Si richiamano, in apertura, la natura e le ragioni dell’istituto delle riserve, l’influenza pubblicistica e la struttura eminentemente privatistica dello stesso. Ci si sofferma, poi, sull’avvicendamento delle fonti di regolazione e sulle criticità correlate con il d.m. n. 49 del 2018. Si individuano quindi le categorie di riserve; si definisce una classificazione delle deroghe all’onere e dei divieti di iscrizione delle stesse; infine, ci si sofferma sui casi in cui la prassi utilizza le riserve nonostante tali divieti e sulle reazioni del legislatore del vecchio e del nuovo Codice dei contratti pubblici.
Ai fini dell’analisi dell’istituto delle riserve è essenziale una premessa che spieghi l’esistenza e l’importanza di questa figura nel panorama dell’esecuzione dei contratti pubblici, e in particolare degli appalti di lavori per la realizzazione di opere pubbliche.
È noto che l’attività della pubblica amministrazione – anche quella regolata dal diritto privato - è volta al perseguimento di interessi generali: l’amministrazione, in sostanza, agisce sempre per soddisfare fini pubblici. Questa considerazione ha portato una parte della dottrina ad elaborare l’idea di un ‘diritto privato speciale’ o ‘funzionalizzato’, per spiegare l’esistenza di istituti – come le riserve – che sono propri dei soli contratti con la pubblica amministrazione e che svolgono un ruolo a tutela di interessi di questa sola parte.
Perciò, secondo tale prospettiva, seppure la Pubblica Amministrazione non può più essere considerata un soggetto privilegiato, nemmeno può essere completamente parificata agli operatori privati: l’elemento che la caratterizza è la sua “funzionalizzazione” verso determinati obiettivi, individuati a priori e ai quali l’amministrazione deve mirare (Cons. Stato, n. 512 del 1981).
In realtà, l’interesse generale prevale sul particolare solo su un piano meramente politico e prelegislativo, nel senso che «spiega per intero il suo valore nella determinazione del contenuto della norma […], e quindi in una fase anteriore all’emanazione di essa» (Guicciardi). Una volta in vigore, la matrice pubblicistica offre solo un riferimento interpretativo, mentre amministrazione e cittadino di fronte alla norma si trovano in condizioni di totale parità formale: «quello tra essi che è portatore dell’interesse che la norma riconosce e protegge nei confronti dell’altro può far valere pienamente la sua pretesa e trova nell’ordinamento giuridico i mezzi che gliene garantiscono la soddisfazione» (Guicciardi). L’istituto delle riserve è emblematico in tal senso: conserva la sua natura privatistica, sebbene caratterizzato da influenze pubblicistiche, che assicurano la concorrenza e garantiscono la trasparenza, collegando idealmente la fase esecutiva a quella precedente.
L’esecuzione dei contratti d’appalto pubblico – siano a corpo o a misura - presentano spesso vicende complesse che possono concretizzarsi in pretese dell’appaltatore verso la stazione appaltante e pretese di quest’ultima verso il primo. La disciplina speciale delle riserve, in particolare la forma vincolata con cui devono essere apposte, riguarda però solo il primo tipo di controversie, poiché la loro iscrizione «è stata prevista dal legislatore a beneficio di un monitoraggio costante, da parte della stazione appaltante, sull’esecuzione del contratto» (sentenza n. 109 del 2021, amplius, par. 4).
Già a partire dal Regio decreto n. 350 del 1895, la disciplina speciale dei contratti pubblici ha regolato con rigidità le modalità con cui l’appaltatore, durante il corso dell’esecuzione del contratto, poteva avanzare pretese nei confronti della stazione appaltante, pretese che potevano o trarre origine dalla registrazione dei lavori o -sórte aliunde – convertirsi in richieste che evitassero il consolidarsi del credito complessivo nella misura contabilizzata dall’amministrazione (vd. ultra, par. 9.2). Nel tempo, l’istituto delle riserve ha sempre trovato una sua regolazione specifica, prima nel d.P.R. n. 207 del 2010 e poi nel d.m. n. 49 del 2018.
Le riserve non sono propriamente domande, sono invece «una parte (strumentale)» della domanda (Cianflone; Giovannini). Attraverso tale istituto, l’esecutore si “riserva” di avanzare specifiche contestazioni su eventi da cui sarebbero derivati maggiori oneri, determinando un’alterazione della prevista contabilità di cantiere. Le riserve potranno quindi essere oggetto di negoziazione con la stazione appaltante (il c.d. accordo bonario), nel corso o alla fine dell’esecuzione. In caso di mancato raggiungimento di un accordo, l’esecutore potrà comunque rivolgersi al giudice (ordinario), per provare ciò che ritiene gli spetti (Corte di cassazione, 23 marzo 2017, n. 7479; Corte di cassazione, 1 ottobre 2014, n. 20722; Corte di cassazione, 23 maggio 2008, n. 13426).
Le riserve sono, dunque, ‘espedienti tecnici’ tramite i quali l’appaltatore ha la possibilità di firmare il registro di contabilità, della cui tenuta risponde l’amministrazione committente, che materialmente lo redige. Si tratta, in sostanza, di un onere dell’appaltatore «inteso ad escludere ogni sua acquiescenza ai dati emersi nel corso del rapporto e, nel contempo, finalizzato a quantificarne le pretese, motivandone il ritenuto fondamentale» (Beretta; per la giurisprudenza, ex multis, Cass. civ. Sez. I, 31 dicembre 2020, n. 29988; Cass. Civ., sez. I, 5 settembre 2018, n. 21656; Cass. civ. Sez. I, 28 febbraio 2018, n. 4718; Cass. civ. Sez. I, 4 ottobre 2016, n. 19802). Perciò, con esse l’appaltatore si può opporre alla contabilizzazione di cantiere compiuta dalla stazione appaltante, verbalizzando specifiche contestazioni su eventi da cui sarebbero derivati maggiori oneri.
Proprio per la loro natura, le riserve non si esauriscono in una generica formula di salvezza dei diritti che si intende far valere, ma devono essere ‘esplicate’, a pena di decadenza, con l’indicazione di precise richieste di compensi e dei motivi che li giustificano: l’art. 190, comma 5, del d.P.R. n. 207 del 2010 prevedeva, a questo proposito, che «nel caso in cui l’esecutore […] ha firmato il registro […] con riserva, ma senza esplicare le sue riserve […], i fatti registrati si intendono definitivamente accertati, e l’esecutore decade dal diritto di far valere in qualunque termine e modo le riserve o le domande che ad esse si riferiscono». L’amministrazione può, in ogni caso, rinunciare a far valere la decadenza: dal momento che non vengono in rilievo poteri pubblicistici (amplius, par. 4), tale rinuncia – espressa o tacita - viene generalmente ritenuta ammissibile, purché ad opera dell’organo competente a disporre validamente di attribuzione patrimoniali e a patto che la decisione sia corredata da una congrua motivazione (Corte di cassazione, 17 febbraio 1987, n. 1697, Corte di cassazione, 13 luglio 1983, n. 4759; Corte di cassazione, 18 maggio 1977, n. 2015; Corte di cassazione, 29 ottobre 1973, n. 2809; Corte di cassazione, 12 marzo 1973, n. 677; Corte di cassazione, 28 ottobre 1965, n. 2290. Contra, Corte di cassazione, 26 agosto 1997, n. 8014).
A seconda dei casi, la specificazione della riserva può intervenire contestualmente alla sua apposizione o in un momento successivo: diversamente dalla disciplina attuale, il terzo comma dell’art. 190, del d.P.R. n. 207 del 2010 scandiva in modo stringente i termini in questione, prevedendo che «[s]e l’esecutore ha firmato con riserva, qualora l’esplicazione e la quantificazione non siano possibili al momento della formulazione della stessa, egli esplica, a pena di decadenza, nel termine di quindici giorni, le sue riserve, scrivendo e firmando nel registro le corrispondenti domande di indennità e indicando con precisione le cifre di compenso cui crede di aver diritto, e le ragioni di ciascuna domanda».
L’esplicazione è stata considerata dalla dottrina, talvolta come condizione di efficacia della riserva generica, talaltra come integrazione di quest’ultima nell’ambito di una fattispecie a formazione progressiva. Dal momento che l’esplicazione completa il contenuto della riserva, sembra che la soluzione possa essere solo nel secondo senso: come suggerisce la dottrina, «la semplice riserva generica («firmo con riserva») non potrebbe valere come domanda: quindi, ad essa non è riconoscibile autonomia, e, d’altra parte, nell’esplicazione non è ravvisabile una semplice condizione di efficacia. […] La fattispecie compiuta consiste nella “riserva esplicata”» (Capaccioli).
Generalmente si ritiene che le riserve riguardino i soli appalti di lavori, mentre per quelli di servizi e forniture il Regolamento del 2010 prevedeva delle ‘contestazioni scritte’. Tuttavia, prima del 2016, per queste ultime, a meno che le stazioni appaltanti non avessero inserito all’interno dei capitolati una disciplina specifica, la normativa era la stessa delle riserve, seppure nei limiti della compatibilità.
E del resto, molte delle circostanze in cui vige l’onere di iscrivere riserve possono manifestarsi anche in contratti diversi da quelli di lavori, circostanze che sono, peraltro, regolate in modo analogo (artt. 297-325 del d.P.R. n. 207 del 2010), anche sotto il profilo delle pretese dell’appaltatore.
A mo’ di esempio, può richiamarsi l’art. 304 del d.P.R. n. 207 del 2010 che, per l’esecutore di un servizio o una fornitura che intendeva far valere pretese derivanti dalla riscontrata difformità dello stato dei luoghi o dei mezzi o degli strumenti rispetto a quanto previsto dai documenti contrattuali, prevedeva la formulazione di un’esplicita contestazione sul verbale di avvio dell’esecuzione, a pena di decadenza. In modo non dissimile, l’art. 155, comma 4, dello stesso d.P.R. prevedeva, per i contratti di lavori, che «[q]ualora l’esecutore intend[esse] far valere pretese derivanti dalla riscontrata difformità dello stato dei luoghi rispetto a quello previsto in progetto, [doveva] formulare riserva sul verbale di consegna con le modalità e con gli effetti di cui all’articolo 190».
Ancora, l’art. 307 dello stesso Regolamento prevedeva che, in occasione dei pagamenti, fosse possibile presentare contestazioni scritte, in modo non dissimile dalla previsione di cui all’art. 189 per i contratti di lavori. Allo stesso modo, l’art. 323 riconosceva la possibilità di aggiungere riserve al certificato di verifica di conformità nei contratti di servizi e forniture e l’art. 233 prevedeva la stessa possibilità per i contratti di lavori, con l’unica variazione relativa ai tempi – quindici giorni per i primi e venti per i secondi.
Pertanto, si può affermare che già prima del 2016 valesse per i contratti di servizi e forniture la stessa regola applicabile a quelli di lavori e, cioè, vi fosse l’onere di iscrivere contestazioni scritte, a pena di decadenza, in tutti i casi in cui l’esecutore avesse voluto far valere pretese di carattere economico.
Il precedente Codice dei contratti pubblici sembrava inoltre suggerire che anche la disciplina relativa alle modalità e ai tempi di presentazione delle riserve si applicasse ai contratti diversi da quelli di lavori, seppur sempre nei limiti della compatibilità. L’art. 240 del d.lgs n. 163 del 2006, al comma 22, prevedeva che le disposizioni relative all’accordo bonario «si applica[ssero], in quanto compatibili, anche ai contratti pubblici relativi a servizi e a forniture» e che «[l]e competenze del direttore dei lavori spetta[ssero] al direttore dell’esecuzione del contratto».
A conferma di questa conclusione, si può anche richiamare una delle norme generali sulle riserve, l’art. 191 del d.P.R. n. 207 del 2010, che al primo comma, specificava: «[l]’esecutore è sempre tenuto ad uniformarsi alle disposizioni del direttore dei lavori […] quale che sia la contestazione o la riserva che egli iscriva negli atti contabili».
