Le scienze del cervello
Tra il 1836 e il 1844 Carlo Matteucci, che nel 1862 sarà il quarto ministro dell’Istruzione pubblica del Regno d’Italia, dimostrò la natura biologica delle correnti nervose e diede inizio alla moderna elettrofisiologia; nel 1851 Alfonso Corti (1822-1876) introdusse il carminio, primo colorante usato per le ricerche microscopiche sui tessuti nervosi; quattro anni più tardi, Bartolomeo Panizza (1785-1867) localizzò le aree visive della corteccia cerebrale negli animali e infine, nel 1873, Camillo Golgi mise a punto la reazione nera.
Quando si arrivò all’Unità, la ricerca italiana aveva posto di fatto i pilastri fondamentali dello sviluppo delle scienze del cervello nel 20° secolo. Sino agli ultimi decenni dell’Ottocento, le dimensioni strutturali e funzionali del cervello erano state infatti oggetto di discipline di studio separate. L’anatomia, la fisiologia, la patologia e la clinica del sistema nervoso erano caratterizzate da metodologie e oggetti di studio, finalità, concetti e modelli di spiegazione assai diversi. La ricerca italiana determinò la svolta sperimentale che portò alla definizione del concetto di neurone, il quale ha catalizzato il progressivo accostamento dei diversi domini di studio sul sistema nervoso, ed è il concetto unificante alla base delle neuroscienze così come oggi le conosciamo.
Per quanto nel secolo e mezzo successivo non siano mancati risultati straordinari che hanno indirizzato l’evoluzione e l’articolazione dell’intero settore di studi, la ricerca italiana nel complesso non ha tuttavia saputo valorizzare la considerevole eredità culturale da cui partiva. I risultati sono venuti da gruppi scientifici e scuole sostanzialmente isolati, creati da singoli studiosi di eccezionale valore, creativi, versati nell’insegnamento, e capaci di muoversi nelle maglie delle politiche accademiche e della ricerca. Un assetto senza sistema, poco attrezzato ad affrontare la moltiplicazione e la complicazione dei problemi, delle prospettive, dei piani di indagine sul sistema nervoso, progressivamente portati alla luce da settori disciplinari come, per es., la biochimica e poi la biologia molecolare. Un’articolazione disciplinare che soprattutto esigeva l’organizzazione e il dialogo, la circolazione di conoscenze e competenze, il rinnovamento dei percorsi di formazione dei ricercatori. Quest’ultima esigenza, in particolare, si è a lungo scontrata in Italia con il confinamento della ricerca sul cervello nelle scuole mediche, quando altrove già dal periodo tra le due guerre gli indirizzi di ricerca più promettenti si radicavano nelle scienze di base e nelle facoltà scientifiche. Un ritardo e una marginalizzazione che hanno contribuito ad alimentare la cronica carenza di fondi in un settore caratterizzato nel 20° sec. da un vertiginoso aumento dei costi della ricerca.
Il concetto di neurone, termine introdotto da Wilhelm von Waldeyer Hartz (1836-1921) nel 1891, è stato imposto dagli studi che Santiago Ramón y Cajal (1852-1934) condusse a partire dal 1887, quando iniziò a usare la reazione nera, il metodo della colorazione dei tessuti nervosi messo a punto nel 1873 da Golgi che così la descriveva in una lettera del 16 febbraio 1873 all’amico Nicolò Manfredi (1836-1916), compagno di studi a Pavia:
Lavoro molte ore al microscopio. Sono felice d’aver trovato una nuova reazione per dimostrare anche agli orbi le strutture dello stroma interstiziale della corteccia cerebrale. Faccio agire il nitrato d’argento sui pezzi di cervello induriti in bicromato di potassio. Ho già ottenuto risultati assai belli e spero di ottenere di più (cit. in Mazzarello 2006, p. 87).
I risultati erano davvero straordinari dal punto di vista del dettaglio, della qualità estetica, del risalto percettivo. La tecnica di Golgi colora le cellule nervose nella loro interezza – corpo e fibre – di un nero intenso, facendole spiccare su uno sfondo giallo cromo. Solo una piccola percentuale di neuroni viene tuttavia colorata, non più del 5%. La colorazione è quindi altamente selettiva e non palesa tutte le cellule presenti nel tessuto nervoso trattato. Ma proprio in questa particolarità, che potrebbe apparire come un difetto, stanno invece il valore e l’utilità della reazione nera. Come per le tecniche istologiche precedenti, una colorazione meno selettiva rende di fatto indiscernibili le strutture dell’anatomia microscopica celate nel denso intrico di fibre e corpi cellulari.
