Le saline
In un ambiente naturale la cui inospitalità offriva all'uomo il rifugio di una relativa sicurezza dalla minaccia di invasioni esterne, le condizioni per la valorizzazione e lo sfruttamento economico non erano affatto favorevoli. Cassiodoro, fin dal primo terzo del VI secolo, in un testo che viene considerato enfatico ma che si colora di realismo quando affronta le difficili condizioni di vita delle popolazioni isolane, aveva rilevato:
gli abitanti hanno una risorsa, la grande abbondanza di pesce […]. Il loro lavoro consiste nello sfruttare le saline: invece di aratri e di falci, manovrano dei cilindri. Dalle saline traggono i loro raccolti, grazie alle saline possiedono ciò che non producono. La moneta che vi si batte è alimentare, in verità. La marea collabora alla loro arte. Si può fare a meno di cercare l'oro, ma non c'è nessuno che non desideri [invenire] il sale, e giustamente, poiché è a esso che, in questi luoghi, si deve il nutrimento.
La lettera contrappone una economia di raccolta, la pesca, e l'agricoltura - nella forma più adatta al sito lagunare -, che fornisce il mezzo di scambio indispensabile a ottenere i raccolti prodotti altrove. Nel nostro clima il sale non si "trova", non si forma spontaneamente: bisogna "inventarlo". Far nascere i cristalli di sale da un'acqua incolore che non contiene nulla di solido e di visibile a occhio nudo, sembra nello stesso tempo un miracolo e una invenzione. L'installazione di una salina costringe l'uomo a superare due impedimenti naturali: vincere la difficoltà iniziale costituita dalla cristallizzazione frazionata dei cloruri in soluzione nell'acqua di mare e regolare il delicato problema della circolazione dell'acqua.
Cinque secoli più tardi, se vogliamo prestare fede alle Honorantiae Civitatis Papiae, la situazione economica imposta dalla natura del luogo non era affatto cambiata, e le popolazioni circostanti si stupivano nel vedere come gli abitanti della laguna potevano vivere senza arare, seminare o vendemmiare, intenti solo alla raccolta del sale. La quasi monocultura del sale procurava l'indispensabile strumento di scambio, grazie al quale era possibile comprare il nutrimento dai vicini della terraferma.
Dalle origini alla fine del 1199 si sono conservati 494 documenti notarili, rogati soprattutto a Rialto e a Chioggia, che testimoniano le transazioni sulle saline della laguna (1).
La distribuzione cronologica di questi 494 atti pubblici si può così riassumere come illustrato nella tab. 1.
Quasi tutti i 494 documenti ci sono stati tramandati dai monasteri della laguna, anche se le transazioni registrate si sono svolte fra due privati, soggetti a stato giuridico laico. Fino all'inizio del XIV secolo, infatti, la principale e forse l'unica fonte storica sulla proprietà e sullo sfruttamento delle saline è di origine ecclesiastica e proviene dai vescovati, dalle chiese parrocchiali, soprattutto dai monasteri, poiché i beni di proprietà dei laici, specie delle grandi famiglie di optimates, compaiono solo nel momento in cui entrano a far parte, per lo più per donazione testamentaria, del patrimonio ecclesiastico; quando cioè il bene oggetto della transazione passa, con tutti i titoli giustificativi della sua proprietà, nel patrimonio del donatario. L'esistenza delle saline nella parte settentrionale della laguna è invece conosciuta quasi esclusivamente tramite i processi istituiti alla fine del XIII secolo dai Giudici del Piovego per recuperare alla proprietà pubblica i beni usurpati da privati cittadini o da istituti religiosi: sia gli uni che gli altri, dopo averne abbandonato lo sfruttamento, erano invitati a presentare o i titoli giustificativi del loro possesso sulla laguna, o la testimonianza orale di persone che si ricordavano di aver sentito menzionare dagli anziani una raccolta di sale in quei luoghi. Questa seconda fonte, costituita da atti pubblici, sentenze dei Giudici del Piovego e pacta redatti dallo stato o dai suoi rappresentanti, ha trasmesso diverse informazioni sulle proprietà episcopali, sui beni delle chiese parrocchiali e su qualche bene privato delle famiglie del ducato. È dunque necessario fare attenzione: in primo luogo la Chiesa, e in particolare i monasteri benedettini non avevano il monopolio sulla proprietà delle saline; quindi, la documentazione non ha conservato il ricordo del patrimonio di quei laici che avevano resistito alle pressanti sollecitazioni con cui venivano invitati ad abbandonare i loro beni per meritare la salvezza eterna. Sarebbe dunque pericoloso, partendo da un monopolio della documentazione che conferisce a chi la detiene il monopolio del potere della carta scritta, giungere alla conclusione di un monopolio della proprietà fondiaria delle saline.
Si deve anche stare attenti a non esagerare l'importanza e la precisione dei tesori di carte forniti dai monasteri. Secondo i libri dei censi nel XIII secolo San Giorgio Maggiore aveva 90 saline, ma per il periodo anteriore al 1200 si sono conservate solo 49 carte censuarie. San Cipriano di Murano ci ha tramandato solo 20 carte, ma nel XIII secolo il suo priore riceveva il censo di 113 saline di cui era entrato in possesso prima della fine del XII secolo. Se dunque si prende in considerazione la possibilità di un tacito rinnovamento del contratto scritto iniziale de livello a beneficio della stessa famiglia, ed ancor più se questi contratti erano rinnovati per iscritto ogni 29 anni a favore degli antichi possessori o dei nuovi, si può calcolare che sia andato perduto dal 50% all'8o% delle carte del XII secolo.
Tuttavia lo storico non può tralasciare una fonte così eccezionale - 494 carte -, un vero tesoro, pur tenendo necessariamente conto dei suoi limiti. Una sessantina di questi atti sono conferme di beni da parte del doge, del papa o del patriarca, divisioni di fraterne compagnie, testimonianze di processi, cessioni di salaria (i magazzini dispersi qua e là nella laguna in cui il sale raccolto era messo al riparo dalle intemperie), delimitazioni di paludi in cui uno o più lati erano costituiti da fondamenti, "diritti derivati" come la caccia e la pesca, utilizzazione di mulini installati sulle dighe dei fondamenti che si servivano della corrente di marea dei canali esterni, e così via. Restano così 428 documenti per ricostruire la storia della proprietà e dello sfruttamento delle saline della laguna di Venezia durante questi due secoli.
In tutta la laguna si possono censire 119 fondamenti che in un momento qualsiasi del Medioevo, fra il X e il XV secolo, hanno prodotto sale (2). Sei di questi, rimasti sempre e totalmente in possesso di famiglie laiche, compaiono nelle fonti solo dopo il 1200; degli altri 113, 26 sono stati sicuramente costruiti e 3 ricostruiti fra il 958 e la fine del XII secolo (esiste la carta che ne attesta la fondazione); tutti gli altri (77%) compaiono grazie a una qualsiasi transazione, vale a dire secondo il caso statistico. Le costruzioni datate si riferiscono alle zone d'Equilo a nord del Lido Maggiore, alle acque a ovest di Murano verso Campalto, a Pellestrina, e infine al cordone delle Fogolane nell'angolo sud-ovest della laguna, vale a dire a zone periferiche rispetto ai principali centri abitati situati a Malamocco (?) e a Chioggia, nelle isole di Rialto e forse anche a Torcello.
Sarebbe sbagliato pensare che il sale venisse raccolto contemporaneamente in queste 119 grandi proprietà, poiché le saline non hanno mai smesso di avere una loro storia, di nascere, vivere e morire, per tutto il corso del Medioevo. Quasi tutti gli anni, come per ogni altra attività umana, potevano esservi delle difficoltà, dei momenti di gioia quando una bella giornata prometteva un raccolto abbondante, di abbattimento quando i prezzi di mercato crollavano o una tempesta rompeva le dighe e allagava il raccolto distruggendo il lavoro di una intera stagione. La storia delle saline, come quella di tutta la laguna, è caratterizzata da una estrema instabilità.
Un altro ostacolo che si frappone alla conoscenza storica è la questione delle origini, sempre fastidiosa. Alla fine del XIX secolo e durante il fascismo, quando si ricercavano le origini romane di Venezia, si pensò (nel 1940) di aver trovato la soluzione identificando con una salina romana "costruita al massimo all'epoca di Augusto" si precisava dei resti romani, lastre, blocchi di pietra e pali di quercia, scoperti nel 1811 nel bacino di San Marco (3). Riflettendo però sui diversi modi di ricavare il sale, anche se questi sono certo numerosissimi, l'ipotesi di una salina, sia pure romana, non avrebbe potuto essere presa in considerazione proprio a causa della pavimentazione a lastre di pietra, poiché questo sistema di costruzione, del resto assai raro, è del tutto inutile nelle saline in cui avviene senza difficoltà la separazione fisica fra il terreno a melma argillosa e il sale. Nel VI secolo Cassiodoro, come si è visto, insisteva sull'importanza della produzione del sale, ma nulla prova che si trattasse allora di una invenzione recente: il fatto di aver sbagliato nel leggere le testimonianze archeologiche non è sufficiente a eliminare l'ipotesi di una fabbricazione del sale più antica, celtica o romana, in una zona anfibia che effettivamente si prestava assai bene a questo tipo di sfruttamento.
Analogamente, nella concorrenza commerciale che coinvolgeva le due vicine, Venezia e Comacchio, lungo l'arteria padana, la vendita del sale occupava già uno dei primi posti. Il capitolare del 715 del re longobardo Liutprando elenca tutti i porti del regno in cui attraccavano le barche cariche del sale dei Comacchiesi, ma alla fine del secolo successivo (nell'882-883), e ancora un mezzo secolo più tardi, nel 932, i già potenti Veneziani devastavano e distruggevano la città del delta, e trasferivano nella loro laguna la popolazione prigioniera (4).
La documentazione non dice se la rovina della concorrente diede un impulso decisivo all'industria veneziana del sale: quando si comincia a parlarne, attraversa in realtà un momento di crisi. Alcuni atti datati intorno all'anno 1080 ricordavano cinque saline più altre saline abbandonate nella zona vicino a Chioggia, e tuttavia proprio nel 1000 e nell'anno successivo il doge Pietro Orseolo era in grado di concludere con i vescovi di Treviso e di Ceneda due trattati commerciali in cui il traffico del sale era uno dei punti fondamentali: il doge otteneva un trattamento di favore per il suo sale, vale a dire la franchigia dalle tasse fino alla concorrenza di 300 moggia a Treviso, e di 20 moggia in tutte le rivendite (stationes) situate nel vescovato di Ceneda (5), franchigia che d'altro canto non si estendeva al sale dei Veneziani, suoi sudditi.
Nel 1001 una carta segnalava l'esistenza dell'area di Septem salaria nella laguna settentrionale tra Ammiana e Costanziaco (6). Questi sette depositi erano situati sulle vie di comunicazione con Treviso e con le regioni più settentrionali, in prossimità delle saline. Un trasbordo del carico durante la navigazione lagunare era inutile e non avrebbe mai potuto rendere necessaria la costruzione di depositi in quei luoghi se fossero stati lontani dai luoghi di produzione; a quell'epoca, comunque, questi sette magazzini, anch'essi distrutti, erano scomparsi insieme alle vicine saline di cui dovevano proteggere il raccolto. Quando nei documenti si comincia a parlare di saline, queste sono dovunque in rovina e i proprietari ne iniziano la ricostruzione, a Sant'Erasmo come a Chioggia minore o nel settore di Equilo (7). Si ignora la causa della rovina, dovuta forse a un innalzamento del livello marino con conseguente sommersione delle saline, oppure a profondi cambiamenti tecnici che, rendendo obsoleti i vecchi metodi di produzione, avevano reso necessari nuovi processi di raccolta del sale; o ancora a fattori politici, o commerciali, o perfino sociali, causa di profonde ristrutturazioni nei rapporti sociali e della elaborazione di nuovi statuti della mano d'opera sanciti da nuovi contratti, promotori di una espansione i cui segnali erano apparsi fin dalla metà del X secolo e che divenne decisiva nel secolo successivo, prima di arrestarsi nell'ultimo quarto del XII secolo.
