Le relazioni internazionali
In senso lato relazioni internazionali sono esistite fin dall’antichità, per esempio con i rapporti tra le città-Stato della Grecia. Già allora comportavano l’invio di missioni con compiti di rappresentanza, informazione e negoziato, funzioni della diplomazia che si sono mantenute inalterate fino a oggi, pur nel mutamento profondo dei sistemi internazionali.
Nel Medioevo le relazioni internazionali avvenivano tra entità politiche che solo in parte si configuravano come Stati sovrani, nel senso moderno del termine. Secondo un modello ideale mai realizzato pienamente, l’Europa occidentale era una Respublica christiana il cui principio unificatore era il cattolicesimo e le cui massime espressioni istituzionali erano il papa e il sacro romano imperatore, che avrebbero dovuto procedere concordi. Spesso il papa conferiva il riconoscimento dei titoli regali e ancora nel 1493 tracciò la linea divisoria tra i possedimenti spagnoli e portoghesi nel nuovo mondo. La cristianità occidentale manteneva rapporti con il mondo ortodosso e, in maniera conflittuale, con quello islamico, ma aveva solo contatti sporadici con altre civiltà.
Dal Cinquecento, con la divisione dell’Europa occidentale tra Stati cattolici e protestanti, la religione da elemento unificante si trasformò in fattore di divisione con un conseguente processo di laicizzazione delle relazioni internazionali: un fondatore del moderno diritto internazionale enunciò il principio Silete theologi in munere alieno (A. Gentili). La Pace di Vestfalia del 1648 prefigurò una società europea omogenea di Stati sovrani, superiorem non recognoscentes, avente come principio regolatore la politica di equilibrio per evitare l’egemonia di una grande potenza. Il sistema delle relazioni internazionali richiedeva un’attenzione costante, alla quale provvedevano i ministeri degli esteri e la diplomazia permanente. Non essendo più la religione motivo di scontro e non essendolo ancora le ideologie, non vi erano nemici assoluti, ma solo avversari, che potevano diventare gli alleati di domani e che la guerra non mirava perciò ad annientare. Venuto meno il riconoscimento internazionale del magistero della Chiesa, non si discusse più sulla «guerra giusta» e il diritto internazionale si limitò a regolare lo ius in bello.
Tra il 1815 e il 1914 le relazioni internazionali furono dominate dal metternichiano «concerto europeo» delle grandi potenze (Commonwealth of Europe secondo il ministro degli Esteri britannico lord Castlereagh), con momenti di maggiore o minore consapevolezza di appartenere a una comune «società europea» e, nella fase finale, con una crescente difficoltà a contenere le rivalità e i nazionalismi. Grandi potenze furono la Gran Bretagna, da alcuni storici considerata la «prima» di esse (P. Kennedy), la Francia, la Russia, l’impero d’Austria, la Prussia (poi impero tedesco), alle quali si aggiunse l’Italia. Spagna, Portogallo e Svezia, protagoniste della politica europea nei secoli precedenti, passarono definitivamente in secondo piano. Grazie all’espansione coloniale, alla vigilia della Grande guerra l’Europa era la proud tower, all’apogeo del potere mondiale: controllava il 60% dei territori, il 65% degli abitanti, il 57% della produzione di acciaio, il 57% del commercio (P. Renouvin). All’inizio del 20° sec. erano però emerse due grandi potenze extraeuropee, gli Stati Uniti e il Giappone.
L’ideologia, costituita soprattutto nella prima parte dell’Ottocento dai principi di libertà e nazionalità, giocò un ruolo rilevante, ma comunque limitato dai classici principi della politica di potenza, tanto che la grande esplosione rivoluzionaria del 1848-49 non turbò la pace tra le grandi potenze. La guerra continuò a essere quasi universalmente considerata un modo inevitabile per risolvere le controversie internazionali (A.J.P. Taylor e M. Howard). Le preoccupazioni morali, pur non assenti, erano subordinate alla politica di potenza e di equilibrio, come i problemi dei popoli di altri continenti. La Grande guerra scoppiò per ragioni classiche di politica di potenza. La durata delle ostilità, la necessità di giustificare con ragioni più nobili i sacrifici richiesti, motivando gli «scopi di guerra», e la caduta dello zar in Russia indussero poi l’Intesa a presentare il conflitto come una lotta tra democrazie e imperi autoritari e, per le nazionalità «oppresse», contro il multinazionale impero asburgico.
