Le scienze agrarie
Ripercorrere le vicende, cercando di definire il valore delle opere e le correlazioni con la cultura europea, dell’agronomia italiana dalla vigilia dell’Unità al crepuscolo del nuovo millennio, impone di delinearne, preliminarmente, il quadro all’alba del 19° sec., impegno non agevole siccome affrontato da studiosi di cultura diversa con risultati tanto contradittori da suggerire il dubbio della relativa fondatezza. Il proposito di collocare l’agronomia italiana nella cornice della scienza europea obbliga a rievocare i tratti essenziali dell’evoluzione dell’agronomia europea dalle origini, impegno peraltro agevole poiché sono indiscutibili tanto la nazionalità quanto il ruolo dei fondatori della disciplina: la storia dell’agronomia può enuclearsi, per secoli interi, nell’opera di pochi grandi, una constatazione che semplifica il quadro plurisecolare.
L’agronomia moderna nasce, superando le elucubrazioni peripatetiche dei cultori medievali di agricoltura, nel Cinquecento, dall’impegno di un manipolo di naturalisti che, riscoprendo l’impulso all’osservazione diretta dell’agronomia latina, osservano e descrivono l’operare degli impulsi a introdurre nuove colture e metodi originali che la vivacità della società cinquecentesca diffonde nelle campagne. Teatro del fenomeno sono le regioni in cui sono più vivaci lo sviluppo economico, il fervore manufatturiero e mercantile: l’Italia settentrionale e la Toscana, la valle del Reno, le Fiandre, l’Inghilterra meridionale. Tra gli scrittori che si distingono per la capacità di rilevare il dinamismo nuovo e di enucleare concetti teorici adeguati a illustrarne i risultati si distinguono un italiano, il bresciano Agostino Gallo, e un francese, il provenzale Olivier de Serres. Nel secolo successivo il fervore degli studi agrari si spegne tanto in Italia quanto in Francia: è in Inghilterra che una schiera di studiosi perpetua l’eredità della prima stagione dell’agronomia europea moltiplicando, con una pubblicistica concettualmente disordinata quanto empiricamente fruttuosa, i temi di indagine, le proposte di nuovi metodi operativi, la formulazione di ipotesi teoriche originali.
Nel fervore intellettuale del Settecento il dinamismo di cui l’Inghilterra rimane l’epicentro si dilata, lo scenario si diversifica, l’agronomia conosce la prodigiosa moltiplicazione dei temi di studio, dei cultori, delle scuole. Francia e Germania si uniscono alla Gran Bretagna proponendo opere che sfidano quelle dei grandi britannici, animando una saggistica che ricalca, seppure non eguagli, quella inglese. L’Italia si colloca in una posizione del tutto singolare: mentre studiosi insigni di economia e diritto – ricordo Ludovico Antonio Muratori, Cesare Beccaria, Sallustio Antonio Bandini – stilano scritti originali sul governo economico delle produzioni della terra, non viene pubblicato, nella penisola, un solo volume capace di confrontarsi con l’opera agronomica più modesta proposta dai librai di Parigi, Londra, Berlino.
Mentre Londra consacra il primato agronomico con i primi lavori di chimica applicata all’agricoltura, e in Francia Antoine-Laurent de Lavoisier affronta, genialmente, lo studio della fermentazione vinosa, eminente problema agrario, insidiano, con una conquista scientifica capitale, la preminenza britannica, gli italiani Felice Fontana e Giovanni Targioni Tozzetti, fondatori della patologia vegetale. L’assenza di un pensiero agronomico impedisce che l’associazione della chimica all’agronomia, la chiave della nuova agricoltura scientifica, esprima la manifestazione più elementare. Vengono costituite, in Italia, accademie agrarie: per verificare lo iato che ne separa gli obiettivi dai terreni esplorati dagli agronomi britannici, francesi, tedeschi è sufficiente esaminare il programma proposto, a Firenze, alla fondazione della più prestigiosa, quella dei Georgofili.
Alle guerre napoleoniche corrisponde un periodo di eccezionale fervore delle conoscenze agrarie. Il maggiore agronomo inglese, Arthur Young, dedica tomi onerosi alla comparazione delle capacità produttive delle campagne di Francia e Inghilterra di assicurare l’approvvigionamento degli eserciti e delle flotte che contendono il dominio del planisfero. Ripetutamente invasa dagli eserciti napoleonici, al termine del duello la Germania si riconosce più unita di quanto fosse alla vigilia: della nuova condizione Federico Guglielmo II fa uso anche per assicurare alla nazione la prima istituzione europea di ricerca agronomica, l’azienda sperimentale di Möglin, che, affidata ad Albrecht Thaer, affronta un piano di indagini sulla rotazione che segnerà una tappa capitale della storia della disciplina.
Nel 1804 Nicolas-Théodore de Saussure pubblica l’esito delle proprie indagini sulla nutrizione vegetale, le Recherches chimiques sur la végétation, che, per la lucidità teorica e per le immense difficoltà sperimentali superate è una delle imprese più straordinarie della storia delle scienze naturali, un’opera tanto in anticipo sulle conoscenze del tempo da essere destinata a una quarantennale incomprensione. Realizzando la spiegazione del processo della fotosintesi, definendo, quindi, la concezione moderna della vita vegetale, quando sarà, finalmente compreso, il testo del biologo elvetico porrà le basi per la nascita dell’agronomia scientifica.