Dunque, nei limiti della compatibilità, le norme che disciplinavano le riserve potevano essere applicate anche alle contestazioni scritte nei contratti di servizi e forniture già prima del 2016, quando (vd infra) il legislatore ha previsto per questi contratti un rinvio espresso alla disciplina delle riserve. A seguito dell’entrata in vigore del nuovo Codice, in effetti, la disciplina di dettaglio transitoria (art. 216 d.lgs n. 50 del 2016) e quella del d.m. n. 49 del 2018 (art. 21) hanno uniformato l’istituto delle riserve tra appalti di lavori e appalti di servizi e forniture, eliminando ogni differenza di trattamento nella disciplina delle contestazioni e nelle circostanze in cui queste sono necessarie.
Secondo la consolidata giurisprudenza (ex multis, Cass. civ., n. 29988 del 2020; Cass. civ., n. 21656 del 2018), la rigida ‘procedimentalizzazione’ del meccanismo di apposizione delle riserve risponde alla triplice funzione di:
consentire all’amministrazione appaltante la verifica dei fatti suscettibili di produrre un incremento delle spese previste, con un’immediatezza che ne rende più sicuro e meno dispendioso l’accertamento; assicurare la continua evidenza delle spese dell’opera, in relazione alla corretta utilizzazione dei mezzi finanziari predisposti; mettere l’amministrazione tempestivamente in grado di adottare altre possibili determinazioni, in armonia con il bilancio pubblico, fino ad esercitare la potestà di recesso dal contratto, ai sensi dell’art. 134 d.lgs n. 163 del 2006 e dell’art. 109 d.lgs n. 50 del 2016 (ex multis, civ. Sez. I, 31 dicembre 2020, n. 29988; Cass. civ. Sez. I, 28 febbraio 2018, n. 4718).
L’istituto delle riserve realizza anche altri due obiettivi. In primo luogo, si assicura la continuazione dell’opera, perché si rimanda ad un momento successivo la risoluzione delle controversie tra le parti sulle pretese dell’appaltatore relative a costi o oneri aggiuntivi, evitando ulteriori sospensioni dei lavori.
Al contempo, si declina nell’onere di iscrizione di riserve la garanzia per l’appaltatore di poter far valere il sinallagma nella sua proiezione esecutiva, e la loro apposizione diventa indispensabile per evitare di dover sopportare costi al di fuori dell’alea attribuita mediante il contratto. La presenza dell’onere di iscrivere riserva, nato per soddisfare interessi pubblici, garantisce dunque, in modo efficace, anche il mantenimento dell’equilibrio sinallagmatico, a tutela degli interessi della parte privata. L’iscrizione della riserva, grazie al carattere fortemente tempestivo, permette, infatti, al privato di individuare con maggiore esattezza l’ammontare della propria richiesta e di indicarne in modo più preciso le cause. L’istituto delle riserve integra, pertanto, anche una «garanzia della conservazione della corrispettività delle prestazioni a fronte di costi/oneri sostenuti dall'affidatario in misura superiore rispetto a quella che le parti avevano originariamente preventivato» (Trib. di Lecco, ord. 13 maggio 2019. Riconoscono l’incidenza sull’equilibrio contrattuale dei fatti dedotti in riserva anche Cass. civ., sez. II, 4 febbraio 2021, n. 2622 e Cass. civ., sez. I, 21 maggio 2018, n. 12453).
Non sembrano esserci grandi dubbi sul fatto che l’istituto delle riserve attenga al diritto privato, costituendo pretese che l’appaltatore avanza all’amministrazione, intesa come contraente e non come autorità (Corte di cassazione, 1 ottobre 2014, n. 20722; Corte di cassazione, 13 luglio 2012, n. 12017; Corte di cassazione, 23 maggio 2008, n. 13426; Corte di cassazione, sezioni unite, 5 aprile 2005, n. 6992): la grande libertà conferita alle stazioni appaltanti dal d.m. del 2018 conferma, del resto, che l’istituto – pur non trovando corrispondenze nell’appalto privato – regola i rapporti tra amministrazione e appaltatore secondo un paradigma privatistico. E del resto, la stazione appaltante non esercita alcun potere: la norma le permette esclusivamente di eccepire la decadenza, nel caso in cui l’appaltatore non abbia (o non abbia correttamente) iscritto riserva in relazione ad una pretesa relativa all’esecuzione dell’appalto.
Quanto poi all’esatta qualificazione dell’onere che ricade sull’esecutore, ci si potrebbe interrogare sulla forma giuridica meglio in grado di spiegare la «forma obbligata che devono assumere tutte le domande di carattere economico che l’appaltatore intenda […] avanzare nei confronti dell’amministrazione committente» (Bargone, Stella Richter).
A tal fine occorre considerare che, contestualmente all’onere di iscrizione, vige l’obbligo di continuazione dei lavori: l’esecutore è, infatti, «sempre tenuto ad uniformarsi alle disposizioni del direttore […], senza poter sospendere o ritardare il regolare sviluppo […], quale che sia la contestazione o la riserva che egli iscriva negli atti contabili» (Art 191, comma 2, d.P.R. n. 207 del 2010). Quest’ultima caratteristica avvicina il funzionamento delle riserve a quello della clausola solve et repete, con la peculiarità che la facoltà di ripetizione è soggetta ad un onere di preventiva notifica che l’appaltatore è tenuto ad assolvere a pena di decadenza. Ciò, in ogni caso, non configura necessariamente l’onere di riserva come una clausola contrattuale introduttiva di un obbligo per la stazione appaltante, considerando, per esempio, che l’appaltatore non ha la scelta (alternativa all’iscrizione di riserva) di fare eccezione di inadempimento.
Per chiarire la natura dell’istituto, si dovranno, perciò, considerare gli effetti che produce la mancata apposizione della riserva; in particolare, il fatto che con una dichiarazione l’esecutore scongiuri la possibilità che ad un atto o un fatto si attribuisca il valore che altrimenti sarebbe dato loro.
Invero, in generale, i fatti e le contabilizzazioni di cui ai documenti contabili risultano accertati per l’appaltatore, che di conseguenza decadrà dal diritto di far valere, in qualunque tempo e modo, le pretese che ad essi si riferiscono e per le quali non siano state iscritte specifiche riserve.
Le riserve esplicate mantengono, dunque, discutibili i dati della contabilità contro i quali si rivolgono. Attenta dottrina, tuttavia, rileva che non è possibile indicare come effetto proprio delle riserve l’impedimento della decadenza, dal momento che questo – mera misura temporale di alcuni specifici poteri - non è autonomamente apprezzabile: dagli atti ‘impeditivi’ deriverebbe «non tanto l’impedimento della decadenza, quanto l’effetto positivo che, volta a volta, è loro proprio» (Capaccioli).
Seguendo questa indicazione, è inevitabile, allora, anche chiedersi quale sia qui tale effetto ‘positivo’. Le riserve, nell’ordinamento hanno, invero, vari significati: di riserve si parla, per esempio, in relazione alla possibilità di impugnare una sentenza non definitiva o di presentare una domanda frazionata di adempimento del credito, con riserva di chiedere il residuo in seguito. Nel caso qui in considerazione, tenuto conto del fatto che le registrazioni contabili, di per sé, non sono delle dichiarazioni di volontà negoziale in quanto esprimono solo l’accadimento o la valutazione quantitativa di fatti, si può sostenere che anche le riserve non aderiscono alla figura dell’atto negoziale: «non può, [infatti], ravvisarsi l’ipotesi negoziale quando […] gli effetti si producono in forza del regolamento» (Capaccioli), il d.P.R. n. 207 del 2010 e poi del d.m. n. 49 del 2018, senza alcun riguardo alla volontarietà o meno delle varie omissioni cui l’effetto stesso di ricollega.
Anche l’ipotesi ricostruttiva della confessione suscita qualche perplessità: oggetto della confessione può essere solo un fatto; diversamente, l’oggetto della decadenza è sempre un diritto.
Tuttavia, è vero anche che, da un lato, la confessione modifica comunque la situazione giuridica soggettiva collegata al fatto che si confessa, seppure mediatamente e come conseguenza indiretta e, al contempo, la decadenza può essere evitata senza esercitare il diritto che si vuole conservare. Anzi «occorre tener presente che, ai fini dell’impedimento della decadenza, il riconoscimento può riguardare proprio ed esclusivamente, un fatto, ogniqualvolta l’atto, richiesto a pena di decadenza, consista, appunto, nella denunzia di un fatto» (Bigliazzi Geri, Busnelli, Ferrucci).
Tuttavia, guardando alla ratio della confessione, questa si adatta con difficoltà all’istituto delle riserve.
Generalmente, l’effetto di prova legale della confessione viene fondato sulla massima d’esperienza per cui non si dichiara un fatto contrario ai propri interessi a meno che questo non sia vero. Un’impostazione parzialmente diversa ricollega l’efficacia vincolante della confessione al principio di autoresponsabilità.
Quale che sia la ricostruzione preferita in ordine alla ratio della confessione, la dottrina non l’ha mai ritenuta adattabile all’istituto delle riserve, considerando che la confessione, pur non essendo un atto negoziale, è comunque un atto volontario, rispetto al quale hanno rilievo i vizi della volontà. Viceversa, spesso gli effetti delle riserve conseguono alle omissioni dell’appaltatore per il solo fatto che si verificano, senza che venga in considerazione la loro volontarietà. In secondo luogo, occorre dar conto del fatto che il legislatore accomuna gli effetti derivanti dalla firma del registro senza riserva o con riserva non esplicata a quelli in cui l’esecutore non firmi il registro di contabilità, ipotesi – quest’ultima – che non può dirsi una valida modalità di esternazione della volontà di non contestare i dati contabili.
Di conseguenza, la struttura della decadenza sembra quella maggiormente idonea a descrivere la fattispecie in questione. Più in particolare, in caso di omessa riserva o nel caso di riserva non esplicata, due sono gli effetti giuridici previsti dal legislatore: uno di decadenza dall’appaltatore dal diritto di far rilevare in ogni momento e modo le proprie pretese ed uno di definitiva accettazione dei dati rilevati ed iscritti dalla pubblica amministrazione nei registri contabili.
Il regolamento (d.P.R. n. 207 del 2010) che accompagnava il precedente Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 163 del 2006) regolava le modalità di presentazione delle riserve in due articoli, il 190 ed il 191, disciplinando contestualmente anche la tenuta e la sottoscrizione dei registri di contabilità.
In particolare, le riserve dovevano essere iscritte, a pena di decadenza, sul primo atto idoneo a riceverle (art. 191, comma 1); in alcuni casi, poteva trattarsi di ordini di servizio, del verbale di consegna, di quello di sospensione o di ripresa, oppure del certificato di collaudo.
Sempre a pena di decadenza, le riserve dovevano essere iscritte anche nel registro di contabilità all’atto della firma e dovevano essere, infine, confermate nel conto finale (art. 191, comma 2): la sede delle riserve perciò si presentava (e si presenta tuttora) composita.
Qualora non fosse stato possibile esplicarle subito, era necessario farlo entro il termine perentorio di quindici giorni dalla loro iscrizione nel registro di contabilità, indicando «le cifre di compenso cui crede di aver diritto, e le ragioni di ciascuna domanda», senza che l’esecutore potesse sospendere o ritardare il regolare sviluppo dei lavori (art. 190, comma 3).
La disciplina prevedeva anche un primo controllo sulle riserve da parte del direttore dei lavori, a cui erano assegnati ulteriori quindici giorni per valutarle ed esporre le proprie deduzioni (art. 190, comma 4).
Con l’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici, al vecchio regolamento avrebbe dovuto sostituirsi un regime di Linee guida, elaborate dall’ANAC o in veste di decreti ministeriali.
La logica della soft law era quella di avere uno strumento snello e modificabile con semplicità, soprattutto per apportare in modo tempestivo le correzioni e le integrazioni che l’applicazione pratica avesse reso necessarie ed opportune.
Le linee guida avrebbero dovuto essere emanate tra i sessanta e i novanta giorni successivi all’entrata in vigore del Codice e se ne prevedevano più di cinquanta. Tuttavia, ne sono state emanate soltanto una ventina, inoltre spesso sono state sostituite e modificate e questo ha creato alcune difficoltà tra gli operatori.
