Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso del Trecento si assiste in Europa all’esplodere di rivolte contadine, che a volte si intrecciano con le tensioni sociali ed economiche che investono le città e con quelle politiche in atto nei vari ambiti territoriali. Le rivolte più famose sono quelle che hanno come scenario le Fiandre occidentali, la regione di Parigi e l’Inghilterra, ma il fenomeno è diffuso ovunque, anche in Italia, assumendo caratteri particolari nel Mezzogiorno, dove esplode il brigantaggio.
Le guerre, le carestie, la maggiore pressione fiscale delle monarchie, che hanno bisogno di crescenti risorse finanziarie sia per reclutare milizie mercenarie sia per dotarsi di un più vasto apparato di funzionari pubblici, unitamente al calo dei prezzi agricoli legato alla diminuzione della popolazione provocata dalle epidemie, hanno un’incidenza diretta anche sulla vita delle popolazioni rurali, contribuendo a far esplodere fin dai primi decenni del Trecento proteste e rivolte contadine da un capo all’altro dell’Europa. Gli storici non sono concordi nell’interpretazione del fenomeno, che colpisce innanzitutto per le sue vaste dimensioni e per l’improvvisa accelerazione che registra intorno alla metà del secolo.
Sostanzialmente i diversi punti di vista si possono ricondurre a due linee interpretative. Da una parte c’è chi considera le rivolte come fatti accidentali legati a eventi ben individuabili; dall’altra c’è chi mette l’accento sui presupposti socio-economici delle rivolte, riconducendole alle condizioni di vita dei ceti rurali: condizioni di vita da sempre precarie, ma nel corso del Trecento soggette a ulteriore peggioramento a causa della maggiore pressione dei signori fondiari, i quali, per far fronte alla recessione economica e assicurarsi i mezzi necessari al mantenimento del loro stile di vita, tentano di imporre ai contadini nuovi oneri. Rispetto a tutto questo, fatti occasionali quali guerre, carestie, crescita della pressione fiscale, crisi di sovrapproduzione sarebbero – per i sostenitori di questa linea interpretativa – solo elementi aggravanti. Quello che è certo, comunque, è che ogni rivolta ha caratteri suoi peculiari sia per quanto riguarda i ceti sociali che vi sono coinvolti sia per quel che concerne i tempi e i modi della repressione.
Le più famose rivolte del Trecento hanno come scenario le Fiandre occidentali (1323-1328), la regione di Parigi (1358) e l’Inghilterra (1381); ma il malessere delle popolazioni rurali esplode un po’ dovunque, sia pur in forme più episodiche e meno spettacolari. La prima delle rivolte ad ampio raggio è quella delle Fiandre occidentali, all’origine della quale c’è una serie di motivazioni, che ne rendono non facile l’interpretazione. Non si tratta, infatti, di una pura e semplice rivolta contadina, dato che dei circa 4000 rivoltosi uccisi o salvatisi con la fuga, tutti comunque identificati, solo meno di un quarto è formato da contadini nullatenenti, mentre i più sono contadini-artigiani impegnati nel settore tessile, che si rivoltano non solo contro la pressione fiscale del conte di Fiandra, dovuta ai pesanti indennizzi da versare al re di Francia, ma anche contro la nobiltà francofona e il ceto patrizio e mercantile, che con essa si era alleato.
Molto più famosa, grazie anche alle informazioni che su di essa ci dà il cronista Jean Froissart, è certamente la jacquerie francese, che esplode nel maggio del 1358 e che dura solo due-tre settimane. Il moto contadino, che prende nome da Jacques Bonhomme, soprannome di Guillaume Charles, capo dei rivoltosi, parte dall’Île-de-France e si estende rapidamente in una vasta area (Piccardia, Normandia, Champagne), provocando l’assalto di castelli, l’uccisione di molti nobili e la distruzione dei documenti, sulla base dei quali venivano chiesti ai contadini canoni e prestazioni di lavoro gratuite. Ben presto si crea una saldatura con le rivendicazioni politiche del ceto mercantile di Parigi, il cui principale esponente, Étienne Marcel, prevosto dell’Hansa dei mercanti, persegue il progetto di ridurre i privilegi e quindi il potere politico della nobiltà. Questo non vale a impedire la violenta reazione della nobiltà, appoggiata dal re Giovanni il Buono, la quale nel giro di pochi giorni ha ragione dei rivoltosi. Le cronache parlano di 20 mila contadini uccisi: cifra forse eccessiva, ma che rende in ogni caso un’idea della vastità della rivolta e quindi del gran numero di persone che vi vengono coinvolte. Stessa sorte subisce poco dopo Étienne Marcel.