Per l’agronomia italiana, all’età di Napoleone corrisponde la parabola del conte reggiano Filippo Re (1763-1817), che il prefetto francese di Bologna insedia sulla cattedra di agraria dell’antico ateneo, nominandolo, insieme, segretario della Società agraria, l’organismo di cui le disposizioni imperiali prescrivono la creazione in ogni dipartimento degli Stati napoleonici. Dopo un secolo di assenza, in Italia, di qualunque pubblicistica agronomica, con una prolificità che sfiora il prodigio, Re ricolma delle sue pubblicazioni le biblioteche di università, possidenti patrizi, proprietari borghesi. Il catalogo delle sue opere si dilata a tutte le latitudini dello scibile agrario: dal trattato teorico alla monografia sulle pratiche di fertilizzazione, dal manuale per l’ortolano al trattato sulla patologia vegeale, fino al sommario bibliografico della letteratura agronomica europea.
Aggiungendo, a volumi e prontuari, una rassegna periodica, gli «Annali dell’agricoltura del Regno d’Italia», il dotto reggiano somma alla propria produzione i rapporti dei collaboratori, che sceglie nelle province che Napoleone ha riunito nel Regno d’Italia. La secolare assenza di autori italiani nell’arengo agronomico è stata infranta: le biblioteche in cui l’agronomia era tema esclusivo di testi francesi, o di opere inglesi tradotte in francese, si riempiono di prontuari in italiano.
Quale valore deve riconoscersi all’opera del conte reggiano? Formulare un giudizio non è impresa agevole. Il proposito impone di distinguere l’opera del direttore del primo periodico che abbia invitato alla collaborazione gli agronomi delle province italiane da quella dello scienziato che si cimenta con i temi teorici della disciplina. Sul primo terreno Re realizza il primo atlante delle agricolture italiane, tanto diverse tra loro, a ragione dei secolari confini di ducati e principati, da fare del loro inventario la condizione preliminare di qualunque progresso delle pratiche agrarie: un’impresa che vale al protagonista benemerenze inequivocabili.
Il metro con cui può valutarsi l’opera del conte reggiano sul terreno della geografia agraria può essere applicato, con eguale proprietà, a prontuari e manuali pratici, ispirati al medesimo, concreto, empirismo, ma risulta palesemente indadeguato all’esame del trattato teorico, quegli Elementi d’agricoltura che Re verga nel 1798 e ripropone, in nuove edizioni, fino alla morte, che lo coglie, prematuramente, nel 1817. La pluralità delle edizioni prova la consapevolezza dell’autore che affida la propria fama di scienziato al trattato teorico, consapevolezza confermata dal titolo di Nuovi elementi dell’ultima edizione, che Re si propone di aggiornare alle ultime conquiste della scienza. È sufficiente, però, la lettura dei primi capitoli per verificare che la sintonia con la nuova agronomia europea è ugalmente assente nell’ultima quanto era stata nella prima edizione. Quando l’agronomo reggiano licenzia la prima edizione sono trascorsi trentun anni dalla pubblicazione dell’Alimurgia, il disordinato compendio erudito in cui Targioni Tozzetti aveva ‘celato’ la straordinaria scoperta con cui aveva identificato in viventi microscopici la causa delle malattie dei cereali, dieci dalla pubblicazione del Traité élémentaire de chimie, l’opera in cui Lavoisier ha composto organicamente le scoperte pubblicate nei primi saggi, un testo che è stato definito il primo manuale della chimica moderna. Tra la prima e la seconda edizione de Saussure ha pubblicato le proprie Recherches chimiques sur la végétation, l’opera con la quale, spiegando che i vegetali si nutrono di carbonio assunto dall’atmosfera, ha posto le basi per applicazioni fino allora inimmaginabili nella sfera agronomica. Di nessuna delle tre conquiste, che sovvertono ogni concezione naturalistica del passato, Re ha percepito la portata. Agronomo accorto nel promuovere la comparazione delle pratiche in uso nelle campagne di Cremona e in quelle di Verona, come scienziato si rivela incapace di comprendere che le tre scoperte hanno radicalmente ridisegnato gli orizzonti degli studi naturalistici.
Quanto stupisce, nella lettura del trattato teorico del dotto italiano, è la sicumera con cui propone il convincimento che le tre scoperte possano sommarsi, in una confusa mescolanza, a teorie e concezioni secolari; la mancanza della percezione, che costituirebbe prova di autentico ingegno scientifico, che la concezione della materia di Lavoisier non può comporsi con la dottrina aristotelica dei quattro elementi, né con le elucubrazioni degli alchimisti dei secoli successivi; che la scoperta dei parassiti vegetali di Targioni Tozzetti esclude che le messi possano essere minacciate da «nebbie untose»; che la scoperta di de Saussure impone di abbandonare ogni supposizione che le piante dispongano, come hanno immaginato i naturalisti del Seicento, di uno «stomaco» in grado di «digerire» i composti carbonici tratti dal suolo. Incapace di percepire l’incompatibilità delle nuove scoperte con quanto è stato scritto, da Aristotele all’ultimo degli emuli, Marcello Malpighi, a sciorinare il proprio aggiornamento Re moltiplica, nelle pagine degli Elementi, le citazioni di Lavoisier e di de Saussure, come motiplica, nel Saggio teorico pratico sulle malattie delle piante, quelle di Targioni Tozzetti, componendole a dotte citazioni di Plinio e Teofrasto, disquisendo, con disarmante candore, di parallelismi tra principi intrinsecamente inconfrontabili e incompatibili.