Perciò si è cominciato a discutere dell’opportunità di tornare alla soluzione regolamentare: il legislatore con il d.l. n. 32 del 2019, c.d. Sblocca Cantieri, convertito in l. n. 55 del 2019, ha chiarito che l’esperienza delle Linee Guida poteva considerarsi tramontata (in questo senso, Cons. Stato, Parere n. 3235/2019), per essere sostituita con un nuovo Regolamento.
Nonostante la norma sia entrata in vigore nel giugno 2019 e sia perciò decorso il termine di sei mesi previsto per l'emanazione del nuovo Regolamento, ad oggi quest'ultimo non è ancora stato varato.
In attesa del nuovo testo, che – nella versione non definitiva disciplina le riserve in termini non diversi da quanto già prevedeva il precedente – conviene, allora, analizzare la normativa transitoria e quella in vigore a partire dal 2018 (d.m. n. 49 del 2018).
Il Codice dei contratti pubblici del 2016 aveva previsto, all’articolo 217, comma 1, lettera u), l’abrogazione, dalla data di entrata in vigore del Codice (il 19 aprile 2016), del d.P.R. n. 207 del 2010.
Tuttavia, l’articolo 216 prevedeva espressamente alcune ipotesi di ultrattività del Regolamento, fino alla data di entrata in vigore delle Linee guida.
Più in particolare, con riguardo all’istituto delle riserve, l’articolo 111 del d.lgs. n. 50 del 2016 (rubricato Controllo tecnico, contabile e amministrativo) stabiliva, al comma 1, che con decreto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti sarebbero state approvate le Linee Guida per le modalità e la tipologia di atti attraverso cui il direttore dei lavori avrebbe effettuato le attività relative al controllo (tecnico, contabile ed amministrativo) affinché i lavori fossero eseguiti a regola d’arte; sarebbero state inoltre indicate le modalità di svolgimento della verifica di conformità in corso di esecuzione e finale e la relativa tempistica.
Nelle more dell’adozione di tale decreto, l’articolo 216 prevedeva che per la contabilità si continuasse ad applicare la disciplina prevista dalla Parte II, Titolo IX, capi I e II del d.P.R. n. 207 del 2010, con l’unica – ma significativa – precisazione che, anche per i contratti di servizi e forniture, si sarebbe applicato l’articolo 216, comma 17, del d.lgs. n. 50 del 2016 e, dunque, la disciplina della contabilità dei lavori, inclusa quella più specifica relativa alle riserve: risultato, questo, che era probabilmente già raggiungibile in via interpretativa (vd supra).
Con il d.m. n. 49 del 2018, entrato in vigore il 30 maggio 2018, sono stati abrogati gli articoli dal 178 al 210 del d.P.R. 207 del 2010 (art. 27 del d.m. 49 del 2018) e sono stati sostituiti dalle previsioni contenute nello stesso d.m., il quale, nel regolare la figura del direttore dei lavori e del direttore dell’esecuzione, di fatto disciplina anche i momenti cruciali dell’esecuzione dei contratti pubblici.
In particolare, sono regolate la consegna dei lavori (art. 5), le modifiche e le varianti contrattuali (artt. 8; previsione identica è prevista, all’art. 22, comma 5, lettera b, per gli appalti di servizi e forniture), la sospensione dei lavori (art. 10), in modo non dissimile dal precedente Regolamento; di conseguenza, anche le ipotesi in cui era necessaria l’iscrizione delle riserve sono rimaste pressoché invariate. Fa eccezione unicamente l’ipotesi prevista dall’art. 161, commi 16 e 17, non più prevista all’art. 8 del d.m. n. 49 del 2018.
Ciò è che cambiato non sono perciò le circostanze-tipo in cui è sicuramente necessaria l’iscrizione della riserva, quanto il regime delle stesse: l’art. 9 del d.m. delega alla stazione appaltante la definizione della disciplina puntale per la gestione delle contestazioni su aspetti tecnici e delle riserve. L’art. 21, che prevede espressamente l’istituto della riserva anche per gli appalti di servizi e forniture, delega anch’esso alla PA la scelta sulla gestione degli aspetti tecnici e sulle riserve, scelta che dovrà essere puntualmente riportata nel capitolato.
Quello che resta delle modalità di proposizione delle riserve è quanto indicato dall’art. 14, commi 1 e 5: in primo luogo, secondo quando precisa il comma 1, lettera e) «l’esecutore non può iscrivere domande per oggetto o per importo diverse da quelle formulate nel registro di contabilità durante lo svolgimento dei lavori e deve confermare le riserve già iscritte negli atti contabili, per le quali non siano intervenuti la transazione di cui all’articolo 208 del codice o l’accordo bonario di cui all’articolo 205 del codice». Il comma 5, lettera f) dello stesso articolo precisa che la documentazione relativa al conto finale deve contenere anche «la sintesi dell’andamento e dello sviluppo dei lavori con l’indicazione delle eventuali riserve e la menzione delle eventuali transazioni e accordi bonari intervenuti, nonché una relazione riservata relativa alle riserve dell’esecutore non ancora definite».
Dalla scarna normativa attualmente in vigore, si ricava che le imprese appaltatrici devono iscrivere nel giornale dei lavori e nel registro di contabilità riserve contenenti una richiesta specifica e definitiva, per ottenere la somma alla quale ritengono di avere diritto. Nulla si dice in ordine all’onere di iscriverle nel primo documento disponibile. Manca, inoltre, il termine perentorio di quindici giorni per l’esplicazione delle stesse, ciò che – in termini di assoluta rigidità ed in assenza di ulteriori precisazioni da parte del capitolato d’appalto - potrebbe essere interpretato anche nel senso di un impedimento ad iscrivere riserve (ed a far valere le relative pretese) quando non possano essere immediatamente individuati gli importi e le motivazioni: si tratta, tuttavia, di un’interpretazione eccessivamente rigida, che presenta profili di profonda incompatibilità con alcune norme costituzionali, tra cui l’art. 24, l’art. 41 e l’art. 97 della Costituzione, poiché lederebbe in modo eccessivamente sproporzionato e del tutto casuale gli interessi di una delle parti del contratto d’appalto.
Resta, invece, per il direttore dei lavori, l’onere di redigere le deduzioni motivate sulle riserve apposte dall’appaltatore (art. 14, comma 1, lettera c), ma anche per costui manca l’indicazione di un termine perentorio (diversamente dal precedente art. 190, comma 4, del d.P.R. n. 207 del 2010).
Resta ferma la reiterazione della contestazione in sede di conto finale, a pena di decadenza, a meno che non siano intervenuti la transazione di cui all’articolo 208 o l’accordo bonario di cui all’articolo 205 del Codice. Si precisa inoltre che, una volta firmato dall’esecutore il conto finale, il RUP ha sessanta giorni per redigere una propria relazione finale riservata, nella quale esprime parere motivato sulla fondatezza delle domande dell’esecutore (art. 14, comma 1, lettera e).
Infine, continua ad essere previsto il divieto di iscrivere domande diverse per oggetto o per importo da quelle formulate nel registro di contabilità durante lo svolgimento dei lavori.
Il resto della regolamentazione non è più definita a livello normativo, ma affidata alla stazione appaltante che, nel capitolato d’appalto, sarà tenuta a comporre una regolamentazione specifica delle modalità in cui l’appaltatore potrà contestare inadempimenti o scorrettezze della stessa amministrazione che siano in grado di influire sull’esecuzione dei lavori.
In particolare, di volta in volta, dovranno essere definiti i modi ed i termini di apposizione ed esplicazione delle riserve e l’idoneità di documenti diversi dal registro contabile a riceverle.
Questa tipologia di regolazione, che demanda ai documenti contrattuali la definizione di un termine di decadenza, è senza dubbio legittima: l’art. 2965 c.c. ammette che, diversamente dalla prescrizione, che può trovare fonte solo nella legge, i termini di decadenza possono essere disposti anche da un negozio giuridico, purché non eludano i termini di prescrizione. Peraltro, è in linea con un atteggiamento più generale del nuovo Codice dei contratti pubblici, che tende a delegare alla stazione appaltante questioni rilevanti per l’esecuzione contrattuale, quali – oltre al regime delle riserve – le clausole relative alle modifiche ed alle varianti, nonché alle revisioni dei prezzi.
Secondo la dottrina, «[a]lla base di questa normativa vi era l'intento del legislatore di cercare di limitare il più possibile la nascita di controversie tra le parti: invero, l'obiettivo pare decisamente mancato» (Ferlini).
Peraltro, neppure il Consiglio di Stato, nei pareri n. 2282 del 2016 e n. 360 del 2018, aveva avallato la scelta di attribuire alla lex specialis di gara la regolazione dei termini e delle modalità di presentazione delle riserve. Nel primo parere i giudici di Palazzo Spada avevano, anzi, segnalato «l’opportunità di prevedere un termine a pena di decadenza a carico dell’esecutore, in conformità all’art. 191 d.P.R. n. 207/2010, […] o di coordinare tale norma con il successivo paragrafo 7.3.2.2, che detta una disciplina analoga a quella recata dal citato art. 191». Nel 2018, si era suggerita la possibilità di enunciare «l’obbligo per la stazione appaltante di riprodurre [la] disciplina nei capitolati d’appalto», non certo di lasciare alla stazione appaltante la definizione della stessa.
La soluzione suggerita dal Consiglio di Stato avrebbe, invero, evitato di incorrere in scenari problematici come quello in cui la stazione appaltante manca di indicare nel capitolato d’appalto (tutte o alcune) regole di dettaglio sulla disciplina delle riserve o quello in cui la stazione appaltante regola l’istituto delle riserve in modo eccessivamente svantaggioso per la controparte (per esempio, individuando un termine per la loro esplicazione eccessivamente stringente, oppure del tutto escluso). De iure condendo, conviene comunque cercare di risolvere tali problematicità in via interpretativa.
In un primo scenario, l’Amministrazione omette di regolare (o non regola in modo compiuto) modalità e termini di presentazione delle riserve. Per esempio, non indica il termine entro il quale esplicarle o il termine per la firma, scaduto il quale si intendono accettate le contabilizzazioni dell’amministrazione.
Senz’altro una disciplina incompleta si presta all’insorgenza di contrasti interpretativi, anche strumentali e pone, in ogni caso, il problema di individuare una disciplina alternativa, esponendo - altrimenti – l’amministrazione a contestazioni per un arco temporale indefinito o comunque eccessivamente lungo, con rilevanti conseguenze dal punto di vista economico.
Per far fronte ad una simile situazione, si potrebbe in prima battuta ipotizzare l’applicazione delle norme del previgente panorama normativo e, in particolare, gli artt. 190 e 191 del d.P.R. n. 207 del 2010. Tali norme non sembrano, invero, incompatibili con quanto prescrive il d.m. n. 49 del 2018 e potrebbero evitare il prolungarsi di vuoti normativi non tollerabili, se si considera che la procedura relativa alle riserve è un aspetto fondamentale nei contratti d’appalto e la sua assenza mette in pericolo il mantenimento dell’equilibrio sinallagmatico.
Tuttavia, occorre tener conto del fatto che il d.m. del 2018 ha espressamente abrogato la normativa previgente e perciò, se anche è vero che quest’ultima è senz’altro recepibile nei capitolati d’appalto, non sembra poter eterointegrare lo stesso capitolato. Neppure si può immaginare un’interpretazione estensiva o analogica di qualche altro istituto, considerata la peculiarità di quello in questione e la sua singolarità nel panorama normativo.
Si potrebbe, allora, in tali casi, far applicazione del principio della buona fede in executivis, che – declinata nel contesto dei contratti pubblici (Cass. civ., sez. I, 17 luglio 2014, n. 16367) – permette di estrapolare dalla precedente regolamentazione quei caratteri generali che il d.P.R. del 2010 riportava nella disciplina delle riserve in quanto connotanti lo stesso istituto. Il canone generale di buona fede, declinato in chiave integrativa, permette insomma di ricavare quelle direttrici generali rappresentative della stessa essenza delle riserve, per far sì che possano governare un rapporto altrimenti sfornito di disciplina.
