare la questione a prescindere da Paul Ricoeur, Tempo e racconto, Milano 19883. Indispensabili inoltre, sul piano problematico, le riflessioni di Daniel S. Milo, Trahir le Temps (Histoire), Paris 1991.
244. Cf. Manfredo Tafuri, La "nova Costantinopoli". La rappresentazione della "renovatio" nella Venezia dell'Umanesimo (1450-1509), "Rassegna", 3, 1982, nr. 9, pp. 25-38.
245. Si v. Michelangelo Muraro, The Political Interpretation of Giorgione Frescoes on the Fondaco dei Tedeschi, "Gazette des Beaux-Arts", 117, 1975, pp. 178-184.
246. Sebbene John Locke, Secondo trattato del governo, 102, 3-6, non concordasse con l'opinione contariniana circa l'origine di Roma, ne sottolineava anch'egli l'importanza della fondazione in un contesto di libertà.
247. Ibid.: "[...> chi non ammetterà che l'inizio di Roma e di Venezia si ebbe dall'unione di parecchi Uomini liberi e indipendenti l'uno dall'altro, tra i quali non vi era alcuna Superiorità o Sottomissione naturale" (cit. in E. Muir, Il rituale civico, p. 86).
248. Allora, a mo' di promemoria: Gerusalemme fu iniziata trecentosessantasei anni dopo il Diluvio, duemilaventitré dopo la Creazione e millenovecentoquarantuno prima di Cristo; la prima pietra di Napoli fu posata duemilaottocentoquattro anni dopo la Creazione, venti dopo la caduta di Troia e quattrocentootto prima della fondazione di Roma. Cf. J. Locke, Secondo trattato del governo, 102, 3-6. E Marc'Antonio Sabellico rievocando il 25 marzo, data della fondazione di Venezia: "Per la qual cosa, se noi volemo considerare alcune opere eccellenti in cotal giorno esser state fatte, non sara dubbio a creder che niuna cosa in quel giorno ha principio, laqual non sia grande e maravigliosa, e è perpetua gloria delle cose humane. Le sacre lettere affermano in quel medesimo giorno l'onnipotente Dio haver formato il nostro primo parente. Similmente che esso figliuol d'Iddio fu nel ventre della Vergine conceputo" (Marcii Antonii Coccii Sabellici Rerum Venetarum ab urbe condita [...> libri XXXIII, I, parte I [1428>, Venetiis 1487, in Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Inc. V 26; traduzione in volgare di Ludovico Dolce, dalla quale citiamo, Le historie vinitiane [...>, Venezia 1554, p. 3v). Si v. infine Francesco Lanzoni, Genesi e tramonto delle leggende storiche, Roma 1925.
249. Va da sé che nell'analisi di tali fenomeni dovrebbe imporsi il metodo comparativo. Si prenda, ad esempio, il modello sassone cui gli Inglesi fanno riferimento parlando delle proprie origini, quel mito sassone che ha avuto un ruolo evidente nella storia politica dell'Inghilterra. L'essenza stessa di una nazione si costruisce a partire da una genealogia: gli Inglesi si dissero discendenti dei Sassoni, e quell'ascendenza germanica - a differenza dell'agnizione franca teorizzata da Boulainvilliers per i Francesi - fu da subito consensuale e unanimistica: tutti gli Inglesi avevano un antenato sassone comune. Al contrario, presso Henri de Boulainvilliers all'inizio del secolo XVIII, il mito germanico aveva tratti profondamente olistici e aristocratici, con i Franchi assunti quali progenitori del ceto nobiliare (Essai sur la noblesse de France). Ora, qualcosa di analogo alle posizioni di Boulainvilliers si riscontra pure in Inghilterra, in certe interpretazioni rivoluzionarie del mito primigenio, ma alla maniera di uno specchio rovesciato: i Sassoni sarebbero allora gli antenati del popolo, mentre dai Normanni sarebbero discesi i proprietari terrieri e i possidenti. Nondimeno è ai Sassoni che l'epoca moderna si è più volentieri ispirata, basti pensare alla Dissertation sur les Whigs et les Torys, 1717, di Rapin-Thoyras, nella quale l'autore sottoscriveva in pieno il mito sassone e anzi lo raccordava a un passato germanico unificante tutta l'Europa occidentale: "È pressoché la stessa forma di governo che i sassoni stabilirono in Germania, i franchi nelle Gallie, i visigoti in Spagna, gli ostrogoti e dopo