La definizione del ruolo di Re nella storia dell’agronomia italiana costituisce esigenza capitale poiché dopo la sua morte la storia dell’editoria nazionale non registra una sola opera che esprima quantomeno il proposito di informare gli agricoltori italiani della vastità delle indagini, teoriche e applicative, dell’agronomia europea. L’editore milanese Giovanni Silvestri che ha acquisito i diritti sulle opere del dotto reggiano continua, fino alla metà del secolo, a stamparne manuali e prontuari, che agricoltori e parroci preoccupati del progresso agronomico acquistano nell’assoluta indifferenza per le espressioni dell’agronomia europea che, pure avendo tardato ad accogliere la scoperta di de Saussure, non cessa, sul terreno applicativo, di sperimentare nuove procedure di coltivazione.
Propone la conferma più eloquente della persistenza, nel Paese, della cultura agronomica di Re, la pubblicazione, tra il 1851 e il 1870 (ma, per ragioni giudiziarie, alcuni volumi, pur privi di data, furono pubblicati anche in anni successivi) , delle monumentali Istituzioni scientifiche e tecniche, ossia Corso teorico e pratico di agricoltura, di Carlo Berti Pichat (1799-1879): dieci onerosi tomi, oltre diecimila pagine di testo, l’opera agronomica più ambiziosa di cui editore italiano abbia affrontato la stampa nel corso del secolo. Quell’editore (prima Ditta cugini Pomba e c., poi Unione-Tipografico-Editrice) non è modesto stampatore, ma rappresenta la più dinamica società editoriale della capitale sabauda, una capitale in cui si parla francese, dove sono diffuse, quindi, le novità agronomiche stampate a Parigi. Quell’editore sigla il contratto per la stampa di una monumentale enciclopedia con uno scrittore che non ha compilato un solo saggio sui temi che affronterà nel testo cui si accinge. Membro dell’accademia di cui Re è stato segretario, di Re incarna e perpetua la cultura, come Re irride le scoperte della chimica, della fitopatologia, della fisiologia vegetale. Alieno al calendario della scienza europea quando viene concepito, al procedere della stampa il cenotafio di Berti Pichat assume i caratteri dell’autentico monstrum: negli ultimi volumi sono palesi le prove di un confronto condotto senza convenevoli tra l’autore e gli editori, i quali impongono la conclusione dell’opera a un autore che, onorato del titolo di senatore, pretende di continuare a trastullarsi, a spese della società torinese, nel limbo di una scienza che, estranea alla cultura europea del suo precursore Re, costituisce, oltre la metà del secolo, patetica anticaglia.
Giunge, per l’agronomia italiana, il tempo del risveglio dal torpore, giunge tardivamente, ma il suo avvento è luminoso: gli effetti non si manifesteranno, peraltro, che con cospicua lentezza. L’evento ha due protagonisti, scienziati, entrambi, di levatura europea, attorno ai quali i comprimari costituiscono manipolo esiguo, la ragione della lentezza della propagazione dell’impulso degli alfieri.
Cosimo Ridolfi (1794-1865), patrizio fiorentino, compie, giovanissimo, lunghi viaggi nei Paesi del continente: anziché stazioni termali e ippodromi famosi, le mete abituali della nobiltà italiana, visita le prime istituzioni di sperimentazione agraria, osserva le campagne, si informa sulle procedure invalse, studia gli attrezzi, registra le produzioni. Il 4 aprile 1830 legge ai confratelli Georgofili il progetto di una scuola pratica di agricoltura, l’Accademia ne discute, il dibattito si protrae con toscana vivacità, ma assoluta inconcludenza, inducendo il marchese insofferente ad aprire, nel 1834, la scuola che ha immaginato nella propria azienda di Meleto, a poche miglia da Castelfiorentino. Accoglie i primi figli di piccoli possidenti e di fattori delle aziende maggiori, inizia a impartire, tra la sala del castello adibita ad aula, i campi e le stalle, il proprio insegnamento. Il suo invito a considerare il ruolo capitale, per il progresso economico del Granducato, dell’insegnamento agrario ha suscitato, peraltro, l’interesse di più di uno dei dignitari di corte, da cui gli viene rivolto l’invito, nel 1840, a creare, presso l’Ateneo di Pisa, una cattedra di agricoltura e pastorizia. Reputando l’insegnamento superiore prioritario rispetto a quello pratico, Ridolfi lascia Meleto, concorda con le autorità ducali l’acquisto, a Pisa, di un podere sperimentale, apre, l’8 gennaio 1843, con una luminosa dissertazione inaugurale, l’attività della cattedra, che l’anno successivo sarà convertita in Scuola superiore di agraria.
Nel 1848 gli studenti del corso accorrono unanimi per partecipare, con i battaglioni sabaudi, alla guerra per la liberazione della patria. Al ritorno della pace austriaca il governo granducale non riapre la Scuola, focolaio insurrezionale, e Ridolfi è invitato ad astenersi dalla vita pubblica. Prova di suprema saggezza del governo di un principato che percorre la china verso il tramonto, gli è consentito di tenere, a Empoli, presso la locale Accademia, un corso di lezioni sul progresso dell’agricoltura, che il marchese fiorentino tiene, ogni domenica, dal 19 aprile 1857 all’11 ottobre 1858. Per l’uditorio che si raccoglie per ascoltarlo, composto di piccoli e grandi possidenti, fattori e curati di campagna, esplora tutte le sfere della coltivazione e degli allevamenti, valutando criticamente, secondo i metri della più aggiornata agronomia europea, consuetudini e pratiche invalse in Toscana.