All'epoca dei trattati conclusi dal doge Orseolo, se, per nutrire la popolazione e per il fabbisogno relativo alla conservazione del pesce esportato, fossero stati a disposizione il solo fondamento De Arcones, l'unico la cui esistenza è attestata dalle fonti, ricostruito poco tempo prima del marzo 958, e le cinque saline allestite prima dell'aprile 991 nei beni del monastero di Brondolo nel vicus di Chioggia minore, la laguna non avrebbe potuto esportare il sale, anzi, al contrario, avrebbe dovuto importarne. L'esportazione, non è necessario ricordarlo, testimonia un'attività non trascurabile, in grado di coprire le necessità locali e di esitare le eccedenze.
I 119 fondamenti registrati erano suddivisi come segue:
Questi 119 fondamenti non sono stati tutti in funzione contemporaneamente. I settori delle Fogolane, ad esempio, lontane da Chioggia, erano già stati trasformati in saline in un periodo in cui solo i più anziani si ricordavano ancora di aver visto un tempo dei salinari estrarre il sale a Dorsoduro.
La tabella 4, più che l'espansione della produzione, riflette fedelmente l'estendersi della documentazione, e tuttavia la prima ci è nota perfettamente grazie alla conoscenza delle costruzioni ex novo o del ripristino delle vecchie saline abbandonate.
La produzione del sale era forse stata più precoce nella parte settentrionale delle lagune, che conservò una certa superiorità in confronto a Chioggia e al settore meridionale fino al 1100, anche se la situazione aveva cominciato a capovolgersi già nell'ultimo quarto dell'XI secolo. I 12 fondamenti documentati nella prima metà dell'XI secolo (tab. 4), a esempio, sono tutti nella laguna settentrionale - 1 a Venezia, 5 a Murano, 2 al Lido Maggiore, 3 a Equilo - con la sola eccezione di quello di Pellestrina, il bellissimo fondamento ducale denominato Laguna. Invece, I2 dei 16 fondamenti censiti fra il 1050 e il 1074 si trovano nel vescovato meridionale, e durante l'ultimo quarto del secolo troviamo 8 fondamenti al sud e solo 7 al nord, e alcune saline nel settore di Ammiana. Bisogna comunque essere prudenti, perché è strano che non esistano carte relative a costruzioni dell'XI e del XII secolo per i settori più vicini alle due Chioggia, Chioggia maggiore e l'attuale Sottomarina, chiamata allora Chioggia minore. Al contrario, il fronte della conquista agricola, della costruzione di nuove saline è ben documentato a partire dall'XI e nel XII secolo: la valorizzazione dell'Aqua Brombedo comincia col nuovo secolo, si scontra a lungo con un ostacolo di taglio - l'apporto delle acque dolci della Brenta, la cui deviazione termina nel 1126 - e continua fino allo scadere del secolo (8).
Per quanto riguarda Chioggia che, secondo le informazioni trasmesse dalle fonti, costituiva nell'XI e nel XII secolo il maggior centro di estrazione di sale della laguna, e forse uno dei più importanti del mondo mediterraneo, la contemporanea presenza di una crisi nella produzione e del persistere dell'esportazione notata verso il Mille indica probabilmente che gli acquitrini che circondavano i due nuclei della città - o fra Chioggia maggiore e Chioggia minore, o a meridione e a occidente dell'abitato - erano già in gran parte o del tutto occupati da fondamenti di saline. La mancanza di spazi vicini avrebbe poi incitato i Chioggiotti a valorizzare i settori più lontani dalla loro città, al nord verso Pellestrina, fin dall'XI secolo, e nelle lontane Fogolane, i cui impianti iniziarono a funzionare soltanto verso la metà dell'XI secolo. Nel 1015, in occasione del matrimonio di Inmilda con il figlio del doge Pietro Orseolo, la madre Inmilia, vedova del conte Ugo, e i suoi due fratelli, le avevano assegnato come dote questo settore che si trovava allora nella contea di Treviso; a quell'epoca non vi erano ancora saline, e i 2.000 iugeri di superficie erano utilizzati come terre agricole protette da dighe e come peschiere; ma ben presto apparvero probabilmente anche le prime saline - la prima costruzione datata risale al 1067 - anche se la localizzazione dei riscontri indica già l'esistenza di un altro fondamento. E quindi prudente attribuire alla fase espansionistica dell'XI e del XII secolo non solo i 6 fondamenti dei quali possediamo la carta di allestimento, bensì l'insieme dei 23 fondamenti della zona, costruiti per iniziativa della famiglia ducale dei Michiel, dei Gradenigo, del vescovo di Olivolo, sede di Venezia, del monastero della Trinità di Brondolo o dei notabili di Chioggia costituiti in società. L'espandersi dell'economia legata alle saline, considerevole nell'XI e nel XII secolo, avrebbe infine portato un supplemento di 47 fondamenti, cioè del 70% circa, ai fondamenti già esistenti verso l'anno Mille, per giungere infine a un totale di 113 fondamenti.
Nella laguna settentrionale erano già stati installati 43 fondamenti (il 36% del totale), di cui 7 nell'insediamento che diventerà poi Venezia, e 76 erano stati allestiti nella laguna meridionale, da Malamocco a Chioggia, vale a dire i 2/3 del totale (8).
Nella stessa Venezia esistevano già delle saline a Castello prima dell'agosto del 1046, ma venne utilizzato anche un altro fondamento fra il rio dell'Arsenal e il rio di Castello dal 1106 (data della sua costruzione) al novembre del 1181 al più tardi. Gli altri fondamenti vennero installati nel settore occidentale del futuro sestiere di Dorsoduro, fra il canale della Giudecca e i terreni che costeggiavano il rio Nuovo, o sui margini di un vasto terreno acquitrinoso chiamato Luprio, dove furono edificate, da una parte e dall'altra del Canal Grande, le future parrocchie dei sestieri di Santa Croce e Cannaregio. Le saline in definitiva furono le prime forme di occupazione e di colonizzazione del suolo ai margini dei quartieri costruiti, limitati allora ai tre nuclei della città: il centro industriale e portuale all'estremità orientale di Castello, intorno al vescovato; il centro politico intorno al Palazzo di San Marco; il quartiere degli affari intorno a Rialto. Queste saline cedettero rapidamente il posto davanti al progredire dell'urbanizzazione e scomparvero fin dal 1081 a Dorsoduro, poco dopo il 1107 a Luprio, solo dopo il settembre del 1177 quella più decentrata, a Cannaregio, in margine al canale che raggiungeva l'isola di San Secondo. Le saline di Venezia erano state proprietà di alcune delle famiglie più grandi, e infatti i fondamenti portavano i nomi di Giovanni Morosini, Pietro Foscari e Vitale Falier (9).
Le saline sparse fra Equilo e Malamocco hanno in genere avuto, come le saline di Rialto, una esistenza breve, inferiore ai due secoli. Se queste ultime hanno dovuto cedere il posto sotto la pressione dell'urbanizzazione, altrove, nel settore così vulnerabile di Ammiana-Costanziaco e nelle vicinanze di Torcello, ciò fu dovuto allo spopolamento. A causa dell'erosione marina scomparvero le saline sul lido di Malamocco; quelle che si trovavano nel settore di Equilo, cessarono l'attività per la sedimentazione accelerata all'estuario del Piave.
Per compensare l'abbandono della produzione del sale nella stessa Venezia si ricostruirono due fondamenti a Equilo nell'XI secolo, mentre nella prima metà del XII secolo Malamocco, allora sottoposta a una violenta erosione, perse i suoi sette fondamenti; nella seconda metà del secolo furono abbandonate le saline di Murano e del Lido Maggiore, e nel primo quarto del XIII secolo venne il turno di Torcello, Ammiana e Lido Piccolo. Forse agli inizi del XIII secolo tutta la produzione del sale non era ancora totalmente concentrata nella laguna meridionale, ma lo era di sicuro verso il 1240- 1250.
Le cifre non bastano a evitare errori di valutazione. L'aumento del 70%, quanto ai fondamenti installati, è decisamente notevole, ma non è possibile dimostrare che tutte le costruzioni testimoniate dalle carte siano state effettivamente realizzate; è invece forse più vicino alla realtà ipotizzare un notevole cambiamento dell'economia lagunare grazie allo spostamento progressivo verso sud del settore più dinamico, la produzione del sale e iscrivere a credito della sola zona di Chioggia-Pellestrina un aumento del 70% di questa produzione. Verso il 1220 infatti non esistevano praticamente più saline nella laguna settentrionale a nord di Malamocco, tranne forse ancora sul lato interno del lido di Sant'Erasmo, e la scomparsa di 46 fondamenti in un secolo e mezzo ebbe come conseguenza, fin dai primissimi decenni del XIII secolo, la concentrazione di tutta la produzione nella laguna meridionale, intorno a Chioggia (10).
Come spiegare questo profondo cambiamento e questo rapido spostarsi dell'attività legata alla raccolta del sale verso il sud delle lagune? La scomparsa di Comacchio, che risaliva ormai a diverso tempo prima, aveva reso accessibile il vasto mercato padano al sale dei Veneziani, ovviamente interessati a installare le loro saline in prossimità delle vie di accesso a questo nuovo mercato, ovvero l'Adige e il Po, collegati a Chioggia dal vecchio canale imperiale dell'imperatore Claudio, la fossa Clodia, che diede il nome alla città, e diventò in seguito il canale di Lombardia. La possibilità di inserirsi in questo vasto mercato fu incoraggiata dalle autorità: nel 1028 (secondo una datazione proposta da R. Cessi) il doge, dopo aver confermato i limiti del territorio di Chioggia "dal porto all'Adige lungo i lidi, dall'Adige a Babbia [Torre delle Bebbe], da Babbia a Conche [Concas] e da Conche al porto", concedeva ai Chioggiotti il diritto di edificare saline in tutta l'estensione di questo vasto territorio lagunare (11). La concessione ducale indica l'esistenza di un diritto di regalia esercitato dal doge su un bene pubblico, in questo caso non solo il sale, ma tutta la laguna su cui sono installate le saline. La data del 1028 sembra aver aperto la strada non tanto alla trasformazione in saline di tutta la laguna di Chioggia - cosa del resto già avvenuta - bensì alla sistemazione, in vista della produzione del sale, dei settori lagunari periferici acquisiti di recente con il matrimonio di Inmilda; nel 1037, infatti, il doge Domenico Flabanico faceva costruire il fondamento Laguna in prossimità del lido di Pellestrina, all'estremità settentrionale del territorio di Chioggia, e l'iniziativa ducale sottolineava chiaramente la volontà politica di indirizzare verso il sud, verso il mercato padano, la produzione del sale della laguna.
In termini di produzione del sale il guadagno fu importante, assai maggiore di quanto lascerebbe pensare il saldo in pareggio di costruzioni e abbandoni: 47 installazioni terminano infatti fra il 1185 e il 1190, gli abbandoni fra il 1220 e il 1230, tranne a Venezia e a Malamocco, dove sono più precoci: in altri termini, è l'espansione del settore meridionale che ha determinato in buona parte la crisi del nord, non la crisi che ha imposto impianti di fortuna. Lo spazio per le nuove costruzioni non mancava, quindi si fecero fondamenti più vasti, di 50 e più saline, mentre i più antichi, costretti in uno spazio ristretto, non ne comprendevano che 20-30, e tuttavia, tenendo conto della distanza dai centri abitati, la produttività di queste saline, nuove ma più lontane, era forse inferiore. Il luogo che oggi corrisponde a quello denominato Punta Fogolana - che non indicava necessariamente l'estremo limite nord delle saline del settore meridionale della laguna si trova a N-NO di Chioggia (IGM foglio 65 Pellestrina) e a 7 km in linea d'aria dalla città, mentre le fattorie della frazione di Fogolana, nel polder creato a nord del canale Novissimo, sono a 11 km. La possibile diminuzione del rendimento del lavoro sembrerebbe confermata dal tasso meno elevato del prelievo (il censo), spesso limitato a una sola giornata di raccolta e mai superiore ai tre giorni nelle saline più recenti, mentre in quelle più antiche e più vicine spesso oltrepassava i cinque giorni di raccolta.
È probabile che nel 1200, data la superficie occupata dal fundamentum salinarum, nel settore meridionale non rimanessero spazi disponibili per una attività diversa da quella del sale, a eccezione dei canali che servivano per il trasporto e delle peschiere, installate durante l'inverno nei bacini riempiti di acqua dolce.
