Le sanzioni pecuniarie civili
Il d.lgs. 15.1.2016, n. 7, dando attuazione alla delega contenuta nella l. 28.4.2014, n. 67, ha introdotto nell’ordinamento giuridico italiano, in modo tendenzialmente organico ma ancora molto sommario, la figura dei danni punitivi, acquisita dall’esperienza degli ordinamenti anglosassoni. L’ispirazione di fondo della normativa è intesa da un lato a deflazionare il carico penale degli uffici giudiziari, e dall’altro a sperimentare il funzionamento di un nuovo istituto, varato mediante abrogazione di alcune minori fattispecie di reato, tutte caratterizzate dalla rilevanza privatistica e dalla perseguibilità a querela. Il contributo che segue si propone di descrivere le linee fondamentali della riforma, mettendone in luce sia le interessanti peculiarità in termini di diritto sostanziale, sia le prevedibili criticità del procedimento, che viene affidato al giudice civile, ma senza una chiara indicazione degli istituti di diritto processuale effettivamente applicabili.
La l. 28.4.2014, n. 67 ha delegato il Governo ad adottare decreti legislativi diretti alla riforma del sistema sanzionatorio penale, sul duplice percorso della depenalizzazione di una nutrita serie di reati, da trasformare in illeciti amministrativi, e dell’abrogazione di un limitato numero di reati, con la contestuale previsione di sanzioni pecuniarie civili applicabili alle medesime condotte delineate nelle fattispecie incriminatrici. Le linee politiche sottese a questa scelta rispecchiano dichiaratamente l’esigenza di deflazionare il carico penale degli uffici giudiziari italiani1, ma occorre anche considerare che la riforma non avrà praticamente nessun effetto sul sistema penitenziario – data la ridotta gravità degli illeciti depenalizzati o trasformati in illeciti civili – mentre ne avrà sicuramente qualcuno, sfavorevole, sul già imponente carico del contenzioso civile, benché non sia stata compiuta alcuna specifica valutazione dell’impatto normativo su tale versante.
Mentre lo strumento della depenalizzazione ha storicamente conosciuto molteplici occasioni di impiego, la previsione di illeciti puniti con sanzioni pecuniarie civili è strumento del tutto nuovo, che introduce nell’ordinamento giuridico italiano, per la prima volta in modo organico, la figura dei “danni punitivi”, palesemente ispirati all’istituto dei punitive damages degli ordinamenti di common law. In realtà, ipotesi di sanzioni civili con caratteristiche anche punitive non sono del tutto assenti nel diritto italiano2, ma non v’è dubbio che prima della l. n. 67/2014 non esistesse alcuna disciplina dell’istituto, quale emerge dal decreto attuativo, che apre prospettive di rilievo nel rapporto tra sistema sanzionatorio penale e sistemi sanzionatori amministrativo e civile, in un contesto giuridico finora caratterizzato da una storica tendenza inflazionaria delle fattispecie penali, spesso correlate a condotte non particolarmente rilevanti dal punto di vista dell’allarme sociale.
Con il d.lgs. 15.1.2016, n. 73, dunque, il Governo ha dato attuazione alla delega per la parte concernente l’abrogazione di un ridottissimo numero di fattispecie di reato e la previsione, per le stesse condotte, di sanzioni civili pecuniarie, mentre con il parallelo d.lgs. 15.1.2016, n. 8 è stata prevista la depenalizzazione di un ben più ampio ventaglio di reati minori, trasformati in illeciti amministrativi.
La legge delega si fonda, per quanto qui d’interesse, su tre capisaldi, che sono:
a) l’individuazione delle fattispecie di reato abrogate4;
b) la previsione di sanzioni da applicare a condotte riconducibili a quelle proprie dei reati da abrogare5, in aggiunta al risarcimento del danno;
c) la previsione di un criterio di proporzionalità delle sanzioni in relazione alla gravità delle violazioni, alla reiterazione dell’illecito, all’arricchimento del soggetto responsabile, all’opera svolta dall’agente per l’eliminazione o l’attenuazione delle conseguenze, alla personalità dell’agente e alle sue condizioni economiche.
Nell’attuare la delega, il Governo si è sostanzialmente attenuto ai principi direttivi, fatta eccezione per una radicale riscrittura dell’art. 635 c.p., sottratto alla misura di abrogazione6, che ha infine riguardato i soli artt. 485, 486, 594, 627 e 647 c.p., a fronte di che l’art. 4 del decreto ha delineato le fattispecie tipiche (sostanzialmente corrispondenti alle condotte già punite penalmente) oggi colpite con sanzione civile, con i conseguenti adattamenti delle norme del codice penale.
Dal punto di vista sistematico il d.lgs. n. 7/2016 può essere suddiviso in diverse aree logiche, delle quali una (art. 1) contenente la vera e propria abrogazione delle cinque norme dapprima richiamate; un’altra (art. 2) contenente le modifiche al codice penale rese necessarie dallo scopo di armonizzare le norme non abrogate con quelle oggetto dell’abolitio criminis; un’altra (artt. 37) riguardante la natura e la tipologia degli illeciti civili; un’altra (art. 8) riguardante le norme procedimentali; un’altra (artt. 910) contenente le norme sull’esecuzione. Infine, l’art. 12 contiene la disciplina transitoria, non priva di alcune criticità, come verrà meglio evidenziato nel prosieguo.