di loro i longobardi in Italia. Furono le nazioni del Nord a portarla nelle parti più meridionali dell'Europa, quando vi si stabilirono e vi fondarono degli Stati nuovi sulle rovine dell'Impero romano". Rapin-Thoyras aveva provato a individuare il denominatore comune alle diverse zone d'Europa attraverso la valorizzazione dell'antichità barbarica a spese del mondo latino, senonché il suo procedimento comparativo non intendeva soltanto indicare gli elementi di continuità quanto piuttosto di enfatizzare le rotture: solo l'Inghilterra sarebbe rimasta fedele alle virtù germaniche, che già avevano impressionato Tacito, quando il resto del continente cadeva preda del dispotismo... E la differenza che si nota al presente - proseguiva il nostro autore - fra l'Inghilterra e gli altri Stati si deve al fatto che gli Inglesi hanno conservato la loro forma di governo fin da quando si stabilirono nelle isole britanniche, mentre negli altri paesi essa si è perduta o gravemente alterata... Esiste poi un'interpretazione delle libertà inglesi di taglio più secolare che non quella ispirata al sogno della "Nuova Israele" dei puritani, parzialmente screditato da Cromwell: nel mito sassone allora, in quel passato germanico affonderebbero le radici della legittimità.
250. Logan P. Smith, The Life and Letters of Sir Henry Wotton, II, Oxford 1907, p. 256, cit. in E. Muir, Il rituale civico, pp. 82-83: "Come accadde che essa fu fondata in mezzo alle acque non l'ho mai potuto spiegare in modo chiaro. I migliori e la maggior parte dei loro autori ascrivono i propri inizi più al caso e alla necessità che ad una deliberazione; il che tuttavia, secondo me, equivale a non più che una graziosa congettura, velata dall'antichità, poiché così essi la tramandano: dicono che nei tumulti del Medioevo, quando le nazioni sciamavano in giro come api, Attila il grande condottiero degli Unni, e flagello del mondo (come fu chiamato), mentre con un esercito numeroso assediava Aquileia, produsse grande paura e confusione in tutto il circondario. In conseguenza della qual cosa, i migliori delle popolazioni confinanti, provenienti da parecchie città, s'accordarono per trasferirsi con le loro sostanze, subito o a poco a poco (poiché la paura talvolta raduna, talaltra disperde), nell'estremo seno del Golfo Adriatico, e vi presero possesso di certi isolotti desolati, per tradizione una settantina, che poi (essendo necessità madre dell'ingegno) furono collegati con ponti, e così la città assunse una forma primitiva, che col tempo s'incivilì, e divenne un grande esempio di quanto può scaturire dalle più piccole cose, se ben fomentate. Essi si gloriano di questo loro inizio per due motivi. Primo, che sicuramente i loro progenitori non erano di vile condizione (come tali, avendo poco da perdere, avevano scarsi motivi per trasferirsi). Secondo, che essi furono precocemente istruiti da temperanza e penuria (nutrici della moderazione). Ed è vero che, come tutte le cose hanno il sapore del loro principio, così è per la suddetta Repubblica [...> ancor oggi".
251. Impossibile, ad esempio, non ricordare come negli anni della dominazione austriaca su Venezia Verdi scegliesse la leggenda di Attila per l'opera omonima.
252. "Mi chiedo se tra i visitatori di oggi della Sala del Maggior Consiglio nel palazzo Ducale di Venezia ci sia qualcuno che avverta di trovarsi di fronte ad una delle più incredibili mistificazioni storiche di tutti i tempi (battaglie inventate, viaggi inventati, concessioni di insegne inventate...): si rimane stupiti e trasecolati di fronte alle ostinate insistenze con cui viene ripresentata la leggenda nelle opere letterarie, nelle cronache, nei trattati, nei cicli di affreschi, nelle miniature, dalla seconda metà del '200 sino e oltre la fine del '600": Agostino Pertusi, La presunta concessione di alcune insegne regali al doge di Venezia da parte del papa Alessandro III, "Ateneo Veneto", 15, 1977, pp. 133-155.