La costruzione dei bacini per le saline è sempre stato un lavoro collettivo, affidato a compagnie di 25-30 consortes diretti da capitanei: veniva edificato un vasto fondamento circondato da una potente diga (virga madrigale) che proteggeva il sistema di bacini di evaporazione. Attraverso una saracinesca, il callio, l'acqua di mare penetrava ad alta marea in un bacino, il morario, dove cominciava a riscaldarsi, a concentrarsi, a trasformarsi in salamoia (mora). A questo punto l'acqua entrava in bacini più piccoli, i corboli, passando dall'uno all'altro. Dopo questa prima e già lunga evaporazione attraverso due serie di bacini, i salinari facevano entrare l'acqua concentrata nel rio per distribuirla nelle saline (salinae), l'ultima serie di vasche in cui si operava la cristallizzazione del cloruro di sodio. La raccolta si faceva solo nelle saline, separate dalla prima serie di bacini da una diga secondaria, la seconda. I bacini utilizzati soltanto per la preparazione, e non per la produzione, erano di proprietà comune dei membri della compagnia, mentre le saline erano sfruttate individualmente da ogni operaio con una gestione familiare (12).
Il fondamento Laguna era composto da 49,5 saline distribuite in due cantoni da una parte e dall'altra del calleum, lunghe 80 - 82 passi e larghe 6 passi - 6 passi e un piede ( = 6,20 passi secondo il sistema metrico decimale); la differenza di un piede corrispondeva alla differenza fra la misura presa all'interno (6 passi) o all'esterno (6 passi, I piede) della dighetta su cui camminava il salinaro. Ogni salina comprendeva circa 27 cristallizzatori (cavedini).
La vasca di cristallizzazione era rettangolare e misurava:
80-82 passi: 27 = 3 passi × 6 passi / 6,20 passi = 18 passi2 / 18,6 passi2.
La superficie della salina raggiungeva la misura:
18 / 18,6 passi2 × 27 cavedini = 486 / 502 passi2.
Il totale delle superfici salanti:
486 / 502 passi2 × 49,5 saline = 24.057 / 24.849 passi2.
Il perimetro del fondamento Laguna era di 900 passi, ma questa misura si riferiva solo alla porzione di dighe che rientrava nella parte comune e che proteggeva i bacini non direttamente produttivi. Nel sistema di dighe costruite intorno al fondamento, ve ne era una che aveva una specifica funzione supplementare, lo scamnum o scanno, in cui erano scavati dei gradini per salirvi sopra e deporvi all'asciutto la raccolta giornaliera di sale. Questa diga, piattaforma di carico, era situata fra le saline, disposte perpendicolarmente, e il canale che serviva all'imbarco del sale; era unita a ogni salina e rientrava nella parte gestita e mantenuta individualmente. È facile calcolarne la lunghezza, uguale alla somma delle larghezze delle 50 saline (la mezza salina non incide sulla larghezza del fondamento):
50 × 6 passi / 6 passi, 1 piede = 300 / 310 passi o 525 / 542 m.
Il perimetro del fondamento era così costituito dalla somma del circuito di dighe più lo scanno, vale a dire 1.200 passi o 2.10o m. Al momento dell'impianto, il fondamento aveva ricevuto una forma più o meno quadrata, di 300 passi di lato, corrispondenti a una superficie di 90.000 passi2 (al quadrato) o 27,5 ettari (275.625 mq). Partendo da queste indicazioni è possibile calcolare il rapporto fra la superficie dei bacini di concentrazione e quella dei bacini di cristallizzazione:
90.000 ‒ 24.500 = 65.500 passi2
65.500: 24.500 = 2,67.
Risultato estremamente interessante: la superficie totale dei bacini di concentrazione era di circa 2,67 volte la superficie delle saline nel fondamento Laguna, saline che occupavano dunque solo il 27 per cento circa ( = 1/4) della superficie totale.
Per costruire la diga principale erano necessari sei pali per ogni passo lineare e a ogni palo si intrecciava una fascina e mezza di giunchi o di vimini: veniva così costruita una palizzata continua di spessore doppio o triplo, con i pali disposti a quinconce che costituivano l'armatura della diga. La palizzata era poi ricoperta di terra; per rinforzare le palizzate di pali intrecciati erano necessarie 450 barche, in ragione di una barca di una buona terra argillosa e impermeabile ogni due passi di diga. La costruzione e la ricopertura di terra delle dighe, il trasporto e la preparazione dei materiali, costavano cari; ugualmente costoso era il callio, opera in muratura e legno costituita da una vasca e da una saracinesca per far entrare l'acqua nel fondamento, precedute da una briglia idraulica (predega, pedica) (13).
Un terreno acquitrinoso per la produzione del sale deve stare sempre sott'acqua, in particolare in un sistema di raccolta multipla come a Chioggia nel Medioevo.
Nelle belle giornate estive da giugno ad agosto, con il sole e un vento favorevoli, il livello dell'acqua evaporata può essere, come minimo, di 6 mm nei cristallizzatori e di 8 mm nei bacini di concentrazione, poiché più è forte la concentrazione del sale sciolto, più è lenta l'evaporazione (14).
Superfici di:
- concentrazione: 66.000 passi2 o 198.000 m2 × 8 mm = 1,584 m3
- cristallizzazione: 24.000 passi2 o 72.000 m2 × 6 mm = 432 m3.
L'evaporazione in un acquitrino di 27,5 ettari produce un deficit giornaliero di 2.016 m3 che devono essere compensati proporzionalmente: la saracinesca e la vasca devono essere abbastanza larghe e ampie per immettere 2.016.000 litri d'acqua ogni 24 ore. In conclusione, per far entrare una simile quantità di acqua di mare, il callio doveva essere un'apertura molto grande, ampia parecchi metri quadrati.
Altre descrizioni di fondamenti danno nuove indicazioni estremamente interessanti. Nel Cona da Corio il lato di nord-est (da griego) misurava 250 passi; a est la diga era di 150 passi, a sud-est (da sirocho) di 225 passi; a nord-ovest (da maistro) di 78 passi. Nel documento che enumera le spese per le riparazioni delle parti indivise non è indicata la lunghezza dello scanno. Questo fondamento aveva più o meno la forma di pentagono, in cui l'insieme della diga occidentale doveva misurare circa 400 passi, cosa abbastanza normale in un impianto destinato a contenere una sessantina di saline. Il testo precisa che i lavori di ricostruzione dovevano essere fatti per un terzo con la barca (cum navilio) : il lato esterno della diga, costeggiato da un canale per tutta la sua lunghezza, era spalato e lavorato dalle barche, mentre sul lato interno e su quello superiore si lavorava all'asciutto. Vicino a questo fondamento si stendeva il Gradenigo Maggiore che comprendeva 70 saline, tutte, per quello che ne sappiamo, più grandi di 100 passi (da 101 a 122 passi o 213 m). Cifre che indicano chiaramente le dimensioni di questi fondamenti.
I due fondamenti Arzel Pozzolo e Vescovo (o Agger Podii e Episcopus) erano contigui. Le due dighe a nord (tramontana) e a sud-est misuravano 225 passi; le dighe orientate a griego (100 passi per la compagnia) e a maestro (solo 40 passi) prolungavano da ogni lato verso sud la diga settentrionale; il lato opposto allo scanno delle saline misurava, calcolando 7 passi per salina, 630 passi. Fra tutti e due questi impianti raggiungevano le 90 saline. Il solo perimetro a carico della compagnia (per le spese indivise) raggiungeva i 1.220 passi o 2.135 m, misura del resto minimale, perché i documenti si limitavano a indicare solo le misure delle parti di diga che dovevano essere riparate a spese di tutti; con lo scanno, il perimetro conosciuto raggiungeva i 1.850 passi. La lunghezza media delle saline era di 100 passi all'Arger Podio e di 120 passi al Vescovo, e la somma delle loro lunghezze si avvicinava ai 220 passi al Vescovo, misura che praticamente corrisponde alla lunghezza dei lati nord e sud. Considerando le saline distribuite in eguale misura nei due impianti (45 ciascuno), la superficie totale dei bacini salanti potrebbe superare i 20 ettari. Applicando i coefficienti calcolati per il Laguna, o per semplificare 1/4-3/4, si avrebbe una superficie totale di 80 ettari, veramente accettabile. In effetti bisogna sempre fare attenzione a mantenere un certo rapporto fra cristallizzatori e superfici di concentrazione, altrimenti si rischia di privare i cavedini della salamoia concentrata e, di conseguenza, non solo di interrompere il ciclo produttivo, ma anche di distruggere ogni possibilità di riproduzione a causa della precipitazione dei sali di magnesio delle acque soprassature. I due fondamenti, che avevano probabilmente una forma rettangolare in cui il lato corto, costante, misurava circa 400 m (225 passi), avevano tutti e due insieme una lunghezza di 2.000 m e un perimetro di 4.800 m (15).
Nel fondamento Sabloncello, che comprendeva solo 20 o 21 saline, era stata rinforzata la diga esposta ai venti di scirocco: era fatta da 6 grossi fagotti di vimini, e da due barche e mezza di terra ogni passo, in modo da innalzare una costruzione larga 7,5 piedi (circa 2,60 m) alla base e 6,5 piedi alla sommità. Naturalmente l'altezza delle dighe era costante, mentre cambiava lo spessore a seconda dell'esposizione ai venti dominanti portatori di intemperie. Quando una diga richiedeva solo una mezza barca di terra ogni passo, lo spessore alla base era probabilmente ridotto a 1,5 piedi (16).
Il totale delle saline di questi 11 fondamenti dei quali è conosciuta la capacità è di 499 saline e mezza, cioè, in media, 45 saline e 1/3 ciascuno. Le saline del Laguna sono le più corte - 80 - passi mentre i fondamenti costruiti nella zona delle Fogolane hanno spesso delle misure di più di 100 passi e anche di 130 passi, vale a dire una lunghezza che supera del 60% quella delle saline del Laguna. Se si accettano le superfici indicate in precedenza per i tre fondamenti Laguna, Agger Podii ed Episcopus, cioè 27,5 ha. il primo e 80 ha. gli altri due (o 40 ha. ciascuno), si potranno ugualmente accettare delle superfici medie dell'ordine di 30-35 ha. per ciascuno dei 76 fondamenti installati nelle acque delle tre comunità di Chioggia, Malamocco e Pellestrina:
ipotesi bassa: 30 ha. × 76 fondamenti = 2.280 ha.
ipotesi alta: 35 ha. × 76 fondamenti = 2.660 ha.
Superfici alle quali va ancora aggiunto almeno 1/0per i canali esterni. Stando così le cose, la superficie delle saline di Chioggia avrebbe occupato dai 2.500 ai 3.000 ha., cioè da 75 a 90 volte la superficie urbanizzata di Chioggia (33 ha.). Queste saline avrebbero potuto formare un quadrato di 5 o di 5,5 km di lato, o una qualsiasi altra figura analoga, ma sappiamo anche che erano disperse in diversi cantoni lontani gli uni dagli altri.
L'impulso fondamentale, decisivo, alla costruzione dei fondamenti fu dato dal doge o dalle grandi famiglie ducali. Il doge agiva sia in qualità di detentore del potere pubblico sia come proprietario di un patrimonio privato. I beni lagunari, conformemente alla tradizione bizantina, erano stati oggetto di una approvazione analoga alla regalia che ne aveva assegnato la proprietà al "palazzo" di cui era guardiano il doge, ma questi, in cambio di servizi diversi e di esazioni, aveva da tempo concesso dei diritti d'uso estesi alle comunità di abitanti del suo ducato, oppure si era lasciato spogliare delle sue prerogative da qualche potente personaggio che aveva usurpato le proprietà circostanti, i castelli o castra di cui gli era stata affidata la custodia militare. I dogi si sforzavano di impedire le usurpazioni facendo riconoscere ad palatium questi diritti esercitati dagli abitanti sugli acquitrini, lidi, giuncaie e terre della loro giurisdizione territoriale. Grazie a questo regime di regalia il doge esercitava un diritto di alta proprietà, quasi una sovranità, sull'insieme dei beni fondiari della laguna, ma disponeva anche, a titolo privato, di un diritto di proprietà sul suo dominio personale. Il primo atto conservato, del 958, riguarda una salina che il doge Pietro Candiano III concedeva a Martino Zancani nel fondamento de Arcones "qui est proprietas palatii nostri"; nel fondamento, contiguo a un terreno anch'esso di proprietà del palazzo, i compagni di Martino avevano costruito delle saline per le quali dovevano consegnare al palazzo il censo di un decimo. Tutti questi beni diversi appartenevano al palazzo, definito come il luogo dal quale si esercitava il potere politico del doge, che vi risiedeva e il cui compito principale consisteva nell'amministrare il patrimonio dello stato, o almeno quello che ne restava (17). Nel 1098 il palazzo possedeva ancora il fondamento Valerio a Pastenes. Nel 1037, agendo a titolo privato per averlo acquistato dal potente Lello Gradenigo, che a sua volta lo aveva comprato dalla comunità di Chioggia (spesso costretta dai debiti a cedere beni collettivi), il doge Domenico Flabanico autorizzava la costruzione a Pellestrina del fondamento Laguna (18).
