Le Repubbliche marinare
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Sul commercio grava in età medievale un duplice pregiudizio: quello sociale, derivato dalla cultura aristocratica ellenistico-romana, e quello di matrice religiosa, originato, in età più tarda, dalla condanna dei mestieri che possono celare speculazioni o forme di usura. Quando le antiche preclusioni cominciano a essere erose, fra Duecento e Trecento, le attività mercantili avranno manifestato da lungo tempo la propria capacità di incidere nel sistema economico e politico delle aree in cui si svolgono, come dimostra il caso delle città marinare italiane.
Nei primi secoli dell’età medievale, l’Occidente, in pieno declino demografico, comprime il volume della produzione e degli scambi; alcune città italiane riescono però a inserirsi in modo vantaggioso negli spazi commerciali dell’Impero bizantino e del mondo arabo.
Si tratta di città costiere che nominalmente dipendono da Bisanzio, con cui sono quindi generalmente in buoni rapporti, ma che – al contempo – possono profittare dell’autonomia di fatto della quale godono. In questa posizione favorevole si trovano soprattutto antichi o più recenti centri del Lazio meridionale, della Campania, della Puglia e della Calabria: Napoli, Gaeta, Amalfi, Salerno, Otranto, Bari, Taranto, Reggio.
Il ruolo iniziale dei mercanti meridionali, fino all’inizio del IX secolo, è soprattutto quello di mediare fra i produttori dell’entroterra longobardo e i mercanti bizantini, attivi lungo le coste; già nella seconda metà del secolo, però, gli Italiani cominciano ad assumere in proprio l’iniziativa commerciale con Costantinopoli e diventano il perno degli scambi fra aree longobarde, bizantine e musulmane.
È questo il caso, in particolare, di Amalfi, la più dinamica fra le città costiere meridionali: nel X secolo è il porto più vivace d’Italia, dispone di una base a Costantinopoli ed è attiva in Sicilia, nella penisola iberica, nel Maghreb, in Siria, al Cairo. Il suo ruolo di intermediazione commerciale si esplica mediante l’esportazione dei prodotti dell’agricoltura campana sui mercati orientali e islamici, dove avviene la compravendita di schiavi, stoffe, oggetti preziosi, legno e ferro.
Anche Gaeta e Bari giungono, fra X e XI secolo, a conquistare un proprio spazio in Oriente: la prima – già in concorrenza con Amalfi – soprattutto in Egitto e in Libano, la seconda a Costantinopoli e ad Antiochia. Attraverso i mercanti di Bari e Gaeta, olio, vino e frumento prendono la via dell’Oriente; cotone e pepe quella contraria.
Già nella seconda metà dell’XI secolo, tuttavia, le città meridionali perdono di centralità, scontando soprattutto la distanza dai porti di un’Europa continentale in piena ripresa, la perdita di autonomia a seguito della conquista normanna e la scarsa attenzione al commercio delle loro classi dirigenti, ancora in larga misura legate all’aristocrazia fondiaria: un’attenzione, invece, che risulta fin da principio determinante sia per la repubblica di Venezia sia per le emergenti città costiere del Tirreno, Pisa e Genova, la cui concorrenza sarà un altro fattore decisivo per il declino del XII secolo.
La città marinara destinata a più lunga fortuna è Venezia, fondata fra V e VI secolo dagli abitanti di città venete in fuga dalle guerre del primo Medioevo, poi formalmente soggetta a Bisanzio, ma retta da un doge autonomo già nella seconda metà dell’VIII secolo.
La città gode di una posizione fortunata, al crocevia tra l’Impero d’Oriente e quello d’Occidente, ma spinge precocemente anche altrove le proprie iniziative commerciali e militari.
I traffici con il mondo arabo (Siria, Tunisia, Egitto), già a partire dall’VIII secolo, permettono a Venezia di vendere il legname delle foreste tedesche (ma anche giovani donne di origine slava per gli harem dei sultani), ricevendo in pagamento oro utile per l’acquisto di spezie, preziosi e stoffe sui mercati dell’Oriente bizantino. I prodotti vengono poi riversati in Occidente, dove è ancora presente la domanda dei beni di lusso, soprattutto nella sede pontificia, a Cremona e a Pavia, capitale longobarda e poi carolingia.
L’affermazione sull’Adriatico conduce i Veneziani a sconfiggere ripetutamente i Saraceni, induce i dogi ad assumere il titolo di duces Venetiarum et Dalmatiarum (dopo il Mille) e accentua la concorrenza con altri centri marittimi, soprattutto con Ancona e, sulla sponda opposta, con Ragusa, nonché l’impegno per bloccare l’espansionismo croato e ungherese.
La fortuna di Venezia si costruisce, però, soprattutto a spese dell’Impero bizantino: qui il commercio è trascurato dallo stato e dalle classi dirigenti, che lo considerano poco remunerativo e socialmente sconveniente. Questa circostanza, unita all’instabilità che Bisanzio attraversa nella seconda metà dell’XI secolo, favorisce l’inserimento dei mercanti veneziani nel commercio marittimo in area imperiale. Nel 1082, in particolare, i Veneziani ottengono un’esenzione totale dai dazi commerciali, in cambio dell’aiuto che la loro flotta porta all’impero minacciato dai Normanni. Nella prima metà del XII secolo (1126 e 1148) le esenzioni fiscali vengono estese anche ai commerci con Cipro e con Creta.