253. Rimandiamo a Baron Corvo (Frederick Rolfe), Il desiderio e la ricerca del tutto. Un romanzo di Venezia moderna, Milano 1963 (1909).
254. G. Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, II: "Un bellissimo casamento, e intorno al Pontefice gran numero di Cardinali e di gentiluomini veneziani, tutti ritratti di naturale".
255. Eccone un breve elenco: Nicolò Zeno, Francesco Loredan, nipote del doge Leonardo, Antonio Cappello, Giulio Contarini, Lorenzo e Antonio Giustinian, il senatore Andrea Gradenigo e Giovan Battista Ramusio.
256. Il papa e i cardinali "gettano le torce e le candele dall'alto", sopra a una "baruffa d'ignudi che si azzuffano per quelle torce e quelle candele, la più bella e la più vaga del mondo".
257. Per esempio, Michele Surian, Jacopo Barbo, Pietro Sanudo, Antonio Longo, Jacopo Gusso.
258. G. Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, II: "[...> davanti a una prospettiva di belli edifici, Ottone inginocchiato prende la mano del padre assiso; è attorniato da un gran numero di gentiluomini veneziani".
259. Questa la scritta che accompagnava l'immagine: "INVISIT ALEX. PONT. LATERANENSEM BASILICAM CUM IMPERATORE ET VENETO DUCE HIC CUM FORTE SELLA ESSET UNA PONTIFICI ALTERA FEDERICO IMPERATORI STRATA, TERTIAM VENETO STERNI IUSSIT, DEDITQUE TAM ILLI AD CURRULIS SELLAE INSIGNE QUAM POSTERIT VENETORUM DUCIBUS PERPETUO HABENDUM".
260. "REVERENTIAM FIDEI CATHOLICAE SANCTAE MATRIS ECCLESIAE VIRILITER", ricordava l'iscrizione menzionata da Francesco Sansovino.
261. Almeno, stando a Vasari; per parte sua, Ridolfi si faceva interprete di una tradizione che assegnava il dipinto a Giovanni Bellini.
262. Elenchiamo: Pietro Bembo, Jacopo Sannazzaro, Andrea Navagero, Giorgio Cornaro, fratello di Caterina, Antonio Trono, Domenico Trevisan, Marco Grimani, figlio di Antonio, Paolo Cappello, Gasparo Contarini, Marco Dandolo, fra Giocondo, Agostino Bevazzano, Marco Musuro e Ludovico Ariosto.
263. "OPERATUS SACRIS IN DIVI MARCI AEDE ALEX. PONT. OMNIBUS DOMINICAE ASCENSIONIS DIE INTRA BINAS VESPERAS F[…> ADEUNTIBUS PLENAM DELICTORUM VENIAM PERPETUO CONCESSIT, SEPTIMA PECCATORUM PARTE PER OCTAVAM FREQUENTATIBUS REMISSA". La scritta è riportata in F. Sansovino, Venetia città nobilissima, p. 129v.
264. "[...> quasi tutti i cardinali viniziani, che erano stati fino a quei tempi: Angelo Cornaro, che divenne Gregorio XII, Francesco Lando, Pietro Barbo, che poi fatto Papa fu detto Paolo secondo; Marco Barbo, Giovanni, Michele, e Giovanni Battista Zeno, figlioli di due sorelle del predetto Pontefice; Pietro Foscari Vescovo di Padova figliolo di Marco Procuratore, che fu fratello del Doge Foscari; e Domenico Grimani figliolo del Doge, tutti cardinali" (ibid., p. 113).
265. Così recitava la scritta che accompagnava la scena: "OBTULIT ROMANUS POPULUS ALEXANDRO INGRESSO OCTO VARIIS COLORIS VEXILLA TOTIDEMQUE ARGENTEAS TUBAS, QUAE DIGNITATIS ORNAMENTA ULTRO PONTIFEX VENETO DUCI DETULIT. QUIBUS IPSE ET OMNIS DUCUM POSTERITAS SOLEMNI POMPA UTERENTUR".