Anche altre famiglie ducali ebbero la loro parte nella creazione di fondamenti. Queste grandi famiglie avevano intrecciato tutta una rete di alleanze, per esempio Vitale Candiano con i Memmo, gli stessi Candiano con gli Orseolo, poi con i Foscari: tutte famiglie proprietarie di saline. Man mano che nuove famiglie, come i Falier, i Contarini, i Flabiano, i Michiel, i Polani, gli Ziani, ottenevano il dogado, cresceva il loro interesse per l'economia del sale.
Anche dei laici appartenenti alla nascente nobiltà cittadina erano possessori di saline, e in particolare numerosi rami della famiglia Morosini avevano stretto legami di parentela con i Theodosio e i Fusco, i Badoer, i Tiepolo, Saponario, Loredan, Zusto, da Molin, Iovardo, Muazzo, Sanudo, Vilioni, Sedogolo o Succugulo da S. Stae, Citino, Albino, Bobizo, Basilio, Longo da S. Cassian, Mastropiero.
I due figli del doge Sebastiano Ziani, Giacomo e Pietro, associati in una fraterna compagnia, a partire dal 1170 e fino al 1186 avevano praticato una politica sistematica di acquisti e di prestiti garantiti da pegni sulle saline, mettendo così insieme un patrimonio di 48 saline disperse fra numerosi fondamenti (19). Testimonianza questa del modo in cui le saline erano state acquisite, dato che normalmente i possedimenti dei grandi proprietari costituivano un tutt'uno, interi fondamenti.
I due fratelli invece compravano tutto ciò che trovavano sul mercato, con il conseguente aumento del prezzo delle saline nella seconda metà del XII secolo, dalle 13 lire della metà del secolo alle 25 lire del 1176. Nel maggio del 1185 la fraterna fu sciolta; nel 1188 Giacomo divise i suoi beni fra diversi monasteri, ma nel 1196 Pietro si trovò investito dei beni del fratello, vale a dire della metà di 35 saline; comprò ancora i due fondamenti Iovardo al Lido maggiore (Liomajor), ma la documentazione non ha conservato il ricordo dell'esistenza, nel XII secolo, di un superbo fondamento, il Pietro Ziani, a Chioggia minore, probabilmente perché la sua proprietà restò allodiale fino all'estinzione della famiglia alla metà del XIII secolo, al sicuro da ogni intervento ecclesiastico.
La famiglia Gradenigo aveva manifestato un costante interesse nei confronti delle saline e del sale. Come prima tappa aveva accumulato il possesso di vaste distese d'acqua, possesso che offriva un doppio interesse economico, sia attraverso l'installazione di peschiere sia con la costruzione di numerosi mulini le cui ruote venivano fatte girare dalle correnti delle maree. L'avo Lello si era fatto assegnare dai Chioggiotti l'acquitrino Laguna a Pellestrina intorno al 1020-1030; nel marzo del 1042 la famiglia possedeva anche degli specchi d'acqua nel settore di Murano, vicino ai Foscari; nel marzo del 1067 Pietro Gradenigo di Rialto concedeva alla popolazione di Chioggia la costruzione del fondamento che avrebbe preso il suo nome; fra il marzo del 1079 e l'agosto del 1083 un altro rappresentante della famiglia, Giovanni, figlio di un Lello, prestava del denaro garantito da saline ad alcuni piccoli proprietari di Chioggia, in particolare al prete Urso Centraco, ma il capitale, che a settembre poteva essere rimborsato sotto forma di sale, serviva di fatto all'acquisto anticipato della raccolta. Suo fratello Andrea seguiva il suo esempio e nel settembre del 1092 si faceva consegnare due saline nel fondamento San Pietro per la modesta somma di 15 lire. Due generazioni più tardi Stefano, figlio del fu Pietro di San Salvatore, intentava una causa contro Sansone Buffo che non lo aveva informato della vendita della sua salina nel fondamento Gradenigo Maggiore. Nel 1141 un altro Gradenigo, Giovanni da Sant'Apostolo, divideva con gli eredi di Theodosio Morosini il censo delle saline del fondamento Rivo Zocoso, e insieme con il fratello Colombano, cappellano di San Marco, faceva causa a un fittavolo di Chioggia, prima di cedere a caro prezzo la salina contestata all'abate di San Giorgio. Nel settembre del 1157 Domenico Gradenigo Azuello, della parrocchia di S. Giovanni Confessore, prestava 30 lire a 15 giorni a una vedova e a suo figlio al 20 per cento annuo, con il raddoppio del debito allo scadere dei termini e l'istituzione di un pegno, consistente in un terreno un tempo occupato da un magazzino per il sale costruito in legno e in due saline: tutto ciò divenne proprietà del creditore a partire da novembre. Lo stesso Domenico, preoccupato probabilmente di amministrare i suoi beni nel modo migliore, abbandonava una mezza salina ai fratelli Michiel che possedevano già l'altra metà. Nel settembre del 1161, dopo il matrimonio con Widota, faceva un primo testamento lasciando a San Giorgio, in caso fosse morto senza eredi maschi, sei saline del fondamento Molmenta avute dal fratello Marino, nelle cui immediate vicinanze i suoi cugini, figli dello zio Otto Gradenigo, avevano altri beni. Il nostro uomo non esitava ad andare a visitare le sue terre, saline e peschiere a Chioggia, e un giorno sorprese un certo Giovanni Carimanno mentre pescava nei dintorni del ponte di Chioggia; il Carimanno fu autorizzato a continuare a pescare purché lo facesse per manus de suprascriptus Dominicus Gradonicus e dei suoi amministratori (et de suis gastaldionis) e versasse loro il censo (fictum). Nel luglio 1175 i suoi tre amministratori, dei Chioggiotti, percepivano il censo delle saline del fondamento Molmenta. Nonostante la presenza degli intendenti anche un altro Gradenigo, Enrico, della contrada di San Giovanni Evangelista, andava a ispezionare le sue vigne a Chioggia, e fu un bene, perché sorprese due fratelli Bolli che, con la loro società, portavano via dalla vigna terra e sabbia. Nonostante il gran numero di beni immobili situati intorno a Rialto e l'investimento di capitali in affari commerciali, i Gradenigo non trascuravano le piccole entrate della rendita fondiaria che proveniva dai beni dispersi qua e là per la laguna. Nel 1169 un altro Domenico, figlio di Bono Giovanni Gradenigo, lasciava in eredità alla badessa di San Lorenzo un vasto lago, l'aqua Plancido, situato fra Murano e Tessera sulla terraferma, che i suoi antenati avevano avuto dal doge Vitale Candiano. Il clan familiare si allargava sempre più: nel 1170 Rainier Gradenigo figlio di Giovanni, della contrada di San Giovanni Confessore, nel 1185 Bartolomeo, del confinio di S. Bartolomeo, e Pietro, del confinio di S. Paternian, e infine nel 1188 Dansa, vedova di Guido del confinio di San Pantaleon, comparivano l'uno dopo l'altro come proprietari di saline a Chioggia. Infine nel luglio 1186 Domenico, che aveva già fatto un primo testamento nel 1161, marito questa volta di Alba, lasciava le sue saline di Molmenta a San Giorgio, riservandosene prudentemente la rendita vitalizia (20).
Anche i vescovi avevano vivamente incoraggiato la costruzione delle saline, in particolare i titolari delle sedi di Equilo, Torcello, Olivolo (sede cattedrale di San Pietro di Castello, da cui il fondamento prese il nome di San Pietro) e Malamocco-Chioggia, proprietario del fondamento Episcopus o Vescovo. Tra i grandi monasteri benedettini, uno solo aveva contribuito a valorizzare la laguna: San Michele e la Trinità, il più vicino a Chioggia, costruito a Brondolo proprio sull'estuario della Brenta che aveva dato il nome al toponimo, particolarmente attivo nella zona delle Fogolane. Gli altri, San Giorgio Maggiore, San Zaccaria, San Cipriano, che abbandonò Malamocco, troppo esposto alle tempeste, per ripararsi a Murano, si preoccupavano più di farsi pagare delle rendite che di partecipare, anche indirettamente, alla messa a frutto della laguna. Alcuni monasteri settentrionali, soprattutto San Felice e Fortunato, e alcune chiese parrocchiali, fecero costruire o restaurare otto fondamenti.
La costruzione delle saline non comportava spese per il proprietario, che si contentava di accordare un angolo di laguna a una compagnia di costruttori, e non contribuiva mai direttamente alla costruzione con il suo lavoro o con un investimento in denaro, tranne in due casi a Torcello. Nel 1105 il gastaldio di Torcello, Bono Orio, per conto del vescovo, faceva rimettere a posto un fondamento e distribuiva ai consortes, per aiutarli, la somma di 10 lire; dieci anni più tardi, nel 1116, l'abate del monastero di Ammiana, dopo un primo tentativo di costruzione rimasto infruttuoso, distribuiva a ciascuno dei consortes, pro adiutorio, 12 denari mancusos. La collaborazione del gastaldio e del vescovo di Torcello dà origine a un contratto di associazione "alla pari" fra un grande proprietario ecclesiastico desideroso di valorizzare i suoi beni e un potente personaggio laico. Queste società furono utilizzate nelle Fogolane, dove l'abate di Brondolo, a partire dal gennaio 1120, si assicurò l'aiuto del notabile chioggiotto Rodolfo Calegario per costruire a sue spese almeno 34 saline nel fondamento Novo, vicino all'Arger Poggio; una seconda volta, dopo un primo tentativo andato a vuoto con il giudice Andrea Michiel del confinio di Santa Sofia, tentò nuovamente, a partire dall'ottobre del 1125, con i suoi tre figli, che accettarono di riprendere la costruzione in quello stesso settore. Nel luglio dell'anno successivo avevano già raccolto la compagnia dei consortes che doveva intraprendere il lavoro, ma nell'agosto del 1142 Domenico e Pietro restituivano i loro due lotti rimasti vuoti, mentre Marino conservava la sua parte.
Delle 428 carte in nostro possesso (tab. 2), 190 si riferiscono al conferimento del censo (col. 8) e, visto che il proprietario affida la sua salina a un lavorante, ci informano sulle modalità giuridiche dello sfruttamento. Le altre 238 Si riferiscono a un cambiamento della proprietà o a un suo ingrandimento: l'ingrandimento era dovuto alla costruzione di 26 nuovi fondamenti o al restauro di una decina di antiche saline abbandonate (coll. 1 e 2), e solo 212 carte riguardano un cambio di proprietà. E anche prudente non prendere in considerazione le 32 carte di investiture (col. 7), effettuate da un ministerialis del palazzo, la maggior parte delle quali si limita a sanzionare dei cambiamenti preliminari, avvenuti attraverso la donazione testamentaria, il pignoramento o la vendita. Restano dunque 180 carte suddivise in lasciti testamentari (col. 3), sequestri di pegni ipotecari (col. 4), permute destinate a ricomporre le proprietà (col. 5), infine compra-vendite (col. 6).