Nel 1909 Ramón y Cajal descriverà la reazione nera come una specie di microdissezione del tessuto nervoso. Come un microscopio chimico, come un microanatomista all’opera, l’impregnazione argentica sottraeva, distingueva, separava. E proprio per questo amplificava e dettagliava chimicamente le parti fondamentali delle cellule nervose: le portava alla lente del microscopio schiudendole finalmente all’osservazione scientifica.
Golgi fu il primo a disegnare i neuroni come li conosciamo oggi, con le fibre, in particolare i dendriti, terminazioni libere senza contatto con altri neuroni (Sulla fina anatomia del cervello umano, «Archivio italiano per le malattie nervose e più particolarmente per le alienazioni nentali», 1874, 11, pp. 90-107). Egli aveva così prodotto l’evidenza su cui si fonda la teoria neuronale che Ramón y Cajal proporrà nel 1892 e contro cui Golgi condurrà un’aspra battaglia, facendone anche oggetto di scontro nel 1906, durante l’assegnazione del premio Nobel, diviso proprio con Ramón y Cajal. La teoria neuronale postula che, come quelle degli altri tessuti, anche le cellule nervose sono unità indipendenti le cui fibre sono in un rapporto di contiguità ma di non continuità. Golgi al contrario, a dispetto delle sue osservazioni, continuava a pensare che le ramificazioni delle cellule costituissero il substrato anatomico di una rete nervosa continua e diffusa.
Il neuronismo di Ramón y Cajal introdusse poi il concetto della polarizzazione dinamica, l’idea cioè che i due tipi principali di fibre nervose conducono impulsi in direzioni specifiche: gli assoni lontano dal corpo cellulare, i dendriti verso. La teoria reticolare di Golgi prevedeva invece erroneamente che gli impulsi potessero viaggiare in ogni direzione per entrambi i tipi di fibre nervose. Come sappiamo, il conflitto teorico si è risolto a favore della dottrina del neurone divenuta il fondamento delle moderne neuroscienze. Tuttavia, la convinzione reticolarista e la riluttanza di Golgi a far propria la dottrina del neurone hanno una loro ragione sia rispetto alle conoscenze del tempo sia agli sviluppi della neurobiologia. Le teorie del cervello allora più diffuse erano ispirate al modello dei nuovi sistemi di comunicazione, prima la ferrovia, poi il telegrafo. Quest’ultimo apparato, in particolare, esprimeva anche la natura fondamentalmente elettrica delle funzioni nervose. In ogni caso, la base funzionale di questi due diversi sistemi di comunicazione era il circuito continuo.
La prospettiva reticolare di Golgi, inoltre, era coerente con numerose ricerche che sembravano indicare la natura diffusa delle funzioni cerebrali e l’assenza di correlazioni precise tra aree e specifiche attività, al contrario di quanto invece suggeriva la dottrina neuronale. Il neuronismo implicava tra l’altro l’idea che le funzioni fossero codificate da circuiti specifici e relativamente isolati. Questa visione connessionistica sembrava contraddetta da un fenomeno spesso osservato da Golgi in clinica neurologica: il recupero delle funzioni danneggiate in seguito a lesioni al cervello, che suggeriva il carattere diffuso e distribuito dei processi funzionali.
Ramón y Cajal aveva certamente aggiunto nuova evidenza a sostegno della teoria neuronale. Cionondimeno l’apparenza istologica riguardo alle cellule nervose continuava a mantenere tratti di ambiguità e incertezza rilevanti. Dal punto di vista della mera evidenza, di ciò che veniva reso dal microscopio, restava impossibile decidere conclusivamente tra la dottrina neuronista e quella reticolarista. In questo senso, solo la microscopia elettronica, intorno agli anni Quaranta del Novecento, fu in grado di risolvere definitivamente questa controversia, considerata la dimensione irrisoria del sito di contatto tra neuroni contigui.