Un cambiamento drastico parve profilarsi dopo la guerra. La «nuova diplomazia» del presidente americano T.W. Wilson intendeva sostituire la community of power alla balance of power, la sicurezza collettiva alle alleanze, in prospettiva bandire l’uso della forza come strumento di politica estera degli Stati, attraverso l’istituzione della Società delle nazioni, che fallì per una serie di ragioni: 1) la mancata partecipazione degli USA, ritornati all’isolazionismo; 2) la mancanza di efficaci strumenti statutari per sanzionare le aggressioni, dovendo il Consiglio della Società deliberare all’unanimità; 3) il fatto che gli ideali della Società e i metodi pacifici da essa propugnati fossero condivisi dalle democrazie (ma non da tutte le forze politiche) e non dai totalitarismi e dalle dittature (URSS comunista, Germania nazista, Italia fascista, Giappone). La pace punitiva della Germania attuata a Versailles nel 1919 (ben diversa da quella con la Francia un secolo prima) e la «balcanizzazione» dell’Europa centrorientale, con la creazione di pretesi Stati nazionali in realtà altrettanto multinazionali dell’impero asburgico scomparso, con l’aggravante dell’etnia dominante che opprimeva le minoranze (H. Bogdan), posero le inevitabili premesse per la Seconda guerra mondiale.
Alla fine di quest’ultimo conflitto, il presidente americano F.D. Roosevelt pose l’ONU su basi più ambiziose e più realistiche della Società delle nazioni. Da un lato, nell’ambito dell’ONU o a latere di essa, comunque parte integrante dello stesso disegno, sorsero organizzazioni, come la FAO, l’UNESCO, l’UNCTAD, l’OMS, l’UNICEF, l’UNIDO, il FMI, la BIRS, per affrontare problemi, innanzi tutto quello dello sviluppo economico, ignorati dalla Società delle nazioni, legata a una visione strettamente diplomatica della sicurezza. D’altro canto Roosevelt comprese la necessità di conciliare uno schema di sicurezza collettivo con il concerto delle grandi potenze, delle quali occorreva riconoscere formalmente la preminenza, concedendo a esse il cosiddetto «diritto di veto», senza il quale l’ONU non sarebbe probabilmente nemmeno sorta.
Questa resurrezione in forme nuove del direttorio delle grandi potenze era un compromesso che non contrastava necessariamente con l’universalismo wilsoniano, riproposto da Roosevelt con maggiore realismo. Pur con le concessioni agli equilibri di potenza, il disegno di un mondo unico, one world, poteva essere salvato, vincolando da un punto di vista idealistico i «grandi» a rispettare un codice di regole e di valori, dalla Dichiarazione sull’Europa liberata approvata a Jalta, alla Carta dell’ONU, alla futura Dichiarazione sui diritti dell’uomo, espressione di una «diplomazia declaratoria», che l’URSS sottoscrisse senza troppi problemi, ma dando a parole come democrazia, libertà, progresso, dialogo significati assai diversi da quelli dell’Occidente. Nell’ottica della Realpolitik, Roosevelt contava sulla posizione d’indubbia preminenza degli USA, non solo economica ma anche militare, grazie al monopolio dell’arma atomica. In un open world il sistema democratico e capitalista americano avrebbe manifestato la sua superiorità ed esercitato la sua capacità di attrazione.