Il principale fattore di cambiamenti nella proprietà è costituito dalla donazione testamentaria. Di queste 86 carte, 10 atti sono stati redatti a beneficio di laici che si premuravano di lasciare i loro beni a eredi legati da vincoli di parentela, figli o moglie. Più della metà degli atti (76/180) intendono lasciare delle porzioni più o meno grandi di patrimoni laici a istituzioni ecclesiastiche, vuoi semplici chiese parrocchiai, vuoi chiese cattedrali, soprattutto grandi monasteri benedettini veneziani. San Giorgio e San Zaccaria ricevettero molto di più del monastero di Brondolo, e nonostante le apparenze il più beneficiato fu San Zaccaria, poiché un unico atto nasconde una grossa donazione operata dalla famiglia Michiel a beneficio del grande monastero femminile, che grazie alla generosità del conte Leonardo, figlio del doge Vitale Michiel, ricevette la metà dei fondamenti Corrigia (o Warta Massera), Teçda, Enganna Compatre, Bucca Canal de Conche e Solesedo. Anche San Giorgio e San Cipriano beneficiarono di lasciti di interi fondamenti, in particolare del Post Castello il primo, dei Laguna e Vecchio, ambedue a Pellestrina, il secondo.
Anche l'organizzazione dei beni trasmessi per donazione testamentaria illustra le strategie messe in atto dai monasteri per costruirsi dei grandi blocchi di proprietà ben raggruppate.
Nell'autunno del 1062 il monastero di San Cipriano si vedeva offrire da Domenico Orseolo tutto l'allodio ereditato dal padre nel distretto di Chioggia e le acque delle peschiere ereditate dalla madre "dal canale Timonario fino alle acque del nostro vescovato" (di Malamocco) nel settembre del 1166 Primera Dandolo, figlia di Giovanni Polani, donava al monastero la metà del fondamento iuxta Pellestrina che era appartenuto a suo padre ed era delimitato su due lati dal canal Timonario; due anni
più tardi, nel settembre del 1168, Pietro Morosini di Sant'Angelo donava a San Cipriano il fondamento Laguna e tutta l'acqua fino al canal Timonario. Nel corso di un secolo, grazie a una politica perseguita con ostinazione, priori e abati del monastero erano riusciti a interessare alla loro sorte tre delle principali e più potenti famiglie - gli Orseolo, i Polani, i Morosini - e a farsi donare gli specchi d'acqua e i fondamenti adiacenti al lido di Pellestrina.
Nel novembre del 1123 Pietro Enzio di San Moysè aveva diviso la sua proprietà, il fondamento Post Castello: San Giorgio Maggiore riceveva le saline soggette a un censo di 3 giornate di raccolta, mentre 10 saline soggette a un censo di 7 giorni di sale erano divise fra San Giorgio per tre giorni e San Basso e San Servolo per quattro giorni; a San Giorgio donava ancora un salarium per conservare il sale a Chioggia. La famiglia Enzio aveva da tempo legato il suo destino al sale: nel 1022 un certo Giovanni "Encio" riceveva dal vescovo un fondamento a Equilo; nel febbraio del 1124 la vedova e la figlia del defunto, Nella Contarini, rilasciavano una quietanza a San Giorgio, ma le due donne ritornavano ben presto sulla loro decisione, sostenendo che il magazzino per il sale era in realtà costituito da tre magazzini. La faccenda venne portata in palazzo ducale davanti ai giudici vice-dogi, figli di Vitale Michiel, che andarono a Chioggia e constatarono che "il salarium non poteva essere formato da tre magazzini, ma da uno solo, perché erano riuniti sotto un solo tetto" : il defunto non aveva osservato la precauzione di lasciare ai suoi un deposito per racchiuder-vi il loro sale. Nell'aprile del 1127 il figlio Pietro riusciva a comprare dalla badessa del monastero di San Servolo, per 32 lire, un magazzino per il sale contiguo a quello che era appartenuto al padre e le dieci saline del fondamento Post Castello, cioè tutto ciò che il defunto aveva lasciato a quel monastero. Nel luglio 1131, questa volta per 50 lire, l'accorto Pietro cedeva le saline a San Giorgio, riservandosi però l'uso del magazzino, indispensabile per la famiglia che aveva conservato nel patrimonio 14 saline. Nel testamento non è mai citato il fondamento Bono Enzio (o Bonenzo), forse perché di proprietà dei fratelli del defunto, Giovanni ed Enrico, mentre è ricordato il monastero di San Nicolò del Lido che aveva ricevuto alcune saline pignorate a Pietro Marico. Il monastero di San Giorgio aveva fatto ricorso al processo contro la vedova per non lasciar smembrare un bene ricevuto in eredità dal defunto e aveva accettato di ricomprarne una parte dal figlio per ricostituirne l'unità.
Anche la compra-vendita era uno dei modi per accrescere il patrimonio. Si trova registrata solo in 42 atti ripartiti in parti quasi uguali fra famiglie e monasteri (19/23), ma non si può mai essere sicuri che la transazione non nasconda in realtà un pegno, poiché il prezzo di vendita registrato nell'atto potrebbe anche corrispondere alla somma da rimborsare in seguito a un prestito. I pegni in seguito a prestito sono 32, per lo più concessi da laici, ma anche i monasteri non disdegnano il prestito su interesse, in particolare San Giorgio, che per aver prestato a Domenico Morosini 600 lire a quindici giorni nell'aprile del 1081 divenne proprietario della Vigna Murata con i suoi muri di pietra e le saline. I cambiamenti accompagnati da un paga-mento in denaro sono tuttavia meno frequenti e meno importanti delle donazioni, perché con queste ultime erano interi fondamenti che cambiavano di proprietario, mentre vendite e pignoramenti difficilmente interessavano più di un paio di saline. A questo riguardo bisogna sottolineare la dicotomia dell'economia del sale, in cui il prodotto è notevolmente impegnato in scambi commerciali monetarizzati, mentre il luogo di produzione, la salina, è caratterizzato piuttosto dall'economia della donazione, per non dire della gratuità, visto che i legatari speravano di servirsene per riscattare i loro peccati e acquistare la salute eterna.
Stando agli atti in nostro possesso, la Chiesa ottenne 76 donazioni e autorizzò 30 acquisti a titolo oneroso. Se si analizza il contenuto reale di questi atti, al di là della natura del cambiamento, si può contrapporre il tutto - i fondamenti interi acquisiti graziosamente - alla parte - le saline comprate a basso prezzo. I diversi gruppi sociali avevano evidentemente operato delle scelte fra i tre diversi modi con cui poteva essere ingrandito un patrimonio: i laici avevano privilegiato la costruzione di nuove saline e l'acquisizione commerciale di saline produttrici; il clero secolare, i vescovi e le chiese parrocchiali, che avevano, come i laici, contribuito all'espansione, avevano arrotondato i loro patrimoni grazie alle donazioni; i monasteri benedettini avevano piuttosto riposto le loro aspettative nella generosità dei fedeli che non li avevano delusi, soprattutto quando erano geograficamente vicini. Solo due monasteri, l'Arcangelo a Brondolo e San Felice di Ammiana non si erano contentati di questo ruolo e avevano favorito l'installazione di nuovi fondamenti nelle zone di conquista agricola del ducato, ai margini della laguna (21).
Il possesso delle saline era un buon investimento: Pietro Enzio, di cui si è già in parte analizzato il testamento, possedeva il fondamento Post Castello, composto probabilmente da 30 saline, e altre 14 saline, due delle quali al fondamento Pietro Mauro, due al Sant'Angelo, cinque al da Porto e altre cinque al Sablone. Il censo di questi fondamenti sembra ammontare a 3-5 giorni di sale (nel calcolo che segue ci si baserà su una media di 4 giorni), per cui la rendita di Pietro Enzio, a queste condizioni e fatta eccezione per alcune saline acquisite come pegni e donate a San Nicolò, non doveva superare:
20 saline × 3 giorni + 10 saline × 7 giorni + 14 saline × 4 giorni = 186 giornate di raccolta.
Ora, Pietro Enzio lasciava in eredità alla moglie Petronia e a una delle figlie, Gysla, il sale che possedeva a Chioggia minore e il cui valore era stimato 1.000 lire. Questo sale proveniva dai censi? Sembra difficile. Quando il figlio ricompra e successivamente rivende le lo saline del Post Castello per le somme rispettivamente di 32 e 50 lire, in realtà compra la rendita di 10 saline, i 4 giorni di censo perpetuo che il padre aveva donato a San Servolo, oppure 40 giorni di sale in perpetuo, da cui si desume che la raccolta giornaliera perpetua aveva il valore di una lira circa. Il valore commerciale delle saline è troppo lontano dalle 1.000 lire perché si possa pensare che questa somma provenisse esclusivamente dall'accumulazione dei censi, e di fatto Pietro Enzio era nello stesso tempo un grosso proprietario di saline, che accumulava i censi, e un mercante di sale all'ingrosso, che comprava e immagazzinava la raccolta dei salinari, forse i gestori delle sue saline, o di altri proprietari. In conclusione (ma queste conclusioni sono sotto alcuni aspetti deludenti), non è possibile calcolare l'importanza del sale nei patrimoni dei monasteri, ma si può in compenso intuire l'importante contributo del sale nell'accumulo di capitale di alcune famiglie di mercanti: Pietro Enzio infatti lasciava ai figli maschi numerosi crediti, spesso considerevoli, e a numerose chiese della laguna un piccolo peculio non trascurabile. Abituato alla speculazione su questo prodotto, consapevole del valore del sale, l'Enzio proibiva ai figli Domenico, Pietro (i maggiori in quel momento lontani da Venezia) e Raynerio (il minore) di distribuire e vendere il sale che lasciava alla figlia minore, che ne sarebbe stata proprietaria fino al fidanzamento o al matrimonio.
Questo continuo flusso di donazioni, legato in un certo senso all'espansione, terminò con il testamento di Leonardo Michiel del 1184, che provocò un lungo conflitto con tutti i parenti del defunto: solo nel 1198 San Zaccaria riuscì a entrare in possesso dei cinque fondamenti della successione. Fino al 1185 infatti c'era stato un aumento compatto e regolare delle proprietà in genere, un aumento considerevole della proprietà di quattro grandi abbazie benedettine e di qualche altra, e una forte diminuzione della grande proprietà laica. I ricchi e potenti monasteri benedettini, al centro di una rete di rapporti che si estendeva dall'Italia a Costantinopoli, e i vescovi delle città lagunari, avevano quindi avuto la possibilità di esercitare un notevole influsso sulla storia agraria del Ducato, sulla regolamentazione delle concessioni e sulla condizione delle persone fisiche. Si può discutere sulla possibilità che la parte preponderante del patrimonio delle grandi famiglie laiche fosse mobile o immobile, ma non è possibile negare che la ricchezza degli istituti ecclesiastici, retti dai rappresentanti delle grandi famiglie, fosse fondamentalmente immobiliare e fondiaria.
L'unità di sfruttamento non era la salina ma la coppia di saline (copula salinarum). Due elementi contribuivano a far sì che lo sfruttamento di due saline contigue fosse effettuato da un unico salinaro, l'uno tecnico l'altro legato al lavoro; da un lato cioè la distribuzione attraverso la lida della salamoia concentrata dalle due file simmetriche di cavedini, dall'altro gli spostamenti del salinaro fra i cristallizzatori e lo scanno. Queste unità di lavoro costituivano i "mansi" del colono, simili alle sortes, gli appezzamenti di terreno bizantini, ed erano nello stesso tempo le unità utilizzate per calcolare una uguale ripartizione di compiti nell'insieme del fondamento, dove i coloni-salinari erano legati fra di loro in un consortium. Il sistema era costrittivo, imponeva perfino di costruire tutte le saline di uno stesso fondamento della stessa misura, e il salinaro che voleva allestire delle nuove saline doveva fare attenzione che la sua coppia di saline fosse: "ita ampla et longa sicuti est una alia copula jamdicti fundamenti".