La reazione nera contribuì all’accertamento di una serie straordinaria di fatti morfologici prima sconosciuti, come la scoperta della rete perineuronale, il rivestimento del corpo e dei dendriti delle cellule nervose, la descrizione dei processi di rigenerazione dei nervi periferici, fatta da Aldo Perroncito (1882-1929), uno degli allievi di Golgi.
Un risultato ancora più importante conseguito a partire dalle applicazioni e modificazioni della reazione nera fu quello ottenuto da Vittorio Marchi (1851-1908), con la messa a punto del metodo della colorazione della mielina per l’osservazione delle degenerazioni neuronali. La tecnica di Marchi permetteva di marcare selettivamente le fibre neuronali degeneranti, rendendo possibile ricostruire a ritroso la morfologia dei circuiti neuronali del cervello, anche con l’uso di lesioni sperimentali. Grazie alla sua precisione e semplicità, il metodo di Marchi ha contribuito allo sviluppo della neuroanatomia del Novecento.
I successi della scuola di Golgi avevano collocato l’istologia e l’anatomia microscopica in una posizione di dominio nel panorama scientifico e accademico italiano. Il programma di ricerca di Golgi faceva della morfologia del sistema nervoso la grammatica e il metodo con cui indagare e interpretare la natura del sistema nervoso. Di conseguenza ogni spiegazione funzionale, ogni descrizione di meccanismi o processi nervosi priva di riscontro anatomico e microscopico era condannata come pura astrazione. Per questa ragione, la scuola di Golgi finì per diventare un ostacolo allo sviluppo delle prospettive d’indagine delle scienze del cervello italiane, quando, tra le due guerre, la ricerca sul sistema nervoso si sviluppò sotto la spinta delle novità metodologiche e teoriche dello studio delle funzioni (legate soprattutto alla biochimica, alla elettrofisiologia e alla farmacologia) e del dialogo sempre più intenso della ricerca di base con la clinica e la patologia del cervello.
Dal primo dopoguerra alcuni studiosi italiani avevano criticato l’approccio istologico, denunciandone, come faceva Enrico Morselli (1852-1929), il «feticismo per il microscopio». Morselli contestava il predominio degli istologi nel governo della ricerca scientifica e nelle stesse politiche di reclutamento accademico. Secondo Morselli, in questo modo si svalutavano i contributi di studiosi che, nella clinica neurologica e psichiatrica, ritenevano più utile studiare la funzione che non l’organo cadaverico. A suo dire, gli «istomani» restavano incapaci di prendere coscienza dei limiti dell’istologia e di comprendere le potenzialità dei nuovi indirizzi di studio funzionali (E. Morselli, Psichiatria ed Istologia […], «Quaderni di psichiatria», 1917, 4).
In realtà, l’istologia italiana si era già aperta alla dimensione funzionale grazie all’opera di Eugenio Tanzi (1856-1934), allievo proprio di Morselli e uno dei pochi studiosi italiani ad aver prontamente abbracciato la dottrina neuronale di Ramón y Cajal. Professore di clinica delle malattie nervose a Cagliari, Tanzi studiava al microscopio le arborizzazioni terminali dei neuroni e descriveva i rapporti di varia e mutevole vicinanza tra fibre nervose di neuroni diversi. Queste osservazioni, tuttavia, non rimanevano confinate al dominio istologico ma venivano collegate all’orizzonte fisiologico e diventavano materia empirica per spiegazioni di tipo funzionale. Egli proponeva di spiegare l’apprendimento come conseguenza dei processi di costruzione e consolidamento di circuiti nervosi conseguenti alla crescita nervosa delle arborizzazioni nervose, alla diminuzione delle distanze tra neuroni e quindi alla facilitazione della trasmissione dei segnali: ciò che oggi viene definito con il termine neuroplasticità, introdotto da un allievo di Tanzi, Ernesto Lugaro (1870-1940). Questi, sostenendo che le associazioni mentali dipendevano anche da processi di influenza chimica reciproca tra i neuroni, precorse la spiegazione psicobiologica dell’apprendimento formulata da Donald O. Hebb (1904-1985) nel 1949, un fondamento delle neuroscienze cognitive contemporanee. Lugaro inoltre assimilava questi processi di continuo rimodellamento della microanatomia dei circuiti nervosi alle dinamiche di sviluppo embriologico del cervello.