Durante la Guerra fredda il sistema internazionale fu bipolare e non omogeneo. Bipolare essendo i due attori fondamentali, le superpotenze USA e URSS, tali per estensione geografica, forza militare ed economica e attrattiva ideologica. Non omogeneo, perché i due blocchi non condividevano principi, regole, istituzioni. La minaccia sovietica era duplice: un attacco militare dell’URSS e l’azione disgregatrice del comunismo internazionale, facente anch’esso capo a Mosca. La Guerra fredda creò due riserve di caccia, nelle quali le superpotenze esercitarono la loro egemonia e il loro diritto d’intervento, l’URSS naturalmente in maniera molto più brutale degli USA; la «dottrina Breznev» teorizzò la «sovranità limitata» dei Paesi del blocco comunista. La bipolarità politica ed economica si attenuò alla fine degli anni Sessanta con l’affermazione di nuovi attori di rilievo e la contestazione all’interno dei due blocchi dell’egemonia della superpotenza dominante. Esempi di questi due fenomeni furono la Cina, il Giappone, la Francia gollista, l’Europa in cerca d’integrazione. Il sistema restò però bipolare dal punto di vista militare. La Guerra fu solo «fredda», perché dalla metà degli anni Cinquanta vigeva l’equilibrio del terrore, la Mutual assured destruction (MAD): la guerra nucleare avrebbe distrutto il mondo. Fuori d’Europa però i confini tra i due blocchi furono flessibili; la decolonizzazione offrì terreno di scontro nel Terzo mondo, dove alcuni Paesi cercarono di non «allinearsi» ai due blocchi e le superpotenze si affrontarono nelle «guerre (calde) per procura»: dalla Corea al Vietnam, alle guerriglie ispirate dai comunisti in Asia, Africa e America Latina. La Guerra fredda ebbe nel complesso continuità e stabilità di fondo, pur nella successione di fasi diverse di contrasto più aspro o di distensione.
Fu chiara dalle prime crisi, in Grecia, Turchia e Iran, l’impossibilità di un’azione solidale della comunità internazionale in situazioni di pericolo per la pace che vedessero coinvolti gli interessi dei due blocchi. Per i successivi quaranta anni una guerra generale fu evitata dalle alleanze contrapposte e dall’equilibrio del terrore, non dall’ONU che, con l’eccezione peculiare della guerra di Corea, fu spettatrice e non protagonista delle maggiori crisi internazionali (blocco di Berlino, Suez, Quemoy e Matsu, muro di Berlino, Cuba, Vietnam, invasioni dell’Ungheria, della Cecoslovacchia e dell’Afghanistan) nonché della corsa agli armamenti e dei negoziati per il loro controllo e riduzione.
Finita la Guerra fredda, le relazioni internazionali si posero alla ricerca di un nuovo assetto. Ogni area geopolitica ha il suo sistema: l’Occidente vede il successo della democrazia liberale e dell’economia di mercato e ha abolito le guerre al suo interno. L’Asia ricorda l’Europa del 19° secolo: le grandi potenze, Russia, India, Cina, Giappone, si vedono come rivali strategiche; la pace si fonda sull’equilibrio e la guerra è un’opzione possibile. I conflitti del Medio Oriente ricordano l’epoca delle guerre di religione: non hanno natura economica, come all’interno dell’Occidente, o strategica, come in Asia, bensì ideologica e religiosa. Gli attori si negano reciprocamente legittimità. Per l’Africa, frammentata, è difficile identificare un modello di riferimento nella storia della politica mondiale (H. Kissinger).
Alla globalizzazione economica e mediatica fa riscontro una frammentazione politica e culturale del mondo. Per la prima volta nella storia, la politica internazionale è contemporaneamente multipolare e caratterizzata da civiltà diverse. Emergono grandi potenze extraeuropee, in primis la Cina. Gli USA restano la superpotenza militare dominante, ma appaiono in declino per altri aspetti, a cominciare da quello economico. Permane irrisolto il problema di regole e istituzioni condivise per governare la realtà internazionale, mentre si assiste a una relativa deterritorializzazione delle relazioni internazionali: il sistema vestfaliano resta in piedi, ma gli Stati cedono terreno a una riedizione del sistema di autorità segmentate e sovrapposte tipico della cristianità medievale, senza però il fattore unificante della religione. Osserviamo l’integrazione regionale degli Stati e, di segno diverso ma complementare, i localismi, l’allentamento del rapporto consolidato tra sovranità statale, monopolio della forza e radicamento territoriale con un ritorno della violenza internazionale privata, le organizzazioni transnazionali (tra esse il terrorismo di matrice islamica), l’unificazione tecnologica del mondo.
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