Quando l’Accademia gli chiede l’autorizzazione a pubblicare il testo la prima risposta è il rifiuto: ad agricoltori privi, anche se blasonati, di ogni conoscenza chimica e biologica, Ridolfi ha parlato in termini tanto semplici da essere inadeguati a un testo scientifico. Di fronte all’insistenza si impegna, successivamente, a rivedere il testo, che viene stampato con il titolo di Lezioni orali di agraria: sarà il gioiello della letteratura agronomica italiana dell’intero secolo. L’esito della Seconda guerra di indipendenza assicurerà al patrizio fiorentino un seggio in Senato: non abbandonerà gli interessi agronomici, si impegnerà, anzi, nella stesura di due opere di autentica dignità teorica che, contro le intenzioni dell’autore, risulteranno ampiamente inferiori al testo delle Lezioni orali. La spiegazione del paradosso non è, peraltro difficile: Ridolfi è conoscitore profondo delle campagne europee, osservatore di lucidità ineguagliata dell’agricoltura toscana, l’agricoltura caratteristica della collina dell’Italia centrale, e nella vasta azienda di famiglia ha realizzato significative esperienze agronomiche; non è, però, lo sperimentatore che tra il laboratorio e le parcelle di un’istituzione scientifica abbia speso gli anni verificando nuove ipotesi teoriche. Rivolgendosi agli agricoltori di Empoli ha composto in sintesi mirabile conoscenze che nessun agronomo ha maturato con penetrazione eguale: ed è questa la ragione del capolavoro che non riesce a ripetere sul terreno della scienza pura, una sfera che non gli è estranea, ma che non è stata il terreno del suo impegno quanto lo è stato quello della scienza applicata.
Se le Lezioni orali, un testo agronomico che propone una visione radicalmente innovativa dell’agricoltura della collina italiana, costituisce il capolavoro, ma, insieme, l’ultimo contributo di Ridolfi al progresso dell’agronomia italiana, più duratura è la presenza, sul proscenio agronomico, del secondo grande innovatore della disciplina, Gaetano Cantoni (1815-1887). Laureato medico a Pavia, Cantoni è tra i coadiutori di Carlo Cattaneo durante le Cinque giornate, con Cattaneo vive l’esilio in Svizzera, durante il quale si entusiasma conoscendo le prime esperienze della sperimentazione agraria europea. Rientrato, dopo il 1859, in Italia, si impegna a raccogliere i mezzi per creare a Lodi un organismo analogo a quelli che ha conosciuto in Svizzera. Il tentativo pare riuscire, ma i mezzi raccolti sono insufficienti e l’organismo non supera il quinto anno di vita. Accetta, quindi, la cattedra di agraria all’Ateneo di Torino, che lascia quando gli organismi pubblici milanesi gli assicurano i mezzi per la fondazione di una scuola universitaria, la cui sede viene realizzata, nel 1870, a fianco del grande complesso che ospiterà il Politecnico.
Direttore della Scuola fino alla morte, che lo coglierà nel 1887, all’insegnamento Cantoni unirà il ruolo di senatore. Autore, durante l’esilio, del Trattato completo teorico pratico di agricoltura, che vede la luce nel 1855, il primo autentico trattato agronomico della letteratura nazionale, mentre ne arricchisce, nelle riedizioni che si succederanno fino al 1884, il contenuto, accetta la proposta dell’Unione tipografica editrice torinese, la nuova denominazione della società che ha interrotto la stampa dell’opera di Berti Pichat, di dirigere la compilazione di un’autentica enciclopedia agraria. Pubblicata, tra il 1871 e il 1882, in otto parti cui non corrisponde un numero uguale di volumi, l’Enciclopedia agraria italiana costituisce la prima prova dell’esistenza, nel Paese riunito dal Risorgimento, di un’autentica cultura agronomica moderna. Di quella cultura testimonia, peraltro, anche le carenze, conseguenza inevitabile del ritardo cinquantennale rispetto all’evoluzione della disciplina nei Paesi più progrediti: nonostante l’impegno del coordinatore per affidare ogni argomento a uno studioso in grado di misurarsi con gli specialisti francesi e inglesi, più di un segmento rivela la precarietà delle coordinate entro cui è inserito, la modestia delle cognizioni che propone.
L’identità dell’editore offre allo storico della scienza, peraltro, la possibilità di un confronto di significato precipuo: nell’opera che gli editori torinesi presentano, completa, nel 1882, è impossibile riconoscere l’eredità del farraginoso caleidoscopio di cognizioni prive di consistenza scientifica licenziato, dalla medesima tipografia, prima del 1870. Se è vero, infatti, che per ricolmare lo iato è possibile, dopo il 1870, ricorrere all’immensa pubblicistica accumulatasi in Germania, Francia e Inghilterra, lo spazio che separa, sul terreno della scienza, l’opera di Berti Pichat e quella di Cantoni è autentico spazio stellare. Averlo ricolmato in un decennio costituisce merito luminoso del coordinatore e del manipolo di studiosi che stabilisce tra la cultura agraria italiana e quella europea un ponte sul quale si svolgerà, nei decenni successivi, il travaso più intenso di cognizioni teoriche e tecniche.