266. La commessa, si sa per certo, data al 1513; allora, perché tanto ritardo nell'esecuzione e tante reazioni? Certo, i lavori per la decorazione della sala procedevano lentamente, ma nel 1514 Tiziano - che conservava i modelli dell'opera nella bottega di corte del duca Sforza a San Samuele - si lamentava di certi tentativi perpetrati da colleghi pittori per impedirgli di portare a termine l'opera, pure se non dimenticava di sollecitarne il pagamento. Nel 1518 le rimostranze della Signoria per il ritardo si fecero più decise: se Tiziano non avesse realizzato il dipinto, l'incarico sarebbe passato ad altri, a spese dell'artista. Ma rinnovate pressioni, nel 1522, non ebbero migliore effetto. Si giunse così al 1537, quando le autorità marciane optarono per le maniere forti: si preparasse Tiziano a restituire tutte le somme percepite fino a quel giorno dalla "senseria". L'argomento si rivelò decisivo, tanto più che nello stesso periodo il grande rivale di Tiziano stava cominciando a lavorare per il palazzo Ducale.
267. Diceva la scritta: "URBS SPOLETANA QUE SOLA PAPE FAVEBAT, OBSESSA ET VICTA AB IMPERATORE DELETUR". Ma, a sentire Sansovino, "sotto [al dipinto> non vi si leggeva nulla".
268. L'identificazione di Ridolfi costituisce il punto di partenza della proposta formulata da Crowe e Cavalcaselle (Tiziano. La sua vita e i suoi tempi, I-II, Firenze 1877) di riconoscere nel dipinto perduto di Tiziano una composizione "a doppio soggetto": essa avrebbe bensì rappresentato la battaglia di Spoleto, ma anche e insieme la battaglia di Cadore.
269. Una battaglia con "grande furia di soldati che combattono, mentre una terribile pioggia cade dal cielo", diceva Vasari. Ma manca a tutt'oggi una analisi globale delle disavventure iconografiche nelle quali egli incorse a Venezia.
270. Bolognetti lo collocava infatti fra coloro che si sforzavano "con ogni studio di tener viva la memoria dell'imprese fatte per difesa della Sede Apostolica, non solamente per adornarne di pitture i più celebri luoghi del loro publico palazzo, ma ancora con farne scrivere apologie per sostentar questa fama contro l'ingiuria d'altri scritori". Cf. W. Wolters, Der Programmentwurf zur Dekoration des Dogenpalastes.
271. Cf. Ludovico Zorzi, Carpaccio e la rappresentazione di sant'Orsola. Ricerche sulla visualità dello spettacolo nel Quattrocento, Torino 1988.
272. Françoise Bardon, Le peinture narrative de Carpaccio dans le cycle de Ste Ursule, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 39, 1985, p. 155.
273. Ibid., pp. 48-49.
274. L. Zorzi, Carpaccio e la rappresentazione di sant'Orsola, ha inventariato tutti gli elementi che riconducono alla Roma antica, talora forzando i dati per assecondare la topografia reale: così l'altura che si scorge dietro le aste degli stendardi potrebbe essere la collina chiamata a quei tempi dai viaggiatori francesi Montjoie (corrispondente all'attuale Monte Mario) sulla quale i pellegrini provenienti da nord, una volta lasciata la Cassia all'altezza della biforcazione della via Giustiniana, salivano per approffittare della veduta sulla basilica vaticana e intonare il Te Deum. Sul percorso, extra moenia incontravano dapprima un ospizio consacrato a san Lazzaro, quindi, nei paraggi della porta Sancti Peregrini, la chiesa omonima e una fontana. Entrati in città per la porta Sancti Angeli, raggiungevano una via secondaria che costeggiava il castello e le mura dalla parte di Prati. Ma non ci è possibile sapere se le costruzioni che nel dipinto si scorgono sulla collina possano essere ricondotte a questo insieme di edifici.
275. Sempre rifacendoci a L. Zorzi, Carpaccio e la rappresentazione di Sant'Orsola, che commenta la grande incisione uscita dalla bottega di Matteo Pagan fra il 1556 e il 1559 con la riproduzione della processione ducale in otto fogli successivi, il corteo si apriva con gli "octo vexilla" chiamati a manifestare a mezzo della successione dei diversi colori lo stato di pace o di guerra della Repubblica nonché il tenore delle relazioni diplomatiche, là dove i dodici stendardi papali rappresentavano la cifra apostolica della Salvezza. Ebbene, esclusion fatta delle insegne riportate sul tessuto, i vessilli veneziani sono identici a quelli pontifici, persino nelle sfere armillari ornanti la punta delle aste.