Anche la rivolta inglese del 1381 ha nei contadini l’elemento propulsivo, ma coinvolge in seguito operai salariati e artigiani, trovando perfino una copertura ideologica in non pochi esponenti del basso clero, impegnati in una radicale contestazione dell’egoismo dei ricchi e dei vizi diffusi nel mondo ecclesiastico. Il malcontento, che va crescendo già da qualche decennio per effetto dell’inasprimento, nelle campagne, dei vecchi rapporti di dipendenza e per l’emanazione, nel 1351, di uno Statuto dei lavoratori che vieta l’aumento dei salari, esplode nel 1381 in seguito alla crescita del prelievo fiscale causato dalla guerra con la Francia (la già citata guerra dei Cent’anni), che porta in quell’anno a triplicare la poll-tax, del 1377, nella misura di uno scellino a testa (la poll-tax o testatico grava nella stessa misura su ogni uomo o donna di età superiore ai 14 anni, indipendentemente dal reddito). L’esito è, tuttavia, diverso da quello della jacquerie francese: il re Riccardo II e i nobili si vedono costretti ad accogliere buona parte delle richieste dei rivoltosi e a concedere un’amnistia generale, dalla quale vengono esclusi soltanto i più radicali, che si mantengono in armi, finendo poi con l’essere massacrati.
Una realtà ancora diversa, che mostra chiaramente come le origini e gli esiti delle rivolte contadine siano strettamente legati al contesto politico in cui si inseriscono, è quella della Catalogna, dove, tra XII e XIII secolo, circa un quarto della popolazione rurale si è venuta a trovare in condizioni di servitù della gleba, per cui coloro che vogliono abbandonare la terra alla quale sono legati debbono pagare un riscatto (payeses de remensa, contadini di riscatto).
La situazione, diventata via via più pesante nel corso del Trecento, esploderà in una revuelta general campesina nel 1462, trovando il sostegno della monarchia, allora in lotta contro la bassa nobiltà e il patriziato cittadino, che hanno il loro presidio nelle Cortes, impegnate a difendere le libertates dei ceti privilegiati. L’esito finale sarà favorevole ai contadini, ai quali Ferdinando il Cattolico riconoscerà non solo la libertà, ma anche il diritto di sottrarsi agli obblighi loro imposti arbitrariamente dai signori (malos usos).
Un movimento che ha ugualmente caratteri suoi propri è quello dei Tuchini, che negli anni Settanta e Ottanta del Trecento si estende dalla Linguadoca, in Francia, al Piemonte.
I rivoltosi si volgono soprattutto contro la feudalità, che proprio in quegli anni sta accentuando la pressione fiscale sui contadini, già esasperati per le continue requisizioni di uomini e prodotti, provocate dalle guerre tra i conti di Savoia, i marchesi di Monferrato e i grandi feudatari. In Piemonte l’epicentro è rappresentato dal Canavese, dove i Tuchini possono contare sulla solidarietà delle popolazioni, giungendo a minacciare la stessa Torino.
Privi però di programma politico e di coordinamento operativo, non sono in grado di sfruttare i successi iniziali, per cui nella primavera del 1387 vengono ripetutamente sconfitti dall’esercito del conte di Savoia.
In forme del tutto diverse e originali si esprime invece il malessere del mondo contadino in Italia meridionale. Già agli inizi del Trecento si verificano un po’ dovunque abbandoni delle terre e rivolte sia contro i funzionari regi sia contro i signori laici ed ecclesiastici, ma queste ultime mantengono sempre un carattere episodico e locale. Del tutto particolare è invece il fenomeno del brigantaggio, che ha una diffusione enorme, e non solo nelle aree interne. In esso colpiscono, da una parte, la gran quantità di persone che vi vengono coinvolte, dall’altra la sua progressiva attenuazione agli inizi del Quattrocento, vale a dire nel periodo in cui, una volta raggiunto il livello più basso di densità demografica, si allentano quelle condizioni di disagio e di povertà che ne costituiscono il presupposto.
I contadini in rivolta contro il fisco e i loro signori, quelli in fuga dalle terre e quelli che cercano nell’attività brigantesca uno sfogo alla loro disperazione non tentano però mai di unire i loro sforzi per realizzare un mutamento della loro condizione né tanto meno per modificare l’assetto della società del tempo, anche se la loro azione non è priva di risultati. A prescindere dalla peculiarità delle situazioni locali, le campagne meridionali nel complesso, già nella prima metà del Quattrocento, appaiono non più percorse da fremiti di rivolta. Vi contribuiscono indubbiamente diversi fattori, quali la minore pressione demografica, i ricorrenti periodi di debolezza della monarchia che impediscono ai feudatari di fare affidamento sul sostegno del potere regio nella repressione delle rivolte, le difficoltà, data la scarsità di manodopera, nel reperire braccia da lavoro per lo sfruttamento delle loro terre; ma è da credere che alla moderazione i signori fondiari siano indotti anche dal ricordo delle esplosioni di collera contadina e degli abbandoni delle terre avvenuti nel secolo precedente. Le liti davanti ai tribunali regi naturalmente non cessano, ma la tendenza generale appare piuttosto quella della redazione di statuti e di norme scritte, capaci di introdurre una maggiore chiarezza nei rapporti tra signori e contadini dipendenti, la cui condizione si viene definendo in maniera omogenea all’interno del regno.