Le religiose italiane
La storia delle religiose italiane – considerate qui in tutte le loro varie distinzioni canoniche, cioè come monache, suore, vergini consacrate, eremite, membri di società di vita comune (poi società ‘di vita apostolica’), di istituti secolari e delle nuove comunità – permette di vedere non soltanto un angolo poco noto della storia nazionale, nel suo vario dispiegarsi dall’Unità a oggi, ma anche di osservare come le religiose si siano poste nei confronti di tanti aspetti della vita.
Anzitutto, nei confronti di se stesse, cioè di come hanno cercato di proporre la loro propria identità (non di rado nuova) alla Chiesa e alla società. E poi, conseguenza necessaria di questa proposta di identità, di come e fino a che punto la Santa Sede ha legittimato il loro tipo di vita, di come esse si sono confrontate con il movimento di emancipazione femminile e con le tante e varie opere caritativo-sociali svolte per sopperire a bisogni ritenuti impellenti nella vita nazionale1.
Al momento dei decreti di soppressione del 1861 e 1866, le religiose italiane avevano ormai ritrovato – dopo lo scompiglio operato dalla Rivoluzione francese – una loro vitalità nei vari Stati preunitari, con caratteristiche però che le distinguevano chiaramente tra loro, in particolare tra monache e suore.
Un primo elemento di evoluzione nel campo propriamente monastico è dato dal fatto che dopo la Restaurazione (1814) viene approvato un solo ordine di voti solenni, quello delle Adoratrici del SS. Sacramento, fondato a Roma nel 1807 e approvato dalla Santa Sede nel 1808 e poi ancora nel 1818 e 1821. Appare quindi evidente l’esitazione di fondatori e fondatrici e della stessa Santa Sede nel proporre e accettare la fondazione di istituzioni basate su modelli claustrali che sembravano ormai superati.
Inoltre, anche nella loro attività educativa – cioè l’‘educandato’, che molti monasteri avevano avuto già prima della Rivoluzione francese e che con la Restaurazione furono obbligati ad accettare, per rendersi utili alla società – i monasteri si aprirono a un nuovo modo di considerare l’educazione femminile. Nella prima fase della storia dell’educandato, che si può considerare conclusa con la Rivoluzione francese, nessuno poteva entrare in monastero, soggetto a rigida clausura; le educande stesse erano obbligate alla clausura come le monache – così recitava l’antiqua formula per l’accettazione delle educande: «osservi[no] le leggi della clausura, e [del] parlatorio, come le monache»2 –, potevano restare in monastero dall’età di tre anni sino ai diciotto (e anche oltre in non pochi casi), e uscivano solo al termine della loro educazione, termine che era però fissato dai genitori, non dalla conclusione del curricolo degli studi, che ancora non c’era.
Dopo la Restaurazione non era più possibile obbligare le educande alla clausura e si concesse dapprima che la madre e poi il padre e l’eventuale tutore potessero entrare in monastero a visitare l’educanda in caso di malattia e successivamente anche in occasione di recite e premiazioni scolastiche; infine si accettò che le educande potessero uscire per le vacanze estive. Soprattutto, anche l’educandato monastico assunse la fisionomia di una vera scuola e si fissò un numero di anni (cinque-sei o poco più) per la formazione della ragazza, terminati i quali ella rientrava in famiglia.
Per le suore le novità istituzionali maturarono dopo il 1830 nel Regno di Sardegna e nel Lombardo-Veneto, allora soggetto all’Austria.
Il primo elemento in discussione fu la figura della superiora generale, che la Santa Sede stentava ad accettare in un istituto femminile.
Tre ordini di considerazioni rendevano ardua la questione. Anzitutto, l’autorità dell’ordinario locale, capo e pastore della Chiesa locale, che doveva essere salvaguardata a tutti i costi3. Erano poi evidenti ai consultori della Sacra congregazione dei vescovi e regolari – il dicastero pontificio allora deputato a esaminare la questione dei religiosi e delle religiose – i vantaggi che potevano derivare da un governo centralizzato d’un istituto (unità di formazione, possibilità di trasferire una religiosa da una casa all’altra secondo i bisogni), tanto più se diffuso in diverse diocesi. Infine, v’erano difficoltà derivanti dal fatto che a capo di un istituto religioso vi fosse una donna, di cui i consultori si erano premurati di segnalare i limiti, legati alla natura femminile: volubilità, debolezza di giudizio, incapacità di governare, possibilità di eccessi in tutti i campi4.
Era quindi ovvia la conclusione: si accettava la superiora generale, ma non da sola, e per tutelarla di fronte ai vescovi la si sottopose a un cardinale protettore, residente a Roma; mentre per proteggerla da se stessa, le si pose accanto un sacerdote come superiore ecclesiastico, o il superiore generale di un istituto maschile con il ruolo di superiore ecclesiastico o di superiore interno dell’istituto femminile.
Pressoché tutti gli istituti religiosi femminili di questo periodo ebbero il cardinale protettore e l’uno o l’altro dei superiori-direttori sacerdoti a tutela della debolezza della superiora generale.
Ammessa la figura della superiora generale, si cercò di limitarne i poteri – poiché si aveva sempre paura dell’autorità suprema concessa a una donna e non ci si fidava granché dell’apporto che le sarebbe potuto venire dalle sue consigliere – e ci si premurò di togliere dalle costituzioni degli istituti femminili – italiani e non italiani – tutte quelle espressioni che in qualche modo la qualificavano come ‘rappresentante di Dio’ o ‘vicaria di Cristo’, accettate invece nelle costituzioni degli istituti maschili.
Analoghe questioni si ebbero per la centralizzazione dell’economia di un istituto femminile nelle mani dell’economa generale, alle dipendenze della superiora generale, e per la suddivisione di un istituto femminile in province, con la nomina di superiore provinciali.
La centralizzazione dell’economia suscitò stupore negli stessi governi civili. Fino a quel momento, infatti, l’amministrazione di una casa religiosa femminile era stata affidata a un secolare (variamente denominato: sindaco, operaio, procuratore ecc.), perché si riteneva che le religiose non dovessero immischiarsi in questioni temporali e non fossero in grado di farlo. Di fronte alla richiesta del governo del Lombardo-Veneto, che non aveva mancato di notare la singolarità della figura della superiora generale e pensava ancora alla nomina di un ‘protettore laico’ da scegliersi dallo stesso governo civile, Teresa Eustochio Verzeri – fondatrice a Bergamo delle Figlie del Sacro Cuore di Gesù – si oppose, sostenendo che la centralizzazione del governo dell’istituto nelle mani della superiora generale esigeva anche la centralizzazione dei beni economici, rivendicando quindi una propria autonomia anche in questioni secolari.
Per quanto riguarda il regime provinciale, si sa che, fino al 1845, non si ebbero superiore provinciali in istituti italiani, e quando si ventilò una loro introduzione si fece ancora ricorso a un argomento legato alla questione ‘femminile’: la suddivisione gerarchica in superiora generale, superiora provinciale e superiora locale sembrava dare troppa importanza all’istituto e alle superiore generali e provinciali nei confronti, ovviamente, dei vescovi. Il primo istituto italiano in cui venne accettata la figura della provinciale, o meglio, della ‘vicaria provinciale’ (quindi una figura non del tutto autonoma) sembra essere stato quello delle Ancelle della carità di Brescia, nel 1850.
La temporaneità dei voti negli istituti femminili – in quelli maschili la questione aveva minor peso, perché ai voti religiosi si univa spesso il sacerdozio – era certamente una grossa novità. Fino ad allora, per i religiosi e le religiose bisognosi di correzione era prevista la possibilità di rinchiuderli nella prigione conventuale; e, in caso di religiosi e religiose fuggitivi, di ricorrere al braccio secolare per riportarli a forza in convento. Con la Rivoluzione francese le cose erano mutate, e anche se dopo la Restaurazione un decreto del Regno delle Due Sicilie aveva riconfermato l’istituto del carcere nei monasteri5, la Santa Sede era ormai orientata diversamente, vista l’impossibilità di tenere le religiose in convento con la forza. Di conseguenza, non pochi istituti femminili di questo periodo adottarono i voti temporanei, inserendo nella formula di professione la clausola, divenuta classica, «finché resterò nell’istituto».
Con la temporaneità dei voti, però, mutava un aspetto rilevante della vita sociale – fino alla Rivoluzione francese le giovani che entravano in convento erano considerate ‘morte al mondo’ anche sotto il profilo civile – e bisognava prevedere che le suore potessero lasciare l’istituto, quando lo ritenevano opportuno. Di qui l’insistenza della Sacra congregazione dei vescovi e regolari perché i nuovi istituti codificassero la norma della dote nelle proprie costituzioni, non potessero diminuirla a piacimento, e, in caso di uscita della religiosa, la restituissero integra, senza detrarne le spese per il mantenimento, proprio per non mettere su una strada la religiosa che lasciava il convento.
Per quanto riguarda la famiglia d’origine, le nuove suore, non essendo canonicamente religiose, non perdevano il diritto di successione ai beni familiari né il possesso dei propri beni, non erano obbligate a fare testamento come le monache e, se lo facevano, non rinunciavano alla proprietà dei loro beni e dei loro diritti successori. Tutto ciò rendeva necessario riconsiderare l’economia familiare e lo stesso sistema di suddivisione dei beni, mettendo in conto che, venute a mancare quelle difficoltà economiche e psicologiche connesse alla perpetuità dei voti, la figlia religiosa avrebbe potuto fare ritorno in famiglia.
Si era creato così un nuovo modello di vita religiosa – riconosciuto nel cosiddetto Methodus approvato nel 1854 dalla Sacra congregazione dei vescovi e regolari6 – che si presentava con caratteristiche distintive e una forte identità, fondamentalmente basate su due diritti considerati inalienabili: il diritto di proprietà e il diritto al matrimonio. Questo modello era orientato a un apostolato caritativo-sociale, permetteva l’emergere di donne intraprendenti, volitive, in grado di gestire patrimoni e persone, a livello sia centrale (superiore generali) che periferico (superiore provinciali); esigeva spirito d’iniziativa e capacità di far fronte a situazioni nuove ed entusiasmanti quali potevano essere l’apertura di nuove case o l’assunzione di nuove opere (nel campo dell’educazione, della cura dei malati, dei sordomuti, dei ciechi o in quello della protezione della gioventù femminile, ecc.) e non aveva più il carattere di casa di assistenza o di ricovero per donne mal sposate, vedove o comunque in difficoltà (come in passato tante case di oblate e conservatori, ma, a volte, anche monasteri).
Se poi si considerano in particolare alcune opere dei nuovi istituti – avviate ad esempio nell’ambito dell’educazione e della cura dei malati – si possono cogliere meglio i legami con la società del loro tempo.
Per quanto riguarda l’insegnamento, le nuove congregazioni accettarono senza difficoltà la diversità dei programmi per le loro alunne in base alla classe da cui provenivano, teorizzata nell’assioma – comune in quel tempo – che non si dovessero insegnare le stesse cose ai nobili e al popolo, per evitare lo spostamento delle classi sociali, arrivando anche a distinguere – come fece la marchesa Giulia Falletti di Barolo – tre tipi di istituti religiosi: uno per le figlie di famiglie nobili, uno per quelle di civile condizione e uno per le figlie del popolo (le Suore di S. Anna, da lei fondate).
Per quanto riguarda la coeducazione in asili e scuole elementari, vi furono in effetti tentativi di accettarla – il marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo non vedeva quali pericoli morali potessero venire alle nubili se nelle loro scuole ci fossero stati anche dei bambini, posto naturalmente che a servizio di questi ultimi ci fosse sempre stata una serva –, ma poi gli istituti religiosi accettarono le indicazioni della Sacra congregazione dei vescovi e regolari, contraria alla promiscuità.
Qualche cosa di analogo avvenne per la cura dei malati uomini. A Roma i consultori della Sacra congregazione dei vescovi e regolari distinsero tra una decenza fondata sulle leggi divine e una decenza legata alla mentalità dei luoghi. Essi sapevano che in Germania le Suore di carità dell’Ordine teutonico curavano anche gli uomini, senza difficoltà alcuna, ma sembrava loro che in Italia la pubblica opinione non trovasse ancora decente che le religiose avessero in cura gli ospedali degli uomini. Così si espressero contro la cura degli uomini che le Suore di S. Anna e le Ancelle della carità di Brescia, fondate da Paola Di Rosa, chiedevano di introdurre nelle loro regole.