Acquisita una posizione di privilegio e compiuta anche un’evoluzione istituzionale interna, decisiva per la tutela delle politiche commerciali, i Veneziani si apprestano ad infiltrarsi in profondità nella vita economica dell’impero, favoriti dalla mancanza di una concorrenza temibile (nessun’altra città riuscirà ad ottenere condizioni così favorevoli), dalla capacità di conquistare un ruolo quasi esclusivo anche nei commerci interni all’impero e dalla ripresa produttiva europea, che accentua l’importanza del ruolo intermediario svolto da Venezia.
Pisa, avvantaggiata da una posizione difendibile con relativa facilità, patisce solo in parte gli sconvolgimenti dell’alto Medioevo, mantiene a lungo una buona importanza commerciale e conquista presto una discreta autonomia politica; a partire dal IX-X secolo, la minaccia saracena nel Tirreno la induce a potenziare le proprie flotte, ponendo le premesse per rilanciare la propria fortuna commerciale anche nel Medioevo centrale. Anche Genova gode di un’autonomia politica di cui sono protagonisti, fin dalla fine del X secolo, ceti in larga misura di origine mercantile, organizzati nelle “compagne”, che ne guidano la crescita in direzione di una notevole attività commerciale.
Le due città condividono una posizione favorevole per trarre vantaggio dalla ripresa degli scambi fra Europa continentale e Mediterraneo; sono ostacolate, però, dalla presenza dei pirati saraceni nel Tirreno: operano quindi in modo congiunto e con successo per combatterli, sostenute dalle aristocrazie cittadine e dalla predicazione pontificia contro gli infedeli.
Tra 1015 e 1016 li scacciano dalla Sardegna e dalla Corsica; successivamente i Genovesi si dirigono contro le basi saracene della costa spagnola meridionale e i Pisani compiono incursioni in Sicilia e, ancora con i Genovesi, in Africa. Da al-Mahdiyya, in Tunisia, Pisani e Genovesi riportano nel 1087 privilegi commerciali e un ricco bottino, col quale potenziano le flotte mercantili e avviano la penetrazione commerciale anche in Oriente.
Il Tirreno e l’Oriente, ma anche le coste iberiche e poi quelle della Francia meridionale, in fase di espansione commerciale, diventeranno in seguito i fronti lungo i quali si svilupperà fra Pisa e Genova una concorrenza aspra, da cui la prima uscirà sconfitta.
Fra la fine dell’XI secolo e la fine del XIII, un Occidente in piena espansione demografica si indirizza aggressivamente verso Gerusalemme e la Terrasanta, dapprima in modo disordinato (“crociata popolare”, 1096), poi in forme più organizzate, all’interno delle quali il viluppo di ispirazioni religiose e spinte economiche e politiche è sempre molto forte.
La prima crociata porta alla conquista di Gerusalemme (1099) e alla formazione di diversi Stati latini lungo la fascia costiera tra Libano, Siria e Turchia. Poiché la Terrasanta occupa una posizione importante per i commerci con l’Oriente, i centri mercantili europei vengono coinvolti. Genova e Pisa, avendo messo a disposizione le proprie navi per il trasporto dei crociati, vengono compensate con privilegi commerciali nel Levante; Venezia, invece, inizialmente è meno partecipe, poiché teme che le imprese armate possano compromettere la rete di rapporti commerciali costruita nel tempo con i musulmani. Anche i Veneziani, però, riescono a cogliere le nuove opportunità che le crociate aprono loro, e vi si inseriscono vantaggiosamente. I mercanti delle tre città centro-settentrionali stabiliscono basi commerciali in tutti i centri portuali più importanti della Terrasanta conquistati dai cristiani, e le gestiscono in modo autonomo, come vere colonie governate da magistrati, inviati dalla madrepatria o scelti localmente.
Mentre Pisa, Genova e Venezia rafforzano la propria presenza in Oriente, le città meridionali si avviano verso il declino. La stessa Amalfi, che aveva in quei luoghi basi di antica data, diventa una presenza sempre meno significativa.
Il suo ruolo nei commerci con l’Impero bizantino si era già ridotto prima della crociata: il rapporto privilegiato istituito dai Bizantini con i mercanti veneziani aveva indotto gli Amalfitani a concentrare i propri interessi sui traffici con i musulmani, tanto da evitare di partecipare alla crociata. Ma l’iniziativa cristiana, smorzata tra il 1144 e il 1187 dalla riscossa musulmana e poi rilanciata a più riprese lungo tutto il XIII secolo, compromette irreversibilmente gli equilibri economici del Medio Oriente sui quali la città campana aveva fatto affidamento. Il suo declino, accelerato dalla conquista normanna e dai saccheggi pisani del 1135 e del 1137, è già chiaro a metà del XII secolo. La concorrenza commerciale, che ridimensiona il ruolo non solo di Amalfi, ma anche di molte altre città marinare meridionali, non tarderà a manifestarsi ripetutamente anche fra quelle del centro-nord.