Conviene, perciò indagare le direttrici generali già richiamate dalla previgente disciplina, che aveva precisato modalità e termini, consustanziali alla funzione delle riserve, che si allineavano al senso della clausola di buona fede, apparendo – per tono e funzione – equilibrati e generali.
Ebbene, da un lato, si teneva conto dell’influenza di quei particolari interessi che continuano ad incidere nel rapporto tra PA e appaltatore anche una volta che il contratto è stato stipulato: in particolare, l’interesse pubblico a che l’amministrazione sia tempestivamente messa al corrente della spesa che dovrà sostenere per realizzare una determinata opera o per fornire un certo servizio implica che le modalità di iscrizione e la relativa tempistica siano tali da poter sorreggere la funzione della riserva e, dunque, sufficientemente tempestivi e specifici da permettere all’amministrazione di conoscere i fatti suscettibili di produrre un incremento di spesa e metterla in grado di adottare per tempo eventuali determinazioni. Al contempo, la tempistica e le modalità devono anche tener conto della posizione dell’appaltatore e pertanto devono essere tali da non risultare eccessivamente stringenti, dovendosi altrimenti ritenere violato il principio di correttezza e buona fede.
Questi due criteri direttivi erano presenti nella normativa previgente e ne caratterizzavano il funzionamento equilibrato, svelando la stessa natura delle riserve, in bilico tra la necessità pubblicistica di conoscere progressivamente l’ammontare delle spese (ciò che giustificava un termine di decadenza piuttosto stringente) e la collocazione nella fase esecutiva, connotata da un rapporto paritetico tra i contraenti.
Proprio in virtù del carattere generale, equilibrato e quindi corretto, la normativa sembra, comunque, disponibile anche per un’eterointegrazione (mediata dal canone di buona fede) di quei contratti altrimenti privi di disciplina.
Questa soluzione interpretativa sembra imporsi tanto più considerato che la normativa in vigore impedisce alla stazione appaltante di sopprimere tout court l’iscrizione di riserve: sia il d.m. del 2018 sia il nuovo Codice dei contratti pubblici contengono alcune disposizioni che le richiamano ed in parte le regolano, perciò una disciplina puntuale dell’istituto pare indispensabile.
Si possono, a questo punto, indagare i rimedi per quelle clausole eccessivamente stringenti, che si traducono in una vera e propria impossibilità di iscrizione della riserva, per causa non imputabile alla parte.
A tal proposito, viene in rilievo in particolare il caso della stazione appaltante che pretenda il rispetto di un termine per l’esplicazione della riserva ridotto al punto da rendere eccessivamente difficile per l’appaltatore l’esercizio del diritto. Analoghe difficoltà potrebbero sorgere a causa di modalità eccessivamente complesse di iscrizione della riserva o – quanto al contenuto - a causa del livello di dettaglio richiesto a pena di inammissibilità.
Prendendo il primo esempio come modello per la costruzione di un paradigma rimediale, si propongono le seguenti riflessioni.
Il legislatore del Regolamento del 2010 aveva ritenuto, all’art. 190, comma 3, che «[s]e l'esecutore, ha firmato con riserva, qualora l'esplicazione e la quantificazione non siano possibili al momento della formulazione della stessa, egli esplica, a pena di decadenza, nel termine di quindici giorni, le sue riserve, scrivendo e firmando nel registro le corrispondenti domande di indennità e indicando con precisione le cifre di compenso cui crede aver diritto, e le ragioni di ciascuna domanda»: il termine di quindici giorni realizzava il giusto contemperamento tra gli interessi in gioco, quello dell’amministrazione ad avere tempestiva contezza delle spese per sostenere la realizzazione dell’opera pubblica e quello dell’appaltatore che si trovasse impossibilitato a quantificare l’ammontare delle proprie pretese al momento della sottoscrizione del registro di contabilità, ad avere un limitato periodo di tempo per poterle quantificare in modo esatto.
Dal momento che la regolazione di questo aspetto è lasciata, dall’art. 9 del d.m. del 2018, alla stazione appaltante, due sono gli interrogativi che si pongono nel contesto attuale.
Il primo consiste nel verificare i rimedi che ha l’amministrazione, a fronte della previsione di un termine eccessivamente lungo.
Il secondo riporta lo sguardo sull’esecutore e consiste nell’accertare i rimedi che quest’ultimo ha a disposizione nel caso – realisticamente più frequente del precedente – in cui la stazione appaltante preveda termini eccessivamente stringenti per esplicare e quantificare le riserve.
Lo scenario che risponde al primo degli interrogativi è quello in cui il capitolato d’appalto prevede l’esplicazione in tempi dilatati al punto da mettere a rischio la stessa funzione delle riserve, che - introducendo un termine di decadenza che si aggiunge a quello ordinario di prescrizione – vogliono assicurare all’amministrazione la continua e tempestiva evidenza delle spese dell’opera.
La previsione di un termine troppo lungo va, dunque, a scapito della stessa amministrazione che lo ha previsto nel capitolato, e la pone in una dimensione rapportuale più simile ai contratti tra privati.
È evidente che in tal caso potranno esserci ripercussioni di ordine disciplinare o erariale nei confronti dei funzionari che abbiano inserito tale clausola. Dal lato del rapporto, il sostanziale svuotamento ad opera del capitolato d’appalto della funzione delle riserve potrebbe porre seri dubbi sulla validità della clausola per carenza di causa e la conseguente applicazione dell’art. 1419 c.c.
Il secondo scenario si presenta maggiormente complesso: ai fini dell’analisi conviene considerare due differenti situazioni, ovvero l’ipotesi in cui il termine previsto per l’esplicazione sia eccessivamente breve in assoluto e quella in cui lo sia a causa delle circostanze concrete sopravvenute.
Nel primo caso, la scadenza rende, di fatto, quasi sempre impossibile l’esplicazione successiva della riserva: si può immaginare, per esempio, l’ipotesi di un termine posto a qualche ora di distanza dalla sottoscrizione del registro di contabilità.
Ebbene, si potrebbe ritenere che il legislatore, non avendo fissato alcun termine per l’esplicazione delle riserve, implicitamente abbia considerato congrua rispetto agli interessi (particolari e generali) rilevanti la possibilità che non ve ne siano. In tale circostanza, ammettere un sindacato sulla consistenza del termine potrebbe significare introdurre un controllo su un aspetto lasciato all’autonomia contrattuale.
Tuttavia, queste considerazioni sembrano al più valere per quei contratti in cui anche un termine così ridotto mantiene una sua pregnanza: per esempio, per i contratti di forniture si può immaginare che possano essere sufficienti anche poche ore (o una notte) per ottenere dati precisi, tali da poter esplicare le relative riserve.
Per gli altri contratti, invece, considerando che, per definizione, l’istituto ‘riserva’ all’appaltatore la facoltà di esplicare le proprie pretese in un secondo momento, la clausola starà regolando le riserve fintanto che mantiene la possibilità di una quantificazione successiva, mediante la previsione di un termine idoneo. Pertanto, l’esclusione de facto della possibilità di esplicarle in un momento successivo implica la regolazione di un istituto diverso e del tutto estraneo alla normativa in materia di esecuzione dell’appalto, capace di creare uno spazio di esonero della responsabilità illimitato per l’amministrazione e per ciò solo incostituzionale o, in alternativa, l’impossibilità (originaria) di adempiere a quell’onere e dunque, la conseguente nullità della clausola.
La nullità potrebbe ricostruirsi partendo dal dettato dell’art. 2965 c.c. che riconosce tale rimedio per quelle pattuizioni con cui si stabiliscano termini di decadenza che rendono eccessivamente difficile ad una delle parti l’esercizio del diritto. In effetti, quello dell’eccessiva difficoltà è, sì, un criterio oggettivo, che prescinde dal dolo o dalla colpa della parte che si avvantaggia della decadenza, in ogni caso, il giudice, nel rilevare la possibilità di un’incidenza eccessiva sulla controparte, tiene conto oltre che della brevità del termine, anche della particolare situazione del soggetto obbligato a svolgere l'attività prevista per evitare la decadenza e della natura dell'atto da compiere.
Nel secondo scenario, invece, a causa di circostanze sopravvenute ed imprevedibili, il termine inizialmente considerato congruo per l’esplicazione potrebbe risultare troppo breve, tanto da rendere ineseguibile l’onere: si potrebbe pensare, per esempio, ad un factum principis che imponga il rispetto di tempistiche – per determinati accertamenti – che rendono impossibile l’esplicazione nei tempi indicati dal capitolato, o ancora la presenza di condizioni (una nuova ondata di pandemia, un’alluvione di dimensioni notevoli) che paralizzano le attività di accertamento per un certo tempo.
Invero, nel contenuto di una prestazione o di un onere contrattuale rientrano sia il risultato sia i mezzi per attuarlo, e allora l’impossibilità non imputabile (secondo la regola di cui all’art. 1176 c.c.) è quella che rileva in funzione della natura e della ricostruzione concreta del rapporto, purché oggettivamente apprezzabile. L’impossibilità è, dunque, intesa in senso relativo, «pur senza mai confondersi con la semplice difficoltà oggettiva» (Breccia, 1991); tuttavia, calata nel rapporto con un’impresa, il fatto che rende impossibile l’adempimento deve essere legato a cause esterne alla sfera di controllo e di pianificazione, che rendono comunque non eseguibile la prestazione (o l’onere), ancorché non sia impossibile in natura.
Ebbene, secondo la riflessione dottrinaria più convincente, il giudice non potrebbe dichiarare nulle tali clausole a causa della sopravvenienza: si rischierebbe, altrimenti un «travisamento ai limiti, paradossali, di una rinnovata vanificazione: per eccesso ancor più che per difetto» (Breccia, 2018) della clausola generale di buona fede.
In questi casi, l’impossibilità di adempiere all’onere di iscrizione sembra tradursi, invece, in una ineseguibilità parziale e nella conseguente prosecuzione del contratto, rideterminato il termine di esplicazione della riserva secondo un criterio di correttezza.
È evidente che dover risolvere in via interpretativa problemi che potevano essere evitati con una regolazione più puntuale implica dover mettere in conto il potenziale aumento di contenzioso. Una possibile via d’uscita è l’elaborazione di capitolati-tipo da parte dell’ANAC, secondo quanto già prevede l’art. 213, comma 2, del nuovo Codice dei contratti pubblici, che potrebbe rendere omogenea e completa la disciplina dell’esecuzione dei contratti, evitando ab origine i problemi interpretativi di cui si è dato atto. Più in particolare, l’ANAC dovrebbe intervenire al fine di garantire «la promozione dell’efficienza, della qualità dell’attività delle stazioni appaltanti», perseguendo l’omogeneità dei contratti e favorendo le migliori pratiche. Interventi di questo tipo, con un contenuto volto a regolare tutta la disciplina dell’esecuzione, avrebbero senz’altro un impatto significativo, ciò che renderebbe necessaria la trasmissione alle Camere degli atti di regolazione, assicurando in tal modo un vaglio anche successivo sulla compatibilità delle soluzioni proposte con le norme del Codice dei contratti pubblici e, più in generale, con i principi di diritto privato.
In ogni caso, sembra doveroso dare atto anche del fatto che non tutti gli aspetti della disciplina sulle riserve necessitano di raggiungere un determinato livello di omogeneità: se per le modalità ed i tempi di presentazione, una regolamentazione unitaria mediante capitolati-tipo evita lacune normative e garantisce una maggiore certezza del diritto per l’operatore, viceversa, alcuni aspetti della regolamentazione, prima affidati unicamente al legislatore, potrebbero essere disciplinati di volta in volta dalla stazione appaltante con maggiore efficacia: tra questi, può annoverarsi senz’altro la previsione di una percentuale massima di riserve liquidabili in sede giudiziaria o in via transattiva.