L’attenzione verso i processi di sviluppo del sistema nervoso caratterizzò l’opera di un altro dei collaboratori di Tanzi a Firenze, Giuseppe Levi. Uno dei principali meriti scientifici di Levi fu l’introduzione in Italia della tecnica delle colture in vitro messa a punto nel 1907 da Ross G. Harrison (1870-1959), con la quale si potevano indagare le proprietà morfologiche, chimico-fisiche e le attività delle cellule isolate dalle influenze perturbatrici dell’organismo, in relazione a stimoli sperimentali diversi e somministrabili in maniera controllata.
Negli anni tra le due guerre, Levi, che era professore ordinario a Torino, grazie all’uso delle colture in vitro, della microscopia elettronica, della radiologia, portò a termine il processo di integrazione tra scienze della forma e scienze della funzione, dando all’istologia e all’anatomia una completa estensione biologica. Negli anni Trenta, Levi introdusse per primo la tecnica della microcinematografia per registrare il comportamento delle cellule in coltura al microscopio: un metodo che dava ulteriore slancio agli studi sulla crescita nervosa e sulla rigenerazione delle fibre neuronali in seguito a lesione. Levi riuniva in sé straordinarie doti di sperimentatore e una lucida visione d’insieme dei problemi della biologia del tempo. Queste caratteristiche fecero di Levi anche il più grande didatta italiano delle scienze della vita, maestro di ben tre premi Nobel: Salvador E. Luria, Renato Dulbecco e Rita Levi-Montalcini.
Tra il 1940 e il 1941, colpiti dalle leggi razziali, Levi e Levi-Montalcini realizzavano in laboratori di fortuna attrezzati in casa gli esperimenti sull’embrione di pollo che aprivano il capitolo della ricerca sui fattori di crescita nervosa. Era una linea d’indagine che nei vent’anni successivi, presso la Washington University a St. Louis, doveva portare Levi-Montalcini alla scoperta del Nerve growth factor (NGF), il fattore di crescita nervoso, al suo isolamento, alla sua caratterizzazione chimica, alla descrizione delle sue diverse proprietà fisiologiche. Richiamata in Italia nel 1962 dal Consiglio nazionale delle ricerche, Levi-Montalcini indagava in particolare i meccanismi d’azione del NGF, i suoi vari ruoli funzionali, la dimensione genetica, l’interazione con il sistema nervoso centrale, il sistema immunitario e il sistema endocrino, iniziando anche così a tratteggiare la sua influenza sul comportamento.
La scoperta del NGF ha rivoluzionato la storia delle neuroscienze e ha avviato la ricerca su una nuova e variegata classe di messaggeri endogeni con le più diverse specificità funzionali indicata nel suo complesso con il termine fattori di crescita. Ma soprattutto, la scoperta del NGF, con l’accertamento del suo vasto spettro d’azione sui diversi sistemi funzionali dell’organismo, ha richiamato la necessità di studiare i meccanismi nervosi e, più in generale, i processi fisiologici secondo un approccio globale, sistemico. Gli studi sul NGF hanno così dato impulso al dialogo tra settori di indagine prima separati e distanti, come le scienze del cervello, l’immunologia e l’endocrinologia. Dobbiamo inoltre soprattutto agli studi sul NGF l’apertura del programma di ricerca sui meccanismi dell’apoptosi, la morte cellulare, e dell’epigenesi del sistema nervoso, grazie ai quali si è finalmente affermata l’idea del cervello come organo sottoposto a un costante rimodellamento della sua struttura e delle sue funzioni lungo tutto l’arco della vita.
Tra le due guerre l’istologia era andata incontro a un’altra divaricazione teorica per effetto dell’incontro con la biochimica e la farmacologia. Si era così originata l’istochimica. Gli oggetti di studio di questo nuovo settore erano la determinazione della composizione biochimica dei tessuti e delle cellule e la mappatura della distribuzione delle diverse sostanze chimiche a livello tissutale e cellulare. L’istochimica in questo senso ampliava la possibilità di distinguere e definire le diverse popolazioni cellulari, le strutture biologiche e gli organelli cellulari, nonché di individuare più nettamente i limiti e le sovrapposizioni funzionali delle varie strutture anatomiche. Essa si rivelò un potente strumento per gli studi sul cervello, anche in ragione della rilevanza della composizione e dell’attività biochimica nei fenomeni di neurotrasmissione, attività fondamentale del sistema nervoso.