Se a queste opere, pur con i limiti fissati dalla Santa Sede, si aggiunge l’opera svolta nelle carceri per l’assistenza alle detenute, la promozione dell’agricoltura – anche in ambito femminile, in particolar modo da parte di Elisabetta Cerioli, che a questo scopo fondò nel 1857 le suore della Santa Famiglia a Comonte di Seriate (Bergamo)7 –, e l’attività missionaria (le prime religiose italiane a partire per le missioni furono, a quanto risulta, le Figlie di Maria Santissima dell’Orto o ‘Gianelline’, che nel 1856 si recarono in Uruguay, seguite di lì a poco dalle Suore di carità di Lovere, partite per l’India nel 1860), si può avere un’immagine più precisa del volto che i nuovi istituti femminili presentavano in quegli anni alla società italiana.
A questo punto, però, s’impone una considerazione. Questo nuovo modello di vita religiosa, in pratica, era proprio del Nord Italia e in misura minore del Centro, non del Sud. Dalle statistiche si apprende che la Restaurazione aveva portato al ristabilimento di molti monasteri femminili improntati all’Ancien Régime e, aspetto non trascurabile, che al Sud non erano emerse figure di fondatrici provenienti da famiglie nobili o benestanti che in qualche modo avessero aperto nuove strade e legittimato nuove forme di vita religiosa. In altre parole, al Sud la vita religiosa era rimasta ancorata alle forme settecentesche molto più che in altre regioni italiane.
Una conferma viene dalle congregazioni presenti nel Meridione. Esse erano prevalentemente due, entrambe di origine francese: le Suore di carità di S. Giovanna Antida Thouret, giunte a Napoli nel 1810, e le Figlie della carità di S. Vincenzo de’ Paoli, arrivatevi nel 1843. Fra il 1843 e il 1866 queste due congregazioni inaugurarono 66 nuove case.
Ancor più illuminanti sono le statistiche. Secondo i dati raccolti al momento dell’unificazione italiana, la maggior parte delle religiose – considerate sia come numero complessivo che in proporzione al numero degli abitanti (nella tabella, tra parentesi è indicata la percentuale delle religiose per 10.000 abitanti) – si trovava nell’Italia centrale (ex Stato Pontificio) e nel Sud8.
È praticamente impossibile sapere quante delle 42.664 religiose censite nel 1861 fossero monache e quante suore. Si può comunque legittimamente supporre che la maggior parte delle religiose censite nel Sud fossero monache. Una statistica relativa ai monasteri presenti nelle Province napoletane nel 1861, di fatto, attesta un numero di 275 monasteri con una popolazione di 8.018 monache9, in percentuali dunque molto maggiori rispetto al Nord Italia
Se invece si considera il numero delle istituzioni scolastiche gestite dagli istituti religiosi femminili nell’anno scolastico 1863-1864 – in base all’inchiesta nazionale richiesta prima di arrivare alla soppressione generale del 1866 –, si ha che dei 795 istituti scolastici censiti ben 417 risultavano presenti nel Nord Italia, 175 nello Stato pontificio e 203 nel Regno delle Due Sicilie10.
Esisteva quindi già all’epoca dell’unificazione una differenza considerevole tra fondazioni femminili nel Nord e Sud Italia – differenza che attraverserà, del resto, tutta la storia d’Italia.
Se ora si confronta la storia appena illustrata con le convinzioni della società e con quanto proposto o realizzato dal movimento femminile in questo arco di tempo si possono osservare con maggior precisione le concordanze e le differenze.
Fino al 1848 non c’era ancora un parallelo movimento femminile nella società italiana. La partecipazione delle donne ai moti risorgimentali aveva destato stupore e attenzione, ma non vi era ancora, in linea generale, uno specifico interesse per il tema dell’emancipazione femminile11. I due capisaldi che reggevano la condizione della donna in quel momento erano da un lato la sua presunta inferiorità, dall’altro il suo stretto legame con la famiglia, e se a essi si aggiunge l’idealizzazione della donna come ‘angelo del focolare’, secondo le parole di Giuseppe Mazzini, si ha un quadro abbastanza vicino alla realtà del tempo12. Pur ricercando un’evoluzione e pur tacciando come ‘pregiudizio fatale’ l’idea che potesse esserci una differenza di cultura tra uomini e donne, si continuava a ritenere che la donna fosse, per sua natura, legata alla famiglia e quindi non adatta a studi che richiedevano riflessioni e indagini prolungate13.
A questo punto, però, conviene chiedersi a quali donne si rivolgevano le prime ‘emancipazioniste’. Quando esse chiedevano l’apertura delle professioni alla donna, non era per le donne del popolo. Queste avevano continuato a lavorare negli opifici, o a casa propria, o ad aiutare il marito. Le migliaia di telai che funzionavano nelle case del popolo ne erano un’esplicita testimonianza. Le prime ‘emancipazioniste’, quindi, non assumevano come riferimento le donne del popolo, ma le donne di civile o nobile condizione. Era per questi soggetti che si invocava l’emancipazione, e specialmente per le donne sposate, la cui libertà personale era limitata dal rigido obbligo dell’autorizzazione maritale per qualsiasi iniziativa volessero intraprendere. Solo in un secondo momento, con la richiesta di riconoscere il lavoro della donna come pari a quello dell’uomo, esse si rivolsero anche (anzi: soprattutto) alla donna del popolo e cercarono di farne un’operaia, di promuoverne cioè il sentimento di classe, di cui erano sprovviste.
In questi anni, però, le suore delle nuove congregazioni – provenienti in gran parte dalle classi popolari – non solo sapevano tutte leggere e scrivere (il che non avveniva normalmente per le loro coetanee), ma spesso avevano ottenuto regolari diplomi di maestre, a Bergamo avevano persino aperto nel 1822 una scuola per la formazione delle ‘maestre contadine’14, non poche avevano seguito la strada infermieristica, erano maestre, caposala in ospedale, avevano iniziato l’avventura missionaria, con la conoscenza di paesi stranieri, pressoché preclusa alle loro coetanee, anche di nobile condizione. L’associazionismo femminile trova insomma nelle congregazioni femminili un tassello non indifferente della propria storia già nella prima metà dell’Ottocento.
Si conosce, grazie a numerosi studi, la natura delle leggi di soppressione – avviate nel 1861, divenute generali per tutto il Regno nel 1866 ed estese a Roma nel 187315. Si trattò di provvedimenti incentrati su due punti fondamentali: togliere agli istituti religiosi quel riconoscimento giuridico che garantiva i loro beni come corporazioni religiose (con i relativi privilegi) di fronte allo Stato e, del pari, lasciare loro la possibilità di continuare a vivere: per i religiosi e le religiose, come liberi cittadini di fronte allo Stato; per i rispettivi istituti, come associazioni, sottostando alle leggi dello Stato16. Le religiose e i religiosi, quindi, potevano compiere tutti gli atti a titolo personale – compravendita, testamento, eredità, ecc. – che un’attività economica poteva comportare. E ciò sarebbe stato ugualmente valido per le associazioni che essi avessero ritenuto opportuno fondare17.
Per avere un’idea più precisa del ‘terremoto’ abbattutosi sugli istituti religiosi a seguito delle leggi di soppressione, basti ricordare che la legge del 1866 colpì complessivamente 22.213 religiosi (12.584 religiosi e 9.629 religiose)18. Queste ultime, però, erano nella quasi totalità monache di voti solenni19, cioè non appartenenti ai numerosi nuovi istituti fondati dopo la Restaurazione.
La prima linea di difesa da parte dei religiosi fu di tentare un’interpretazione restrittiva della legge di soppressione, appoggiandosi al fatto che essa – redatta in maniera piuttosto confusa20 – aveva tolto il riconoscimento giuridico alle corporazioni considerate ‘religiose’, ma non a quelle laicali.
Ora, sotto questo aspetto, sino alla fine dell’Ottocento, la Sacra congregazione dei vescovi e regolari aveva costantemente negato il carattere ‘religioso’ a tutte le nuove fondazioni; anzi, aveva espressamente proibito loro di usare nelle costituzioni i termini di ‘religioso’ e di ‘professione’, considerando questi istituti – anche se avevano ottenuto un’approvazione pontificia – quasi alla stregua delle pie unioni21.
Di fatto, molte furono le congregazioni religiose femminili che riuscirono a sottrarsi alle leggi di soppressione facendo valere il loro carattere laicale. Tra le prime si segnalano le Maestre pie della presentazione di Maria Santissima, di Genova, nello stesso 1866, subito seguite dai vari istituti di Suore Dorotee e di Orsoline, come quelle di Parma e di Piacenza. Queste ultime riuscirono a salvare un patrimonio terriero di oltre 800 ettari, ricevuti in dono nel 1818 dalla duchessa Maria Luigia d’Austria per poter svolgere il loro compito educativo22. In un resoconto del 1872 erano già 156 gli istituti che, considerati laicali, avevano potuto conservare i loro beni23.
La seconda strada, anche se limitata agli istituti religiosi presenti in Lombardia, fu di appellarsi al Trattato di Zurigo del 1859. Prevedendo, infatti, che la cessione della Lombardia al Regno di Sardegna avrebbe comportato la soppressione delle corporazioni religiose, nel Trattato tra Austria, Francia e Regno di Sardegna, firmato il 10 novembre 1859, venne inserito – su proposta del preposito generale dei Gesuiti, padre Peter Johann Beckx24 – un articolo, il sedicesimo, a favore delle congregazioni religiose nel caso in cui il territorio fosse passato sotto il dominio di un governo contrario al mantenimento delle loro istituzioni.
Al Trattato di Zurigo si appellarono molti istituti lombardi25 con risultati che furono loro favorevoli, anche se talvolta solo dopo lunghi processi.
Nella maggioranza dei casi, comunque, le congregazioni religiose si adeguarono alle leggi del nuovo Stato. Il primo istituto femminile ad adottare questo orientamento sembra essere stato quello delle Marcelline di Milano, che nel dicembre 1866, quindi a pochissima distanza dalle leggi di soppressione, costituirono la Società educativa delle Marcelline e contemporaneamente distribuirono – su iniziativa del fondatore, don Luigi Biraghi, che rinunciava così ai suoi beni – la proprietà delle case di Cernusco, Vimercate e via Quadronno a Milano a piccoli gruppi di Marcelline in società tra loro26.
Anche le Figlie della carità canossiane, con atto notarile del 1868, costituirono loro procuratrice generale la superiora della loro casa milanese27.
Queste iniziative, che costituivano un adeguamento alla nuova situazione politica italiana, non sollevarono obiezioni da parte delle autorità ecclesiastiche, probabilmente perché conosciute solo nell’ambito ambrosiano. Quando però nel 1870 le Suore di carità di Lovere – un piccolo centro nei pressi di Bergamo – si costituirono anch’esse in associazione civile, incontrarono notevoli opposizioni. Le religiose, infatti, convinte che bisognasse riconoscere le leggi del nuovo Stato, nel marzo del 1870 crearono un’associazione civile denominata Sorelle della carità, avente per scopo l’assistenza degli infermi negli ospedali, l’assistenza di orfani e bambini abbandonati, l’assistenza alle condannate nei luoghi di pena e case di reclusione, l’educazione delle fanciulle e altre opere compatibili con la loro vocazione religiosa.
Allorché il cardinal Antonio De Luca, protettore dell’istituto, ricevette copia dello statuto, ravvisò in esso un atto lesivo dei diritti della Chiesa – ritenne cioè che le religiose si fossero autonomamente dichiarate ‘non religiose’ di fronte allo Stato: come lo erano, di fatto, di fronte alla Chiesa – e chiese alla Sacra congregazione dei vescovi e regolari in che modo comportarsi nei loro confronti.
La risposta non si fece attendere. La congregazione deplorò l’atto compiuto dalle religiose e chiese loro di sottoscrivere una ritrattazione28, che fu firmata il 28 dicembre 1871 da tutte le 456 suore che avevano costituito la società delle Sorelle della carità29.