Tale previsione era stata inserita nel precedente Codice dei contratti pubblici dal legislatore del d.l. n. 70 del 2011: l’art. 240-bis prevedeva un importo complessivo delle riserve non superiore al venti per cento di quello previsto per il contratto. La disposizione è stata di recente oggetto di un vaglio di legittimità costituzionale: il giudice del Tribunale di Lecco dubitava della conformità della norma con gli artt. 3, 24, 41 e 97 della Costituzione, ma la Corte (sentenza n. 109 del 2021) ha escluso la fondatezza delle questioni ritenendo che, per un verso, rispetto a quelle istanze «correlate con sopravvenienze di natura oggettiva», la soglia si traduce «in un ampliamento del rischio contrattuale dell’impresa», noto al momento della stipulazione del contratto e comunque in grado di determinare un sacrificio ragionevole agli interessi dell’appaltatore, nel bilanciamento con quelli di rango costituzionale tutelati dall’art. 240-bis; per altro verso, rispetto a quelle pretese che scaturiscono da inadempimenti della stazione appaltante, la Corte ha riconosciuto nella fattispecie un esonero legale della responsabilità: ciò implica, dal punto di vista ermeneutico ed in aderenza a quanto già aveva statuito in passato la stessa Corte (sentenza n. 199 del 2005 e con la sentenza n. 420 del 1991), la necessità di limitarlo a quegli inadempimenti non dolosi o gravemente colposi, al fine di mantenere un equo contemperamento tra gli interessi in gioco.
Lo stesso principio, quello per cui il debitore non può avvalersi di limiti alla sua responsabilità, quando quest’ultima scaturisce da un comportamento connotato da dolo o colpa grave, è espresso – come vincolo per l’autonomia privata – dall’art. 1229 cod. civ. ed entro questi limiti è, perciò, senz’altro possibile per le parti definire una soglia massima entro la quale le riserve potranno essere liquidate.
Dunque, in assenza di una norma di contenuto analogo all’art. 240-bis nel nuovo Codice dei contratti pubblici, le stazioni appaltanti potranno individuare – se ritenuta opportuna e necessaria - una soglia simile, adeguata alla concreta situazione ed alle particolari esigenze contrattuali. A seconda del tipo di pretesa, la clausola potrà fungere da ampliamento del margine di rischio per l’appaltatore (per quelle contestazioni rispetto a modifiche unilaterali del contratto) o da esonero legale della responsabilità per la stazione appaltante (per le riserve relative a fatti imputabili a quest’ultima).
L’utilità di questa soglia, secondo la ricostruzione della giurisprudenza, è legata alla prevenzione degli abusi che, dell’istituto delle riserve, sono stati registrati in più occasioni dalle autorità di vigilanza (Determinazione n. 5 del 30 maggio 2007; Deliberazione n. 89 del 24 ottobre 2012), al fine di preservare interessi riconducibili agli artt. 81 e 97 Cost. (sotto il profilo della corretta gestione delle risorse statali e del buon andamento dell’amministrazione) nonché, indirettamente, al fine di tutelare la concorrenza. La norma mirava, in sostanza, a disincentivare l’iscrizione di riserve prive di fondamento o utilizzate al posto di altri strumenti, come le varianti o le revisioni di prezzi.
Il contratto d’appalto è, del resto, un contratto di durata, per sua natura resiliente. Tuttavia, per i contratti pubblici, i principi generali dell’ordinamento (soprattutto quelli di matrice europea) e la logica stessa delle procedure di evidenza pubblica attribuiscono alla forza di legge del contratto una valenza maggiore di quella rinvenibile nell’appalto privato. L’invarianza delle condizioni economiche dell’accordo, infatti, non è prevista esclusivamente a presidio dell’affidamento che ciascuno ripone nella dichiarazione resa dalla controparte, perché anche la parità delle armi fra gli aspiranti contraenti e la miglior tutela delle finanze pubbliche verrebbero evidentemente lese da una modifica successiva dell’equilibrio economico del contratto. Ciononostante, istituti come le varianti, le revisioni dei prezzi e le riserve costituiscono oggetto di una disciplina che rafforza (non l’immutabilità del contenuto delle obbligazioni, bensì) la resistenza dell’appalto pubblico alle sopravvenienze, testimoniando la necessità di adeguare comunque l’assetto d’interessi inizialmente programmato, per mezzo di un preciso obbligo normativo e contrattuale di revisione, «a tutela del sinallagma e dell’equilibrio economico dell’appalto» (Cons. Stato, 23 aprile 2014, n. 2052). Per la tutela della concorrenza, tuttavia, tali ipotesi sono limitate entro confini tendenzialmente predefiniti dalla normativa. Questi confini erano stati spesso oggetto di violazione da parte delle imprese appaltanti e il legislatore aveva perciò tentato di arginare il problema con una soglia massima di liquidazione delle riserve.
Con l’entrata in vigore del nuovo Codice, è venuto meno il limite rigido all’importo delle riserve ed è stata, pertanto, lasciata alla discrezionalità della stazione appaltante l’individuazione di una soglia (variabile a seconda del contratto) al fine di realizzare di volta in volta il miglior contemperamento tra l’interesse del privato al mantenimento del sinallagma nella sua proiezione esecutiva e il buon andamento dell’amministrazione e la tutela della concorrenza, tutelati dalla soglia nella misura in cui quest’ultima incentiva l’iscrizione di riserve in modo più attento ed equilibrato.
Passando ora all’analisi delle circostanze e dei fatti per i quali è necessaria l’iscrizione di una riserva, onde evitare di incorrere in decadenze rispetto a determinate pretese economiche, la dottrina e la giurisprudenza sono solite ritenere che l’onere di iscrizione abbia valenza generale ed investa «ogni pretesa di carattere economico che l’esecutore dei lavori intenda avanzare nei confronti della p.a. committente» (ex multis, Cass. civ. Sez. I, 28 febbraio 2018, n. 4718; Cass. civ., Sez. 1, 4 ottobre 2016, n. 19802), indipendentemente dal fatto che si tratti di contestazioni circa l’esattezza delle registrazioni contabili, o di proteste che traggono origine da condotte della stazione appaltante o da altri fatti imprevedibili, ma comunque pregiudizievoli per l’appaltatore.
In proposito vale ricordare l’ampio dictum arbitrale del 9 luglio 1983, per il quale «l’onere di iscrizione delle riserve si presenta come espressione di un principio di interesse generale che, in relazione all’ampiezza della sua portata ed alla ratio che lo giustifica, non può subire deroghe se non nelle ipotesi in cui la sua osservanza, da parte dell’appaltatore, o non sarebbe giustificata o non sarebbe possibile» (Lodo arb., 9 luglio 1983).
Non sembra che a seguito dell’entrata in vigore del d.m. tale assunto sia stato messo in discussione: gli artt. 3 e 17, rispettivamente per gli appalti di lavori e per quelli di servizi e forniture, prevedono che «l’esecutore [sia] tenuto ad uniformarsi alle disposizioni contenute negli ordini di servizio, fatta salva la facoltà di iscrivere le proprie riserve», in termini sostanzialmente analoghi a quanto prevedeva il precedente art. 191 del d.P.R. n. 207 del 2010.
Resta, in ogni caso, la possibilità per la stazione appaltante di escludere l’onere per determinate pretese, purché ciò risulti chiaramente dal capitolato d’appalto. Invero, già nel precedente Regolamento alcune pretese non necessitavano della preventiva iscrizione: tra queste, in particolare, l’art 142, comma 4, prevedeva la possibilità di ottenere l’importo degli interessi per ritardato pagamento, «senza necessità di apposite domande o riserve» (Cianflone; Giovannini). Inoltre, la giurisprudenza ha individuato, nel tempo, alcune ipotesi ulteriori in cui non è necessaria (o non è proprio possibile) l’iscrizione di riserva.
Considerata, dunque, la complessità del quadro normativo e giurisprudenziale, conviene in primo luogo analizzare le ipotesi in cui la legge prevede l’onere di iscrizione, al fine di dedurre le categorie di circostanze nelle quali senz’altro vige tale onere. Si potranno quindi analizzare più nel dettaglio i casi di deroga.
La dottrina distingue generalmente tra riserve ‘di danni’ e riserve ‘contabili’. In realtà, pretese correlate alla contabilizzazione dei lavori potrebbero dipendere da negligenze dell’amministrazione o da un’erronea interpretazione delle clausole contrattuali, ed essere perciò riferibili ad inadempimenti della stazione appaltante.
Sembra pertanto maggiormente convincente quella distinzione accolta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 109 del 2021 che separa un primo gruppo di riserve, relative a fatti imputabili alla stazione appaltante, ed un secondo, che riunisce le contestazioni rispetto tanto a modifiche unilaterali del contratto da parte della stazione appaltante quanto alla consegna parziale da parte di quest’ultima dei luoghi in cui realizzare l’opera, per fattispecie comunque non incluse nel perimetro delle perizie di varianti. Ne emerge un quadro i cui i casi per i quali è necessario iscrivere riserve riguardano essenzialmente comportamenti riferibili alla stazione appaltante; diversamente, per le sopravvenienze non imputabili, gli strumenti predisposti dall’ordinamento sono altri, in particolare le perizie di variante e le rideterminazioni di prezzo.
Un primo gruppo di ipotesi in cui si delinea l’onere della riserva riguarda le pretese di risarcimento del danno a latere dell’adempimento.
Tra le varie situazioni richiamate dal d.P.R. n. 207 del 2010 e poi dal d.m. n. 49 del 2018, si annoverano in questa categoria le richieste di risarcimento per danno da ritardo, nei casi in cui non siano accolte le istanze o di recesso per ritardo nella consegna dei lavori per fatto o colpa dell’amministrazione (art. 153, comma 8 del d.P.R. e art. 5, comma 14 del d.m.) o di risoluzione per sospensione dei lavori per più di un quarto della durata complessiva o comunque più di sei mesi (art. 159, comma 4 del d.P.R. e art. 107, comma 2 del d.lgs n. 50 del 2016). Inoltre, sono incluse anche quelle richieste risarcitorie dovute a ritardi nella ripresa dei lavori, una volta cessata la causa legittima di sospensione (art. 159, comma 3 del d.P.R. e art. 10, comma 4 del d.m.) e quelle dovute a sospensioni illegittime (art. 160 del d.P.R. e art. 10, comma 2 del d.m.).
In sostanza, vi sono ipotesi in cui, per un fatto di cui è responsabile l’amministrazione, si determina un ritardo ai danni dell’impresa appaltatrice nell’esecuzione dell’opera. L’impresa può, in alcuni casi più gravi (art. 153, comma 8 del d.P.R. e art. 5, comma 14 del d.m), chiedere di recedere o di risolvere il contratto, ma l’amministrazione può opporsi a garanzia della realizzazione dell’opera. A compensazione della mancata corretta collaborazione da parte dell’amministrazione, il Codice riconosce all’impresa appaltatrice il «diritto ad un compenso per i maggiori oneri» dipendenti, rispettivamente, dal ritardo nella consegna o dal prolungamento della sospensione oltre i termini.
Tale compenso può essere richiesto solo mediante iscrizione di riserva ed è dunque soggetto a decadenza se questa non viene iscritta.
Anche per le ipotesi di sospensione fin dall’inizio illegittima, perché disposta per cause diverse da quelle tassativamente indicate nell’art. 159 del d.P.R. e oggi nell’art.10, comma 2 del d.m., è previsto il risarcimento del danno per l’appaltatore: il secondo comma dell’art. 160 individuava i criteri di quantificazione di tale danno, mentre al terzo comma il legislatore ammetteva la risarcibilità di ulteriori voci, purché documentate e strettamente connesse alla sospensione dei lavori. In tal caso, il regolamento non richiamava espressamente l’onere di iscrizione della riserva, tuttavia, per la valenza generale dell’istituto, la giurisprudenza la riteneva necessaria (primariamente nel verbale di sospensione o al limite in quello di ripresa, se la sospensione non presentava immeditata rilevanza onerosa), soprattutto in relazione alle ulteriori voci di danno di cui al comma 3.