Vittorio Erspamer (1909-1999) ha prodotto i risultati più significativi in questo settore di indagine. Negli anni Trenta scoprì le cellule enterocromaffini nei Vertebrati. Queste cellule, così chiamate per la loro capacità di reagire e colorarsi con i sali di cromo, sono presenti a livello enterico, nelle mucose gastrointestinali. Dobbiamo a Erspamer la descrizione delle loro proprietà endocrine, l’isolamento, la loro caratterizzazione chimica e l’accertamento dell’attività farmacologica del loro prodotto di secrezione, che Erspamer propose di chiamare enteramina. Nello stesso periodo Irvin H. Page (1901-1991) a Cleveland scopriva e poi isolava nel siero bovino un’altra interessante sostanza endogena dotata di un potente effetto vasocostrittore e perciò chiamata serotonina.
Nel 1951, Erspamer dimostrò che l’enteramina e la serotonina sono in realtà la stessa sostanza. Negli anni immediatamente successivi la serotonina fu localizzata nel cervello e iniziarono gli studi neurofarmacologici tesi a chiarirne il ruolo funzionale. La serotonina si rivelò uno dei neurotrasmettitori al centro dei meccanismi del sonno, del sogno e dei processi emotivi, tanto da diventare presto uno dei principali oggetti della ricerca psicofarmacologica, in particolare per i disturbi depressivi. Erspamer fu tra i primi a scoprire che un ormone localizzato a livello periferico può anche essere presente nel sistema nervoso centrale. Ciò suggeriva, da un lato, l’esistenza di correlazioni tra attività del cervello e funzioni del sistema gastrointestinale e, dall’altro, indicava l’utilità di insistere con la ricerca di messaggeri e bioregolatori endogeni in più tessuti e apparati funzionali. Erspamer si orientò verso gli studi sulle sostanze estratte dalla pelle degli anfibi, scoprendo e isolando decine di amine e polipeptidi dotati di molteplici azioni fisiologiche. Alla fine degli anni Settanta passò a interessarsi di peptidi oppioidi. Nel corso di queste ricerche individuò la dermorfina, un analgesico almeno duecento volte più potente della morfina, sulla pelle delle rane arboree, del genere Phyllomedusa, che vivono in Amazzonia. I peptidi e gli oppioidi identificati da Erspamer sono stati strumenti di indagine formidabili per la comprensione del sistema degli oppioidi nel cervello, fondamentali nei processi di analgesia e dei fenomeni affettivi.
Candidato più volte al Nobel, Erspamer ha dato un contributo alla scoperta e alla descrizione dei rapporti tra sistema nervoso e altri apparati funzionali mediati da sostanze endogene non ormonali, contribuendo alla ridefinizione concettuale della fisiologia della regolazione, della farmacologia del sistema nervoso e del comportamento avviate a metà del 19° sec., con cui si è rivalutata l’utilità della prospettiva integrazionista nelle strategie di ricerca e nei modelli di spiegazione del vivente.
Un altro esempio di questo approccio è quello offerto dalle ricerche del farmacologo William Ferrari (1920-1999), il quale nel 1957, allora a Cagliari, dimostrò negli animali che l’iniezione in talune aree del cervello di peptidi analoghi dell’a-MSH – una delle due forme dell’ormone melanocitostimolante – produce il tipico comportamento di stiramento e sbadigli. Era una scoperta eccezionale, in quanto per la prima volta veniva identificata una molecola endogena responsabile di una risposta comportamentale organizzata e perché dimostrava che i peptidi, e non solo i neurotrasmettitori classici, partecipano al controllo delle funzioni del sistema nervoso centrale e quindi del comportamento.
Ferrari tenne la cattedra di farmacologia a Cagliari per vent’anni, creando una delle scuole di neurofarmacologia più creative a livello internazionale, in particolare nel settore della farmacologia dei comportamenti d’abuso e delle tossicodipendenze. Dalla scuola di Cagliari usciva nel 1948 anche Erminio Costa (1924-2009), autore dei primi studi sulla presenza e sul ruolo della serotonina nel cervello, del suo coinvolgimento nelle patologie psichiatriche. Costa sviluppò in particolare gli studi sui meccanismi d’azione degli psicofarmaci, la cui varietà e il cui numero erano straordinariamente cresciuti a partire dagli anni Cinquanta. In quest’ambito si deve a Costa l’importante scoperta fatta nel 1975 che i recettori del GABA (γ-Aminobutyric Acid, neurotrasmettitore assai diffuso nel cervello che inibisce l’attività dei neuroni) costituiscono il bersaglio dell’azione delle benzodiazepine, i farmaci d’elezione nel trattamento dei disturbi d’ansia.