Nel 958 - l'esempio è scelto per illustrare la giusta ripartizione del peso della manutenzione del fondamento - il doge Pietro Candiano, dopo aver concesso la palude De Arcones, proprietà del palazzo, per farvi un fondamento di saline, aveva fatto consegnare alla curtis palatii le saline terminate; aveva anche autorizzato i costruttori a prelevare della terra dalle proprietà ducali circostanti e, al momento di stabilire il censo delle saline, aveva promesso di provvedere alla manutenzione della sua parte di dighe, salvo versare una compensazione finanziaria in caso di inadempienza. Gli esempi son poco numerosi e si trova questo dispositivo solo nelle carte relative alla creazione delle saline (tab. 8), tuttavia, fino all'inizio del XII secolo, tutti i fondamenti allestiti erano stati gestiti sulla base dell'economia demaniale (curtense), secondo la quale il proprietario si riservava due, o tre, o cinque saline o anche 1/5 del totale. Alla produzione del sale bisogna poi aggiungere i redditi dei mulini che il proprietario faceva installare sui canali e sulle dighe. In cambio delle saline che aveva deciso di tenere per sé, e che insieme con i mulini costituivano la riserva signorile - la parsdominica o indominicatum -, il proprietario prometteva di partecipare alla manutenzione delle dighe, anche se, ovviamente, né il doge né i vescovi si recavano di persona a lavorare nelle saline. I documenti non ne parlano, salvo interpretare correttamente una delle clausole dei contratti (libelli cartulae).
Con la carta di livello il proprietario concedeva le saline per un periodo variabile in genere per 29 anni, che potevano anche essere rinnovati, ma alcuni affitti erano a 19 anni, altri fino alla terza generazione, e in alcuni casi la concessione era rinnovabile in perpetuo. La durata non era dunque uno dei caratteri peculiari della carta di livello, e la concessione era limitata a meno di 30 anni, sia per evitare il pericolo che il concessionario si impadronisse del fondo, sia per garantire l'affittuario che in nessun caso i suoi trenta anni di servizio avrebbero potuto essere assimilati alla condizione sociale del non-libero (22).
La definizione dei diritti degli uni e degli altri, proprietari e concessionari, è l'elemento più caratteristico di questo tipo di contratto: il livellario riceveva le saline perché aveva promesso di versare il censo, di tenere con cura la proprietà, e soprattutto di migliorarla (ad meliorandum); in cambio otteneva il pieno godimento del fondo, poteva alienarlo, trasferirlo agli eredi, venderlo, farne donazione, con l'esplicita condizione che il bene non avrebbe subito deterioramenti, anzi sarebbe stato valorizzato. Il proprietario si impegnava a mantenere la concessione per tutto il tempo convenuto e a non imporre un censo più alto, ma aveva il diritto di riscuotere il censo nel giorno prescelto e, in caso di un contratto a termine, di riprendersi la concessione, mentre se il contratto era rinnovabile, doveva prorogarlo per il livellario o i suoi eredi. All'atto della restituzione si riprendeva semplicemente il bene migliorato. Il contratto aveva termine solo con la sparizione del bene: le saline sono sempre esposte al pericolo del mare, e in caso di distruzione la palude tornava integralmente al proprietario, così come tornavano al proprietario le saline, e il livellario veniva anche condannato al pagamento di una ammenda quando non rispettava i suoi obblighi, in particolare il pagamento del censo. Era invece il concedente che doveva pagare i danni all'altra parte se, nonostante i suoi impegni, si rifiutava di rinnovare il contratto.
I contratti di 29 anni rinnovabili erano stati una conquista per i contadini che, con l'abbandono dell'affitto perpetuo, ottenevano il diritto di andarsene alla scadenza o di modificarne i termini. Il contratto si basava sull'accordo fra le due parti, e quella che non rispettava gli impegni presi doveva pagare all'altra una pesante ammenda di 5 lire d'oro. In altri termini, il colono poteva legalmente lasciare il fondo avuto in concessione, ma senza portare via nulla e purché avesse pagato la compensazione; era perciò legato alla proprietà che coltivava, ma nello stesso tempo era garantito contro l'espulsione e le imposizioni arbitrarie, anche se, nonostante una economia fortemente monetarizzata fondata sulla produzione del sale, era ben difficile che un salinaro riuscisse a mettere insieme 5 lire d'oro (23).
Il diritto di possesso dell'enfiteuta era di fatto limitato dal prelievo della rendita dovuta al proprietario, che si presentava sotto tre forme: una rendita in denaro di natura eccezionale, il quintello; un tributo in natura, il censo; e una rendita-lavoro, il laborerium o domnicum.
L'elemento meno complesso è il censo. Versato dai livellarii, intorno al Mille era calcolato in un moggio se la raccolta era di dieci moggia - in tal caso era di un decimo -, e in un denaro ogni tre - di conseguenza un terzo - se la raccolta sulla salina era inferiore a questo volume di dieci moggia: un fatto che, possiamo convenirne, era una forte spinta all'aumento della produzione e della produttività, un incoraggiamento alle migliorie in contratti che avevano fra l'altro lo scopo evidente di restaurare delle saline rovinate. In caso di cattiva raccolta, se questa era dovuta alle intemperie, il censo del terzo, pagato in denaro, era a tutto vantaggio del proprietario, che poteva sperare in un aumento dei prezzi dovuto alla penuria di sale. E tuttavia, fin dal X secolo, era stata ideata un'alternativa: in caso di raccolta scarsa il censo era calcolato sulla base di tre giorni di raccolta. Questo nuovo tasso di prelievo, che avrebbe avuto fortuna, ben presto si generalizzò, indipendentemente dalla qualità della raccolta, e continuò per tutto il tempo che si continuarono a sfruttare le saline nella laguna. Con questo sistema, nelle buone annate in cui si moltiplicavano i giorni di raccolta, i censi più bassi (una giornata di raccolta) non raggiungevano il 2% della produzione, mentre nelle annate cattive i censi più alti (fino a sette-otto giorni) oscillavano intorno al 20%.
Il proprietario del fondamento era tenuto ad andare a riscuotere il censo alla salina, allo scanno, o a delegare un suo rappresentante, e sceglieva i giorni più belli, che promettevano abbondanti raccolti del più bel sale. Il censo veniva riscosso presso il concessionario, che aveva l'obbligo di trasportare il prodotto del censo nel magazzino del proprietario con i suoi cesti (o cestini) e sulla sua barca. Nel 1087, dopo aver ricevuto da Stefano Candiano il fondamento Tresaria Maggiore, il monastero di San Giorgio prevedeva di distribuire 24 denari di Verona e 6 pani ai lavoranti che trasportavano il sale del censo ai suoi magazzini (24).
La seconda rendita, in denaro, era un diritto di "laudemio" o di voltura chiamato quintellum, un diritto del quinto uguale a un denaro su cinque o su 25 (si incontrano i due tassi). Apparentemente il "livellario" non versava mai questo diritto al momento del rinnovamento del livello, per cui si sarebbe tentati di pensare che il piccolo quinto (4 per cento) doveva accompagnare il rinnovo della locazione, mentre il più alto (20 per cento) veniva pagato in caso di vendita del bene.
Si è detto che il concessionario aveva un diritto di possesso sulla salina, che poteva anche cedere perché il proprietario, al momento della concessione, gli aveva trasferito "jus et dominium", e tuttavia, in caso di vendita, doveva informare prima di tutti îl proprietario, che aveva diritto di prelazione e poteva riacquistare la salina a un prezzo fissato da esperti (boni homines). Questa clausola di riscatto si trova in tutte le carte dell'XI e del XII secolo: come interpretare un simile obbligo? Testimonia forse la possibilità, da parte del proprietario, di una gestione diretta tramite l'incorporazione della salina nella riserva nonostante fosse stato fissato il censo della concessione? O piuttosto si trattava, attraverso il riscatto, di salvaguardare la valorizzazione delle saline, visto che l'importante era che l'acquirente, continuandone lo sfruttamento, pagasse fedelmente la rendita e il quinto? (25)
Andrea Gradenigo, che aveva comprato due saline al fondamento San Pietro per 15 lire, saldò al vescovo il quintello dei quinti denari (20%) nel 1092; nell'ottobre del 1090 anche l'abbazia di San Giorgio preferiva riscattare da Giovanni Steno due saline che costui aveva costruito nel fondamento di Tresaria di proprietà dell'abbazia, e questa ultima carta chiarisce i rapporti di proprietà che si erano creati. A San Giorgio apparteneva soltanto il "fondo" (fondamento), mentre le saline edificate sullo stesso erano del loro costruttore che aveva il diritto di venderle a chiunque, fatta salva l'autorizzazione preventiva del proprietario del fondo; autorizzazione indispensabile affinché la vendita non venisse considerata nulla dai tribunali. Nel 1149 infatti il priore Deodato otteneva l'annullamento della vendita di una salina nel fondamento Arzer Pogio Vecchio perché "nessuno aveva il diritto di comprare questa salina, se non l'abate e il monastero: poiché il fondamento si trovava ora in loro mano, dovevano essere i primi a poter comprare". Il venditore dovette in questo caso rimborsare agli acquirenti il prezzo della vendita. Analogamente, nel 1139 Stefano Gradenigo aveva attaccato lite con Sansone Buffo che aveva venduto senza interrogare i Gradenigo, e l'affittuario addusse a sua difesa che non aveva venduto, ma solo effettuato uno scambio di saline, vincendo la causa. L'affittuario aveva dunque la facoltà, rivendendo in caso di necessità al proprietario, di trasformare in denaro un bene che sarebbe andato in rovina senza il suo lavoro.
Dei 19 contratti di vendita fra privati (tab. 2), solo quattro sono fra affittuari: il vecchio gestore, al momento della partenza, cedeva il suo bene immobile al successore che desiderava installarvisi. Questi atti sono scaglionati fra il luglio del 1075 e il gennaio del 1198: nel luglio del 1075 Giovanni Spatario vendeva una salina del fondamento Gradenigo al chioggiotto Pietro Foscari; nel 1188 Maria, vedova di Zaccaria Bello, che aveva da poco acquistato dei diritti su una salina del fondamento Sant'Angelo, prometteva di versare il censo al monastero di Brondolo; nel 1190 l'abate di questo monastero autorizzava la cessione a Gandolfo Bolli di quattro barcolini nel fondamento di Andrea Michiel, e a Pietro Bolli di due saline nel fondamento De Astolfo. Questa possibilità di comprare senza necessariamente dimostrare un'attitudine al lavoro delle saline permetteva, come si è detto, ai nobili veneziani di acquisire le saline degli affittuari: cosa che fecero i Loredan di San Maurizio nel 1084 e i da Molin nel 1198.
Ora, e anche questo elemento ha la sua importanza, queste transazioni sulle saline contribuivano ad aggravarne il censo. Nel marzo del 11 og il monastero di San Giorgio Maggiore concedeva, contro un censo di 6 giorni e mezzo di sale, due saline ricevute nel dicembre del 1108 come pia donazione, ma su queste due saline gravava già un censo di una giornata di raccolta, diviso fra il patriarca di Grado e gli eredi Morosini. Con il sistema della vendita o della donazione dei fondi affittati, su uno stesso bene si intersecavano i diritti dei differenti proprietari (26).
Resta dunque l'aspetto più complesso, più difficile da mettere a punto, del contratto livellario: la rendita in giornate lavoro. Nel marzo del 1116 Domenico Karovasallo aveva ricevuto dall'abate Tribuno, con un contratto di livello, quattro saline e un barcolino, e prometteva di suddividere il suo lavoro fra le quattro saline e il barcolino e di lavorare al domnico a sue spese e con i suoi attrezzi. Nel 1067 una compagnia di consortes otteneva da Pietro Gradenigo di Rialto il diritto di allestire un fondamento di 25 saline e l'atto precisava, in un latino che sarebbe prematuro tradurre prima di averne afferrato il senso:
Et ipsa salina que nos tibi debemus ad absitoria missa, deinde in antea vos [ = Gradenigo] debetis nobiscum laborare et omni laboracione que ad ipsa salina pertinet laborare in domnico de ipso nostro fundamento.
Il rapporto fra lo sfruttamento di una salina e il domnicum, e l'equivalenza fra domnicum e tempo lavorativo sono perfettamente stabiliti in un documento più tardo (1273), in cui un affittuario, che ha ricevuto dal monastero dei SS. Cosma e Damiano tre saline e un barcolino, promette:
per duas de suprascriptis salinis facere debeam in dicto fundamento laborerium integre et per terciam salinam et barchulinum facere debeam in dicto fundamento solummodo domnicum per medium compagnum.
Documento che illustra bene la situazione: una salina deve una mezza prestazione di lavoro, la coppia deve la prestazione intera. Queste prestazioni di lavoro ricevettero in seguito il nome ovvio di fationes et angariae (27).