Non rinvenendosi particolari difficoltà interpretative nell’analisi dell’art. 1, occorre invece soffermarsi su altri e più rilevanti aspetti del decreto legislativo.
Come già visto, la riforma del sistema sanzionatorio tratteggia una disciplina tendenzialmente sistematica delle sanzioni punitive, limitandone peraltro l’impatto – forse in una prospettiva di prima sperimentazione di un istituto del tutto nuovo – a poche ipotesi, riguardanti taluni minori reati contro la fede pubblica, contro l’onore e contro il patrimonio, connotati dalla rilevanza soprattutto privata e dalla perseguibilità a querela. In luogo della sanzione penale, inoltre, viene introdotta una sanzione pecuniaria civile, la cui previsione non è senza conseguenze sulla natura stessa della responsabilità civile, che da strettamente compensativa assume anche funzione punitiva e preventiva, sulla base di una visione generale che evoca il principio di sussidiarietà della repressione penale – benché, si ripete, il ristretto numero dei reati aboliti non consenta di scorgere nella riforma altro che una tendenza verso la realizzazione di tale principio (v. anche in questo volume, Diritto civile, 4.1.2 Danni punitivi).
Il legislatore delegato ha omesso di dare attuazione alla delega per la parte riguardante, come s’è visto, il reato di danneggiamento, totalmente riformulato dall’art. 2 d.lgs. n. 7/2016 mediante la trasformazione delle ipotesi circostanziali in fattispecie autonome7. La stessa norma ha inoltre apportato modifiche agli artt. 635 bis, 635 ter, 635 quater e 635 quinquies c.p., in conseguenza della necessità di coordinare le norme suddette con la sostituzione dell’art. 635. Identica misura di armonizzazione è stata inoltre introdotta dallo stesso art. 2 del decreto con riferimento agli artt. 488, 489, 490, 491, 491 bis, 493 bis, 596, 597, 599 c.p.
Rilievo sistematico centrale assumono senz’altro gli artt. 3 e 4 d.lgs. n. 7/2016, che rispettivamente delineano la natura della responsabilità relativa ai nuovi illeciti civili e la descrizione delle condotte costitutive di tale responsabilità. Giova fin da subito mettere in evidenza che l’art. 4, co. 1 e 4, distingue due gruppi di illeciti, prevedendo per essi altrettante, diverse sanzioni8, correlate alla diversa gravità delle fattispecie. Queste, come già visto, descrivono le medesime condotte racchiuse nelle norme abrogate, tra esse compresa una peculiare ipotesi di danneggiamento «al di fuori dei casi di cui agli articoli 635, 635 bis, 635 ter, 635 quater e 635 quinquies del codice penale».
Quanto all’art 3 del decreto, è agevole coglierne il ruolo cruciale, laddove prevede l’applicabilità delle sanzioni civili ai fatti previsti dall’art. 4, se commessi con dolo. La norma prevede esplicitamente un parallelismo tra risarcimento del danno (o restituzione) e sanzione pecuniaria civile, in una prospettiva che assume anche valenza processuale, poiché è l’art. 8, sul procedimento, a chiarire che la decisione sulla sanzione segue quella di accoglimento della domanda risarcitoria o restitutoria. Importante è il presupposto doloso, che palesemente mira a mantenere un profilo sanzionatorio analogo a quello già racchiuso nelle norme abrogate. Anche il richiamo alla colpa grave, tipico degli ordinamenti anglosassoni in materia di danni punitivi, è stato consapevolmente escluso dalla riforma. Rilevante, inoltre, è la qualificazione della responsabilità come civile, così come emerge non solo dalla rubrica della norma, ma soprattutto dall’applicabilità dell’art. 2947, co. 1, c.c., riguardante il termine prescrizionale breve previsto per il risarcimento del danno; scelta di evidente ragionevolezza, poiché in tal modo si garantisce un parallelismo tra azione risarcitoria e sanzione.
La natura di tale responsabilità, peraltro, va al di là della normale funzione riparatoria e compensativa propria della responsabilità civile, poiché chiara è la vocazione pubblicistica e di prevenzione generale a essa sottesa. In tal senso militano sia l’obbligo, e non la facoltà, per il giudice di applicare la sanzione, laddove accolga la domanda risarcitoria; sia la devoluzione della sanzione in favore della Cassa delle ammende9, introdotta dal legislatore delegato, pur in assenza di direttive della legge delega; sia, infine, la previsione espressa che l’obbligo di pagare la sanzione non si trasmette agli eredi (art. 9, co. 6) e che non è consentita alcuna forma di copertura assicurativa; indici che confermano ulteriormente come la sanzione sia da considerare strettamente personale e non assimilabile ad alcuna obbligazione patrimoniale.