Gli ultimi decenni dell’Ottocento sono l’età della grande crisi dell’agricoltura europea, la crisi imposta dai mezzi di trasporto a vapore, treni e bastimenti, che riversano sui mercati europei il frumento ottenuto, nella più fertile pianura del pianeta, al prezzo delle cartucce necessarie a liberare i futuri campi dalle mandrie di bisonti che vi pascolavano e dalle tribù di uomini che vivevano della loro caccia. La crisi induce i parlamenti europei alla lunga serie delle inchieste che ne indagano le cause e propongono le strategie per arginare il maremoto che ha sconvolto i mercati. L’Italia è tra i primi Paesi a varare, nel 1877, un’inchiesta sulle ragioni del malessere agrario: a differenza di più di uno dei Paesi che realizzeranno indagini analoghe, l’inchiesta italiana viene diretta dalla classe di governo che ne affida il coordinamento al senatore Stefano Jacini, a smentire le voci che denunciano, nel Paese, la miseria dei ceti rurali, la conseguente sussistenza di gravi problemi di denutrizione e di malattie endemiche dovute all’insalubrità degli abituri che ricoverano contadini e braccianti. Per Jacini, che manca tanto della lucidità di giudizio quanto dell’onestà intellettuale di Ridolfi, le campagne italiane sono l’autentico eden di produzioni copiose e pregiate, da cui tutti i partecipanti ai cicli colturali ritrarrebbero decorosi mezzi di sussistenza. Mentre Olanda e Danimarca varano, dopo le relative inchieste, vasti programmi di educazione dei ceti rurali, mirando a diffondere le cognizioni tecniche che consentano anche al piccolo agricoltore di moltiplicare la produzione, accrescendo, correlativamente, i propri ricavi, in Italia il progetto di creare una rete di istituzioni sperimentali, e, successivamente, quello di realizzare un tessuto di educazione tecnica, approvati in tempi non radicalmente diversi dai piani analoghi nei Paesi diversi, vengono sostenuti con mezzi finanziari assolutamente irrisori. Nel 1870, approvato il disegno sulla struttura delle stazioni sperimentali, vengono create le prime a Udine, Modena e Torino, dove un’amministrazione provinciale sia in grado di dividere le spese con il ministero.
Tra queste prime stazioni sperimentali può assumersi quale caso emblematico quella di Modena, il cui bilancio non consente l’assunzione di un direttore, tanto che la funzione viene affidata, con un assegno part-time, ai successivi direttori dell’Orto botanico. Nel momento in cui disponibilità maggiori consentono di accrescere il numero delle stazioni, il numero dei laureati delle scuole universitarie create da Ridolfi e Cantoni, capaci di un numero esiguo di studenti, non permette di reperire i laureati necessari a ricoprire gli organici: privi di sperimentatori, gli organismi vivono a lungo un’esistenza puramente embrionale. Offre la prova più eloquente delle difficoltà dei primi istituti di ricerca di reperire funzionari dalla preparazione adeguata la folgorante parabola italiana del licenziato di uno dei primi istituti agronomici francesi, Giuseppe Ottavi, il giovane corso che il direttore dell’Institut di Grignon, Auguste Bella, propone a monsignor Pietro Losana che ha richiesto un giovane agronomo cui affidare la scuola agraria fondata a Sandigliano. Imbonitore di talento, Ottavi sommerà allo stipendio di direttore il successo di editore di almanacchi, di commerciante di fertilizzanti e macchine agricole, concludendo la folgorante carriera con un seggio in Senato, una parabola inimmaginabile in Francia, dove le sue elucubrazioni sulla «terra vergine» sarebbero state irrise dai numi della nuova scienza del suolo, Jean-Baptiste Dieudonné Boussingault, Adrien-Étienne-Pierre de Gasparin, Louis Nicolas Grandeau, Georges Ville, Pierre-Paul Dehérain.
La stagione dell’incertezza e delle contraddizioni si protrae per un ventennio, durante il quale, oltre al consolidamento delle stazioni sperimentali si moltiplicano le esperienze di divulgazione tecnica. Dopo le prove infruttuose, è dopo il 1886 che si registrano i primi successi della formula delle ‘cattedre ambulanti’, organismi di matrice locale che beneficiano di non sistematici contributi statali. La ‘cattedra ambulante’ è creatura caratteristica di un’agricoltura che esce da un secolare torpore, governata da un ceto politico le cui preoccupazioni agrarie si sostanziano nella tutela dei privilegi del ceto degli elettori. Nasce dove un organismo locale, amministrazione provinciale o ‘comizio agrario’, decida l’assunzione di un laureato per svolgere, nei centri rurali, lezioni pratiche agli agricoltori e rispondere ai loro quesiti. Se l’onere di stipendiare un conferenziere non può essere reputato onere soverchiante, appaiono straordinari i risultati che la sua opera realizza in più di una provincia. Il rilievo di quei risultati propone non facili problemi storici, problemi per i quali non pare convincente la soluzione proposta da chi ha esaltato l’istituzione come creatura del più acuto genio politico-istituzionale. Altrettanto insufficiente appare, palesemente, attribuire il prodigio alla genialità dei ‘cattedratici’, nella cui compagine qualche cronista ha additato una schiera di demiurgi del rinnovamento agrario.