In che cosa consistevano queste prestazioni? per fare che cosa? La laconicità dei documenti rende necessario considerare tre ipotesi che segnano altrettante tappe del modo in cui venivano sfruttate le saline della laguna.
Prima ipotesi. Ci si ricorderà che nel momento in cui veniva costruito l'impianto per la salina il proprietario "si riservava" un certo numero di saline e concedeva le altre contro un censo e l'obbligo di lavorare a domnicum. Per sfruttare le saline della "sua riserva" il proprietario poteva ricorrere a degli schiavi, a dei salariati, o più semplicemente esigere prestazioni di lavoro gratuito dai consortes, e riservarsene tutto il prodotto, secondo lo schema classico dell'economia demaniale. Merita di essere sottolineato un elemento importante, e cioè il carattere collettivo di questo lavoro sulla riserva, che comprendeva sia quelle che possiamo chiamare "quinte saline", sia i terreni incolti o saltaria (da cui appare evidente la derivazione del termine saltus). È indubbia la presenza di queste terre, comprese quelle a prato, nel fondamento in cui le saline avrebbero costituito l'ager coltivato, e sono sempre associate al domnico costituendo, in definitiva, il domnicum improduttivo - nel senso che non produce sale -, anche se era necessario conservare in buono stato domnicum et saltaria per produrre il sale nelle saline. Non erano da trascurarsi neanche le opere dei consortes nelle saline demaniali. Nel giugno del 1037 il doge Domenico Flabanico concedeva il fondamento Laguna per farvi 25 saline (forse si deve interpretare 25 coppie di saline), e se ne faceva riconsegnare una su cinque. I consortes erano 13, e considerando di 6o giorni la durata annuale media della raccolta di sale, ognuno dei consortes doveva un tempo supplementare di lavoro uguale a: 5 saline del doge x 6o giorni di raccolta: 13 lavoratori = 23 giorni ed era come se ognuno lavorasse in realtà non su due saline ma su 2,38 saline. In cambio di un censo basso si esigeva un tempo di plus-lavoro compiuto nella riserva. Se l'ipotesi è sbagliata e arrischiata, perché non conforme alle rappresentazioni tradizionali della società veneziana medievale, perché il proprietario, il doge, un vescovo, un abate, un optimate, si facevano consegnare delle saline? Non era certo per fissarne il censo in un secondo momento, perché sarebbe stato inutile toglierle ai consortes, che le avrebbero tenute a censo alle stesse condizioni delle altre saline. Resta l'interrogativo sul rendimento di quelle corvées e resta anche il fatto che questo sistema comportava una pesante responsabilità per il proprietario: l'organizzazione del lavoro nella riserva. Tutte queste osservazioni, anche se fondate, non sono accettabili, perché in tutti i paesi europei la corvée presentava degli inconvenienti analoghi.
Seconda ipotesi. Più tardi, nel XIII secolo, nelle saline di Chioggia non si trova più il domnicum, che abbiamo appena equiparato alla pars indominicalis: si trovano delle saline che sembrano appartenere alla compagnia del fondamento e che non sembrano essere oggetto di transazioni, mentre figurano spesso negli atti in qualità di "confronti". Nell'XI e nel XII secolo, invece, la "compagnia" interveniva in alcune precise circostanze: nell'ottobre del 1064 e nel marzo del 1065 il cittadino chioggiotto già ricordato come venditore, Giovanni Spatario, aveva acquistato due lotti, e cioè, rispettivamente, due saline incolte nel fondamento San Pietro e un piccolo appezzamento di terreno e d'acqua situati a ridosso della diga del fondamento Anziriva. Nel luglio del 1075 tre compratori, fra cui una vedova con i figli, avevano comprato cinque saline nel fondamento d'Enrico Gradenigo. Nel 1132 i due figli di Giovanni Carnello avevano ottenuto quietanza per 10 soldi pagati per costruire una dighetta destinata a proteggere cinque cavedini situati all'estremità di una salina nel fondamento di Sablone. Nel 1193, e sarà l'ultimo esempio, Lorenzo Polo, aveva comprato per 7 lire un "appezzamento di terra ed acqua sotto il fundamento di Pellestrina, abbastanza largo e lungo per costruirvi una salina della stessa misura delle altre saline del detto fundamento". In questi cinque casi la controparte del contratto era sempre la "compagnia" o "tutti i consortes", che si impegnavano a riservare il censo del proprietario, e ognuno di questi atti insisteva o su un restauro di saline incolte o sull'allestimento di nuove saline in specchi d'acqua situati in prossimità delle dighe la cui manutenzione comune ricadeva sui consortes. Il proprietario scarica dunque sulla compagnia le cure necessarie allo sfruttamento dei suoi beni, al restauro di saline incolte o all'allestimento di saline ritagliate "sotto il perimetro" delle dighe (è così che va tradotto "infra"), ma comunque comprese nelle terre concesse ai consortes. Questa possibilità di costruire saline "interstiziali" rende più precisa l'immagine che doveva presentare il paesaggio intorno a Chioggia, con i fondamenti allestiti dai singoli proprietari nel loro specchio d'acqua, senza preoccuparsi troppo di ciò che avveniva non lontano e senza un progetto d'insieme, "a casaccio". L'osservazione non è anodina, poiché queste "saltarla" completavano le risorse dei salinari con i prodotti della pesca, dell'allevamento o di qualche coltura. Se il colono non rispettava l'obbligo di lavorare per conservare il valore del bene, questo non ritornava al proprietario, ma passava alla compagnia che lo metteva in vendita.
La compagnia del fondamento non era proprietaria delle saline - lo divenne sicuramente a partire dal secolo successivo, quando non riuscì più a trovare acquirenti per le saline che metteva in vendita - ma i consortes usufruivano di notevoli prerogative, anche nei confronti del proprietario del fondo. Così, per esempio, nel 1067, la concessione della costruzione del fondamento destinato a portare il nome di Gradenigo Maggiore era stata sanzionata da una carta molto dettagliata che permette di apprezzare l'importanza e il peso degli obblighi collettivi che ricadevano sul lavoro del sale e delle saline. In caso di vendita delle saline, se i discendenti dei consortes (che avevano una priorità assoluta sull'acquisto), e in seconda istanza il proprietario Pietro Gradenigo (nel caso che avesse rinunciato al diritto di prelazione), si erano rifiutati di comprare o di versare il prezzo fissato dai boni homines, le saline potevano essere vendute al di fuori del cerchio degli aventi diritto più immediati e si sarebbe proceduto alla divisione del ricavato della vendita:
Del prezzo che otterremo delle saline, dovremo avere in cambio delle nostre saline 50 mancus per l'opera del nostro fondamento. Ed in più terremo per noi 24 parti e voi ne riceverete similmente una, e ugualmente il censo di un giorno di sale al quale avete diritto per tutte le nostre saline.
Ecco dunque cos'era il quintello: la compagnia comincia con il prelevare sul ricavato della vendita 50 mancusos, una grossa somma, destinati alla fabbrica del fondamento, mentre il resto viene suddiviso fra i membri della compagnia, e solo I/25 va al proprietario.
Terza ipotesi. A Pietro Gradenigo, che al termine dei lavori di costruzione avrebbe ricevuto una salina nella sua riserva, i consortes avevano ricordato:
per la salina che dovremo consegnarvi pronta all'uso, voi dovrete oramai lavorare con noi al domnicum, ed eseguire al domnicum del nostro fondamento i compiti che spettano a questa salina.
In questo atto la capacità giuridica e il potere economico della compagnia si impongono in due modi: prima di tutto ha proceduto alla vendita delle saline, perché senza il suo lavoro collettivo non ci sarebbero né saline né produzione di sale nelle tenute (saline); poi ha suddiviso il ricavato netto della vendita fra i consortes e il padrone; infine ha segnalato al proprietario che in cambio della salina consegnatagli egli deve contribuire alla manutenzione del domnicum. Ma la manutenzione richiede del denaro, e dall'introito della vendita delle saline la compagnia storna 50 mancusos per le riparazioni del fondamento. In un simile sistema scompare totalmente la nozione di proprietà, e al suo posto compare un sovrapporsi di diritti, di doveri e di usufrutti, gestiti dalla collettività che ne impone a ciascuna delle parti - vuoi il proprietario del fondo vuoi gli affittuari delle tenute - il rispetto o l'esecuzione.
È ovvio che nel fondamento è indispensabile l'esecuzione di lavori collettivi. Il dominio dell'acqua si è sempre accompagnato a un lavoro collettivo a squadre e a strutture coercitive. Nel fondamento esistono parti esclusive, le saline in cui si raccoglie il sale, oggetto di appropriazione privata e di lavoro familiare, e parti comuni che restano nella parte indivisa, in cui non si produce il sale, ma la cui manutenzione, o semplicemente la conservazione, sono indispensabili a un corretto funzionamento della salina; parti comuni che comprendono le vasche evaporanti, dove giunge l'acqua del mare, i bacini dove avviene la prima evaporazione, i canali interni, la potente diga che racchiude e protegge l'acquitrino, il canale esterno e la saracinesca che controlla l'entrata dell'acqua marina: è indispensabile curare i fossati e la prima vasca, consolidare la diga, riparare le brecce, rifare la saracinesca (28).
Questi lavori collettivi esigevano molto materiale, molto denaro e molte settimane di lavoro a primavera, e tutti i consortes contribuivano a questi lavori in proporzione al numero delle loro saline. A quanto pare, nei fondamenti di Venezia esisteva un sistema coercitivo che, fra il X e il XII secolo, aveva adottato le caratteristiche dell'economia demaniale vale a dire la corvée di lavoro nelle saline della riserva ma che era di origine più antica e che sopravvisse alla scomparsa della pars dominica, perché il controllo dell'acqua esigeva assolutamente degli obblighi collettivi rigorosi. Anche il lavoro collettivo al domnico sembra che sia mutato nel corso del tempo: fra X e XII secolo presentava un doppio carattere di lavoro nella riserva e di lavoro indiviso di manutenzione del sistema di dighe, mentre in seguito, con l'abbandono della gestione diretta e della riserva da parte del grande proprietario, sopravvisse solo il secondo carattere.
Da allora le factiones, le corvées passarono a indicare i lavori collettivi di manutenzione delle parti indivise, chiamate ormai "domnicum" per un comprensibile slittamento del significato del termine. Il domnico, che aveva caratterizzato la riserva demaniale gestita dalle prestazioni collettive gratuite, dopo la scomparsa di questa riserva, lottizzata o ceduta collettivamente alla compagnia dei consortes, era passato a indicare tutte le parti indivise del fondamento la cui manutenzione era affidata al lavoro collettivo e gratuito dei componenti della compagnia. L'elemento comune a queste successive definizioni di una stessa nozione è il lavoro collettivo, la prestazione gratuita, e tuttavia, in ambedue i casi, l'obbligo del lavoro gratuito deriva dal possesso della salina, sia in nome di una necessità sociale (il rapporto che legava l'affittuario al proprietario e che si traduceva in lavoro gratuito nella riserva), sia in nome di una necessità tecnica (l'assenza di manutenzione delle parti in cui si opera la concentrazione della salamoia, con il conseguente arresto, a breve termine, della produzione nella salina).
Bisogna ora affrontare un altro problema pieno di punti oscuri: chi sfruttava le saline? Chi effettuava la raccolta del sale? È prudente rispondere che erano i livellari enfiteuti, poiché il contratto di livello li obbligava a coltivare bene, a conservare in buono stato e ad apportare migliorie?