276. F. Sansovino, Venetia città nobilissima, Venetia 1663, p. 480.
277. Cf. Michelangelo Muraro, Vittore Carpaccio. I disegni, Firenze 1977 ("Corpus graphicum", 2).
278. Oggetti corrispondenti alle dignità di protospatharios, di ypatos, di primicerio, di patrikios, di protoproedros, che designavano la condizione iniziale del doge nei confronti del basileus costantinopolitano.
279. Cf. Patricia Fortini Brown, Venetian Narrative Painting in the Age of Carpaccio, New Haven - London 1988, p. 185.
280. Georges Dumézil, Temps et mythe, in Id., Recherches philosophiques, Paris 1935-1936.
281. Rimandiamo ancora a Tempo e racconto, uno dei grandi libri indispensabili - lo ribadiamo - a chi oggi si cimenti con la storia dell'arte.
282. P. Fortini Brown, Venetian Narrative Painting.
283. Citiamo la nostra comunicazione al convegno del Centro Poliziano del 1978, nel quale si esaminava questa stessa attitudine presso Tintoretto.
284. Filippo Morandi, Carmen, cit. in Barbara Marx, Venezia "altera Roma"? Ipotesi sull'umanesimo veneziano, Venezia 1978 (Quaderni del centro tedesco di studi veneziani, nr. 10), p. 8.
285. Cf. David S. Chambers, The Imperial Age of Venice 1380-1580, London 1970, pp. 12-30.
286. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 794 (= 8503): Cronaca Veneta dalle origini al 1458.
287. Andreae Danduli Chronica per extensum descripta a. 46-1280 d.C., a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 1, 1937, pp. 9-327. Cf. Girolamo Arnaldi, Andrea Dandolo doge-cronista, in La storiografia veneziana fino al secolo XVI: aspetti e problemi, a cura di Agostino Pertusi, Firenze 1970, pp. 127-268.
288. Siamo debitori, nel delineare queste grandi tappe storiografiche, nei confronti di B. Marx, Venezia "altera Roma"?
289. Per la cronaca di de Monacis, il cui titolo esatto è De gestis, moribus et nobilitate civitatis Venetiarum, bisogna ancora rivolgersi all'edizione di Flaminio Corner (F. Cornelius), Chronicon de rebus Venetis ab U. C. ad annum MCCCLIV, Venetiis 1758.
290. Cf. Gina Fasoli, Nascita di un mito, in AA.VV., Studi storici in onore di Gioacchino Volpe, I, Firenze 1958, pp. 445-479.
291. Cf. Silvana Ozoeze Collodo, Attila e le origini di Venezia nella cultura tardomedioevale, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Classe di scienze morali, lettere ed arti", 131, 1972-1973, pp. 531-567; Antonio Carile, Una "Vita di Attila" a Venezia nel XV secolo, in Venezia e Ungheria nel Rinascimento, a cura di Vittore Branca, Firenze 1973, pp. 369-396.
292. Se ne v. l'edizione di Mario Poppi, Un'orazione del cronista veneziano Lorenzo de' Monacis per il millenario di Venezia (1421), "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Classe di scienze morali, lettere ed arti", 131, 1972-1973, pp. 483-497 (pp. 463-497).
293. Cf. Debra Pincus, The Arco Foscari. The Building of a Triumphal Gateway in Fifteenth Century Venice, New York-London 1976.
294. B. Marx, Venezia "altera Roma"?, pp. 8-9.
295. Ibid., p. 9.
296. Si leggano i trattati di Lauro Quirini in Lauro Quirini umanista. Studi e testi, a cura di Konrad Krautter - Paul O. Kristeller - Agostino Pertusi - Giorgio Ravegnani - Carlo Seno, Firenze 1977: il De nobilitate contra Poggium alle pp. 74-98, il De republica alle pp. 123-145.
297. Su Porcellio Romano, ancora B. Marx, Venezia "altera Roma"?, p. 14.
298. Ibid., p. 14.
299. "Quid Andreae Gritti, nondum principis dignitate insigniti, triumphum memorem, qui sua industria suaque virtute urbe Patavio recepta, Venetias reversus, ea est omnium ordinum gratulatione exceptus ut cuiusvis Romani principis triumphum facile vicerit?".