L’obiettività storica impone di riconoscere che le vicende che condussero un agronomo a innescare un processo che avrebbe mutato l’economia di un’intera provincia non furono numerose, e furono essenzialmente connesse alle doti dei protagonisti: assunti per svolgere conferenze sull’allevamento dei bovini e la cultura del gelso, i grandi ‘cattedratici’ seppero introdurre nuove colture, diffondere razze animali più produttive, promuovere attività di trasformazione industriale dei prodotti agricoli. Seppero, e fu l’autentico prodigio, convincere gli agricoltori, un ceto radicato nell’ancestrale individualismo, a riunirsi in organismi economici nuovi, i consorzi agrari, che avrebbero assunto il ruolo di perno economico dell’agricoltura provinciale. Qualche studioso si è cimentato nella dimostrazione del dinamismo dell’imprenditoria rurale padana nel crepuscolo del 19° sec.: singolarmente si deve rilevare che quella vivacità si manifestò, sistematicamente, dove fosse presente il ‘cattedratico’ capace di animare un mondo saldamente ancorato alla cultura incarnata da Re e da Berti Pichat.
Costituisce esempio emblematico il caso di Parma, dove Antonio Bizzozero (1857-1934), trevigiano, laureato a Milano, viene assunto, quale direttore della cattedra fondata nel 1892 dalla Cassa di risparmio. Nei quattro decenni di attività nella provincia padana l’agronomo trevigiano rinnova le fondamenta dell’allevamento, attività tradizionale delle aziende parmensi, assicurando, attraverso una nuova foraggicoltura e il radicale miglioramento del patrimonio zootecnico, una disponibilità incomparabilmente accresciuta di materia prima tanto per l’attività casearia quanto per la correlata produzione salumiera, e crea le premesse per l’insediamento, nelle campagne parmensi, dell’industria saccarifera. Propongono connotati analoghi all’impresa di Bizzozero a Parma quelle dei rappresentanti di prestigio maggiore della compagine: Tito Poggi, cattedratico a Rovigo quindi a Milano, Antonio Sansone, cattedratico a Cremona, Ferruccio Zago, cattedratico a Piacenza, Vittorio Peglion, cattedratico a Ferrara.
Costituisce elemento peculiare della storia dell’agricoltura italiana, e del suo repentino sviluppo negli ultimi lustri dell’Ottocento, la creazione, per realizzare il coordinamento dei consorzi agrari nati, generalmente, per opera di un ‘cattedratico ambulante’, della Federazione italiana dei consorzi agrari, l’organismo fondato a Piacenza nel 1892 da un numero sostanzialmente esiguo di sodalizi, che promuove la creazione di organismi analoghi, in un arco brevissimo di anni, nella pluralità delle province del Paese. L’istituzione di un organismo di collegamento che non nasce dalla molteplicità degli enti associati e che si rivela capace, anzi, di moltiplicare quel numero con efficacia straordinaria, propone il problema della matrice ideale e politica dei protagonisti. Un problema tuttora irrisolto, che dovrà, probabilmente, essere affrontato considerando il ruolo, nella vicenda, dei ‘cattedratici’, generalmente allievi di Cantoni, cioè dell’erede più genuino di Cattaneo, alfiere del liberalismo più integrale, e di uomini vicini a Luigi Luzzatti, esponente emblematico del mondo israelita e di quello massonico dell’Italia che conclude l’avventura risorgimentale. La creazione dell’organismo che riunisce i consorzi diretti da uomini che professano la medesima fede in un’agricoltura fondata sulla scienza e la tecnologia non poté non corrispondere, verosimilmente, anche agli ideali civili e politici dei protagonisti: la storia di quegli uomini pare dimostrare che nel loro cuore ardeva la fiamma di un liberalismo che indizi molteplici inducono a connotare con idealità massoniche.
La Prima guerra mondiale arresta il processo di sviluppo tecnico ed economico che si è dilatato nelle campagne italiane. Non può, palesemente, favorirne la ripresa il periodo di torbidi sociali, autentica situazione prerivoluzionaria, che ne segue la conclusione. Il fascismo si impone nel Paese con il proposito prioritario di ripristinare la preminenza economica e il potere politico dei proprietari terrieri, patrizi o borghesi, elidendo le conquiste dei lavoratori negli anni precedenti il conflitto. Sul terreno agronomico il regime si propone una meta preminente, l’aumento delle produzioni di frumento che relegano l’Italia agli ultimi posti tra le nazioni europee: un Paese animato da propositi bellicisti non può immaginare sfide militari future con i granai vuoti. Benito Mussolini dichiara la ‘battaglia del grano’ (1925): sarà l’unica impresa ‘bellica’ da cui, grazie al generale cui l’affida, uscirà vincitore. Quel generale è Nazareno Strampelli (1866-1942), agronomo marchigiano, direttore della ‘cattedra’ speciale di cerealicoltura di Terni, dopo i primi successi elevata a rango di Stazione sperimentale, confidente personale del duce.