Questioni si potrebbero porre a proposito della qualificazione della responsabilità, che la rubrica dell’art. 3, al pari del richiamo all’art. 2947 c.c., sembra orientare verso il paradigma aquiliano, con la rilevante novità, peraltro, di una tipizzazione delle fattispecie che non si ha modo di riscontrare nella responsabilità extracontrattuale. Seppur in un obiter dictum formulato in ambito penale, la già citata Cass. pen. n. 7125/2016 afferma appunto che l’illecito donde scaturisce la responsabilità è esattamente lo stesso che può dare fondamento alla sanzione punitiva, e questo rilievo concorre a far sostenere la tesi dell’introduzione di una serie di fattispecie tipiche di responsabilità aquiliana. Tesi che, alla luce degli indicatori normativi sopra richiamati, appare di gran lunga preferibile, con esclusione quindi della possibilità di rinvenire ipotesi di obblighi risarcitori derivanti da responsabilità contrattuale10.
L’art. 8 del decreto contiene, praticamente, l’intera disciplina processuale applicabile, che si compendia peraltro nel rinvio alle norme del codice di rito civile, in quanto compatibili. Di fatto, lo scarno richiamo appena descritto apre diverse incertezze interpretative, che di sicuro non trovano risposta nel d.lgs. n. 7/2016, e la cui soluzione dovrà essere necessariamente rimessa alla giurisprudenza.
Quelli che seguono sono i non molti elementi emergenti con chiarezza dalla norma.
In primo luogo, il procedimento è attribuito alla cognizione dello stesso giudice competente a conoscere dell’azione risarcitoria proposta dal danneggiato; scelta che fonda un’ipotesi di competenza funzionale e che conferma il parallelismo stretto tra azione risarcitoria e sanzione civile.
In secondo luogo, e proprio per la ragione appena esposta, la sanzione deve essere applicata solo in caso di accoglimento della domanda e solo se il giudice riconosce sussistere il profilo doloso richiesto dall’art. 3, co. 1; la dizione della norma non può lasciare dubbi sul fatto che si tratti di un obbligo per il giudice, e non di una mera facoltà. Se uno spazio di discrezionalità esiste, esso non può andare oltre la determinazione della sanzione tra i minimi e i massimi dettati dall’art. 4 del decreto.
La sanzione, infine, non è applicabile qualora l’atto introduttivo del giudizio sia stato notificato ai sensi dell’art. 143 c.p.c., fatti salvi i casi in cui il convenuto si sia costituito o risulti dimostrato che abbia avuto conoscenza del giudizio. Previsione che appare chiaramente collegata alla necessità di garantire quanto più possibile il contraddittorio, a cospetto di un procedimento con possibili ricadute sanzionatorie11.
L’articolazione della norma conferma, in primo luogo, che non può darsi alcuna pronuncia sulle sanzioni civili senza parallela proposizione della domanda risarcitoria. D’altra parte, il danneggiato che agisce per il risarcimento non è tenuto a svolgere alcuna domanda riguardante la sanzione civile, che deve essere applicata comunque dal giudice in via d’ufficio, sempre che ne esistano i presupposti. Conseguenza di ciò potrebbe essere la possibilità di configurare una deroga al principio della domanda12, apparendo altresì fuor di dubbio l’insussistenza di alcuna legittimazione e di alcun interesse del danneggiato.
Peraltro, la questione è mal posta, poiché l’applicazione della sanzione si profila, nel dettato normativo, come un effetto legale dell’accoglimento della domanda risarcitoria, a cospetto di fatti illeciti commessi con dolo. Va evidenziato che a ben vedere il giudice deve comunque conoscere dei presupposti della sanzione, per la semplice ragione che il processo decisionale in materia risarcitoria si basa anche sulla ricognizione di due dei fondamentali requisiti della responsabilità civile, che sono appunto il dolo o la colpa. Nel momento in cui il giudice ravvisi l’esistenza del secondo elemento, non sarà tenuto ad alcuna pronuncia sulla sanzione, nemmeno per escluderla (ovvio che non vi sarebbe un eccesso di motivazione laddove il giudice argomentasse, in negativo, sull’esclusione dei presupposti della sanzione).
Di contro, una volta accertata la sussistenza del dolo, e ancor prima la riferibilità del fatto a una delle fattispecie tipiche, al giudice non resta altro che determinare la sanzione, in difetto di che vi sarebbe un’omissione di pronuncia che, se da una parte rischia di sottrarre l’introito derivante dalla sanzione stessa (onde un assai ipotetico danno erariale, che peraltro non sarebbe determinabile nel quantum, attesa la notevole consistenza del divario tra minimo e massimo) da un’altra parte integrerebbe profili di responsabilità disciplinare del giudice.
L’intervento di parte, quindi, non va oltre la domanda risarcitoria, che è in certo senso l’occasione di un particolare processo a doppio oggetto, uno dei quali sottratto ai poteri d’iniziativa delle parti, la cui interlocuzione sul punto della sanzione civile non appare peraltro inammissibile, posto che, almeno nella prospettiva dell’art. 101 c.p.c., sarebbe in ogni caso necessario garantire il contraddittorio su un punto in grado di avere ricadute importanti per una delle parti stesse – secondo le medesime linee opera del resto il divieto di applicazione della sanzione allorché l’atto introduttivo sia stato notificato con il rito degli irreperibili.