300. "Illam [laudem> enim maiorem esse existimat, quae vere est quod se ex privato homine per mille curas, mille solicitudines et pericula ere Diis immortalibus sapientia et potentia simillirnum fecit. Itaque iam res humanas tantum potest adiuvare quantum desiderare potuit, habeo modo ante oculos excelsum illum et divinum animum, qui nihil aliud cogitat, nisi quo pacto conservare rem publicam et amplificare etiam aliquando cum dignitate possit" (1284 a-b).
301. "[...> utinam amplificare etiam et terminos proferre, non dico in Italia, sed longe extra scilicet unde serpit calamitas Italae atque adeo totius Europae, Orientem versus".
302. Repubblica, 563e.
303. Negli anni 1522-1530.
304. Prossimo a posizioni filopontificie.
305. "Instituta, iura, leges [...> tum illas quae a maioribus traditae fuerunt, tum has quae cotidie constituntur".
306. Il patriziato veneziano si era opposto con tutto il peso della propria influenza ed autorità, ma vanamente, alla partenza dello spagnolo Juan Montesdoc, professore a Padova nel 1525, come pure al ritorno in quella sede, promosso dai riformatori dello Studio, dapprima di Agostino Nifo, già insegnante presso l'istituzione patavina fino al 1499, e poi di Marcantonio Zimara. È lecito domandarsi se le resistenze nei confronti di Nifo fossero in qualche modo determinate, al di là delle sue posizioni averroiste, dalla conoscenza della sua produzione più recente; produzione multiforme, occorre dire, che spaziava dall'ambiguo De falsa diluvii prognosticatione, pubblicato in traduzione italiana a Venezia nel 1521, fino al Miroir des princes - Fürstenspiegel - De his quae ab optimis principibus agenda sunt, del 1521 e al De regnandi peritia, stampato nel 1523, che non era altro se non una ripresa accademica del Principe di Machiavelli. Sarebbe assai interessante sapere se e come furono accolte nell'ambiente dello Studio, e specialmente dai Fiorentini che frequentavano gli ambienti colti di Padova quali Borgherini e Giannotti, le idee machiavelliane contrabbandate sotto le specie della dissertazione universitaria.
307. "[...> dalla forza & dall'armi figurate nel primo quadro [Jacopo Palma il Giovane, Venezia sovrana, incoronata dalla Vittoria accoglie popoli dominati e province soggette>, & dall'amore & dalla deditione volontaria espresse nel secondo e proceduto quello effetto di allegrezza, & di giubilo universale de i popoli domati da questa gloriosa Republica [Jacopo Tintoretto e collaboratori, Venezia regina, circondata da divinità marine, in atto di porgere un ramo d'ulivo al doge Nicolò Da Ponte che le presenta gli omaggi del Senato e i doni delle province soggette>": cit. in D. Rosand, Venetia figurata, p. 180.
308. Cf. Robert Weiss, La medaglia veneziana del Rinascimento e l'Umanesimo, in Umanesimo europeo e Umanesimo veneziano, a cura di Vittore Branca, Venezia-Firenze 1963, p. 339. La medaglia è illustrata in George F. Hill, A Corpus of Italian Medals of the Renaissance before Cellini, I-II, London 1930: I, p. 4 nr. 11; II, tavola 1, e più recentemente in Giovanna De Lorenzi, Medaglie di Pisanello e della sua cerchia, Firenze 1983, nr. 1.
309. Cf. G.F. Hill, A Corpus of Italian Medals of the Renaissance, I, p. 108 nr. 410; II, tavola 77.
310. "Il terzo quadro ch'è sopra il Tribunale doverà havere medesimamente una Venetia che sedendo sopra Città e terre [variante: "sedendo sopra scetri, et Troni"> a imitatione della Roma sedente sopra il Mondo habia sopra la sua testa una piccola Vittoria alata che voli et che incoroni di lauro, intorno la qual Vittoria siano la Pace, l'Abbondantia, la Fama, la Felicità, l'Honor, la Securtà, la Liberalità tutti rappresentati, con gli habbiti et insegne che si vedono formate dall'Antiquità con moltitudine di populi festeggianti di diversi habbiti et forme come huomini, vecchi, puti et donne, et siano separatamente dipinti li quattro fanciulli che significano li quattro stagioni dell'anno corrispondenti alla felicità, et contento universale di populi sicome si vede nelle medaglie antiche".