Sul rilievo scientifico dell’opera di Strampelli sono state formulate valutazioni dissonanti: nei frumenti che seleziona, che avvicinano al raddoppio la produzione nazionale, agronomi devoti hanno additato la prova del genio del genetista, mentre qualche critico ha rilevato che Strampelli avrebbe semplicemente ricalcato l’opera degli istituti che in Inghilterra, in Belgio, in Francia avevano selezionato, nel crepuscolo dell’Ottocento, frumenti capaci di rese tre-quattro volte superiori a quelle medie dell’Italia. Il genetista di Mussolini avrebbe, comunque, realizzato l’obiettivo superando le remore specifiche del clima italiano, meno favorevole al frumento di quello dell’Europa centrale. Valutando il successo non si può mancare di rilevare, peraltro, che i frumenti di Strampelli, più precoci degli ecotipi tradizionali, esprimono le proprie doti solo se concimati nel corso dell’inverno, un’esigenza che comprendono i direttori di due stazioni sperimentali, Dante Gibertini e Alfonso Draghetti, i quali approntano i piani di concimazione in grado di assicurare i successi che le nuove sementi non avrebbero, altrimenti, mai realizzato.
Uscite dalla Seconda guerra mondiale in condizioni peggiori di quelle che presentavano al termine del primo conflitto europeo, le campagne italiane sono pervase da un moto irrefrenabile di progresso. Fisso, nello spirito di Roma, alle proprie mete annonarie, il fascismo ha trascurato il progresso degli allevamenti, il rinnovamento di canoni frutticoli e orticoli del tutto obsoleti, gli standard di una viticoltura che produce alcuni vini di antico prestigio, una massa di prodotto il cui unico sbocco è la vendita a mescite e osterie. Il tessuto di un’agricoltura i cui settori diversi sono segnati dall’identica arretratezza è investito da un moto che dalla Pianura Padana alle piane meridionali rinnova, rapidamente e radicalmente, procedimenti e produzioni. La Comunità europea, che vara la propria politica agraria nel 1962, garantisce alle produzioni prezzi sicuri; i ‘piani verdi’ dei governi nazionali assicurano ad agricoltori grandi e piccoli le macchine di cui non hanno mai disposto; una schiera di studiosi si impegna a diffondere tecniche produttive che manifestano, rapidamente, effetti straordinari.
Se la prima stagione di rigoglio dell’agronomia nazionale è stata l’età delle ‘cattedre ambulanti’, epopea di un manipolo di pochi valorosi, allo straordinario sviluppo dell’agricoltura italiana partecipano, con contributi equivalenti, le facoltà di Agraria (nel 1951 tredici), e l’apparato delle Stazioni sperimentali dipendenti dal ministero dell’Agricoltura, che la riforma del 1967 convertirà in 22 Istituti sperimentali. Nelle due compagini centinaia di ricercatori si impegnano nelle sfere diverse delle produzioni cerealicole e arboricole, dell’orticoltura e degli allevamenti, in ciascuna realizzando successi che portano le produzioni italiane, per quantità, qualità e prezzi, a conquistare posizioni di rilievo tanto sui mercati nazionali quanto su quelli europei. Lo storico della scienza deve rilevare che la grande stagione di fervore non nasce da ricerche scientifiche originali: l’agricoltura americana, con la quale quella italiana ha perduto, durante il Ventennio, ogni contatto, ha sviluppato i propri settori apprestando in ciascuno tecnologie radicalmente nuove; il progresso dell’agricoltura italiana non richiede l’opera di grandi scienziati, ma è il frutto dell’impegno di sperimentatori di indubbia versatilità che traducono i modelli americani in procedure in grado di sfruttare i vantaggi del clima italiano e la fertilità delle pianure della penisola.
In un arco brevissimo di anni nascono il nuovo allevamento da latte fondato sulla frisona americana, la suinicoltura fondata su prodotti di incrocio tra suini inglesi e danesi; si sviluppa, autentico vanto italiano, l’allevamento del vitellone basato sull’impiego dei mais ibridi americani; trionfa la frutticoltura ferrarese, quella ravennate, quella veronese; le nuove coltivazioni orticole, che nel Meridione ottengono produzioni di standard elevato in serre di semplicità primordiale, riversano sui mercati prodotti eccellenti ai prezzi più modesti.
Identificati i caratteri peculiari di un processo capitale nella storia della tecnologia agronomica, in quella dell’agricoltura e dell’economia del Paese, il cultore delle scienze agrarie non può non riconoscere le difficoltà che imporrebbe l’impegno a identificarne i protagonisti. Alimenta il fenomeno, infatti, una capillare ricerca applicata, condotta, alle latitudini diverse della penisola e delle isole, da centinaia di sperimentatori operanti in decine di istituzioni: qualunque attribuzione univoca di ruoli sarebbe arbitraria, attribuzioni plurime non scongiurerebbero il rischio di trascurare studiosi il cui contributo non sarebbe stato inferiore a quello dei protagonisti citati. Una delle ultime voci della cultura agraria, «Spazio rurale», ha pubblicato, nel 2010, sei interviste ad altrettanti testimoni della grande stagione vissuta dall’agricoltura italiana tra il 1955 e il 1980: ognuno degli intervistati menzionava, per il settore di competenza, decine di studiosi, ciascuno partecipe dell’evoluzione di una o più colture, in uno o più comprensori. Trascrivere i sei elenchi avvicinerebbe, data l’autorevolezza delle fonti, alla compilazione di un elenco esauriente: voci diverse potrebbero eccepire l’ignoranza di un settore o di uno specialista.