Di notevole interesse – perché quasi antesignano di quanto la Santa Sede avrebbe in seguito raccomandato agli istituti religiosi dopo il 1889 – fu l’accorgimento adottato dalle monache domenicane del monastero Matris Domini di Bergamo. Divenute legittime proprietarie a seguito del trattato di Zurigo, esse frazionarono i propri beni in 32 parti – quante erano allora le monache – e nel 1867 le alienarono a don Fermo Gavazzeni, in modo da figurare come affittuarie30.
Ci si chiese anche se alcuni tipi di organizzazione economica non fossero più adeguati alle comunità composte di religiosi uomini, ed altri invece alle comunità religiose femminili. Sembra che la questione sia sorta soprattutto in riferimento all’intestazione dei beni a singole religiose, molte delle quali avevano pronunciato i voti temporanei e potevano lasciare l’istituto quando volevano. Sembra, cioè, che di fronte al pericolo delle uscite dall’istituto – più frequenti tra le religiose che tra i religiosi – si preferisse il ricorso a un tipo di possesso collettivo, in genere quello della società tontinaria31.
Di fatto, il sistema della società tontinaria venne adottato da molti istituti femminili, così come altri adottarono il sistema delle società anonime o immobiliari.
La conclusione è che gli istituti religiosi femminili, con l’adeguamento alle leggi del nuovo Stato, non solo riuscirono a conservare i loro beni, ma anche ad aumentarli, in non pochi casi in misura considerevole. Ciò era reso possibile per un verso dalla condivisione comunitaria delle molteplici esigenze vitali di ciascuna religiosa, per un altro verso dai compensi che le amministrazioni comunali (nel caso di asili, scuole, ospedali ecc.) o statali (carceri) versavano loro previe apposite convenzioni.
Le convenzioni che gli istituti religiosi firmavano con gli amministratori delle opere presso le quali prestavano servizio (scuole, ospedali, orfanotrofi ecc.) prevedevano sempre un compenso in denaro, oltre al vitto e all’alloggio, e permettevano di inviare ogni anno alla casa madre dell’istituto i risparmi, che servivano a sostenere le case di formazione e di noviziato, e a intervenire in caso di bisogno per l’apertura di nuove case o a sostegno di nuove opere.
Anche la dote portata dalle religiose al momento del loro ingresso in convento costituiva una fonte d’introito non indifferente. I nuovi istituti, è vero, non chiedevano una dote elevata, come i monasteri, ma semplicemente tale da permettere alla religiosa di mantenersi per alcuni anni. Si sa ad esempio che tra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento si chiedeva una dote di lire 1.000. Se si considera che la spesa per il mantenimento giornaliero di una singola persona ammontava a meno di una lira, si può allora stimare che la dote, se di lire 1.000, avrebbe garantito il sostentamento di una religiosa per un periodo compreso fra i tre e i cinque anni o poco più. I nuovi istituti, tuttavia, sia perché le loro aspiranti provenivano in gran parte dalle classi popolari, non in grado di portare una dote elevata, sia perché il lavoro svolto dalle nuove religiose in ospedali, scuole, asili, orfanotrofi, carceri veniva regolarmente retribuito, finirono per considerare l’eventuale titolo di studio con cui la giovane entrava in convento come equivalente della dote. Poiché la dote delle religiose non doveva essere spesa – con notevoli vantaggi, peraltro, per le banche presso le quali era depositata – viventi le religiose che l’avevano portata, e doveva essere restituita integralmente alla religiosa se decideva di lasciare la congregazione, si può facilmente comprendere che, più elevato era il numero delle religiose che restavano in convento sino alla morte, maggiore era la somma delle doti che venivano depositate nella cassa comune dell’istituto.
Un esempio concreto, relativo alle Figlie di S. Anna, di Piacenza, permette di seguire l’andamento nel tempo dei ‘sopravanzi’ o risparmi e delle doti32.
Si può quindi concludere affermando che le leggi di soppressione non cancellarono l’esistenza di alcun istituto religioso: esse mutarono solo la base economica che reggeva la vita dei religiosi e delle religiose. Non più beni di manomorta, che si riteneva condizionassero in termini negativi la vita dello Stato sotto il profilo tanto economico quanto politico, ma libertà di possedere e vivere in comune come privati cittadini, sottoposti in tutto alle leggi dello Stato.
Si può dire che i 40 anni che vanno dalle leggi di soppressione del 1861 alla fine del secolo segnano non solo un riavvicinamento dello Stato alle congregazioni religiose, ma anche un profondo radicamento di religiosi e religiose nella vita nazionale, mentre la Santa Sede cerca di disciplinarne la vita.
Dopo aver riconosciuto legittimità di vita – nel breve volgere di cinque-sei anni, come sopra ricordato – a oltre 150 istituti religiosi femminili, quasi tutti con finalità educative, lo Stato riconobbe il ruolo svolto dalle religiose per un verso nelle carceri, per un altro verso nelle colonie, facilitando in tal modo il suo riavvicinamento alle congregazioni religiose femminili.
Per le carceri si sa che negli Stati preunitari alle suore era riservato il compito di assistere e di accompagnare le detenute. Questo servizio continuò nel nuovo Stato unitario, che, con il regolamento carcerario del 1871 (e poi ancora in tutti quelli successivi), qualificò le suore come personale ‘aggregato’, stabilendo per loro un regolare assegnamento annuo33. Era una conferma che, pur non riconoscendo loro uno statuto particolare e privilegi in quanto religiose, ne richiedeva comunque i servizi, retribuendoli.
Qualcosa del genere avvenne nelle colonie. In base al principio che in ciascuna colonia italiana dovesse essere impiegato personale religioso italiano, in sostituzione dei Lazzaristi francesi in Eritrea, il ministro Francesco Crispiottenne, nel 1893-1894, che venissero inviati i Cappuccini italiani e, in sostituzione delle Figlie della carità francesi, le Figlie di S. Anna34. In questo caso, la promozione dell’italianità e della lingua italiana passava attraverso i missionari e le missionarie, come avverrà in maniera più massiccia negli anni successivi con la concessione dello stesso riconoscimento civile a istituzioni missionarie prim’ancora della stipula del Concordato del 1929.
Per la vita religiosa propriamente detta, nel periodo che dalle soppressioni arriva alla fine dell’Ottocento si assiste a un progressivo inquadramento-disciplinamento degli istituti femminili nelle strutture classiche della vita religiosa. Del pari, la Sacra congregazione dei vescovi e regolari mostra chiaramente di non accettare più quella libertà tollerata nella prima metà dell’Ottocento, probabilmente per la relativa vicinanza della Rivoluzione francese.
La laboriosa approvazione delle Figlie di S. Anna, fondate a Piacenza da Rosa Gattorno, è una dimostrazione emblematica di questa tendenza. La fondatrice aveva previsto che le sue religiose emettessero solo voti temporanei, prestassero servizio agli infermi di giorno e di notte, a domicilio e negli ospedali, qualunque fosse la loro condizione, il sesso e la malattia; e che nelle scuole del suo istituto potessero entrare anche i fanciulli maschi di età compresa fra i sette e i dieci anni.
Queste costituzioni non furono accettate dalla Sacra congregazione dei vescovi e regolari, che nel 1876 inviò parecchie animadversiones, tra le quali: che venisse soppresso dalle costituzioni l’articolo che permetteva alle suore di insegnare ai fanciulli fino ai dieci anni di età, «essendo cosa assai pericolosa»; e che nell’istituto non si emettessero voti temporanei all’infinito, ma dopo un congruo lasso di tempo si arrivasse a quelli perpetui.
Un tentativo di modificare la struttura della congregazione religiosa, si ebbe attorno agli anni 1890, allorché si discusse l’approvazione delle Ancelle del Sacro Cuore fondate a Napoli verso il 1865 da Caterina Volpicelli sul modello di un istituto francese a lei ben noto, le Oblate del Sacro Cuore. La Volpicelli chiedeva che le sue religiose potessero vivere anche a casa propria, quindi senza vita comune e senza abito religioso, lasciando loro la libertà di entrare in convento quando le circostanze della loro vita familiare lo avrebbero permesso. Nel 1889, però, la Santa Sede aveva emanato il decreto Ecclesia Catholica, con il quale dichiarava che gli istituti che avevano membri esterni e interni, senza abito distintivo, non sarebbero stati approvati come congregazioni religiose, ma solo come «piae sodalitates».
Come si vede, i nuovi istituti, nati in un ambiente influenzato dalla Rivoluzione francese, avevano accettato come fatto normale la temporaneità dei voti e la possibilità che i propri membri conservassero il diritto di proprietà. Regolamentandone l’operato e l’organizzazione, perché potessero meglio operare in consonanza con ciò che si riteneva essere la vita religiosa, la Chiesa conservava il suo argomento di forza: questi nuovi istituti non possono essere considerati ‘religiosi’ a tutti gli effetti35. Era un arroccamento sulle proprie posizioni, per conservare la propria indipendenza e il carattere religioso ai voti solenni, e non cedere alle richieste degli Stati che continuavano a interferire nella vita religiosa. Nello stesso tempo, però, era evidente che eventuali novità per la donna religiosa non potevano più venire dal modello della congregazione religiosa, che la Chiesa aveva ormai fissato nei suoi moduli, ma da altri modelli che si sarebbero aggiunti ai precedenti, come risposta più adeguata ai tempi e alle circostanze ormai mutati.
L’evoluzione che si manifestava in questi anni, quindi, non era tanto in una linea di novità, quanto in un aumento e ampliamento di opere che abbracciavano campi estremamente vari. Si moltiplicavano gli asili-nido (per aiutare la madre che lavorava), gli orfanotrofi, gli educandati, i convitti per operaie, le scuole (nelle quali si seguivano ormai i programmi governativi), il servizio negli ospedali, le scuole speciali per sordomuti, gli ospizi per anziani, gli oratori festivi, le cucine economiche, le opere a favore delle domestiche, e, verso la fine dell’Ottocento, il soccorso prestato agli italiani emigrati36.
Tre sono gli ambiti che rivestono qui un particolare interesse.
‘Le religiose infermiere’: le congregazioni ospedaliere italiane avevano provveduto, sin dalla prima metà dell’Ottocento, a preparare le proprie religiose per lo svolgimento delle mansioni infermieristiche, con appositi insegnamenti impartiti dai medici dell’ospedale nei quali esse prestavano servizio37. In pratica, le religiose svolgevano quelle mansioni che rientravano nella cosiddetta bassa chirurgia, e nei loro regolamenti si trovano norme di carattere spirituale e ascetico, che a volte avevano il sopravvento su quelle propriamente scientifiche38. Se si pensa che in Italia sino ai primi anni del Novecento non esisteva alcun manuale per l’assistenza infermieristica, degna di nota appare l’iniziativa di monsignor Giovanni Antonio Farina, fondatore delle Suore Dorotee a Vicenza, che per loro fece tradurre e pubblicare in italiano nel 1878 un manuale francese sulla formazione delle infermiere, che, diviso in due parti – la prima conteneva nozioni di igiene e di pratica infermieristica; la seconda trattava delle virtù dell’infermiera e proponeva un prontuario di preghiere da recitarsi con gli ammalati –, raccoglieva il meglio delle conoscenze di allora in materia39. In seguito la formazione delle infermiere venne svolta nelle cosiddette scuole samaritane (la prima nacque a Torino nel 1883) e, più tardi, nelle scuole infermieristiche annesse agli ospedali. Il presupposto base, comunque, era che le suore dovessero essere infermiere, e che non potessero mai divenire medici, essendo la medicina una delle professioni proibite al clero e ai religiosi sin dal Medioevo. E ciò non mancherà di influire sulla loro presenza negli ospedali.
‘I convitti per operaie’: erano sorti per aiutare le giovani operaie che si trovavano lontano da casa per esigenze di lavoro, quindi in risposta a richieste sia di famiglie, che desideravano in questo modo proteggere le loro figlie, sia di parroci, che temevano per l’incolumità morale delle giovani, sia ancora degli imprenditori, alla ricerca di una sistemazione più soddisfacente per le loro filandiere. E molte furono le congregazioni femminili che s’impegnarono in quest’opera: le Suore della Sacra Famiglia, fondate da Elisabetta Cerioli (che nel 1864 s’impegnarono nel copertificio di Leffe); le Suore della carità di Lovere, che complessivamente diressero 26 convitti per operaie, tutti localizzati nel Nord Italia); le Salesiane di don Bosco, le Guanelliane e tanti altri istituti ancora, sicuramente sin verso il 193040.