311. Così Oloferne in Pene d'amor perdute, IV, II. Gli esempi che adduciamo qui sono ripresi da D. Rosand, Venetia figurata, pp. 177 e 188-190.
312. Giovanni Nicolò Doglioni, Venetia trionfante et sempre libera, Venetia 1613, p. VI, ove si cita "Incerti authoris, De eadem urbe".
313. "[...> essa non è altro che un Insieme di piccole isole che spuntano dal mare, [...> il suo mantello [...> salato si immerge perpetuamente nelle spume marine" (J. Howell, S.P. Q. V., p. 32).
314. Ibid.
315. Cit. in Antonio Medin, La storia della Repubblica di Venezia nella poesia, Milano 1904, pp. 20, 387-388.
316. Ibid.
317. London, British Museum, Add. Ms. 21463, c. 1. Cf. Giordana Mariani Canova, La miniatura veneta del Rinascimento, Venezia 1969, p. 141 n. 1.
318. Paris, Bibliothèque Nationale. Cf. Aloise Heiss, Les médailleurs de la Renaissance: Venise et les Vénitiens du XVe au XVIIe siècle, Paris 1877, p. 190 nr. XXI; G.F. Hill, A Corpus of Italian Medals of the Renaissance, I, p. 129 nr. 489; II, tavola 9.
319. Si v. Juergen Schulz, Venetian Painted Ceilings of the Renaissance, Berkeley-Los Angeles 1968.
320. Marco Barbarigo - scriveva il suo biografo Casoni - fu il primo a cui, per decisione statutaria dei Padri, gli ornamenti della sua dignità principesca furono conferiti pubblicamente, con solennità e alla vista di tutti, sulla scala principale del Palazzo. Cf. Michelangelo Muraro, La Scala senza Giganti, in De Artibus Opuscula XL: Essays in Honor of Erwin Panofsky, a cura di Millard Meiss, New York 1961, pp. 350-370, ma si v. anche Id., La "Scala senza Giganti". Iconographie et politique au Palais Ducal de Venise à la fin du XVe siècle, in AA.VV., Symboles de la Renaissance, II, Paris 1982, pp. 23-38.
321. "Poiché il simbolo principale dell'autorità del nostro Doge serenissimo è il corno ducale, che sua Serenità porta sul capo, è necessario formare una cerimonia nel corso della quale egli ne sia pubblicamente e solennemente incoronato, non più come è stato fatto fino ad oggi, in segreto e secondo una cerimonia privata, senza gloria e anche a detrimento della dignità ducale. In conseguenza di ciò si è stabilita la legge seguente: quando il prossimo Doge e i suoi successori saranno eletti, dopo aver ricevuto nella Basilica lo stendardo di San Marco, verranno portati trionfalmente nella Piazza e poi condotti nel palazzo Ducale; e qui, sulla scala, avrà luogo il giuramento; immediatamente dopo il Consigliere più giovane poserà sulla testa di sua Serenità il velo simbolico della sua silenziosa autorità e il Consigliere più anziano lo incoronerà del corno ducale pronunciando queste sole parole ῾Ricevi la corona del Dogado dei Veneziani'".
322. "Varcata la porta della Carta [scriveva Francesco Sansovino> ci si trova dinanzi alla scala, veramente regale, fatta di marmi di abagliante bianchezza e onusti di trofei; dal campanile, la si vede in fondo, e così pure entrando dal fianco del Palazzo, giacché è stata fatta per essere in piena evidenza, e determina due corti, la grande, aperta a tutti, e la piccola, riservata ai Senatori".
323. Cf. M. Muraro, La Scala senza Giganti.
324. L.F.T., "Liberalitate, Fide, Temperantia"; Q.P.R.A., "Quantas Provincias Recepit Armis" ovvero "Quot Populos Romanis Adjecit"; S.P.Q,R., "Senatus Populusque Romanus"; O.C.F.A.-L.F.E.T., "Omnes Contigit Felicibus Armis"-"Latos Fines Extremae Terrae"; S.C., "Senatus Consulto"; Q.P.R.A.V., "Quot Provincias Recepit Animi Virtute"; A.C., "Armis Conjunctis"; S.P.Q.V., "Senatus Populusque Venetus"; S.V.D., "Senatus Venetus Defensor Ecclesiae"; OPRA V., "Opra Venetiarum"; A.B.D.V.F.F., "Augustinus Barbadico Dux Venetiarum Fecit Fieri"; A.B.D.V., "Augustinus Barbadico Dux Venetiarum".