Il d.m. del 2018, all’art. 10, comma 2 (a cui rimanda l’art. 107, comma 6 del codice) prevede oggi che il contratto debba contenere una «clausola penale [per] il risarcimento dovuto all’esecutore nel caso di sospensioni […] disposte per cause diverse da quelle di cui ai commi 1, 2 e 4 dell’articolo 107 del codice», quantificata in base a criteri rigidamente individuati dalla stessa norma. Nonostante il tentativo di precisare i dettagli della quantificazione di questa clausola penale, alcuni indici di calcolo possono comunque prestarsi a contestazioni (come le «spese generali» di cui alla lettera a) o l’accertamento del direttore dei lavori sui macchinari esistenti in cantiere e sulla mano d’opera necessari, ai sensi della lettera c) per il calcolo del mancato ammortamento). In questi casi, l’esecutore sembra tenuto ad iscrivere riserva delle pretese alle quali ritiene di avere diritto, secondo quanto prescrive, in generale, l’art. 107, comma 4 del Codice dei contratti pubblici.
Le riserve sono necessarie anche per contestare le partite di lavorazioni eseguite e quelle delle somministrazioni fatte dall’esecutore, per come trascritte nel registro di contabilità.
L’art. 189 del d.P.R. 207/2010 precisava, a tal proposito, che «si iscrivono immediatamente di seguito le domande che l’esecutore ritiene di fare, le quali debbono essere formulate e giustificate nel modo indicato dall’art. 190». Anche l’art. 14, comma 1, lettera b) prevede che il registro di contabilità contiene «le domande che l’esecutore ritiene di fare e le motivate deduzioni del direttore dei lavori».
In tal caso, l’iscrizione della riserva impedisce il maturare della decadenza per l’azione di esatto adempimento: se, a parere dell’appaltatore che firma il registro di contabilità con riserva, la stazione appaltante ha errato nella contabilizzazione delle lavorazioni, l’iscrizione tempestiva della riserva permette alla parte privata di pretendere una corretta quantificazione delle lavorazioni, per una esatta determinazione del corrispettivo (negli appalti a misura) e, in ogni caso, per non incorrere a sua volta in responsabilità.
Mentre con il precedente Regolamento, ai sensi dell’art. 191, le contestazioni dovevano essere iscritte nel primo atto idoneo a riceverle e quindi essere reiterate nel registro di contabilità e nel conto finale, non è chiaro se con la nuova normativa l’esecutore possa (o debba) iscrivere tali riserve già nei libretti di misura (previsti dall’art. 14, comma 1, lettera b) o nei brogliacci e nelle liste settimanali (art. 14, comma 3).
Mancando una chiara indicazione normativa, spetterà al capitolato d’appalto disciplinare nello specifico le modalità di iscrizione, mentre, in assenza di un’indicazione precisa, non sembra vietata l’iscrizione – contestualmente alla firma (art. 14, comma 1, lettera b) – già nei libretti di misura, salva comunque la successiva trascrizione nel registro di contabilità (ex art. 14, comma 1, lettera c) e quindi nel conto finale (ex art. 14, comma 1, lettera e).
Nulla esclude, infine, che la riserva possa risultare tempestiva anche se apposta in sede di certificato di collaudo, quando attiene alle stesse operazioni di collaudo (art. 233 del d.P.R. del 2010, ancora in vigore) e in tal caso non ci sarà bisogno di alcuna reiterazione.
Nell’eterogeneità delle contestazioni per le quali vige l’onere di iscrizione della riserva, rientrano pure alcune relative a modifiche del contratto decise unilateralmente dalla stazione appaltante, in caso di sopravvenienze.
Ai sensi dell’art. 161, comma 6, e art. 163 del d.P.R. e dell’art. 8, commi 5 e 6 del d.m., per le variazioni inferiori al quinto che comportano categorie di lavorazioni non previste o che necessitano dell’utilizzo di materiali per i quali non sia fissato il prezzo contrattuale, è necessario determinare, in contraddittorio, i nuovi prezzi, secondo le indicazioni fornite dalle stesse norme. Se, però, l’esecutore non accetta i nuovi prezzi così determinati e approvati, «la stazione appaltante può ingiungergli l’esecuzione delle lavorazioni o la somministrazione dei materiali sulla base dei prezzi» ammessi in contabilità, mentre l’appaltatore potrà iscrivere riserva: in questo modo, i prezzi non sono definitivamente accettati e potranno essere ridiscussi in sede di accordo bonario o eventualmente determinati dal giudice secondo le indicazioni dell’art. 1657 c.c.
Alle varianti contenute entro il limite quantitativo complessivo di un quinto si riferivano pure i commi 16 e 17 dell’art. 161 d.P.R. 207/2010 che, dopo aver ribadito la necessità di non introdurre modifiche tali da produrre un notevole pregiudizio economico all’esecutore, prevedevano che, nel caso in cui la variazione fosse stata superiore al quinto nel singolo gruppo di categorie ritenute omogenee di cui all’art. 3, comma 1, lettera s) dello stesso d.P.R. 207/2010, sarebbe stato previsto un equo compenso non superiore al quinto dell’importo dell’appalto. Si trattava di un meccanismo che mirava ad evitare il rischio di squilibri al sinallagma contrattuale, ove le variazioni, pur contenute nell’ambito del quinto dell’importo, avessero comportato una significativa modifica per alcune lavorazioni che componevano l’opera, così da determinare un eccessivo aggravio in capo all’appaltatore, al quale non era riconosciuta la possibilità di risolvere il contratto. Ebbene, in caso di dissenso sulla misura del compenso, la stazione appaltante accreditava in contabilità la somma riconosciuta e veniva riservata all’esecutore la possibilità di formulare la relativa riserva per l’ulteriore richiesta. La norma, già poco applicata nella prassi, non è stata riprodotta nel d.m. del 2018.
Nelle circostanze sopra descritte, le riserve, a fronte di una modifica unilaterale del contratto posta in essere dalla stazione appaltante, servono a contestare indennità o prezzi sui quali non si è formato l’accordo. In virtù della loro iscrizione, infatti, i prezzi e gli equi compensi possono essere oggetto di successiva determinazione in sede di accordo bonario o, eventualmente, in sede giudiziaria.
Un’ipotesi specifica di riserva correlata con l’istituto della variante è, infine, prevista dall’art. 155 del d.P.R. ed oggi dall’art. 5, comma 9 del d.m. Queste disposizioni, regolando la difformità dello stato dei luoghi all’atto della consegna rispetto al progetto, prevedono che - se sono riscontrate differenze tali da impedire l’esecuzione dei lavori in misura minore al quinto dell’importo di aggiudicazione - il direttore dei lavori può procedere alla consegna parziale, ma «qualora l’esecutore intenda far valere pretese derivanti dalla riscontrata difformità dello stato dei luoghi» deve «formulare riserva sul verbale di consegna».
Anche in tal caso la riserva serve a preservare all’impresa appaltatrice uno spazio di contestazione, a fronte di fatti sopravvenuti che incidono sul contratto e che costringono l’impresa a restare vincolata al contratto a condizioni mutate e più onerose.
La medesima ratio, infine, sembra rinvenirsi nell’art. 164 del d.P.R. che disciplinava il procedimento per la risoluzione delle contestazioni insorte circa aspetti tecnici che potevano influire sull’esecuzione dei lavori, per l’inesattezza tecnica o la non conformità al contratto. In questi casi, sentite le parti in contraddittorio, il RUP prendeva una decisione alla quale l’appaltatore era tenuto ad uniformarsi, ma quest’ultimo poteva iscrivere riserva nel registro di contabilità.
Tale disposizione sembra disciplinare casi diversi da quelli considerati prima: mentre per lavorazioni nuove o aggiuntive è necessaria la perizia di variante e le riserve si collocavano (e si collocano ancora) a latere di questo meccanismo, quando erano in discussione solo diverse modalità di esecuzione, l’art. 164 prevedeva l’ingiunzione della decisione del RUP e lasciava all’appaltatore la possibilità di iscrivere riserve.
Una norma di tale portata manca nel nuovo d.m., ma si può probabilmente ricavare a partire da quanto – più genericamente – prevedono le Linee Guida n. 3 del 2016 dell’ANAC: «in relazione alle contestazioni insorte tra stazione appaltante ed esecutore circa aspetti tecnici che possono influire sull’esecuzione dei lavori, [il RUP] convoca le parti entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione del direttore dei lavori e promuove, in contraddittorio, l’esame della questione al fine di risolvere la controversia». Inoltre anche gli artt. 3 e 17, che espressamente impongono all’esecutore di uniformarsi agli ordini di servizio del direttore dei lavori, fatta salva la facoltà di iscrivere riserve, finiscono, in sostanza, per prevedere l’esigenza di non interrompere i lavori a causa di incongruenze tra le posizioni delle due parti e rimandare ad un momento diverso la definizione delle stesse.
Dall’analisi della giurisprudenza e della prassi, emerge anche un altro ordine di classificazione delle riserve di cui si può dar conto: quello che distingue tra richieste correlate con singoli rilevamenti e registrazioni e quelle che, sorgendo aliunde, permettono di evitare che l’esecutore possa pretendere la somma complessivamente contabilizzata dall’amministrazione.
Per quelle pretese implicate nella registrazione, in effetti,vige un onere immediato di iscrizione, né – come suggerisce la dottrina - «varrebbe a salvare l’appaltatore dalla decadenza addurre che il fatto è sempre accertabile e controllabile e che quindi la domanda può essere proposta anche in seguito» (Cianflone; Giovannini).
Viceversa, per quelle pretese non implicate nella registrazione di singole partite, non vige un onere di immediata denuncia in forma di riserva, in virtù del principio generale di buona fede: il momento in cui sarà necessario registrarle coincide con quello in cui è possibile farlo, ovvero alla chiusura del registro di contabilità ai fini della redazione del conto finale e in relazione alla cifra complessiva spettante all’appaltatore. Una conferma a livello normativo arriva dall’art. 174, comma 2, del d.P.R. n. 207 del 2010 e oggi dall’art. 14, commi 1 e 5 del d.m. n. 49 del 2018 che vietano all’appaltatore di iscrivere nel conto finale domande per oggetto o per importo diverse da quelle formulate nel registro di contabilità, ma non vietano in assoluto la proposizione di ogni domanda in questa fase.
Esulano da questo schema quelle pretese che sorgono in relazione a fatti successivi rispetto alla firma del conto finale: in tal caso, secondo la dottrina, l’esecutore non incorre in alcuna decadenza.
Se, in linea di principio, vale l’assunto per cui l’onere di iscrizione di una riserva vige – al di là delle classificazioni interne - per ogni tipo di pretesa di carattere economico avanzata dall’appaltatore, è anche vero che il decreto del 2018 lascia aperta la possibilità, per la stazione appaltante, di individuare casi in cui l’esecutore è libero da tale onere. Inoltre, già la giurisprudenza aveva individuato alcune circostanze in cui la pretesa poteva essere avanzata secondo i normali tempi di prescrizione e senza che vi fosse alcuna decadenza per la mancata apposizione della relativa riserva.
Queste ultime deroghe di matrice giurisprudenziale possono ricondursi a due differenti rationes: da un lato, l’iscrizione di riserva potrebbe non essere esigibile, a causa del grave comportamento dell’amministrazione (per esempio, nella tenuta dei registri contabili); da un altro lato, potrebbe non essere neppure possibile, o per la mancanza di presupposti intrinseci (come l’esistenza di un contratto valido) o per l’impossibilità oggettiva di quantificarla. Invero, non è rara la compresenza delle rationes, a rafforzare l’esclusione dell’onere di iscrizione: per esempio, quando l’amministrazione compie atti amministrativi (e, dunque, estranei alla sfera di esecuzione del contratto) tenendo una condotta dolosa o gravemente colposa, l’onere di apposizione di riserve viene senz’altro escluso dalla giurisprudenza.
(1) La giurisprudenza e la dottrina hanno negato l’onere di apporre riserva in primo luogo per i fatti illeciti dovuti a dolo o colpa grave dell’Amministrazione: «[s]arebbe, infatti, iniquo addossare all’appaltatore, ove questi non sia stato solerte nell’iscrivere riserva, le conseguenze economiche di fatti che, pur attenendo al corrispettivo dei lavori, siano riconducibili a gravi responsabilità della controparte pubblica» (Martini).