‘La scuola’: diversi istituti, subito dopo l’Unità, inviarono le loro religiose alle conferenze magistrali e pedagogiche per essere abilitate all’insegnamento elementare, e poi a regolari scuole normali per conseguire la patente elementare, e successivamente anche i diplomi di ginnastica, mentre non pochi istituti religiosi femminili crearono scuole normali interne per formare le proprie religiose e le giovani, sottoponendole poi tutte agli esami pubblici41. Tra le prime figurano le Marcelline, di Milano, le Suore di S. Anna, di Torino, e le Figlie della carità di S. Vincenzo de’ Paoli, a Napoli, mentre di particolare interesse è la vicenda che coinvolse Eugenia Ravasco, fondatrice delle Figlie dei Sacri Cuori di Gesù e Maria a Genova, che chiese il pareggiamento della scuola normale che aveva fondato con l’aiuto dei migliori professori della città, non esitando a presentare, nel 1881, le sue rimostranze all’onorevole Guido Baccelli, perché a Genova non si voleva concedere ciò che era stato concesso a Torino per la scuola normale fondata dall’onorevole Domenico Berti42.
Numerose furono poi le religiose che sostennero esami universitari per l’abilitazione all’insegnamento di determinate discipline. L’avvio delle religiose agli studi universitari costituiva una novità non esente da sospetti: l’università non era luogo di donne, perché essa le avrebbe allontanate dalla famiglia e dai figli, e le religiose – come esortava l’episcopato lombardo nel 1893 – avevano il compito di formare donne di casa, non di università43.
L’apertura, nel 1882, del Magistero femminile a Firenze e a Roma costituì una nuova possibilità per la formazione delle suore.
Nel 1896 un’istruzione della Sacra congregazione dei seminari disciplinò l’accesso dei sacerdoti, sia secolari che regolari, alle università civili, senza parlare delle religiose, per le quali evidentemente – come risulterà dai successivi decreti – non si pensava neppure che potessero frequentare l’università o addirittura l’avessero già frequentata. L’accesso era permesso solo a membri di istituti religiosi con finalità educative e formative – quindi non per la formazione generale della persona – e solo nel numero strettamente necessario per mandare avanti le scuole44.
Resta ora da esaminare e spiegare il grande sviluppo delle congregazioni religiose femminili sin verso gli anni Venti e Trenta del Novecento, come indicano le statistiche. Dopo il censimento del 1881, che vede un notevole calo del numero di suore – ma non è da escludere che non poche di esse non si siano qualificate come suore per timore di subirne qualche danno –, le cifre sono in costante aumento. Anche nell’Italia meridionale e nelle Isole cominciava a diminuire il numero dei conservatori e delle monache di casa, cresceva il numero delle fondazioni locali45 e tuttavia le statistiche permettono di notare come, ancora una volta, il quadro non sia uniforme.
Anzitutto, c’è un’inversione di tendenza. Nel censimento del 1861 la maggior parte delle suore (circa il 53% del totale) si trovava nelle regioni meridionali. Questa preponderanza non c’è più nel censimento del 1881, dopo di che la situazione muta sempre più: la Lombardia prende il primo posto (tranne che nel 1901), e la Sicilia non raggiunge più il numero di religiose precedente. In pratica, al Nord c’è un aumento del numero delle religiose già nel censimento del 1881, al Centro nel 1921, mentre nel Meridione e nelle Isole bisogna attendere il censimento del 1951. Sembra cioè che le giovani meridionali, così numerose nei monasteri sin verso il 1861, abbiano stentato a orientarsi verso i nuovi istituti di vita attiva.
Il quadro statistico riportato nella sezione Tabelle lascia intuire quali fossero le reali dimensioni del fenomeno46.
Il fatto che in quegli anni l’Italia fosse un paese fortemente legato al cattolicesimo non sembra sufficiente a spiegare questa crescita imponente, e sembra invece necessario considerare le circostanze sociali del momento, la più importante delle quali era la questione della maternità-famiglia, non solo in ambito cattolico e laico, ma anche in quello delle stesse ‘emancipazioniste’, perché i vari tentativi di ridefinire la nuova figura della donna finivano prima o poi per trovarsi di fronte a essa.
In ambito cattolico, la presenza della donna in famiglia rispondeva ai dati tradizionali; Leone XIIIaveva precisato che la donna era «fatta da natura per i lavori domestici, i quali grandemente proteggono l’onestà nel debol sesso, ed hanno naturale corrispondenza con l’educazione dei figli ed il benessere della casa»48.
In ambito laico ci si può rifare alle istanze del positivismo, i cui rappresentanti, d’accordo nel purificare la religiosità femminile dalle superstizioni religiose, vedevano la donna come futura madre ed educatrice, e pur affermando la perfetta uguaglianza giuridica e morale tra uomo e donna, non esitavano a sostenere che la distribuzione degli uffici sociali era regolata da altri principi.
All’atto pratico, le donne che lavoravano erano in gran parte nubili, come risulta dalle statistiche del tempo49. Sembra quasi che la società intera (cattolici, liberali, socialisti) si sia ritrovata unita per dare il maggior spazio possibile alla nubile – favorendo indirettamente la suora –, limitando di conseguenza lo spazio concesso alla donna-madre, che continuava a essere legata ai ruoli domestici.
Alcune statistiche possono illustrare la vastità del fenomeno: nel 1872 negli stabilimenti serici di Como, Lecco e Varese lavoravano 37.007 persone, di cui 32.620 erano donne. Di queste 17.768 erano fanciulle e bambine al di sotto dei 16 anni (comprese le bambine che avevano meno di 9 anni). A Lecco, verso il 1880, nelle filande le operaie costituivano l’89% della forza di lavoro, di esse il 31% aveva meno di 14 anni e praticamente nessuna era oltre i 30 anni. A Milano nel 1881 e nel 1901 il 75% della manodopera femminile aveva meno di 20 anni.
Se a questi dati si aggiungono quelli di altre categorie non censite, allora il quadro si fa più realistico: sempre a Milano nel periodo 1881-1901 oltre il 50% delle domestiche era sopra i 30 anni e si sa che, dato il particolare tipo di vita loro richiesto (le domestiche entravano infatti a far parte della famiglia presso cui prestavano servizio), oltre la metà di esse erano nubili.
Questo gran numero di nubili, o di giovani pressoché forzate al nubilato, non mancò di preoccupare anche i socialisti che, in un loro manifesto del 1893, notarono come le giovani operaie fossero quasi costrette a non sposarsi50.
Mutando il quadro sociale e migliorando le condizioni di lavoro, era ovvio attendersi che la società (Chiesa compresa) non avrebbe più puntato sulle nubili.
È in questo periodo che, riprendendo tentativi precedenti, si avviano i primi germogli degli istituti secolari con critiche al modello congregazionista.
Con la pubblicazione della costituzione Conditae a Christo (1900) e delle Normae (1901) la struttura della congregazione religiosa viene ridefinita e la Chiesa riconosce ufficialmente l’autorità della superiora generale in un istituto femminile. Se da una parte questa evoluzione rappresenta un ‘trionfo’ per la superiora generale, per la struttura delle congregazioni religiose essa si traduce in un irrigidimento, perché d’ora in avanti le loro costituzioni dovranno seguire pedissequamente quanto prescritto, canone per canone, dalle Normae emanate dalla Sacra congregazione dei vescovi e regolari.
Le Normae, ad esempio, dichiaravano che si sarebbe evitato di approvare istituti di suore che si proponevano di curare gli infermi di ambo i sessi a domicilio e di notte, o di prestare servizio domestico nelle famiglie degli operai e dei poveri (in pratica come badanti) o ancora d’insegnare nelle cosiddette scuole miste, e trovarono immediata applicazione anche in alcuni istituti che chiesero l’approvazione pontificia in quel periodo.
Questo irrigidimento sulla struttura della congregazione religiosa si accompagnava con una nuova visione della vita contemplativa delle monache. Sempre più incerte se continuare o meno l’opera dell’educandato, le monache Visitandine trovarono una risposta al loro dilemma nella lettera che papa Pio X indirizzò loro nel 1909. Senza parlare esplicitamente degli educandati, il pontefice dichiarò che esse avevano come primo dovere quello di osservare la loro regola, e di non mutarla con il pretesto di essere di aiuto al prossimo. Sulla base di questo intervento pontificio, da loro stesse sollecitato, le Visitandine che non avevano ancora chiuso i loro educandati lo fecero in quegli anni, ponendo così fine a una storia di oltre due secoli, che le aveva rese famose in Italia; il loro esempio verrà seguito da altri monasteri, desiderosi di rimettere al centro della propria vita la separazione dal mondo.
Non sembra esserci alcun dubbio che ancora nei primi decenni del Novecento la professione di infermiera esigesse il nubilato. Dando vita alla sua scuola per infermiere a Roma, di cui aveva avuto la prima idea nel 1901, e pur proponendosi di sostituire le suore nell’assistenza agli infermi, la laica Anna Celli aveva optato a favore delle nubili e delle vedove, asserendo che assistere i malati non era una professione, ma una missione che riempiva tutta la vita, e chiedendo alle sue infermiere che desideravano sposarsi di rinunciare a continuare a svolgere questa missione51. Anche Anna Celli, però, aveva incontrato le difficoltà allora legate alla vita dell’infermiera, e tra esse l’obbligo di vivere in ospedale – che ella intendeva mantenere, ritenendolo indispensabile per il buon servizio –, e l’opposizione di alcune sue giovani alla cura dei malati uomini.
Per conto loro, poi, le scuole samaritane per la preparazione di infermiere e infermieri esigevano dalle donne – per essere ammesse – il certificato «di nubiltà o di vedovanza senza prole lattante». In altre parole, la presenza della donna in alcune professioni continuava a essere determinata dal suo stato civile.
Ormai, però, anche in Italia stavano maturando delle critiche, anche in ambito cattolico, sia nei confronti dell’educazione impartita dagli istituti religiosi femminili, non più ritenuta all’altezza dei tempi52, sia per alcuni tipi di presenza nella società, in particolar modo nei convitti per operaie.
Criticati in ambienti di sinistra, che nei convitti per operaie vedevano un servizio reso ai padroni, ma anche in ambito cattolico, con richiesta di limitare la presenza delle suore ai convitti, escludendole dallo stabilimento – ormai a tutelare donne e fanciulli in fabbrica doveva pensare l’ispettorato del lavoro –, i convitti per operaie presero sempre più la fisionomia di case di formazione e di educazione.
Anche la fondazione, nel 1919, delle Missionarie dell’Immacolata Regina della Pace, se aveva portato alla novità di un istituto fondato per le mondariso e di religiose che, durante il tempo della monda, vivevano nelle grandi cascine insieme alle risaiole (superando il quadro tipico della casa religiosa), era rimasta nell’ambito religioso tradizionale della suora, non di una partecipazione alla lotta per migliori condizioni di lavoro, come confermato dal proclama emanato nel 1919 da don Luigi Orione, che aveva invitato alla lotta compatta per ottenere le otto ore di lavoro in risaia, e non trovò alcun impegno da parte delle congregazioni religiose femminili53.
Intanto, sulla base della convinzione ormai prevalente che la donna secolare dovesse operare anche in ambito sociale, si stavano avviando – grazie all’opera delle principali rappresentanti del femminismo cattolico54 – quelli che saranno poi definiti istituti secolari. Adelaide Coari si era già chiesta, nel 1904, se la sua vita non dovesse seguire un impegno di consacrazione ‘nel mondo’ e aveva trovato l’appoggio in monsignor Giacomo Radini Tedeschi, vescovo di Bergamo, in quel momento tutto teso a promuovere un ampio apostolato femminile in seno alla società.