Pur nel silenzio del decreto, non possono sorgere dubbi sul fatto che il giudizio debba essere proposto secondo applicazione delle ordinarie regole di competenza per valore stabilite dagli artt. 7 e 8 c.p.c.; poiché una comune domanda risarcitoria del valore non superiore a cinquemila euro può essere proposta anche dinanzi al giudice di pace13 , si deve ritenere che la domanda ben possa essere introdotta dinanzi a tale giudice, con la conseguenza di rimettere alla sua cognizione fatti storici che, quando ancora puniti penalmente, non erano tutti di sua competenza – si pensi alle condotte riguardanti la falsità in atti. Ove ricorra la competenza del tribunale la causa andrà attribuita alla cognizione del giudice monocratico, secondo quanto previsto dall’art. 50 ter c.p.c. Nessun dubbio, per concludere sul punto, circa l’applicabilità delle norme sul rito sommario di cognizione.
Come già esposto in precedenza, non è ravvisabile in capo all’attore né la legittimazione né l’interesse a proporre istanza di applicazione della sanzione civile, in virtù appunto della sua natura pubblicistica e officiosa, che non consente di ravvisare alcuna forma di tutela a favore della parte privata. Per contro, come già esposto, si deve ritenere in re ipsa l’interesse del convenuto a interloquire sulla possibilità che gli sia irrogata una sanzione all’esito del giudizio, e ciò comporta inevitabilmente che le istanze probatorie svolte dal medesimo su tale punto debbano essere valutate secondo i comuni canoni.
Più in generale, si deve osservare che l’art. 8 non contiene alcuna indicazione circa il regime probatorio applicabile, che peraltro, in virtù della clausola di compatibilità contenuta nel co. 4, non può che essere quello del codice di rito civile, benché alcune esigenze di adattamento s’impongano immediatamente.
In primo luogo, occorre tenere ben presente che il giudizio sull’irrogazione della sanzione s’innesta sul tronco di un comune procedimento civile, governato dal principio dispositivo. In ragione di ciò, l’interesse dell’attore sarà diretto alla dimostrazione dei fatti costitutivi del proprio diritto al risarcimento del danno, non già alla prova dei presupposti della sanzione, sui quali egli non potrebbe nemmeno interloquire, appunto in virtù del difetto d’interesse di cui s’è detto. In concreto potrà quindi presentarsi l’anomala situazione di un giudizio compiutamente istruito sotto il profilo della domanda risarcitoria, ma non altrettanto sotto il profilo della sanzione civile. Benché il giudizio, su questo punto, assuma i contenuti propri dell’accertamento penale, in quanto diretto all’applicazione di una sanzione punitiva, si deve ritenere che la scelta del legislatore verso il paradigma del processo civile impedisca di ipotizzare poteri inquisitori del giudice, ferma restando la necessità che egli solleciti le parti (o, per meglio dire, il convenuto, che è l’unica parte effettivamente munita di interesse) a interloquire sulla sanzione, e quindi a svolgere istanze istruttorie su quello specifico punto.
Nella pratica il problema potrebbe rivelarsi solo teorico, poiché l’applicabilità del rito monocratico e, soprattutto, del procedimento sommario di cognizione, comporterà di norma un significativo ricorso ai poteri ufficiosi del giudice14, ma sempre entro i limiti del codice di procedura civile.
Entro gli stessi limiti, peraltro, agirà la regola di giudizio applicabile, che pur a cospetto di un giudizio in parte sanzionatorio non potrà che essere quella deducibile dal combinato disposto degli artt. 115 e 116 c.p.c., dovendosi senz’altro escludere che il giudice in sede civile possa pronunciarsi su fattispecie non più di natura penale applicando i criteri propri del processo penale.
La decisione di accoglimento della domanda, come già visto in precedenza, può avere un duplice esito: applicazione della sanzione civile, se il giudice ha ravvisato la natura dolosa dell’illecito; semplice accoglimento della domanda risarcitoria, nel caso in cui l’illecito rivesta natura solo colposa.
Nulla dice l’art. 8 del decreto, infine, sul regime delle impugnazioni, che può invece presentare aspetti di rilevante problematicità nell’applicazione pratica, a causa della particolare natura delle sanzioni civili.
Invero, se nessuna questione particolare può sorgere nel caso di condanna del convenuto al risarcimento del danno, e di applicazione della sanzione in suo danno, occorre rilevare che nel diverso caso di condanna non seguita dalla sanzione di sicuro non ci sarebbe alcuna legittimazione dell’attore a impugnare la decisione per la parte riguardante, appunto, la sanzione stessa. D’altro lato, ben si potrebbe dare l’ipotesi di gravame del convenuto, condannato al risarcimento del danno e colpito dalla sanzione, solo nei confronti del capo della decisione riguardante quest’ultima. È a questo riguardo che sembra sorgere il più rilevante problema di legittimazione, posto che l’attore di sicuro non avrebbe alcun interesse a stare in grado d’appello per una questione che riguarda, come ripetutamente esposto, un profilo pubblicistico. E d’altra parte appare impensabile ipotizzare un giudizio d’appello senza le parti private; sicché, per evidenti necessità di coerenza sistematica, si deve propendere per la necessaria presenza anche dell’altra parte, sebbene priva di interesse rispetto al capo della decisione riguardante la sanzione.