Altra figura di rilievo della neurofarmacologia italiana è stato Daniel Bovet. Arrivato in Italia nel 1947 e già noto per le sue ricerche sui sulfamidici e gli antistaminici, Bovet si concentrò sullo studio della farmacologia del sistema nervoso. Nel 1949 giunse alla formulazione di vari curari sintetici, come la succinilcolina, diventata il prototipo dei bloccanti neuromuscolari usati in anestesia generale, ricerche per cui fu insignito del premio Nobel nel 1957. Dagli anni Sessanta Bovet passò alla ricerca sulla farmacologia dell’apprendimento e della memoria e successivamente partecipò alla fondazione del settore di studio della genetica del comportamento.
La ricerca anatomica e istologica ha seguito soprattutto una direzione dal basso verso l’alto, dal semplice al complesso, dal microscopico al macroscopico, ma parallelamente a questo itinerario, un’altra via veniva percorsa in fisiologia.
La prima fondamentale tappa fu la ricerca anatomofunzionale, la localizzazione delle funzioni cerebrali condotta attraverso l’uso delle lesioni sperimentali sugli animali. Agli inizi dell’Ottocento era stata la ricerca italiana, con Luigi Rolando (1773-1831), a contribuire all’affermazione di questa tecnica nello studio delle funzioni cerebrali. Essa prevedeva generalmente l’asportazione di un nucleo del cervello o di parte del tessuto cerebrale, o anche l’interruzione di una via nervosa, e la successiva osservazione degli effetti sulle funzioni.
Erano stati gli studi con lesioni sperimentali nel 1855 a rivelare a Bartolomeo Panizza (1785-1867) il coinvolgimento della corteccia occipitale nella visione: una delle prime chiare osservazioni sulla localizzazione cerebrale di una funzione sensoriale. Tuttavia, per molta parte dell’Ottocento i principali risultati della ricerca sulla localizzazione delle funzioni cerebrali vennero da indagini condotte fuori dall’Italia. Tra queste vanno ricordate nel 1861 l’identificazione da parte di Pierre Paul Broca (1824-1880) dell’area motoria del linguaggio in una parte del lobo anteriore dell’emisfero sinistro, la delimitazione della corteccia cerebrale con funzioni motorie realizzata da Gustav Th. Fritsch (1838-1927) ed Eduard Hitzig (1839-1907), l’individuazione della corteccia sensoriale del linguaggio da parte di Karl Wernicke (1848-1905) nel 1874 e, soprattutto, la grandiosa e precisa mappatura del cervello realizzata da sir David Ferrier (1843-1928), compendiata in The functions of the brain (1876), uno dei libri più influenti nella storia delle neuroscienze. Erano contributi fondamentali che riaccendevano il dibattito tra teorie localizzazioniste e modelli del cervello sistemici o olistici. Secondo le prime, ogni funzione del cervello è svolta da una specifica area o circuito dedicati. I modelli olistici interpretavano invece le funzioni cerebrali come il risultato di un’azione diffusa, che richiama e recluta nuclei e vie di molte e diverse parti dell’encefalo. Entrambe le prospettive erano afflitte da anomalie teoriche ma corroborate da evidenze sperimentali e dalla coerenza dei relativi modelli di spiegazione.