Negli anni in cui la politica agraria comunitaria sospinge la crescita delle produzioni e i mercati esprimono la più vivace recettività, la molteplicità delle università e degli istituti di ricerca favorisce, date le peculiarità climatiche e pedologiche degli ambienti italiani, lo sviluppo delle produzioni tipiche di ciascuno. Negli anni Ottanta il quadro dell’agricoltura europea muta, però, radicalmente: la politica che incentivava la produzione viene sostituita da una strategia che si propone di contenerla. La scelta, frutto della sconfitta subita, dall’Unione Europea, nel confronto contro gli Stati Uniti sul ruolo reciproco nel planisfero agropolitico, dissolve, dopo il 1992, ogni impulso di crescita tecnologica ed economica, rende del tutto pletorica la costellazione di università e istituti che hanno convertito, tra il 1955 e il 1980, un’agricoltura impegnata sull’unico terreno del frumento in uno dei quadri agricoli più poliformi e dinamici del continente.
Paradossalmente, l’agricoltura europea accetta il ruolo subordinato imposto da Washington all’alba di una crescita dei consumi alimentari, conseguenza della crescita demografica mondiale, che nei decenni futuri sarà oltremodo più arduo soddisfare che negli ultimi lustri del secolo scorso. Nella seconda metà del Novecento il raddoppio della popolazione della Terra ha potuto contare su un’esplosione della produttività che la generalità degli economisti ha giudicato espressione ‘meccanica’ del progresso tecnologico. Progresso tecnologico che lo storico della scienza sapeva essere frutto della sinergia di scoperte che avevano preso corpo, nei laboratori europei e americani, nell’arco di cento anni e che manifestavano, insieme, i propri effetti dopo che il contesto delle conoscenze aveva raggiunto la maturità in grado di consentirne la sinergia. Quell’uso combinato non poteva, peraltro, non esaurire i propri effetti: per produrre un fenomeno analogo si imponeva la realizzazione di conoscenze nuove. Nonostante la moltiplicazione delle scoperte lo sviluppo scientifico non ha generato, negli ultimi decenni, acquisizioni equivalenti a quelle che hanno espresso i propri frutti negli anni successivi al 1950.
La grande ricerca internazionale mira con determinazione a scoperte capaci di imprimere alle produzioni agrarie un impulso nuovo. Per conseguirle nei Paesi evoluti si sono sviluppati, nei lustri recenti, canoni e modalità di ricerca radicalmente nuovi. Il loro perno può essere identificato nella creazione di organismi scientifici di dimensioni tecnologiche e finanziarie imponenti, capaci di riunire centinaia di ricercatori in decine di laboratori, rigorosamente coordinati secondo programmi che assegnano a ogni segmento compiti che si integrano in organici progetti poliennali. Chi abbia varcato le soglie dei sacrari della ricerca internazionale reputa che il modello costituisca la condizione per realizzare il solo obiettivo che consentirebbe di accrescere, oltre i traguardi raggiunti nel crepuscolo del Novecento, le produzioni vegetali. Ove si riconosca, infatti, che le potenzialità biologiche delle entità vegetali selezionate, diecimila anni addietro, dall’agricoltura neolitica, siano state esaurite dalla genetica degli ultimi decenni, incrementi della produttività appaiono possibili, in futuro, solo mutando radicalmente, nelle piante coltivate, meccanismi biologici essenziali: l’obiettivo cui possono mirare, grazie a strutture e apparecchiature, i nuovi giganti della sperimentazione americana, inglese, tedesca, cui si sono aggiunti, recentemente, organismi cinesi e indiani.
L’Italia ha categoricamente rifiutato il modello della nuova ricerca che si è imposto dagli Stati Uniti alla Cina: un dibattito (cfr. l’intervista a F. Salamini, Un’agricoltura senza genetica è un’agricoltura senza futuro, «Spazio rurale», ottobre 2010, pp. 12-13) non privo, peraltro, di reticenze ha verificato che nessuna delle ventidue facoltà di Agraria aperte da Udine a Catania accetterebbe di fondersi con un’università diversa, che i ricercatori delle decine di sedi ‘distaccate’ della flottiglia degli istituti di ricerca ministeriali accetterà mai il trasferimento necessario per creare unità operative le cui dimensioni possano avvicinarsi a quelle delle istituzioni straniere.
Come conseguenza chi conosce il lavoro quotidiano nei cento laboratori operanti nella penisola è indotto a dubitare che uno qualsiasi possa proporsi gli obiettivi che permetterebbero di moltiplicare, in futuro, le produzioni alimentari. Se la tecnologia agronomica dei cento poli della ricerca agraria italiana ha compiuto, nel terzo quarto del Novecento, un autentico prodigio, quel prodigio ha esaurito i propri effetti in uno scenario economico che non esiste più. Tentare di ripeterlo nello scenario nuovo non sarebbe che vano conato. Sul pianeta presto popolato da nove miliardi di abitanti che chiederanno il proprio cibo, è solo partecipando alla competizione per creare piante capaci di produrlo che si può prestare un contributo al progresso agricolo futuro: la disordinata flottiglia di navicelle e barchette della ricerca agraria italia non pare possedere nessuno dei requisiti necessari a partecipare al confronto.
A. Saltini, Storia delle scienze agrarie, voll. 2°-4°, Bologna 1987-1989; nuova ed. voll. 3°-7°, Firenze 2011-2013.