Altra questione che si profila è quella dei poteri del giudice in appello, sempre con riferimento all’irrogazione della sanzione, laddove questa non abbia trovato applicazione in primo grado. La natura stessa della sanzione, che evoca l’esercizio di poteri officiosi del giudice, impone di ritenere che in appello il giudice debba senz’altro applicare la sanzione, qualora ne ravvisi i presupposti costitutivi. Si deve invece escludere che il giudice del gravame possa, d’ufficio, modificare la sanzione perché ritenuta inadeguata o comunque malamente applicata. Sembra ovvio che un’ipotesi di tal genere cozzerebbe contro il principio di specificità dei motivi d’appello.
Circa il ricorso per cassazione, il d.lgs. n. 7/2016 tace completamente, ma non sembra dubbio che esso sia senz’altro azionabile anche nei soli confronti del capo della pronuncia riguardante la sanzione, ai sensi dell’art. 111 Cost.
Richiamando quanto già visto a proposito dell’obbligo per il giudice di applicare la sanzione civile15, se ne ricorrono i presupposti, si rileva un limitato profilo di discrezionalità nella scelta della misura della sanzione stessa, che deve seguire i criteri dettati dall’art. 5 d.lgs. n. 7/2016. Essi sono, in particolare: la gravità della violazione; la reiterazione dell’illecito; l’arricchimento del soggetto responsabile; l’opera svolta dall’agente per l’eliminazione o per l’attenuazione delle conseguenze dell’illecito; la personalità dell’agente; le sue condizioni economiche.
Rispetto ai parametri dell’art. 133 c.p. – cui immediatamente si pensa in un quasi ovvio confronto – si nota l’assenza di alcun riferimento al danno causato alla vittima dell’illecito, e ciò contribuisce a rafforzare la natura pubblicistica e preventiva delle sanzioni civili. Può semmai rinvenirsi un più specifico riferimento concettuale all’art. 11, l. 24.11.1981, n. 689, in tema di criteri di applicazione delle sanzioni amministrative. Va anzi osservato, a tal proposito, che l’art. 5 d.lgs. n. 7/2016 non contiene indicatori in grado di offrire all’interprete criteri di maggiore specificazione dei parametri suddetti, con l’eccezione di quello relativo alla reiterazione dell’illecito, che trova una sua puntuale esplicazione nell’art. 6 del decreto, ove l’istituto viene delineato con riferimento a un requisito temporale e a un requisito qualitativo.
In forza del primo, la reiterazione postula che l’illecito sia compiuto entro quattro anni dalla commissione di altra violazione colpita da sanzione civile e oggetto di pronuncia esecutiva. In forza del secondo, occorre che la violazione sia della stessa indole della precedente, e tale è l’ipotesi in cui le diverse violazioni abbiano riguardato la stessa disposizione o disposizioni diverse che, per la natura dei fatti o per le modalità della condotta presentano sostanziale omogeneità o caratteri fondamentali comuni.
A ben vedere, si tratta di una norma di principio, poiché la limitatezza del numero delle fattispecie di illecito rende poco agevole individuare caratteristiche accomunanti, fatta eccezione per quei gruppi di illeciti che presentano in sé connotati di similitudine in senso molto ampio – ad esempio le condotte in materia di falsità; l’appropriazione di cose comuni e di cose rinvenute per caso fortuito; difficile ipotizzare, di contro, alcuna forma di reiterazione “eterogenea” a proposito delle condotte corrispondenti all’abrogato reato d’ingiuria, in correlazione agli altri illeciti.
L’art. 6 del decreto si lega, inoltre, all’art. 11, che prevede la creazione, presso il Ministero della giustizia, di un registro informatico ove iscrivere i provvedimenti di applicazione delle sanzioni civili, appunto al fine di consentire al giudice di verificare l’esistenza e la natura di precedenti violazioni rilevanti ai fini del riconoscimento della reiterazione. Di fatto, finché non sarà emanato tale decreto non potrà aversi un corretto funzionamento dell’istituto.
L’art. 7 del decreto, infine, prevede la possibilità di concorso di persone nell’illecito, in conseguenza di che ciascuna di esse soggiacerà alla sanzione prevista.
Il pagamento e la riscossione della sanzione andranno a loro volta disciplinati, in fase attuativa, da apposito decreto ministeriale. L’art. 9 prevede che il giudice possa disporre la rateizzazione del pagamento in non meno di due soluzioni e in non più di otto; a garanzia dell’adempimento, inoltre, la norma prevede il pagamento in unica soluzione ove l’obbligato ometta il versamento anche di una sola rata. Peraltro, è possibile in ogni caso l’estinzione mediante un unico pagamento.