Ricco di significati è il percorso di Elena da Persico55. Già verso il 1910 ella aveva intuito la possibilità di una vita di totale consacrazione nel mondo, senza vita comune, senza abito distintivo, lasciando che ognuna delle aggregate conservasse la disponibilità e la proprietà dei propri beni e continuasse a vivere nella sua normale condizione di vita (cioè per lo più in famiglia, essendo ancora difficile per una ragazza vivere per conto proprio in un appartamento), svolgendo un apostolato nel mondo, non stabilito dall’istituto, ma scelto dalla stessa aggregata secondo la propria indole e la propria specifica preparazione. Elena da Persico aveva compreso che le famiglie vantavano troppi diritti sulle figlie non sposate, le quali avevano invece il dovere e il diritto di seguire una propria vocazione, indipendentemente dai desideri dei genitori. Si comprende, perciò, a questo punto, come ella potesse pubblicare nella rivista «L’Azione muliebre», da lei diretta a partire dal 1904, un articolo in cui esprimeva il desiderio di arrivare a una ‘terza via’, diversa da quella della suora e da quella coniugale, e che significava la possibilità di vivere una dedizione totale al Signore, con voti o analoghi, anche in un istituto regolarmente approvato dalla Chiesa56.
Il codice di diritto canonico del 1917 non sostenne questo movimento innovativo; anzi, volle una rigida applicazione delle norme classiche della vita religiosa. Poiché v’erano ancora istituti religiosi – anche in Italia, e tra questi le Ancelle della carità di Brescia – che si reggevano sulla base dei voti temporanei, nel 1921 la Sacra congregazione per i religiosi (questo il nome assunto nel 1908 dal dicastero pontificio deputato alla cura degli istituti religiosi) emanò un apposito decreto ponendo con ciò fine al regime dei voti temporanei. Al dubbio di come comportarsi nel caso di istituti che avevano accettato la professione dei loro membri con la formula «finché resterò nell’istituto», cioè con voti ‘condizionali’, che non potevano essere definiti né come temporanei né come perpetui, la Pontificia commissione per l’interpretazione del codice rispose, nel 1921, considerandoli temporanei e richiedendo la tempestiva applicazione del codice57, che tali voti non prevedeva. E così fecero, adeguandosi al codice, le Maestre pie Veneriniche introdussero i voti perpetui nel 1923; le Figlie della carità canossiane nel 1926; le Maestre pie dell’Addolorata nel 1930 e altri istituti ancora.
La Grande guerra costituì un momento difficile anche per le religiose. Molte delle loro case vennero trasformate in ospedali militari, e numerose religiose vi prestarono servizio come infermiere per curare i soldati feriti, superando – data l’emergenza – le disposizioni delle regole che vietavano loro di curare gli uomini. Gli anni 1914-1918 segnarono, di conseguenza, un forte coinvolgimento delle religiose nella vita della nazione.
Per quanto riguarda la vita economica delle loro comunità, esse avevano continuato a reggersi adeguandosi alle leggi dello Stato, migliorando continuamente – grazie ai sopravanzi, alle doti e alle rette pagate dalle educande nelle loro scuole – un notevole patrimonio, come emblematicamente rappresentato dal prospetto patrimoniale delle Figlie del Sacro Cuore di Gesù, di Bergamo, per gli anni 1894-191958.
L’enorme massa di denaro delle doti immobilizzata nelle banche per rispondere ai dettami del codice di diritto canonico non aveva però mancato di suscitare qualche perplessità anche presso le Figlie del Sacro Cuore di Gesù, che avevano sottolineato la scarsa rendita delle azioni e, al contempo, la convenienza – economica ed apostolica insieme – che si sarebbe avuta se si fossero investite quelle stesse somme in opere dell’istituto.
La Prima guerra mondiale, comunque, con la sconfitta dell’Italia, indebolì economicamente anche gli istituti religiosi femminili. Quanto essi abbiano perso a seguito di fallimenti di banche, specie quegli istituti che avevano azioni o depositi presso banche austriache, ungheresi, russe, turche, è difficile dire.
Proprio durante il fascismo la società italiana conobbe alcuni cambiamenti che influirono tanto sulla vita quanto sulla stessa presenza numerica delle religiose italiane.
Intanto si andava rafforzando, anche in Italia, quel lungo processo che avrebbe portato al riconoscimento degli istituti secolari nella Chiesa con la Provida Mater del 1947. Le Apostole del Sacro Cuore, fondate a Milano nel 1919 dal gesuita Ernesto Busnelli; la Compagnia di S. Paolo, fondata ancora a Milano nel 1920 da don Giovanni Rossi; la Unio Filiarum Dei, fondata nel 1924 in diocesi di Treviso da Ippolita Teresa Eranci sono solo alcuni dei vari istituti secolari che prendono vita in quegli anni.
Quanto forti fossero le resistenze a questo nuovo tipo di vita, però, è testimoniato dalle difficoltà da loro incontrate.
Pur coinvolgendo anche le donne in un progetto comune, la Compagnia di San Paolo evitava accuratamente qualsiasi promiscuità nel campo dell’apostolato e proibiva espressamente alle donne l’apostolato diretto con gli uomini, e ai giovani della Compagnia l’apostolato con donne. Queste misure non furono ritenute sufficienti dalla Sacra congregazione per i religiosi, che obbligò la Compagnia a presentarsi come un’associazione composta di due gruppi: uno maschile e uno femminile.
Elena da Persico dovette difendere la sua intuizione di una consacrazione ‘nel mondo’ caratterizzata da un impegno sociale, contro le idee del gesuita Giuseppe Petazzi, direttore spirituale di alcune sodali dell’istituto, alle quali egli aveva dichiarato che la Santa Sede mai avrebbe approvato il progetto di istituto con membri che emettevano voti nel mondo senza essere sottoposti all’autorità di un direttore spirituale sacerdote.
Il cammino più istruttivo sembra essere stato quello di Agostino Gemelli e di Armida Barelli, cofondatori delle Missionarie della Regalità, le cui origini risalgono a un gruppo di terziarie francescane fondate nel 1919. A padre Gemelli, che nel 1921 aveva fondato a Milano l’Università Cattolica del Sacro Cuore, sembrava necessario avere un gruppo di collaboratori – uomini e donne – che ne sostenessero l’opera restando nel mondo, impegnandosi con i tre voti religiosi e con l’obbligo di osservare il segreto sui membri del sodalizio per non comprometterne l’opera apostolica nella società. Il passaggio dalla dipendenza della Sacra congregazione per i religiosi a quella del concilio, per tornare poi di nuovo alla Sacra congregazione per i religiosi, il voluminoso carteggio intercorso tra Gemelli e i dicasteri pontifici, i diversi ‘voti’ dei consultori interessati al progetto e i ripetuti ‘dilata’ mostrano chiaramente quanto fosse allora difficile per la Chiesa riconoscere un nuovo tipo di vita consacrata nel mondo.
Comunque, questo proliferare di istituti secolari in Italia – circa una settantina – non può non essere posto in relazione con il diverso statuto sociale che anche in Italia la nubile aveva assunto, potendo non solo lavorare, ma anche gestire il proprio stipendio e, cosa impensabile nell’Ottocento, vivere da sola in un proprio appartamento.
La Santa Sede aveva rinnovato più volte (nel 1907, nel 1910, quindi ancora nel 1918) la proibizione di frequentare le università civili senza il suo consenso e, dopo la fondazione dell’Istituto superiore di magistero Maria Immacolata a Castelnuovo Fogliani (Piacenza) come sezione dell’Università Cattolica di Milano, insistette, tramite la Sacra congregazione per i religiosi e la Sacra congregazione per i seminari e le continue pressioni di padre Gemelli, perché le religiose la frequentassero, evitando la promiscuità presente nelle altre università, arrivando anche a negare il permesso di frequentare istituti di magistero esistenti in altre città.
Nel 1931 la proibizione di frequentare università civili senza il previo consenso della Santa Sede venne ripetuta, questa volta inserendo nella proibizione anche le religiose, ma il testo non venne promulgato negli Acta Apostolicae Sedis per il timore di reazioni da parte del governo italiano59.
Anche se ci furono religiose che continuarono a laurearsi in università civili, ovviamente con il consenso della Santa Sede, qui sembra più utile rimarcare il mutamento di prospettiva. Ormai erano le nuove istituzioni – sotto la guida di padre Gemelli e di Armida Barelli – a preoccuparsi di migliorare la preparazione delle religiose. Non erano più le religiose che, di loro iniziativa, affrontavano nuovi impegni e nuovi rischi.
La cura dei malati uomini da parte delle religiose continuava a preoccupare la Sacra congregazione per i religiosi, che nel 1922 aveva ripreso in mano la questione, chiedendo ai suoi consultori se non fosse opportuno emanare un’apposita istruzione che disciplinasse la materia, ma ancora una volta non si giunse ad alcuna decisione.
Negli anni 1925-1926 e 1929, però, il governo italiano aveva ridefinito il ruolo dell’infermiera in ospedale, assegnandole la cura del malato senza più alcuna distinzione di genere. Poiché toccava direttamente le suore – non poche delle quali erano restie a curare gli uomini, in forza delle regole dell’istituto approvate dalla Santa Sede –, e v’era il rischio che le infermiere laiche, che avevano chiesto l’abilitazione di caposala, superassero il numero delle religiose, l’argomento venne discusso più volte, sino a che, nel settembre del 1940, la Sacra congregazione per i religiosi in una lettera inviata a tutte le superiore generali di istituti ospedalieri fece presente l’opportunità che, in forza del carattere religioso loro proprio, le superiore generali nello stipulare le convenzioni chiedessero ai responsabili delle istituzioni ospedaliere di tenere conto delle limitazioni concordate tra le autorità ecclesiastiche e le autorità governative. In pratica, di esentare le religiose dal servizio infermieristico completo presso i malati di sesso maschile e anche presso malate colpite da particolari infermità, assumendo apposito personale per disimpegnare quei servizi che non convenivano a religiose60.
Era un privilegio che richiamava la tendenza all’alterità come modello di costruzione sociale, ma ormai, e chiaramente, un autoisolamento, che a lungo andare avrebbe inciso sulla professionalità stessa delle religiose, che si sarebbero trovate a competere con secolari più preparate grazie alla loro esperienza.
Ovviamente, questi provvedimenti riguardavano la religiosa come infermiera, non come medico, mansione che la Chiesa continuava a proibire a religiosi e religiose. Fu solo nel 1936 che la Sacra congregazione di Propaganda Fide permise che le suore operanti nei paesi di missione potessero acquisire titoli universitari anche in medicina61.
La società italiana stava mutando, sia pure lentamente, e per la questione che qui interessa il mutamento significativo era il ritorno della donna sposata al lavoro. Non v’erano più bambine al lavoro negli opifici e, grazie all’estensione della frequenza scolastica, diminuiva fortemente la forza di lavoro delle fanciulle dai 10 ai 14 anni. E ciò non ha mancato di influire sulla diminuzione del numero delle nubili che decidevano di scegliere la vita religiosa, come mostra il rapporto tra nubili e suore nei censimenti del 1931 e 195162.
I dati riportati sono significativi per diversi motivi. Anzitutto, essi confermano l’inversione di tendenza che si manifesta nel reclutamento delle religiose a partire dal ventennio 1931-1951, cioè una netta diminuzione. Le statistiche illustrano in quali regioni le diminuzioni sono più alte. Di fatto, le percentuali di diminuzione sono più alte al Nord (Piemonte, Liguria e Lombardia perdono in media circa sette punti percentuali) che al Sud (la Sicilia perde solo l’1,4%). In pratica, come le regioni settentrionali erano state le prime nell’Ottocento a promuovere lo sviluppo della congregazione religiosa, ora sono le prime a segnalarne il rallentamento, per cui, più che osservare che in quegli anni le vocazioni religiose venivano maggiormente dal Sud, più povero economicamente, sembrerebbe più aderente alla realtà chiedersi se non si stesse verificando un cambiamento socio-religioso, avvertito anzitutto nelle regioni settentrionali63.
La Seconda guerra mondiale toccò da vicino gli istituti religiosi femminili, anche se finora si conosce poco di come essi l’hanno vissuta. La Santa Sede aveva invitato, a guerra conclusa, a raccogliere le testimonianze di carità che essi avevano attuato, ma finora i dati raccolti riguardano soprattutto la città di Roma, e mostrano come le opere caritative si rivolgessero a tutti: soldati, sbandati, tedeschi, inglesi, partigiani, bambini abbandonati64.