Generalmente, tale esclusione viene fatta valere per fatti illeciti estranei all’area contrattuale e addirittura alcune sentenze limitano la portata della deroga ai soli adempimenti amministrativi (Cass. Civ., sez. I 13 marzo 1989, n. 1255). Si segnala, in ogni caso, anche una posizione giurisprudenziale minoritaria, ma autorevole, che – in linea con la dottrina - sembra estendere tale deroga a tutti i casi in cui l’Amministrazione abbia agito con dolo o colpa grave (Cass. Civ., Sezioni Unite, 20 giugno 1972, 1960).
(2) In secondo luogo, nel caso in cui l’Amministrazione non indichi le cifre esatte che riconosce debbano essere accreditate all’appaltatore, non sorge l’onere per quest’ultimo di esprimere, a sua volta, in somma precisa il compenso che crede spettargli; così pure se le partite contabili non sono state tenute regolarmente ed i documenti contabili sono stati compilati in modo informe, irricostruibile o tutti in una volta al termine dei lavori: in tali casi, l’apposizione di una riserva non esplicata non potrà dirsi generica e perciò non sarà produttiva dei suoi effetti tipici.
La rigidità della disciplina sulle riserve è, insomma, temperata dai principi civilistici che permeano l’esecuzione del contratto d’appalto, tra cui quello di buona fede e del non venire contra factum proprium, che coordinano le esigenze pubblicistiche di certezza e trasparenza con la tutela dell’appaltatore e dei suoi interessi.
(3) La giurisprudenza di legittimità precisa anche che la riserva, attenendo ad una pretesa economica di matrice contrattuale, presuppone l’esistenza di un contratto valido di cui si chiede l’esecuzione, mentre, ogni qualvolta si faccia questione di invalidità del contratto e di scioglimento per cause sopravvenute (risoluzione e azioni correlate, recesso), le pretese non vanno valutate in relazione all'istituto delle riserve, ma seguono le regole civilistiche: «in tutti questi casi, infatti, si discute di conseguenze economiche derivanti dal difetto genetico, funzionale o sopravvenuto del sinallagma, che travolge tutti i vincoli contrattuali, ivi compreso l’onere di riserva» (Martini, vd anche Cass. civ. 8517 del 2020; 21656 del 2018; 22275 del 2106; 22036 del 2014; 19531 del 2014; 12980 del 2009; 388 del 2006; 2395 del 1989; 4760 del 1983; 1728 del 1982). In questi casi – in sostanza – la domanda giudiziale assume valori ed effetti equipollenti a quelli della riserva.
Effetti simili si registrano nell’ipotesi in cui lo scioglimento del vincolo contrattuale sia determinato da scelte unilaterali della stazione appaltante che si sia avvalsa del recesso in autotutela.
(4) Anche rispetto all’azione di arricchimento senza causa potrebbe escludersi l’onere di iscrizione delle riserve, dal momento che – in quanto sussidiaria – questa azione presuppone l’assenza di rapporto contrattuale.
(5) Si iscrive, infine, nell’area delle deroghe ‘di necessità’ anche il caso in cui la pretesa economica derivi da fatti continuativi, come quelli prodotti da una causa costante o da una serie causale, purché di non immediata rilevanza onerosa. Il principio di buona fede in tal caso opera nel senso di salvare l’appaltatore dalla decadenza, anche se la riserva non è stata iscritta immediatamente, ma nel momento in cui il fatto si è manifestato nella sua reale portata agli occhi di un appaltatore diligente.
Le deroghe all’iscrizione di riserva non sono solo convenzionali o giurisprudenziali, ma anche normative: si è già fatto cenno all’art. 142 del precedente Regolamento che esclude – per gli interessi da ritardato pagamento – la necessità di apporre riserve; da altre disposizioni si può, invece, ricavare un vero e proprio divieto di iscrizione delle riserve.
In particolare, negli art. 161 del d.P.R. e 132 del vecchio Codice e negli art. 8, comma 2 del d.m. e 106, comma 1 del nuovo Codice sono previsti i casi in cui i contratti di appalto possono essere modificati senza una nuova procedura di affidamento. Ciò significa, a stretto rigore, che di fronte a sopravvenienze occorre operare una distinzione tra quegli interventi che assumono un rilievo tale da rendere imprescindibile la riedizione della gara e quelli che invece possono giustificare una modifica del contratto originario, purché sia la parte pubblica ad autorizzarla, una volta reperiti i fondi per sostenere le spese ulteriori che comporta.
In più occasioni l’ANAC ha evidenziato che il «riconoscimento, da parte del Responsabile del Procedimento, della fondatezza di richieste legate a presunte carenze del progetto, sia per effetto di circostanze imprevedibili che per errori o omissioni nella redazione dello stesso, comporti la necessità di richiedere alle competenti figure istituzionali (progettista e direttore dei lavori) la redazione di una perizia di variante, essendo questa – e non l’accordo bonario – lo strumento normativo previsto in tale eventualità».
La necessità, in questi ultimi casi, di una perizia di variante può essere ricondotta a due differenti ragioni: in primo luogo, è opportuno che l’amministrazione verifichi preventivamente la necessità di una modifica, ciò che, con tutta evidenza, non è possibile in caso di riserva, dal momento che quest’ultima viene iscritta a lavori già eseguiti; in secondo luogo, è indispensabile che l’amministrazione provveda all’individuazione delle risorse economiche prima dell’autorizzazione dei lavori, secondo un modus operandi che si iscrive all’interno del principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost.: a questo fine, l’amministrazione potrebbe anche dover sospendere l’esecuzione dell’opera, mentre con l’iscrizione di una riserva, l’ammontare riconosciuto in sede giudiziaria o con accordo bonario non potrà che essere recuperato in un secondo momento.
Nonostante la chiarezza delle norme, nella prassi si è fatto ricorso alle riserve anche al di fuori delle previsioni di legge: in particolare, in sostituzione delle perizie di variante e delle revisioni di prezzo, complice spesso la noncuranza delle figure preposte al controllo dell’esecuzione contrattuale, quali il direttore dei lavori ed il responsabile del procedimento.
Tale utilizzo, soprattutto quando è seguito dall’accordo bonario, ha suscitato notevoli preoccupazioni che si desumono dalle indagini dell’Autorità di vigilanza dei contratti pubblici e, in particolare, dalla Determinazione n. 5 del 30 maggio 2007, nella quale veniva suggerita una maggiore attenzione da parte delle stazioni appaltanti.
Tali accordi bonari si risolvono infatti in ‘varianti ex post’, illegittime, giacché l’utilizzo delle varianti è consentito per legge solo al fine di inserire e autorizzare le lavorazioni extra contrattuali non ancora realizzate (AVCP, deliberazione n. 89 del 24 ottobre 2012 e deliberazione n. 249 del 17 settembre 2003).
Anche nell’ambito delle revisioni del prezzo la dottrina segnalava una prassi analoga. L’art. 133, comma 7, del d.lgs 163/2006 precisava che la nuova voce di spesa per le compensazioni potesse trovare copertura finanziaria nelle sole somme accantonate per imprevisti, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Questo è apparso, alla dottrina, il punto debole del meccanismo di revisione del prezzo, «in quanto la copertura finanziaria per risarcire gli aumenti deve necessariamente essere trovata all’interno dei quadri economici delle opere» (Zoppolato, Comparoni).
Questo problema, unito al fatto che molte stazioni appaltanti, nella predisposizione dei prezzi a base d’asta si sono servite di elenchi datati, aveva dato luogo ad un contenzioso esasperato, essendo impropriamente divenute le riserve alla contabilità dei lavori l’unico mezzo per poter ottenere un aumento del corrispettivo.
Ebbene, teoricamente, la prassi di usare la riserva al posto della variante o della revisione di prezzo di per sé non dovrebbe sortire effetti negativi: siccome tali ‘varianti ex post’ sono illegittime, l’amministrazione non potrebbe neppure transigere su queste richieste.
Tuttavia la prassi conosce ipotesi di transazioni illegittime e il problema si è posto in particolare per l’accordo bonario, che consiste in una peculiare transazione effettuata nel corso dell’esecuzione (art. 240, comma 18, d.lgs 163/2006) sulle pretese dedotte in riserva, quando queste determinano una variazione «in misura sostanziale» dell’importo economico dell’opera e raggiungano una certa soglia, posta inizialmente al dieci per cento dell’importo complessivo del contratto e ridotta al cinque per cento con il nuovo Codice.
Siccome l’accordo bonario incorre quando l’esecuzione del contratto è ancora in corso, spesso è divenuto strumento dell’appaltatore per esercitare una forte pressione sulla stazione appaltante, finalizzata ad ottenere riconoscimenti economici che sarebbero difficilmente presi in considerazione al termine dell’appalto. La circostanza, come affermato dall’Autorità di vigilanza, appare confermata anche dalle affermazioni frequenti delle stazioni appaltanti, negli stessi accordi, di procedere soltanto per evitare che il contenzioso si prolunghi ulteriormente a danno dell’amministrazione, che sembrano prescindere da una approfondita valutazione del merito delle riserve.
Tale prassi appare – come si è visto - in contrasto con il chiaro dettato normativo degli artt. 132 d.lgs 163/2006, 161, commi 1, 2 e 11 del d.P.R. 207/2010, 106 d.lgs 50/2016 e 8, comma 2, d.m. 49/2018. Pertanto, a tacer d’altro, a fronte di accordi bonari conclusi in ipotesi che avrebbero richiesto precise procedure (come le perizie di variante) potrebbe sorgere il dubbio che si tratti di accordi validi.
Non manca, anzi, in giurisprudenza (Cass. n. 17792 del 2019) il rilievo che l’accordo bonario, in quanto contratto di transazione che richiede la legittimazione a transigere ex art. 1966 c.c., debba essere coordinato con le regole proprie della competenza dei singoli organi della PA ad accettare l’accordo.
D’altro canto, posto che ai sensi degli articoli sopra richiamati - che in un’ottica sanzionatoria derogano all’art. 936 c.c. (Cass. 4725/2006; 12681/2004; 1443/1996) - nulla spetta all’impresa appaltatrice per le variazioni o addizioni al progetto effettuate, quando non sono state disposte dal direttore dei lavori e nel rispetto delle condizioni e dei limiti previsti dai Codici, l’accordo bonario che aggiri tale previsione volta a tutelare interessi di carattere generale integrerebbe una transazione su un comportamento illecito, il che paleserebbe – come nella transazione sul contratto illecito – una sua invalidità.
In conclusione, deve ritenersi che almeno per le ipotesi più gravi di uso distorto dell’accordo bonario, relativamente a lavorazioni che avrebbero richiesto varianti e revisioni di prezzi e non riserve, ci sono argomenti per sostenere la sussistenza di rimedi civilistici per impugnare gli accordi bonari, oltre ad eventuali azioni di responsabilità nei confronti dei pubblici funzionari.
Il legislatore è intervenuto a più riprese per arginare l’abuso di iscrizione di riserve, affiancando all’azione di nullità altri strumenti normativi, quali l’art. 240-bis del precedente Codice dei contratti pubblici, introdotto con il d.l. 70/2011: questa norma da un lato escludeva che potessero essere oggetto di riserva gli aspetti progettuali che sono stati oggetto di verifica e, da un altro lato, prevedeva una soglia pari al venti per cento per le riserve ammesse; con il nuovo Codice, l’art. 205 ha posto un limite all’importo contrattuale dell’accordo bonario, prevedendo che le riserve oltre la soglia del quindici per cento del valore del contratto non possono essere risolte con accordo (art. 205, comma 1), mentre non ha posto più limiti generali alla possibilità di iscrivere e di liquidare riserve.
Per espressa ammissione della Corte costituzionale (sentenza n. 109 del 2021, in particolare, ai p.ti 5.1 e 5.2), la nuova soluzione raggiunge il proprio scopo in modo più bilanciato: tale rimedio preventivo non pregiudica la tutela contrattuale dell’impresa appaltatrice, poiché l’interesse alla trasparenza non si traduce nell’imposizione di un limite alla iscrizione delle riserve, ma nella possibilità di accettare tali riserve con accordo bonario in corso di esecuzione.