La norma si riferisce, con evidenza, a una misura che può essere adottata dal giudice in relazione alle condizioni economiche del condannato, ma non consente di ritenere che la rateizzazione sia possibile anche in fase esecutiva, né è ipotizzabile che tale possibilità sia introdotta in sede di emanazione del decreto ministeriale, in difetto di previsioni nella norma primaria.
L’art. 12 d.lgs. n. 7/2016 detta le linee fondamentali della disciplina transitoria, articolata in due specifiche previsioni. Da un lato, quella secondo cui la normativa si applica anche ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo, salvo che il procedimento penale sia già stato definito con pronuncia irrevocabile. Da un altro lato, quella secondo cui il giudice penale, in sede di esecuzione, deve revocare le sentenze e i decreti penali di condanna passati in giudicato prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo, pronunciati con riguardo alle condotte oggetto di depenalizzazione. Il procedimento applicabile è quello tipico previsto dall’art. 667, co. 4, c.p.p., con la conseguenza che il giudice dovrà provvedere ufficiosamente e de plano, con salvezza di opposizione successiva.
Nel raffronto con la disciplina transitoria prevista dal d.lgs. n. 8/2016, e segnatamente dall’art. 9, si riscontra immediatamente, nell’art. 12 d.lgs. n. 7/2016, la mancanza di una qualsiasi previsione a proposito della sorte delle statuizioni civili in sede d’impugnazione. In particolare, se nel primo caso il giudice dell’impugnazione avverso la pronuncia di condanna sarà tenuto a decidere, nel dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato, sugli interessi civili, nel secondo caso nulla dice la norma, con le conseguenti incertezze interpretative, che non hanno mancato di produrre contrasti nella pur esigua giurisprudenza di legittimità fin qui prodotta. L’ordinanza Cass. pen. n. 7125/201616 ha posto il problema della revocabilità delle statuizioni civili a seguito dell’abolitio criminis apportata dal d.lgs. 7/2016, e la questione è stata rimessa alle Sezioni Unite della Suprema Corte, le cui diverse sezioni hanno dato nel frattempo corso a una specie di contrappunto a due voci, del tutto dissonanti. Se da un lato, infatti, si registra un orientamento secondo cui il giudice dell’impugnazione deve pronunciarsi sulle statuizioni civili17, da altro lato si registra un contrario indirizzo, che basandosi sia sul disposto, ritenuto non derogabile, dell’art. 578 c.p.p., sia sulla mancanza di una disciplina come quella dell’art. 9 d.lgs. n. 8/2016, sostiene l’impossibilità di alcuna pronuncia, da parte del giudice dell’impugnazione, sulle statuizioni civili18.
Già dalla descrizione del quadro normativo sono emerse alcune criticità applicative della riforma, in ordine alle quali dovrà essere il lavoro degli interpreti, e soprattutto della giurisprudenza, a fissare punti fermi.
In termini di diritto sostanziale, due sembrano essere i profili maggiormente problematici.
Da un lato quello riguardante la sorte dei procedimenti collegati a danni non patrimoniali – e si pensa ovviamente alle condotte che una volta erano racchiuse nell’ingiuria. Si deve osservare, proprio con riguardo a tale ipotesi, che se la sanzione civile può trovare occasione di applicazione solo nell’ambito del procedimento instaurato a seguito dell’azione risarcitoria, questa, nel caso dell’ingiuria, sarà sovente limitata al danno non patrimoniale, che non sarebbe risarcibile se non come conseguenza di reato; ma poiché l’ingiuria è stata soppressa dal panorama delle fattispecie criminose, concreto è il rischio che il procedimento ex art. 8 d.lgs. n. 7/2016 non sia attivabile al cospetto di soli danni morali, con l’ulteriore conseguenza della non sanzionabilità delle condotte illecite previste dall’art. 4, co. 1, lett. a), del decreto stesso.
Da un altro lato, profili di criticità emergono dalla disciplina della prescrizione applicabile alle sanzioni civili; disciplina che è stata collegata allo stesso termine previsto per il risarcimento dei danni da fatto illecito, ma che non trova alcun adattamento, pur necessario a fronte della natura pubblicistica delle sanzioni. Ciò deve portare a ritenere applicabile la comune disciplina, ma non senza ostacoli. Ad esempio, non v’è dubbio che valga in materia il principio generale dell’eccezione di parte, ma ci si deve chiedere quando il convenuto potrebbe sollevare l’eccezione, se solo con la decisione può effettivamente porsi il problema della sanzione. Di sicuro se ne potrà fare motivo d’appello, ma prima della pronuncia di primo grado è verosimile che l’eccezione potrebbe essere svolta solo in forma condizionale. Sembra poi di dover escludere che determinati istituti della prescrizione possano mai trovare applicazione a proposito di sanzione civile: si pensi, ad esempio, alla rinuncia di cui all’art. 2937 c.c.