Il livellario poteva essere un personaggio importante, un nobile veneziano che per una quantità di ragioni non poteva piegarsi al duro lavoro delle saline, sia che, risiedendo a Venezia, si fosse trovato nell'impossibilità materiale di recarsi ogni giorno con la barca nei dintorni di Chioggia per coltivare le sue saline, sia che si fosse dedicato ai traffici nelle acque del Levante o del Maghreb, o che avesse fatto parte, accanto al Doge, dei consigli che cominciavano a costituire la curia Palatii. Aveva allora la facoltà di affidare lo sfruttamento ad altri, a salinari di professione, educati al delicato tirocinio del trattamento delle acque fino a ottenere la cristallizzazione del sale. Lo statuto di questi lavoratori può essere assai differenziato; nell'agosto del 1118, a esempio, Privigna ("qui olim fuit homo Fulconis de Molino"), aveva preso l'impegno (vadimonium) con due fratelli da Molin di coltivare una vigna e tutte le loro saline a Chioggia, e di consegnare la metà del raccolto di vino e di sale (notiamo incidentalmente che esistono a Chioggia numerosi altri esempi salinari-viticoltori); nel caso che il Privigna non avesse adempiuto ai suoi obblighi, lavorare e pagare la rendita, avrebbe dovuto dare ai proprietari una compensazione di 1.000 lire. Il testo è assai interessante. Il salinaro che era stato "l'uomo" di Fulco si vedeva imporre un affitto a metà, e se si rifiutava di lavorare o non saldava la rendita, doveva versare un'ammenda che costituiva una vera e propria fortuna: è vero che aveva conquistato la libertà giuridica, ma aveva sicuramente rinunciato alla libertà economica ed era costretto a lavorare. Si trovano altri affitti "a metà": quello che dal 1143 legava un salinaro ai fratelli Michiel, o quello del monastero di San Zaccaria per due saline nel fondamento Gradenigo in cui il salinaro lavorava ad medietatem (29).
Nella laguna veneta, fra la metà del X secolo e la fine del XII, l'economia legata al sale era caratterizzata dai seguenti elementi: la supremazia schiacciante della grande proprietà, costituitasi in genere a opera delle grandi famiglie aristocratiche e dei potenti monasteri cittadini a spese dei beni del palazzo; una valorizzazione sistematica alla quale però non concorrono gli investimenti dei proprietari; importanti cambiamenti di proprietà che avvenivano secondo due vie privilegiate, da prima attraverso la trasmissione testamentaria a un piccolo numero di grandi istituti ecclesiastici, specie ai monasteri benedettini costruiti nella città, poi tramite il pignoramento dei beni conseguente all'impossibilità di restituire dei prestiti a usura accordati a condizioni esorbitanti, con durata del prestito spesso limitata a quindici giorni o tre settimane, raddoppio del capitale allo scadere del termine, istituzione di pegni con interesse annuo del 20% (questi diversi dati costitutivi del credito - di cui il più draconiano non è tanto il tasso di credito quanto il raddoppio del capitale dimostrano quanto fosse elevato il costo del denaro in una economia terriera ancora debolmente monetarizzata, anche se, con il sale, si dà inizio a una produzione integralmente commercializzata); un tipo di sfruttamento tipico dell'economia demaniale fondata sull'esistenza di piccoli fondi affittati - unità di sfruttamento familiari che disponevano di una grandissima autonomia rispetto alla grande proprietà di cui erano costitutive -, sul lavoro obbligatorio della riserva e la manutenzione delle parti indivise "dominicali", sul versamento di rendite diverse ai proprietari, molto più attenti a percepire queste rendite che a occuparsi della proprietà del bene; una divisione dello stesso concetto di proprietà fra il fondo (fondamento) e la parte produttiva (salina) che non esisterebbe senza il lavoro del salinaro, la cui importanza è sancita dall'estensione dei diritti concessi dal proprietario al suo affittuario. Venezia non sarebbe più Venezia se la formazione economica e sociale fin qui descritta non presentasse alcune peculiarità, in particolare il fatto che i salinari costituivano una comunità di uomini liberi, che dovevano al padrone del bene alcune prestazioni in lavoro, in denaro e in natura come conseguenza di una subordinazione di carattere esclusivamente economico. Il padrone non esercitava sui coloni un potere personale diretto. Nonostante la forte influenza di cui disponeva ai vertici dello stato, resterà un grande proprietario senza diventare mai un signore, forse perché si trovava di fronte due ostacoli: ai vertici dello stato, proprio l'affermazione a Venezia del potere ducale dopo le crisi del X secolo; sul piano locale, il permanere a Chioggia di potenti istituzioni municipali che rinsaldavano la solidarietà all'interno delle comunità (consorzi) di salinari. Un simile sistema economico e sociale ci sembra più vicino al feudalesimo che a qualunque altra forma di governo, anche se la solidità dei due poteri che si vanno affermando a Venezia e a Chioggia impedirà sempre all'aristocrazia fondiaria - laica o religiosa - di trasformarsi in un feudalesimo fermamente costruito sui suoi beni lagunari. Lontano dal centro politico, nell'impero che stava per essere conquistato, questa aristocrazia non incontrerà nessuna difficoltà a trasformarsi in una feudalità di cui aveva già sperimentato, proprio nella laguna, la maggior parte degli ingranaggi.
Traduzione di Paola Piacentini
1. Non era possibile, data la natura di questo saggio, indicare la fonte di ognuno dei 494 documenti su cui si basa questo lavoro di storia quantitativa. Nella misura del possibile vengono indicati la data e il nome del monastero quando si cita un fatto specifico, nella speranza di facilitare in tal modo il lavoro dei ricercatori. La nostra ricerca è stata facilitata dall'esistenza del Codice diplomatico veneziano, opera di Luigi Lanfranchi, che vi aveva riunito tutti i documenti (pergamene) relativi alla storia di Venezia anteriori al 1200. Questo prezioso Codice dattiloscritto si trova all'Archivio di Stato di Venezia, e Lanfranchi lo ha messo a nostra disposizione con sollecita generosità fin dal 1958. L'edizione di queste fonti continua attivamente con il patrocinio del Comitato per la Pubblicazione delle fonti relative alla storia di Venezia, in particolare della sez. II - Archivi ecclesiastici. Rimandiamo dunque alle indicazioni che si trovano nella bibliografia generale del volume. La storia del sale e delle saline della laguna non era stata mai esaminata, fatta eccezione per alcuni storici tedeschi dell'inizio del secolo, come Margaret Merores e Klemens Bauer, che ne avevano cominciato lo studio; siamo perciò costretti a rimandare il lettore alle nostre ricerche, di cui vengono qui presentati i risultati più recenti, arricchiti via via più dalla nostra conoscenza dell'economia saliniera che dalla scoperta di nuovi documenti. Alcuni dei lavori elencati sono ormai superati, soprattutto nelle analisi e nelle interpretazioni che allora presentavano, ma il supporto documentario è rimasto valido.
2. Se ne troverà la lista in Jean-Claude Hocquet, Histoire et cartographie : les salines de Venise et Chioggia au Moyen Age, "Atti dell'Istituto di Scienze, Lettere e Arti", 128, 1970, pp. 567-574, mentre della evoluzione del loro numero si tratta in un altro articolo dello stesso: Expansion, crises et déclin des salines dans la Lagune de Venise au Moyen Age, in AA.VV., Catalogo della mostra storica della laguna veneta, Venezia 1970, pp. 87-99.
3. Giuseppe Marzemin, Sulla antichissima salina scoperta nel bacino di San Marco, "Ateneo Veneto", 127, 1940, pp. 283-290.
4. Jean-Claude Hocquet, Le sel et la fortune de Venise, I, Production et monopole, Lille 19822, pp. 180-182.
5. Id., Il sale e l'espansione veneziana nel Trevigiano (secoli XIII-XIV, in AA.VV., Istituzioni, società e potere nella Marca trevigiana e veronese (secoli XIII e XIV) sulle tracce di G. B. Verci, a cura di Gherardo Ortalli - Michael Knapton, Roma 1988 (Istituto storico italiano per il Medio Evo, Studi Storici, 199-200), pp. 272-273 (pp. 271-290).
6. Id., Histoire et cartographie, p. 541.
7. Ibid., pp. 557, 569, 571, 573, dove sono segnalati i fondamenti distrutti o in ricostruzione nei diversi settori della laguna.
8. Roberto Cessi, Il problema della Brenta dal secolo XII al secolo XV, in AA.VV., La laguna di Venezia, I, 4, Venezia 1943, pp. 1-77.
9. J.-C. Hocquet, Histoire et cartographie, pp. 568-569
10. Id., Expansion, crises et déclin, pp. 98-99.
11. Roberto Cessi, Pactum Clugie, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti", 87, 1927-1928, pp. 991-1023.
12. Jean-Claude Hocquet - Jacqueline Hocquet, Le vocabularie des techniques du marais salant au Moyen Age. Contribution à une étude des termes en usage sur les côtes de l'Adriatique, "Mélanges d'Archéologie et d'Histoire de l'Ecole Française de Rome", 86, 1974, pp. 527-552.
13. Jean-Claude Hocquet, Die jährliche Instandsetzung der venezianischen Salinen am Ende des Mittelalters, in AA.VV., Symposion Salz-Arbeit und Technik, Produktion und Distribution in Mittelalter und Früher Neuzeit, a cura di Christian Lamschus, Lüneburg 1989, pp. 28-29 (pp. 25-38).
14. Ibid., p. 30; Henri Muchard, Le sel de mer dans le monde, tesi di diritto e scienze economiche, Montpellier 1968, p. 26.
15. J.-C. Hocquet, Die jährliche Instandsetzung, pp. 34-35 (appendice tecnica), 36.
16. Ibid., pp. 35-36.
17. Id., Grandi lavori e economia demaniale a Venezia (X-XIV secolo), in AA.VV., Ars e Ratio. Dalla torre di Babele al ponte di Rialto, a cura di Jean-Claude Marie Vigueur - Agostino Paravicini Bagliani, Palermo 1990, pp. 169-170 (pp. 167-191).
18. Ibid., p. 175.
19. Id., Le sel à Venise de l'an Mil au début du XIVe siècle, Tesi Di Laurea, Lille 1959, Pp. 152-155; Irmgard Fees, Reichtum und Macht mittelalterlichen Venedig. Die Familie Ziani, Tübingen 1988, pp. 103-115.
20. La seguente raccolta, che riguarda gli interessi dei diversi rami della famiglia Gradenigo, è stata composta grazie ai documenti dell'Archivio di Stato di Venezia: Mensa Patriarcale, San Cipriano, P 319, 1037; SS. Maria e Donato di Murano, b. 4, Proc. 18 a (1042); San Giorgio Maggiore, Proc. 119 (1067, 1075 [due docc.], 1092), Proc. 120 (1141 [due docc.], 1161, 1170, 1175 [due docc.], 1186 [due docc.], 1188 [due docc.], 1192 [due docc.], 1195); San Giovanni Evangelista di Torcello, b. 1 (1079, 1083, 1157 [due docc.], 1162, 1165, 1186); San Zaccaria, b. 31 perg. (1184, 1185); Codice Trevisaneo, c. 171 (1097). Cf. anche SS. Trinità e S. Michele Arcangelo di Brondolo, II, Documenti 800-1199, a cura di Bianca Lanfranchi Strina, Venezia 1981, doc. nr. 136 (1159), pp. 248-251. La maggior parte di questi documenti è stata edita dal Comitato per la pubblicazione delle fonti relative alla storia di Venezia, sez. II - Archivi Ecclesiastici: San Giovanni Evangelista di Torcello (1024-1199), a cura di Luigi Lanfranchi, Venezia 1948; San Lorenzo (853-1199), a cura di Franco Gaeta, Venezia 1959; San Giorgio Maggiore (982-1199), I-II, a cura di Luigi Lanfranchi, Venezia 1968.
21. Jean-Claude HocqueT, Il sale e il potere. Dall'anno mille alla Rivoluzione francese, Genova 1990, pp. 66-73, sull'appetito dei monaci per il sale e le saline costruite da altri.
22. Bruno Paradisi, Massaricium jus, Bologna 1937, pp. 138-144; Sergio Pivano, Contratti agrari in Italia nell'alto Medioevo, Torino 1904, p. 233; Sergio Pivano, Precarie e livelli, Torino 1962, p. 91; Karol Modzelewski, La transizione dall'antichità al feudalesimo, in AA. VV., Storia d'Italia, Annali, I, Dal feudalesimo Al Capitalismo, Torino 1978, pp. 62-63 e 95.
23. J.-C. Hocquet, Grandi lavori e economia demaniale,
pp. 170-172.
24. Ibid., p. 172.
25. Ibid., pp. 172-173.
26. Ibid., p. 173.
27. Ibid., p. 174.
28. Sul lavoro alla salina nella laguna di Venezia nel Medioevo v. Id., Technologie du marais salant et travaildu saunier dans la Lagune de Venise au Moyen Age, "Studi Veneziani", n. ser., 9, 1985, pp. 15-41.
29. Id., Grandi lavori e economia demaniale, p. 179.