In ogni caso, come accennato, anche l’art. 240-bis ha superato il vaglio di costituzionalità con riguardo a numerosi articoli della Costituzione (il 3, il 24, il 41 ed il 97 Cost.), grazie ad una interpretazione che prende le mosse dalla giurisprudenza di merito (Tribunale ordinario di Roma, sentenze 11 dicembre 2020, n. 17666 e 23 gennaio 2017, n. 1085; Tribunale ordinario di Milano, sentenza 25 marzo 2020, n. 2207).
In particolare, la Corte ha riconosciuto che «il testo dell’art. 240-bis […] non rende esplicito se il limite escluda la possibilità di far valere quelle iscritte oltre la soglia o se riguardi l’entità delle pretese annotate che, nel complesso, possono essere riconosciute». Riconosce, tuttavia, che la prima interpretazione, oltre a non risultare pienamente coerente con la collocazione sistematica della disposizione, palesa una irragionevolezza della norma: in primo luogo, «[s]elezionare le riserve ammissibili in base all’ordine della loro iscrizione vorrebbe dire negare all’impresa di poter agire in via giudiziale per dimostrare la fondatezza delle sue pretese, in ragione di una circostanza che è del tutto contingente, casuale e priva di intrinseca ragionevolezza, qual è l’ordine di annotazione delle richieste, condizionato dalla mera successione cronologica con cui si pongono i vari problemi nell’esecuzione del contratto»; inoltre, tale interpretazione pregiudica, in maniera irragionevole, la trasparenza nell’esecuzione del contratto, a scapito della stazione appaltante, poiché l’impresa non avrebbe alcun interesse a continuare a rispettare l’onere di iscrizione delle riserve, ciò che potrebbe esporre il committente al rischio di dover pagare l’intero risarcimento (una volta che l’inadempimento superi la soglia della non scarsa importanza e sia, perciò possibile risolvere il contratto), senza averne avuto prima contezza (ex multis, Corte di cassazione, terza sezione civile, ordinanza 6 maggio 2020, n. 8517; Corte di cassazione, prima sezione civile, ordinanza 5 settembre 2018, n. 21656 e sentenza 3 novembre 2016, n. 22275).
La soglia legale deve, perciò, riferirsi alle riserve suscettibili di accoglimento: in tal modo, residua in capo all’appaltatore un certo grado di aleatorietà in merito al raggiungimento del limite delle pretese liquidabili, e tale incertezza dovrebbe indurlo, prudenzialmente, a continuare ad annotarle, a tutto beneficio delle esigenze di trasparenza.
Può, invero, presentarsi il caso in cui, prima della fine dell’esecuzione, l’intero ammontare delle riserve liquidabili sia stato riconosciuto tramite accordo bonario: la Corte considera però tale rischio limitato e comunque noto al committente che dovrà, in tal caso, assicurarsi una maggiore vigilanza del cantiere da parte del RUP e del direttore dei lavori.
Una volta accolta l’interpretazione secondo la quale la soglia del venti per cento riguarda l’entità delle pretese annotate che, nel complesso, possono essere riconosciute, la Corte ritiene che il vaglio di costituzionalità sia superato, sia pure all’esito di una sentenza interpretativa di rigetto. Da un lato, per quelle contestazioni rispetto a modifiche unilaterali della stazione appaltante, la soglia legale «si traduce [infatti] […] in un ampliamento del rischio contrattuale dell’impresa», rischio comunque contenuto, se si tiene conto, per un verso, che tutte le pretese sotto il venti per cento sono liquidate, che il contratto è risolvibile se si integrano i presupposti di un’eccessiva onerosità sopravvenuta (Cass. Civ., sez. I, 26 gennaio 2018, n. 2047; Cass. civ. Sez. I, 18 maggio 2016, n. 10165) e che comunque le riserve riconducibili a tale categoria riguardano aspetti marginali dell’esecuzione, e per altro verso, che la garanzia di istituto che la Costituzione riconosce all’autonomia privata, per il tramite dell’art. 41 Cost., «si frappone» solamente «ad interpretazioni capaci di minacciare l’essenza e l’esistenza stessa dell’istituto contrattuale» (Navarretta). Da un altro lato, quando le pretese attengono ad inadempimenti dell’amministrazione, si configura un esonero legale della responsabilità del committente e la limitazione alle sole ipotesi non dolose o gravemente colpose garantisce il rispetto della proporzionalità (vd supra).
In poche occasioni il diritto vivente si è trovato ad applicare l’art. 240-bis del Codice De Lise e non ne ha perciò vagliato tutte le possibili interpretazioni: non è stato, perciò, mai messo in discussione che l’effetto giuridico del raggiungimento della soglia sia quello di garantire il mantenimento del contratto. Secondo i giudici che ne hanno fatto applicazione, non si verifica la risoluzione del rapporto, ma starà al più alla stazione appaltante o all’appaltatore decidere se recedere dallo stesso o risolverlo, purché vi siano le condizioni.
Tale soluzione interpretativa si giustifica soprattutto alla luce della ratio addotta dal legislatore storico, di introdurre un limite massimo, oltre il quale non fosse possibile per l’appaltatore iscrivere o comunque ottenere la liquidazione delle riserve, così che eventuali imprevisti per la quota superiore a tale soglia sarebbero rientrati nel rischio di impresa della parte privata. L’intenzione del legislatore emergerebbe, in particolare, in maniera inequivocabile dalla pur sintetica relazione parlamentare al progetto di legge, là dove si spiega che la norma «introduce un limite massimo oltre il quale non è possibile per l’appaltatore iscrivere riserve. Tale limite è fissato nel 20 per cento del valore complessivo dell'appalto. Eventuali imprevisti occorsi nell’esecuzione dell’appalto, per la quota superiore alla predetta soglia, rientrano nel rischio di impresa assunto in sede di gara».
È, tuttavia, prospettabile una diversa soluzione interpretativa, in base alla quale il raggiungimento della soglia determina la risoluzione ex lege del contratto, anche a tutela degli altri offerenti non aggiudicatari.
Più nel dettaglio, in modo analogo all’ipotesi di cui all’art. 132, comma 1, lettera e), d.lgs. n. 163 del 2006 (per le varianti dovute ad errori progettuali), il soggetto aggiudicatore, al raggiungimento (effettivo) della soglia del venti per cento dovrebbe procedere alla risoluzione del contratto e all’indizione di una nuova gara alla quale invitare anche l’aggiudicatario iniziale. La risoluzione del contratto, in questi casi, opererebbe, dunque, di diritto, dando luogo al collaudo, allo sgombero del cantiere e al rinnovo della gara per l’aggiudicazione della restante parte dei lavori. Inoltre è previsto il pagamento dei lavori eseguiti, dei materiali utili e del dieci per cento dei lavori non eseguiti, fino a quattro quinti dell’importo del contratto (secondo le indicazioni contenute nell’art. 132, comma 5 d.lgs. 163 del 2006).
Tale soluzione interpretativa tutela senza dubbio gli interessi dell’offerente aggiudicatario. È evidente, inoltre, che mira a proteggere anche quegli offerenti non aggiudicatari e più in generale la concorrenza, la cui lesione sarebbe presunta allorquando il costo complessivo del contratto, per qualsiasi ragione, superasse il venti per cento di quello inizialmente pattuito: l’offerta considerata migliore sarebbe, in sostanza, del tutto snaturata, ciò che renderebbe necessaria una nuova valutazione comparativa.
E del resto, nell’appalto pubblico la tutela della concorrenza rileva non solo nella fase di selezione del concorrente, ma anche in quella esecutiva (Cons Stato, Ad. Plen. n. 10 del 2020), poiché la gara non riuscirebbe da sola ad assicurare un’effettiva concorrenza tra le imprese, se l'offerta risultata vincente non fosse adempiuta secondo quanto pattuito.
Di conseguenza, si potrebbe sostenere che, come alcune norme che regolano l’esecuzione del contratto trovano ragione nell’effettività del principio di concorrenza, e sono perciò considerate imperative e non derogabili (Cons. Stato, n. 2685 del 2012), altre – come quella in questione – ben potrebbero essere interpretate in modo tale da assicurare il raggiungimento dello stesso obiettivo, così da garantire più pienamente «l’effettività dei principi di buon andamento […] e imparzialità nel mercato dei pubblici affidamenti» (Giannelli).
Invero, tale soluzione presta il fianco al rischio che sia impedita ogni valutazione discrezionale dell’Amministrazione rispetto alla necessità di completare l’opera con lo stesso appaltatore e quindi con tempistiche più rapide e con oneri meno ingenti (Massera). Inoltre, bisogna anche tener conto che la risoluzione è seguita dalla contabilizzazione dei lavori e dal loro collaudo, dal pagamento all’appaltatore di quanto dovuto per i lavori eseguiti e per il valore dei materiali utili esistenti in cantiere, nonché del dieci per cento dei lavori non eseguiti calcolati sui 4/5 dell’importo contrattuale; peraltro, una volta indetta la nuova gara, sulla base del nuovo progetto, dovrà essere invitato anche l’aggiudicatario iniziale, che molto probabilmente risulterà di nuovo vincitore, ma a costo di (inutili) spese per l’amministrazione.
Infine, occorre tener conto del fatto che l’art. 134 cod. contratti pubblici attribuisce alla stazione appaltante un’ampia discrezionalità circa l’opportunità di recedere. Anche alla luce di quest’ultimo dato normativo e del fatto che quando l’obbligo di risoluzione è previsto (in casi limitati: artt. 132, comma 4, 135 comma 1-bis, 136), è previsto sempre in modo esplicito, tale soluzione interpretativa potrebbe apparire, oltre che poco opportuna, anche disallineata rispetto al sistema.
Tuttavia, la dottrina ricorda come «il limite allo ius variandi dell’Amministrazione consiste nella duplice necessità di: (i) tutela del mercato e della concorrenza e (ii) tutela dell’interesse pubblico contro possibili deviazioni patologiche consistenti nella connivenza tra funzionari pubblici ed imprenditori, tese a favorire questi ultimi in modo illecito. Dunque tali limiti sono posti anche contro (anzi, proprio contro) la volontà della stazione appaltante ed impediscono che questa possa trovare un accordo con l’appaltatore potenzialmente lesivo dell’interesse pubblico» (Comba).
Inoltre, nella normativa sui contratti pubblici sono previsti dei correttivi (per esempio, le c.d. estensioni improprie, ovvero nuovi contratti che potrebbero essere utilizzati nelle more di una nuova gara o per completare i lavori se questi sono quasi alla fine).
Pertanto, l’interpretazione qui prospettata, seppure non è stata finora considerata dalla giurisprudenza, ragion per cui anche il vaglio della Corte costituzionale si è svolto considerando tutt’altri effetti prodotti dalla norma, ben può dirsi a disposizione delle stazioni appaltanti dei contratti stipulati successivamente all’entrata in vigore del nuovo Codice, per i quali il limite del venti per cento non è più applicabile. Data l’estrema libertà offerta dall’art. 9 del d.m. n. 49 del 2018, le amministrazioni aggiudicatrici potrebbero decidere di individuare una soglia che, purché risulti proporzionata e rispettosa dei limiti imposti dal diritto civile, produca l’effetto di una risoluzione immediata ed automatica del contratto. Questa soluzione era stata, peraltro, tenuta in considerazione anche nel parere del Consiglio di Stato n. 885 del 2016 sullo schema del nuovo Codice dei contratti pubblici, che aveva espressamente deferito al Governo la valutazione sulla congruità della risoluzione nel caso in cui le riserve iscritte dall'appaltatore superassero il quindici per cento dell'importo contrattuale.
La scelta in ordine agli effetti ed al valore delle soglie dovrà comunque tener conto di un limite ulteriore, che non era presente nel precedente Codice: quello imposto alla possibilità di definire le riserve tramite l’accordo bonario (il quindici per cento dell’importo contrattuale), ai sensi dell’art. 205, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016.
Artt. 3, 24, 41 e 97 Cost.; artt. 132, 133, 240-bis, d.lgs 163 del 2006; artt. 106, 107, 205, d.lgs n. 50 del 2016; artt. 152 ss. e 305 ss. d.P.R. n. 207 del 2010, d.m. n. 49 del 2018.
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