Quanto agli aspetti processuali di maggior rilievo, già si è posto in evidenza il problema della legittimazione (passiva) all’appello allorquando il convenuto, raggiunto da sanzione civile, proponga il gravame solo nei confronti del relativo capo della decisione. Ragioni di coerenza sistematica impongono di escludere che il giudizio d’appello possa svolgersi senza la presenza dell’altra parte, che tuttavia non ha alcuna legittimazione, né interesse, a interloquire sulla sanzione. Si tratta di una situazione di cui sono evidenti i profili paradossali, e che non appare però inquadrabile in schemi diversi da quello delineato. Sarebbe semmai il caso di porre il problema della possibile legittimazione di una parte pubblica, che allo stato della legislazione non può essere individuato se non nel pubblico ministero, ai sensi dell’art. 70, co. 3, c.p.c. – che prevede però una semplice facoltà d’intervento. Né è agevole supporre una rivisitazione di questo aspetto da parte del legislatore; ma in tal caso bisognerà prendere atto di una seria incongruenza della normativa.
Un terzo aspetto problematico, come visto, discende dal fatto che l’ispirazione di fondo della riforma ha tratto spunto dalla condivisibile esigenza di imporre un arretramento del sistema penale italiano, peraltro senza calcolare in termini statisticamente affidabili le ricadute sul carico complessivo del contenzioso civile, già notoriamente afflitto da ritardi eccessivi. Nulla esclude che proprio l’introduzione del meccanismo sanzionatorio potrebbe spingere le parti a ricorrere con maggiore frequenza agli strumenti alternativi di definizione delle controversie civili19, il che implicherebbe, nei fatti, una rilevanza solo indiretta di una riforma che esibisce importanti tratti d’innovazione dell’ordinamento giuridico, ma che avrebbe meritato qualche riflessione in più.
Note
1 I dati statistici del Ministero della giustizia indicano una riduzione del carico penale del 2,5% per i procedimenti in indagini preliminari, e del 3% per i procedimenti pendenti in dibattimento.
2 Basti citare l’art. 96 c.p.c., che nel disciplinare la responsabilità aggravata per lite temeraria, prevede la possibilità per il giudice di condannare la parte soccombente non solo al risarcimento dei danni, su istanza dell’altra parte, ma anche, d’ufficio, al pagamento di una somma determinata in via d’equità, che non appare riconducibile a una funzione solo risarcitoria. Ancor più pregnante, peraltro, è il richiamo all’art. 709 ter, co. 2, n. 4, c.p.c. – che prevede una sanzione amministrativa pecuniaria a carico del genitore inadempiente, da corrispondere a favore della Cassa delle ammende; all’art. 8, co. 4-bis, d.lgs. 4.3.2010, n. 28, in tema di mancata partecipazione della parte costituita al procedimento di mediazione civile; e, ancora, all’art. 13, co. 1-quater, d.P.R. 30.5.2002, n. 115, che prevede l’obbligo di raddoppio del contributo unificato a carico della parte che ha proposto un’impugnazione respinta o dichiarata inammissibile. In questi ultimi casi l’assonanza principale con le nuove fattispecie di illeciti sta nella comune natura pubblicistica, desumibile soprattutto dalla destinazione dei proventi. Natura non presente nella misura prevista dall’art. 96 c.p.c., per le ragioni già viste.
3 Entrato in vigore il 6 febbraio 2016.
4 Si tratta, in particolare, dei delitti di falsità in atti, limitatamente alle scritture private, con esclusione dei testamenti, delle cambiali e degli altri titoli di credito; e inoltre dei delitti di ingiuria, di sottrazione di cose comuni, di usurpazione, di deviazione di acque e modificazione dello stato dei luoghi, di invasione di terreni o edifici (esclusi i casi di procedibilità d’ufficio), di danneggiamento, limitatamente ai casi di cui all’art. 635, co. 1, c.p., di appropriazione indebita di cose smarrite.
5 In dettaglio, si tratta dell’offesa all’onore e al decoro di persona presente ovvero mediante comunicazioni, scritti o disegni; dell’impossessamento di cose comuni da parte del comproprietario, del socio o del coerede; della distruzione di cose altrui, al di fuori delle ipotesi di cui agli artt. 635 ss. c.p.; dell’appropriazione di cose smarrite; dell’appropriazione di un tesoro; dell’appropriazione di cose di cui si è acquisito il possesso per errore altrui o per caso fortuito; dell’uso di scrittura privata falsa o alterata; dell’abuso di foglio firmato in bianco; della falsità su foglio firmato in bianco; della soppressione, od occultamento, di una scrittura privata. Già si è posto in giurisprudenza il problema della configurabilità del delitto di calunnia in relazione al reato presupposto, se interessato dall’abrogazione; in particolare Cass. pen., 10.2.2016, n. 7729 ritiene che il reato si configuri anche nel caso di successiva abolizione del reato oggetto di falsa incolpazione, la qual cosa implica che soltanto i fatti commessi dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 7/2016 saranno irrilevanti ai fini della configurazione del delitto di calunnia. Nessun dubbio, poi, sul fatto che questo sia senz’altro configurabile allorquando altri reati presupposti siano configurabili, come ad esempio la ricettazione e il furto: Cass. pen., 8.3.2016, n. 15964.