Per gli ebrei è ormai dimostrato che oltre 4.500 di essi salvati a Roma lo furono, in gran parte, in conventi femminili65, e ugualmente si può dire che il loro cammino di fuga verso il Nord Italia trovava soste in conventi femminili66. Analogo discorso si può fare per le suore durante la Resistenza67.
Nell’immediato dopoguerra tutte le religiose italiane, anche le monache di clausura, furono pressantemente invitate dalla Santa Sede a partecipare alle elezioni politiche in funzione anticomunista; anzi, in quegli anni la Santa Sede esortò le religiose a non lasciare l’Italia proprio per sopperire ai tanti bisogni locali.
Tutto ciò valeva ovviamente per il mondo delle religiose. Per i membri degli istituti secolari, più liberi e per principio attivi nelle questioni sociali, le cose furono diverse. Basti qui ricordare l’onorevole Elsa Conci, che nel 1945 diede vita al movimento politico delle donne, venne eletta deputato nel 1946 alla Costituente nella liste della Dc e fu sempre rieletta nelle successive elezioni68.
Si può certamente affermare che la prima spinta verso l’aggiornamento della vita religiosa questa volta è venuta non dal basso, ma dall’alto, cioè dallo stesso pontefice Pio XII, che ne aveva riconosciuto la necessità dopo i mutamenti seguiti alla Seconda guerra mondiale. Il convegno mondiale degli stati di perfezione – come allora si diceva – svoltosi a Roma nel 1950 aveva proprio come fine un rinnovamento generale della vita religiosa69.
Esaminando però i vari interventi, ci si rende conto ora che l’accommodata renovatio verteva sui fondamenti teologici e ascetici della vita religiosa, su una ripresa della vita comune, sulla disciplina religiosa, sulla povertà religiosa ecc., sui mezzi di comunicazione visti nello stesso tempo come aiuto e come pericolo per la vita religiosa, su una semplificazione dell’abito religioso, cioè verteva su quelli che i sociologi considerano mutamenti ‘micro’ e non sono in grado di produrre realmente il cambiamento, che avviene con i mutamenti ‘macro’, i soli in grado di portare strutture nuove. Nella sostanza, la vita religiosa restava quella di prima70.
Fu dopo il concilio Vaticano II che si manifestarono le conseguenze del cambiamento ormai in atto con mutamenti prima neppure immaginabili sulla vita religiosa femminile.
Dire quante religiose abbiano lasciato il convento negli anni successivi al concilio Vaticano II è difficile. Per il periodo 1965-1969 si è calcolato che siano state 6.499, mentre per il periodo 1970-1974 si è indicata una cifra di 8.346, in totale circa 15.000 religiose (assommando insieme religiose di voti perpetui e di voti temporanei o quelle uscite alla scadenza dei voti)71, quindi un totale di circa 1.500 religiose ogni anno.
Dati più precisi si hanno per gli anni 1979-1983, però relativamente ai soli istituti di diritto pontificio, con due elementi in più, perché il numero delle religiose viene distinto tra monache e suore e confrontato con le uscite (defezioni, nella terminologia pontificia) avvenute nel mondo intero, sempre negli istituti di diritto pontificio72.
In base a uno studio della Sacra congregazione per i religiosi si possono anche indicare le congregazioni religiose che, negli anni 1969-1970, hanno conosciuto il maggior numero di uscite73.
Grazie ancora allo studio compiuto dalla Sacra congregazione per i religiosi in quegli anni si possono anche evidenziare le motivazioni addotte dalle religiose italiane per giustificare la loro uscita dagli istituti74.
Per quanto riguarda i settori di attività delle religiose italiane, abbiamo dati attendibili grazie a una inchiesta compiuta nel 197475. Servizi scolastici: le religiose operavano in 9.451 scuole materne (circa il 37% di tutte le scuole materne italiane, e il 49,50% delle scuole materne non statali); scuole elementari: quelle delle religiose erano circa il 5% rispetto alle scuole statali, e il 64% delle scuole non statali; scuole medie inferiori: le scuole delle religiose erano circa il 6,26% in rapporto alle statali, e il 59% circa rispetto alle non statali; scuole medie superiori: le scuole delle religiose erano circa il 12,50% rispetto alle statali, e il 45% nei riguardi delle scuole non statali.
Per quanto riguarda la distribuzione geografica delle unità scolastiche, il massimo di concentrazione si aveva nelle regioni del Nord. Delle circa 12.291 unità scolastiche, la Lombardia ne contava 2.167, il Veneto 1.406, il Piemonte-Valle d’Aosta 1.140, il Lazio 1.006, mentre le regioni meridionali si attestavano su cifre più modeste: Sicilia, 628 unità scolastiche, Puglia 520, Calabria 259, Basilicata 131, Sardegna 22.
Per quanto riguarda i servizi educativo-assistenziali, nel 1974 si avevano i seguenti dati: 11.189 religiose impegnate in istituti per minori; 876 in istituti per minori con handicap fisico; 1.519 in istituti per minori con problemi psichici; 582 in istituti di rieducazione; 10.841 in istituti o case di riposo per anziani.
Per quanto riguarda i servizi ospedalieri: le congregazioni avevano la proprietà di 107 cliniche (circa il 12,55% di tutte le cliniche private italiane), operavano in 256 cliniche private e in 1.090 istituti di cura pubblici (circa l’83,39% di tutti gli istituti pubblici).
La grande molteplicità di opere sopra ricordate è notevolmente diminuita a seguito del costante calo del numero delle religiose76.
Tutto ciò ha prodotto un generale impoverimento economico delle congregazioni religiose femminili, dovendo, da una parte, provvedere alle loro religiose anziane o inferme, dall’altra, sostenere i costi di tante opere, ormai affidate a laici.
Dati analoghi si hanno per le monache77.
A questo punto, conosciuto il grande sviluppo avuto dalle congregazioni religiose femminili fra la fine dell’Ottocento e la prima parte del Novecento, e anche la loro crisi dopo il 1960, sembra ci si possa porre la questione di che cosa sia stata realmente la congregazione religiosa – non solo in Italia, ma ovunque essa si sia diffusa – in questi due secoli dopo la Rivoluzione francese. La congregazione religiosa, come istituzione, ha alla propria base una motivazione ascetica oppure una motivazione funzionale?
Per questo sembra utile rifarsi a quanto Pio XII aveva detto circa la nascita degli istituti secolari. Sintetizzando la questione, il pontefice disse che il fine specifico (cioè le opere) aveva creato il fine generico (cioè la perfezione religiosa e i consigli evangelici).
Applicando quest’analisi alla congregazione religiosa, ciò che ha maggiormente influito sulla sua nascita e sulla sua istituzionalizzazione non sembra essere stata la vita religiosa in se stessa, ma l’apostolato nelle sue varie forme. La congregazione religiosa diventava un mezzo, reso più vantaggioso (anche se il fondatore o la fondatrice non pensavano a questo aspetto) dalla vita comune dei membri e dal regime di povertà, con notevole risparmio economico anche per la società civile. In altre parole, la congregazione religiosa aveva un fine prevalente di restaurazione – e tante devozioni in essa praticate (Sacro Cuore78, regno del Sacro Cuore, regno di Maria) erano in questa linea –, e si comprende quindi come, mutando i tempi, l’equilibrio su cui esse si basavano sia venuto meno. I mutamenti avvenuti nella società sono semplicemente la manifestazione del diverso modo con cui la società (Chiesa compresa) intende risolvere i propri problemi: un tempo, basandosi soprattutto su celibi e nubili; oggi, in un momento in cui uno dei traguardi dell’emancipazione (non solo femminile, perché il celibato religioso era in qualche modo imposto ai figli maschi) è stato raggiunto, chiedendo (e sopportandone il costo economico) che lo stato civile della persona non influisca più sull’attività o l’apostolato da svolgere79.
I membri degli istituti secolari hanno continuato a operare in tutti i campi, come mostra, per quanto riguarda la cultura, l’opera di Eugenia Govi, direttrice della biblioteca nazionale Marciana di Venezia e della biblioteca universitaria di Padova, e per la politica l’opera delle onorevoli Vittoria Quarenghi (che faceva parte dell’istituto secolare francese Caritas Christi) e Maria Badaloni, delle Missionarie della Regalità.
Le statistiche del 1973 confermavano che in Italia si trovava una gran parte degli istituti secolari e dei loro membri: 12.150 su 32.253 sparsi in tutto il mondo. L’istituto con il maggior numero di membri era quello delle Missionarie della Regalità, del padre Gemelli80.
Il periodo postconciliare ha portato a una diminuzione del numero delle consacrate anche negli istituti secolari81.
Il codice di diritto canonico del 1983 ha sancito la possibilità di altre forme di vita: quella degli eremiti e delle eremite, e quella delle vergini consacrate. Per la donna, ciò significava un ulteriore passo in avanti verso l’emancipazione. Nella congregazione religiosa ella viveva all’interno dell’istituzione – considerata come una protezione – sottoposta a superiore locali, provinciali e generali. Nell’istituto secolare poteva vivere al di fuori dell’istituzione, sottoposta però sempre alle autorità del suo istituto. Con il riconoscimento delle eremite e delle vergini consacrate, si accettava che la consacrata potesse vivere per conto proprio, non sottoposta ad alcuna istituzione, ma solo al vescovo diocesano.
In Italia i primi riti di consacrazione di vergini si ebbero nel 1970 nelle diocesi di Vicenza e Roma in cerimonie liturgiche raccolte e riservate. Dopo il 1980 la celebrazione della consacrazione avvenne con più frequenza nella chiesa cattedrale, alla presenza di fedeli, e nel 1988 si ebbe il primo convegno nazionale organizzato dal gruppo di Vicenza, che promosse la diffusione di un bollettino dal titolo «Sponsa Christi». In seguito, con l’intento di tenere i collegamenti con la Conferenza episcopale italiana, nel 1993 venne fondato un «Foglio di collegamento per l’Ordo virginum delle diocesi che sono in Italia», e si cominciarono a raccogliere le prime statistiche. In base a quelle elaborate nel 2001, erano circa 350 le donne coinvolte a vari livelli nell’Ordo virginum, di cui circa il 60% al Nord, il 25% al Centro e il 15% al Sud e nelle Isole. Di queste 350, quelle che avevano ricevuto la consacrazione erano 200. Progressivamente il loro numero è aumentato, nel 2007 le consacrate erano circa 400 – cifra probabilmente inferiore alla realtà –, variamente distribuite in circa 90 delle circa 200 diocesi italiane82.
Per le eremite è più difficile offrire cifre, anche approssimative. Quella indicata nel 2000 di 1.000-1.200 eremiti presenti in Italia, di cui circa la metà donne, sembra esagerata. Si deve però ammettere che il fenomeno non è facilmente controllabile, anche perché esistono diversi tipi di eremite: quelle consacrate come tali dal vescovo diocesano, eremite che vivono come tali senza però alcuna consacrazione, eremite che vivono in luoghi isolati, eremite che vivono in città, ed eremite che vivono in comunità di due-tre membri, come quelle, ad esempio, che compongono il Piccolo eremo del Cantico a Soci (in diocesi di Arezzo)83.
Grazie a un recentissimo censimento, si sa che dopo il concilio Vaticano II sono sorte nel mondo cattolico oltre 800 nuove comunità – un totale verosimilmente errato per difetto – di cui 200 solo in Italia, una cifra di poco inferiore a quella degli Stati Uniti (205) e discretamente superiore a quella della Francia (161)84. Di tutte queste nuove fondazioni solo sette hanno ricevuto un’approvazione pontificia, e nessuna di esse è italiana.
Dire a che cosa aspirino queste nuove fondazioni è difficile, anche perché esse stesse ammettono di essere ancora alla ricerca di una propria identità. Si può comunque affermare che non vogliono essere né congregazione religiosa né società di vita apostolica né ancora istituti secolari; tendono verso una vita comune e un abito distintivo religioso – lontane, quindi, dall’individualismo degli istituti secolari, ma anche dalle vergini consacrate e dagli eremiti –, svolgono un apostolato all’interno dell’istituto e propongono un tipo di comunità mista, uomini e donne insieme, in forme di vita quotidiana che la storia della vita religiosa non ha conosciuto. Anzi, per alcune di queste comunità (Bose, Comunità mariana – Oasi della pace, Fraternità francescana di Betania ecc.) il loro carattere misto come superamento dell’alterità costituisce uno degli elementi originali della fondazione85.