325. Ché una barbarie esecrabile e sacrilega accompagnata da bieca e durevole avarizia aveva fiaccato la parte più nobile del tesoro latino, si affermava nell'Hypnerotomachia Poliphili, e ricoperto di ignoranza maledetta quell'arte tanto degna che un tempo fece fiorire e trionfare Roma.
326. "Il sistema segreto della pittura e della loro scultura fornisce abbondanza di argomenti: essi avevano immaginato una specie di discorso muto, esperibile per mezzo di immagini, senza che fosse necessario pronunciare una sola parola; un sistema che seguiva l'esempio dei sacerdoti egizi e che fu in seguito adottato per tacito consenso da pressoché tutte le nazioni in cui fioriva la cultura".
327. "Essendo stati ritrovati in questa città due pezzi di marmo lunghi all'incirca dieci piedi, portati qui da coloro che ebbero l'incarico di costruire l'appartamento del Palazzo nel quale abitano i Principi serenissimi, si decise di far fare due figure di giganti da piazzare nel luogo più opportuno per la decorazione del Palazzo stesso. Trovandosi allora in città il Maestro Jacomo Sansovino, scultore di grande intelligenza e reputazione, gli eccellentissimi messer Mafio Venier, messer Antonio Capello Procurator e messer Julio Contarini Procurator, degnissimi Provveditori alla fabbrica del Palazzo, intesero che l'occasione della presenza di un tale uomo non andasse sprecata, e al contrario che egli avesse modo di fare onore alla Città e al Palazzo; quelle due figure furono dunque assegnate a Sansovino".
328. Cf. Bruce Boucher, Sansovino, New Haven 1991.
329. "Questo mantenimento non si può dir, da che sia proceduto altro, che da una somma sapientia dei suoi Senatori conciosia, che havendole dato buon fondamento, ha potuto durare, e durerà lungamente. Il suo fondamento sono le leggi, & essendo le leggi quelle che la hanno conservata, diremo, che sapientissimi furon coloro che fecero cosi fatte leggi". E a proposito della Minerva: "Ora voi sapete che Pallade è figurata da gli antichi per la sapienza. Questa figura adunque è una pallade armata, & tanto bella, quanto ella stà pronta, e in atto vivente; perché la sapientia di questi Signori è prontissima nel governo di questa alma Città".
330. "Et perché tutte le cose sapientemente pensate, hanno bisogno d'essere espresse con bella eloquenza, percioché le cose eloquentemente dette son molto più stimate di quelle, che con rozzezza si espongono, et in questa Republica i eloquenti sono stati e sono in gran numero, et in gran riputatione; però è stato figurato questo Mercurio; e voi sapete, che Mercurio è significativo delle lettere, & dell'eloquenza".
331. Cf. J. Schulz, Venetian Painted Ceilings.
332. Sull'Apollo: "[...> fu fatto per esprimere, che si come Apollo significa il Sole, & il Sole è veramente un solo, & non più, & però si chiama Sole; così questa Republica è una sola nel mondo senza più, sapientemente, & giustamente regolata. Oltre a questo, ogni huomo sà, che la nostra natione si diletta della Musica, & però Apollo è figurato per la Musica. Ma perché dalla unione de Magistrati, che son congiunti maravigliosamente insieme, n'esce inusitata harmonia, che perpetua questo governo immortale, però si ha figurato questo Apollo, che significa la harmonia".
333. "Ella è la Pace, quella tanto amata da noi, quella pace che il Signor dette al protettore nostro S. Marco dicendo: Pax tibi Marce Evangelista meus. Quella che ne fa gioir tra tutti gli altri popoli lieti, e contenti. Vedete come ella abbruccia con quella facella l'arme ch'ella ha sotto i piedi".
334. Le analisi di Rosand sono su questo punto di grande pertinenza: molto deve loro il presente lavoro.