6 Va evidenziato che il mantenimento dell’art. 635 c.p., così come sostituito dall’art. 2 d.lgs. n. 7/2016, implica una deroga alla legge delega, al pari della mancata abrogazione degli artt. 631, 632 e 633 c.p.; deroga che tuttavia non travalica i poteri conferiti dal legislatore delegante, essendo ormai principio pacifico in giurisprudenza quello della discrezionalità del legislatore delegato, chiamato a valutare le situazioni specifiche da disciplinare, sia pur nell’ambito delle direttive generali della delega: C. cost., 13.5.1987, n. 156; C. cost., 23.5.1985, n. 158; C. cost., 4.5.1990, n. 224. Il rapporto tra l. n. 67/2014 e decreti di attuazione viene in particolare precisato da Cass. pen., 3.6.2015, n. 26261, in termini di strumentalità della prima rispetto alla produzione normativa dei secondi. Sull’argomento, con specifico riguardo alla depenalizzazione, si rimanda Losappio, G., La delega di depenalizzazione specifica. Effetti pretesi e pretese senza effetto, in Cass. pen., 2016, 2449 ss.
7 Pur a seguito dell’entrata in vigore della l. n. 67/2014, Cass. pen., 10.2.2016, n. 15460 ritiene configurabile il delitto di danneggiamento nella condotta di versamento di grandi quantità di sabbia per la realizzazione di un’isola artificiale, qualora ciò provochi l’intorbidamento delle acque, il disturbo della quiete e l’alterazione delle correnti.
8 Da euro cento a euro ottomila, per il primo gruppo; da euro duecento a euro dodicimila, per il secondo.
9 Aspetto che secondo Cass. pen., 9.2.2016, n. 7125 sottolinea il carattere afflittivo e pubblicistico della sanzione.
10 In argomento si rimanda a Spina, G., Depenalizzazione e abrogazione di reati 2016. I nuovi illeciti con sanzioni pecuniarie civili: tutele sostanziali e strategie processuali, in La nuova procedura civile, (26 gennaio) 2016, ove si sostiene la possibilità di casi in cui l’illecito discenderebbe da violazioni di rapporti contrattuali, con la conseguente configurabilità di ipotesi di responsabilità contrattuale, dalla quale discenderebbero ovvi vantaggi al danneggiato, già a partire dal regime probatorio.
11 Esigenza che giustificherebbe l’estensione delle stesse garanzie al contumace: così Bove, M., Sull’introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie dal punto di vista del processual-civilista (note a margine del d.lgs. n. 7 del 15/1/2016), in La nuova procedura civile, (27 gennaio) 2016, 1.
12 È quanto ritiene, Bove, M., op. loc. citt.
13 Indipendentemente dal fatto che non si tratti di causa derivante da circolazione stradale, potendo comunque operare il criterio dettato dall’art. 7, co. 1, c.p.c.: Cass. pen., 16.10.2013, n. 23430.
14 In effetti, l’art. 702 ter c.p.c. consente al giudice di procedere nel «modo che ritiene più opportuno agli atti istruttori rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto». Questa locuzione potrebbe essere intesa come una limitazione rispetto alle esigenze probatorie di un tema, quello appunto della sanzione civile, che di per sé non è oggetto in senso stretto del provvedimento richiesto, quale ricostruibile dalla domanda della parte privata. Nondimeno, si deve propendere per una lettura ampia della norma, non ancorata esclusivamente al parametro dell’istanza introduttiva, ma piuttosto all’oggetto del processo, che in senso lato comprende sia il risarcimento del danno, sia la sanzione eventualmente conseguente.
15 La sanzione può non essere applicata nel caso di riconosciuta sussistenza delle due esimenti previste dall’art. 4, co. 2 e 3, relative alla reciprocità delle offese e alla reazione al fatto ingiusto altrui – fattispecie che anche testualmente evocano la dizione dell’art. 599 c.p. Ovviamente, non si è in presenza di una deroga al principio di obbligatorietà della sanzione, ma di una valutazione in positivo dell’esistenza di una causa scriminante speciale.
16 Per un sintetico inquadramento delle problematiche trattate dalla decisione si rimanda a De Marzo, G., La sorte delle statuizioni civilistiche dopo il d.leg. n. 7 del 2016, in Foro it., 2016, II, 224.
17 In tal senso Cass. pen., 23.3.2016, n. 14529; Cass. pen., 9.3.2016, n. 14044; Cass. pen., 15.2.2016, n. 14041.
18 Così Cass. pen., 1.4.2016, n. 16147; Cass. pen.,19.2.2016, n. 15634. È interessante notare che, esclusa una, tutte le pronunce richiamate in questa e nella nota che precede provengono dalla stessa sezione della Corte, a riprova di un’oggettiva difficoltà d’interpretazione della norma transitoria.
19 Questa è la tesi di Spina, G., op. loc. citt.