In questa ottica la mancanza di candidati per le forme classiche di vita consacrata può essere vista come una resistenza spirituale verso strutture che non hanno più l’equilibrio spirituale e apostolico di un tempo. Da qui la spinta verso nuove forme di vita consacrata che sembrano rispondere meglio alle esigenze di oggi.
La storia delle religiose italiane dal 1861 al 2010 ha mostrato chiaramente come essa sia strettamente connessa con la storia della società italiana e della donna. C’è una distinzione tra Nord e Sud che percorre tutti questi 150 anni di storia anche nell’ambito della vita religiosa; sono evidenti le novità che le donne religiose hanno cercato di introdurre nella loro vita, così come sono evidenti le concezioni che l’hanno limitata per lungo tempo in ambiti apostolici medio-bassi. Le leggi dello Stato, con l’obbligo della patente e dei corrispondenti titoli per l’insegnamento e per la cura dei malati, hanno contribuito a migliorarne la preparazione. Per buona parte dei 150 anni di storia italiana esse hanno costituito un punto di riferimento non indifferente per tanti italiani. Dimenticarle in una storia d’Italia significherebbe rafforzare ancora una volta il pre-giudizio che le donne sono assenti dalla storia.
1 Si potrà trovare una bibliografia generale sulle congregazioni religiose italiane in G. Rocca, La storiografia italiana sulla congregazione religiosa, in Religiose, religiosi, economia e società nell’Italia contemporanea, a cura di G. Gregorini, Milano 2008, pp. 29-101.
2 Testo completo della antiqua formula in A. Bizzarri, Collectanea in usum secretariae Sacrae Congregationis Episcoporum et Regularium, Roma 1885, pp. 151-152.
3 «[…] Se […] la superiora generale venisse resa esente dalla giurisdizione del vescovo ove ella risiedesse, ne nascerebbe un altro inconveniente, di privarla della tutela di un superiore ecclesiastico. In questa ipotesi, un istituto che potrebbe estendersi molto, sarebbe appoggiato ad una debole donna […]» (S. C. de’ Vescovi e Regolari, Consultazione per una speciale congregazione, Taurin. Super approbatione instituti et constitutionum Sororum a S. Anna nuncupatarum, [1846], p. 16: Archivio CIVCSVA, ad annum). Ulteriori particolari in G. Rocca, Donne religiose. Contributo a una storia della condizione femminile in Italia nei secoli XIX-XX, «Claretianum» 32, 1992, pp. 5-320.
4 «La debolezza e volubilità del sesso faceva temere per parte della Generalessa una qualche esorbitanza di potere, la quale poteva portare serie conseguenze in se stessa […]» (S. C. de’ Vescovi e Regolari, Ponente Em. e Rev. Sig. Card. Brunelli, Consultazione, Brixien. Super facultate creandi superiorissam generalem, [Suore della carità di Lovere], 1855, pp. 6-7: Archivio CIVCSVA, ad annum).
5 «Art. 1. È permesso a’ superiori dei regolari di tenere nei rispettivi conventi una o più camere in forma di carcere per la custodia disciplinare dei religiosi, allorché taluno di essi sia trasgressore della purità dei costumi ed in generale dei suoi doveri, nascenti dalle regole del proprio istituto» (Testo completo del decreto del 14.2.1823 in T.M. Salzano, Lezioni di diritto canonico pubblico e privato considerato in sé stesso e secondo l’attual polizia del Regno delle Due Sicilie, II, Napoli, 1859, p. 227).
6 Testo in A. Bizzarri, Collectanea in usum Secretariae Sacrae Congregationis Episcoporum et Regularium, Roma 1985, pp. 772-773.
7 P.E. Cerioli, Intervista sulla terra. Da un manoscritto dell’Ottocento le conoscenze agrarie di una donna che per fede si dedicò alla promozione delle classi contadine, a cura di R. Alborghetti, Clusone 1996.
8 Statistica d’Italia 1861. Popolazione. Parte I. Censimento generale (31.12.1861), Firenze 1867, pp. 99-102. Vedi sezione Tabelle, Rocca, nr. 1.
9 G. Fortunato, Statistica dei monasteri d’ambo i sessi esistenti nelle province napoletane all’epoca del decreto di soppressione de 17 febbraio 1861, Napoli 1861, pp. 43-55 per i monasteri femminili.
10 Statistica del Regno d’Italia. Istruzione primaria e secondaria data da corporazioni religiose. Anno scolastico 1863-1864, Firenze 1865.
11 F. Pieroni Bortolotti, Alle origini del movimento femminile in Italia, 1848-1892, Torino 1963.
12 M.P. Roggero, La donna e la sua emancipazione nel pensiero di Mazzini, «Bollettino del Museo del Risorgimento» 29-30, 1984-1985, pp. 81-99.
13 A. Gabelli, L’Italia e l’istruzione femminile, «Nuova Antologia» 5, 1870, 9, pp. 145-167, in partic. p. 155.
14 E. Pollonara, Seminari per maestre all’origine dell’istituto, Roma, [Casa generalizia delle Figlie della Carità Canossiane], 1986.
15 C.M. Fiorentino, Chiesa e Stato a Roma negli anni della destra storica, 1870-1876. Il trasferimento della capitale e la soppressione delle Corporazioni religiose, Roma 1996.
16 Ecco il testo della legge del 7 luglio 1866, n. 3036: «Art. 1. Non sono più riconosciuti nello Stato gli Ordini, le corporazioni e le congregazioni religiose, regolari e secolari, ed i conservatori e ritiri, i quali importino vita comune ed abbiano carattere ecclesiastico. Le case e gli stabilimenti appartenenti agli Ordini, alle corporazioni, alle congregazioni ed ai conservatori, e ritiri anzidetti sono soppressi». (Testo integrale della legge in Codice ecclesiastico, a cura di A. Bertola, A.C. Jemolo, Padova 1937, pp. 291-301).
17 G. Martina, La situazione degli istituti religiosi in Italia intorno al 1870, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878), Atti del Quarto Convegno di storia della Chiesa (La Mendola 1971), Relazioni, I, Milano 1973, pp. 194-335. Una sintesi in G. Martina, Soppressioni. 1866. Italia: soppressioni liberali, in DIP, VIII, 1988, pp. 1872-1876. Per la quantificazione del patrimonio cfr. I.M. Laracca, Il patrimonio degli Ordini religiosi in Italia. Soppressione e incameramento dei loro beni (1848-1873), Facoltà di diritto canonico, Pontificia Università Gregoriana, Roma, [s. e., Velletri, Tipografia G. Zampetti], 1936.
18 G.C. Bertozzi, Notizie storiche e statistiche sul riordinamento dell’asse ecclesiastico nel Regno d’Italia, Roma 1879 (Annali di statistica, serie 2°, vol. 4°), p. 117.
19 In base ai calcoli effettuati da I.M. Laracca, Il patrimonio degli Ordini religiosi in Italia, cit., vennero soppressi 390 monasteri femminili (di cui 153 di Benedettine Cassinesi), per complessive 6.139 coriste e 3.431 converse.
20 L’imprecisione della legge è stata subito segnalata. Tra l’altro, essa parlava di «voti solenni» che potevano anche essere temporanei, il che non aveva senso nell’ordinamento canonico; cfr. R. Bonghi, Le associazioni religiose e lo Stato, «Nuova Antologia» 7, 1872, 1, pp. 48-88.
21 Molti particolari al riguardo in G. Rocca, Le costituzioni delle congregazioni religiose nell’Ottocento: storia e sviluppo fino al Codex Iuris Canonici del 1917, in Le costituzioni e i regolamenti di don Luigi Guanella. Approcci storici e tematici, a cura di A. Dieguez, Roma 1998, pp. 13-97.
22 I. Rinaldi, I beni fondiari di due congregazioni religiose femminili. Le Orsoline di Piacenza e le Maestre Pie di Rimini, in La proprietà fondiaria in Emilia-Romagna, IV, Storie di patrimoni terrieri, a cura di R. Zangheri, L. Mazzaferro, Bologna 1984, pp. 119-184.
23 R. Bonghi, Le associazioni religiose e lo Stato, cit., pp. 85-88, che elenca ben 156 istituti che al 1872 erano già stati riconosciuti come istituti pubblici di educazione ed istruzione, e quindi non sottoposti alle leggi di soppressione.
24 A. Saitta, Le conferenze e la pace di Zurigo nei documenti diplomatici francesi. III serie: 1848-1860, Roma 1965, in particolare il doc. n. 44, p. 86: «Les plénipotentiaires de Sa Majesté ont été directement saisis d’une réclamation datée de Rome portant les signatures du Supérieur général de la Compagnie de Jésus et du Père provincial de la province de Paris».
25 Molti particolari al riguardo in M. Morchella, I trattati di Zurigo e le corporazioni religiose lombarde, «Il diritto ecclesiastico», 109, 1998, pp. 538-572, il quale, però, non sembra conoscere l’origine gesuitica dell’articolo XVI del trattato di Zurigo.
26 Mediolanen. Beatificationis et canonizationis Servi Dei Aloysii Biraghi sacerdotis saecularis fundatoris Instituti v. d. «Le Marcelline» (1801-1879), Positio super virtutibus, I, Roma 1995, p. 636.
27 Ulteriori particolari in G. Rocca, Le strategie anticonfisca degli istituti religiosi in Italia dall’Unità al Concordato del 1929: appunti per una storia, in Clero, economia e contabilità in Europa. Tra Medioevo ed età contemporanea, a cura di R. Di Pietra, F. Landi, Roma 2007, pp. 226-247.
28 Cfr. la minuta della risposta della S. C. dei Vescovi e Regolari, datata 6.12.1871: Archivio della CIVCSVA, Posiz. B 10.
29 Ulteriori particolari al riguardo in M. Carraro, A. Mascotti, L’istituto delle sante Bartolomea Capitanio e Vincenza Gerosa, I, Milano 1987, pp. 188-192.
30 Cfr., Archivio di Stato di Bergamo, Atti notarili, Notaio Brivio Giuseppe, Anno 1866 al 1873, faldone n° 13495. Cfr. anche A. Pesenti, Il monastero Matris Domini in Bergamo, Bergamo 1980, pp. 308, 314.
31 La società tontinaria permetteva di intestare i beni a un gruppo di persone, il cui numero poteva essere ricostituito, avendo sempre la possibilità di inserire nuovi membri al venir meno di alcuni, e quindi diminuendo le tasse da pagarsi allo Stato. Il nome viene dal suo inventore, Lorenzo Tonti (1605?-1675?). T. Torriani, Lorenzo Tonti, geniale avventuriero italiano del ’600, Verona [1950] (Quaderni di “Nova historia”).
32 Vedi sezione Tabelle, Rocca, nr. 2.
33 S. Trombetta, Punizione e carità. Carceri femminili nell’Italia dell’Ottocento, Bologna 2004.
34 G. Rocca, Mons. Bonomelli e l’invio dei Cappuccini nel vicariato apostolico di Eritrea. Questioni di politica religioso-coloniale, in Geremia Bonomelli e il suo tempo, Atti del Convegno storico (Brescia-Cremona 1996) a cura di G.F. Rosoli, Brescia 1999, pp. 497-567; C.M. Betti, Missione coloniale in Africa orientale, Roma 1999; D. Saresella, La lingua italiana nel mondo attraverso l’opera delle congregazioni religiose, Soveria Mannelli 2001.
35 Già nel 1851, esaminando le costituzioni dei Fratelli della Sacra Famiglia di Belley, si diceva che i voti semplici non costituivano lo stato religioso e la stessa idea venne ripetuta nel 1896 nella pratica per l’approvazione delle suore di Santa Marta, di Périgueux. (Per i Fratelli della Santa Famiglia cfr. A. Bizzarri, Collectanea in usum Secretariae Sacrae Congregationis Episcoporum et Regularium, Roma 1985, p. 589; per le Suore di Santa Marta cfr A. Battandier, Guide canonique pour les constitutions des instituts à voeux simples, Paris 19236, p. 42).
36 Sorelle d’oltreoceano. Religiose italiane ed emigrazione negli Stati Uniti: una storia da scoprire, a cura di M.S. Garroni, Roma 2008.
37 C. Secchi, L’assistenza infermieristica a Brescia nel primo Ottocento: Paola di Rosa e le Ancelle della carità, «Storia in Lombardia» 18, 1998, 1, pp. 5-35.
38 G. Rocca, La religiosa ospedaliera tra Otto e Novecento, in Gli ospedali in area padana fra Settecento e Novecento, a cura di M.L. Betri, E. Bressan, Milano 1992, pp. 543-567; A.I. Bassani, Le Dorotee di Vicenza e l’assistenza ospedaliera nel Veneto, in Per le strade del mondo. Laiche e religiose fra Otto e Novecento, a cura di S. Bartoloni, Bologna 2007, pp. 249-265; Id., La scuola per infermieri dell’ospedale di Vicenza (1907-1971), «Annali della Fondazione Mariano Rumor», 2, 2007, pp. 151-181.
39 [A. Sylvain], Il libro delle infermiere ad uso delle famiglie e principalmente delle comunità religiose e delle suore ospitaliere…, traduzione dal francese approvata da S. E. Mons. Giovanni Antonio Farina, vescovo di Vicenza, Avignone, Fratelli Aubanel Editori, 1878.
40 Non esiste ancora alcun volume sulla storia dei convitti per operaie. Per intanto: G. Loparco, Le Figlie di Maria Ausiliatrice nella società italiana (1900-1922). Percorsi e problemi di ricerca, Roma 2002, pp. 545-588; R. Lanfranchi, I convitti per operaie affidati alle Figlie di Maria Ausiliatrice da “semplice albergo” a “case di educazione”, in L’educazione salesiana dal 1880 al 1922. Istanze ed attuazioni in diversi continenti, a cura di J.G. González, G. Loparco, F. Motto, et al., I, Roma 2007, pp. 237-266.
41 Per una prima informazione al riguardo cfr. G. Rocca, La formazione delle religiose insegnanti tra Otto e Novecento, in Cattolici, educazione e trasformazioni socio-culturali in Italia tra Otto e Novecento, a cura di L. Pazzaglia, Brescia 1999, pp. 419-457; da completare, per quanto riguarda le Figlie di Maria Ausiliatrice, con lo studio di G. Loparco, Le Figlie di Maria Ausiliatrice nella società italiana (1900-1922). Percorsi e problemi di ricerca, Roma 2002, in partic. pp. 263-278.
42 T. da Voltri, Madre Eugenia Ravasco, Genova 1939, p. 127.
43 L’episcopato lombardo alle reverende religiose e pie vergini della lombarda provincia, Trento 1900, p. 52: l’episcopato lombardo raccomandava di accompagnare sempre l’insegnamento delle lettere con quello dei lavori femminili, «in modo da formare donne di casa, e non di università o di teatro».
44 Il testo della istruzione Perspectum est, del 21.7.1896, è pubblicato in Enchiridion de statibus perfectionis, I, Documenta Ecclesiae sodalibus instituendis, Roma 1949, pp. 229-233.
45 Congregazioni religiose e istituti secolari sorti in Sardegna negli ultimi cento anni, a cura di F. Atzeni, T. Cabizzosu Cagliari 2000; M.T. Falzone, Le congregazioni religiose femminili nella Sicilia dell’Ottocento, Caltanissetta-Roma 2002.
46 Si tenga presente che le statistiche indicano il numero delle religiose residenti in Italia, non quelle operanti all’estero come missionarie, che nel 1951 potevano già essere diverse migliaia, considerato che nel 1974 essere erano poco più di 10.000.
47 Vedi sezione Tabelle, Rocca, nr. 3.
48 Rerum novarum, 15.5.1891.
49 F. Bettio, The Sexual Division of Labour. The Italian Case, Oxford 1988.
50 «La vostra bellezza sfiorisce […]. Voi fanciulle a cui oggi s’apre così promettente la vita, dite, che sperate mai? [...] Sposarvi? [...] No; voi sapete bene, che ora la fanciulla la quale va allo stabilimento, difficilmente si sposa. Moglie, non avrebbe un’ora da dedicare al marito, né ai figli, né alla casa […] E poi, troppo presto di notte alle ore 4 dovete uscire sole nella strada per correre allo stabilimento. Di una povera fanciulla, che gira sola di notte si fa presto a parlar male» (Alle lavoranti nell’industria della seta, in Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano, 1880-1900, II, a cura di S. Merli, Firenze 1972, pp. 440-401).
51 Cfr., A. Celli, Per le scuole delle infermiere, «Nuova Antologia», 43, 1908, 883, pp. 481-491, in partic. p. 486.
52 A. da Trobaso, Donna e democrazia cristiana, Milano 1901.
53 Il proclama era stato pubblicato nel periodico «La Val Staffora» il 18.5.1919, e da qui ripreso è passato, in parte, in Don Orione. La scelta dei “poveri più poveri”. Scritti spirituali, a cura di A. Gemma, Roma 1979, pp. 239-241.
54 P. Gaiotti De Biase, Le origini del movimento cattolico femminile, Brescia 1963 (nuova ed. 2002).
55 L. Gazzetta, Elena da Persico, Verona 2005.
56 L’amica delle madri, L’ora solenne – Le tre vie, «L’azione muliebre» 10, 1910, pp. 470-480, in partic. pp. 473-474: «Ecco la terza via, nella quale può essere chiamata una fanciulla; ed ecco la via, che è meno compresa, che è più combattuta […]. E se di questo stato della donna nubile, per le condizioni nostre sociali così frequente oggi, e nella quale tante rimangono forzatamente, Egli volesse fare uno stato d’elezione, elevandolo all’altezza di una vocazione?».
57 Testo del decreto in AAS, 13, 1921, 177, con il commento di Ph. Maroto in Commentarium pro religiosis 2, 1921, pp. 129-133.
58 Vedi sezione Tabelle, Rocca, nr. 4.
59 Il testo verrà reso noto la prima volta nell’Enchiridion de statibus perfectionis, I, Documenta Ecclesiae sodalibus instituendis, Roma 1949, n. 362, pp. 470-471. Ecco il testo dell’aggiunta ai precedenti decreti voluta da Pio XI: «Nessun ecclesiastico tanto del clero secolare che di quello regolare – e nessuna religiosa – potrà d’ora innanzi chiedere l’iscrizione ad istituti civili di studi superiori senza aver ottenuto in antecedenza, per il tramite dei rispettivi superiori, il “nulla osta” della S. C. dei Seminari e delle Università degli Studi».
60 Testo completo della circolare datata 12 settembre 1940, Normae circa servitium infirmis, praesertim viris, a religiosis feminis praestandum, in X. Ochoa, Leges Ecclesiae post Codicem Iuris Canonici editae, I, Roma 1967, n° 1558, col. 1997-2000.
61 E. Sastre Santos, L’istruzione Constans ac sedula (1936). Propaganda Fide regola le attività delle vergini consacrate presso le cliniche di maternità, «Euntes Docete», 60, 2007, pp. 149-191.
62 Vedi sezione Tabelle, Rocca, nr. 5.
63 L’osservazione che le regioni meridionali e le isole (economicamente più povere) erano quelle che, negli anni attorno al 1950, fornivano il maggior numero di vocazioni, è stata fatta da G. Giampietro, Per l’aggiornamento delle religiose, Roma 1955, p. 74, senza inquadrarla nel mutamento sociale e religioso ormai in atto.
64 Cfr. gli studi editi in «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 12, 2009, dedicati a Chiesa, mondo cattolico e società civile durante la Resistenza: G. Loparco, L’ora della carità per le Figlie di Maria Ausiliatrice a Roma (pp. 151-197), e C. Bazin, M. Lainati, La carità a Roma negli anni della seconda guerra mondiale (pp. 199-265) per le Francescane Missionarie di Maria.
65 G. Loparco, Gli Ebrei negli istituti religiosi a Roma (1943-1944). Dall’arrivo alla partenza, «Rivista di storia della Chiesa in Italia» 58, 2004, pp. 107-210.
66 A. Ramati, Assisi Underground. The Priest who rescued Jews, Nuova York 1978 (trad. it. 1981, rist., Santa Maria degli Angeli 2000); A. Gaspari, Nascosti in convento. Incredibili storie di ebrei salvati dalla deportazione, Italia 1943-45, Milano 1999; M.E. Macciò, Genova e “ha Shoah”. Salvati dalla Chiesa, Genova 2006.
67 Le Suore e la Resistenza, a cura di G. Vecchio, Milano 2010.
68 S. Sassudelli, Elsa Conci. Il valore della politica, in Laici del nostro tempo, a cura di C. Ghidelli, G. Lazzaro, Roma 1987, pp. 185-198.
69 S.C. de Religiosis, Acta et documenta Congressus generalis de statibus perfectionis, Romae 1950, 4 voll., Roma 1952-1953.
70 A. Leoni, Aggiornamento o processo di adeguamento degli istituti religiosi femminili alle esigenze della società italiana, Roma 1958; G. Pecorini, La suora, la monaca, Firenze 1961.
71 E. Colagiovanni, Le religiose italiane. Ricerca sociografica, Roma 1976, p. 255.
72 Per il quadro delle defezioni per gli anni 1979-1983, vedi sezione Tabelle, Rocca, nr. 6.
73 Dati statistici 1969-1970 delle defezioni di religiosi e religiose di voti perpetui degli istituti di diritto pontificio dipendenti dalla S. C. per i religiosi e gli istituti secolari, pp. 50-51 per l’Italia. (Archivio della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, pro ms.). Vedi sezione Tabelle, Rocca, nr. 7.
74 Vedi sezione Tabelle, Rocca, nr. 8.
75 E. Colagiovanni, Le religiose italiane, cit., passim.
76 Vedi sezione Tabelle, Rocca, nr. 9.
77 Vedi sezione Tabelle, Rocca, nr. 10.
78 D. Menozzi, Sacro Cuore. Un culto tra devozione interiore e restaurazione cristiana della società, Roma 2001.
79 G. Rocca, Per una tipologia e una teoria della congregazione religiosa, «Studi storici dell’Ordine dei Servi di Maria», 56-57, 2006-2007, pp. 301-336.
80 Vedi sezione Tabelle, Rocca, nr. 11.
81 Vedi sezione Tabelle, Rocca, nr. 12.
82 E.L. Bolchi, La consacrazione nell’Ordo Virginum. Forme di vita e disciplina canonica, Roma 2002; S. Bocchi, La verginità “professata”, “celebrata”, “confessata”. Contributo per la sua comprensione teologico-liturgica dall’Ordo consecrationis virginum, Roma 2009 (studia anche i vari convegni nazionali delle vergini consacrate dal 1988 al 2007). I bollettini Sponsa Christi e Foglio di collegamento per l’Ordo Virginum delle diocesi che sono in Italia, a cura del Gruppo ufficiale per il collegamento dell’O.V. in Italia, pubblicano regolarmente i nomi di coloro che ricevono la consacrazione di vergini nelle varie diocesi italiane.
83 Alcune esperienze di vita eremitica femminile in Italia sono illustrate da I. Turina, I nuovi eremiti, Milano 2007; C. Saviozzi, Come gufi nella notte. Storie di eremiti dei nostri giorni, Cinisello Balsamo 2010.
84 G. Rocca, Primo censimento delle nuove comunità, Roma 2010.
85 V. Fregno, Comunità mariana – Oasi della pace, in Nuove forme di vita consacrata, a cura di R. Fusco, G. Rocca, Roma 2010, pp. 257-259, in partic. p. 259: «il rapporto uomo/donna, […] deve misurarsi con la scelta di vita che ci fa essere uomini e donne consacrati. Questo rapporto, che negli anni iniziali, per dono e grazia, è stato vissuto con semplicità e naturalità, necessita di una maturazione sotto vari aspetti: canonico, relazionale, affettivo-sessuale e antropologico. A livello canonico sussiste il problema in quanto l’attuale Codice non prevede istituti misti nel senso di uomini e donne consacrati che vivono insieme. A livello relazionale, per trovare, tra fratelli e sorelle, quel giusto equilibrio tra vicinanza e rispetto, condivisione e distinzione nella vita quotidiana. A livello affettivo-sessuale, per imparare a gestire con più maturità, discernimento, consapevolezza, competenza le problematiche che possono emergere».