Fu Luigi Luciani (1840-1919) a compiere un deciso passo avanti verso il superamento di questa contrapposizione. Nel 1878, con la collaborazione di Augusto Tamburini (1848-1919), egli dimostrò che l’asportazione totale della corteccia occipitale non causava cecità assoluta e che quindi nella visione erano in gioco strutture sottocorticali. Il ruolo della corteccia visiva, chiariva Luciani, era quello di rappresentare le percezioni sul piano psichico, di dare cioè senso alle cose viste. Luciani accertava che lo stesso fenomeno si produceva nel caso dell’ablazione della corteccia uditiva, che portava alla «sordità psichica» ma non alla perdita della capacità di udire. Negli anni successivi, studiando l’epilessia, osservò la stretta interazione tra i centri corticali responsabili del movimento di specifici gruppi muscolari e le aree corticali sensoriali attivate dal moto di quegli stessi gruppi muscolari. Da qui la sua dottrina sensomotoria, secondo cui le aree corticali sensoriali e motorie sono in realtà intrinsecamente sensomotorie. Questa teoria dava vita a un programma di ricerche i cui risultati indicavano la possibilità di una via intermedia tra localizzazionisti e antilocalizzazionisti, secondo la quale i sistemi funzionali, pur localizzabili su specifici siti cerebrali, sono privi di confini anatomici netti e sono parzialmente interconnessi, integrati e sovrapposti ad altri. Quest’ultima idea della sovrapposizione funzionale, della rappresentazione delle funzioni a più livelli del cervello era particolarmente importante. Oggi chiamato corticalizzazione, il principio indicato da Luciani era ispirato da un ragionamento evoluzionistico. Egli comprese che la filogenesi aveva prodotto nel tempo una stratificazione di strutture nervose, dal midollo spinale alla neocorteccia, capaci di svolgere una stessa funzione in modi via via più complessi e raffinati. La corticalizzazione di Luciani favorì il superamento anche in Italia del limitato orizzonte teoretico della neurologia e l’innesto delle concettualizzazioni sulle funzioni del cervello in un quadro integralmente biologico.
La ricerca sulle localizzazioni cerebrali dell’ultimo quarto del 19° sec. aveva delineato una chiara mappa delle funzioni motorie e sensoriali, rispettivamente nella corteccia frontale posteriore e in quella parietale. Continuava a restare sconosciuto il ruolo della corteccia frontale anteriore. Il fatto che questa regione del cervello sia responsabile delle funzioni cognitive più complesse, come il controllo volontario del comportamento, le funzioni esecutive, le capacità di pianificazione, rendeva ovviamente assai difficile la messa a punto di un valido modello sperimentale animale. Dobbiamo a Leonardo Bianchi (1848-1927) la soluzione di questo problema. Docente di psichiatria a Napoli e direttore del locale manicomio provinciale, nel 1888 Bianchi iniziò a lavorare sulle aree prefrontali delle scimmie e dei cani usando le lesioni sperimentali e la stimolazione elettrica corticale. Erano metodologie comuni e da lungo tempo utilizzate negli studi sull’organizzazione funzionale del cervello. L’osservazione dei risultati di questi interventi sul comportamento si limitava tuttavia generalmente agli effetti acuti, ristretti a un limitato periodo postoperatorio e nell’animale isolato. Bianchi invece prese a osservare gli effetti a lungo termine e sugli animali riportati all’interno del gruppo. Fu così in grado di rilevare che le lesioni alla corteccia frontale anteriore compromettevano i comportamenti sociali degli animali, la loro capacità di regolare le emozioni, di valutare situazioni complesse e di agire in modo pianificato. L’individuazione del rapporto tra funzioni cognitive e lobo prefrontale, tuttavia, non indusse Bianchi all’adesione acritica al paradigma localizzazionista. In un importante lavoro pubblicato nel 1895 sulla prestigiosa rivista «Brain», egli descrisse i lobi prefrontali come la sede e il mezzo dell’associazione della fusione e della coordinazione delle attività delle diverse aree motorie e sensoriali della corteccia. Per questo Bianchi concludeva che la regione prefrontale mediava le funzioni psichiche superiori solo in quanto parte del cervello come sistema integrato.
La ricerca vivisettiva, l’individuazione delle funzioni, la ricerca delle spiegazioni funzionali e del rapporto tra strutture e funzioni costituivano uno dei due approcci caratterizzanti la transizione epistemologica e metodologica della fisiologia dopo la metà dell’Ottocento, e sui quali si modellò l’indagine sul cervello. Soprattutto in Germania, infatti, l’adozione delle strategie e degli strumenti di indagine della chimica e della fisica aveva fatto emergere un’altra tradizione di ricerca fisiologica. Compendiata nell’opera di Carl F.W. Ludwig (1816-1895), essa si basava sui principi del fisicalismo, del riduzionismo e del metodo quantitativo, e pertanto sulla manipolazione analitica dei sistemi viventi e sull’uso sistematico di nuovi e complessi strumenti di misurazione delle variabili fisiologiche in condizioni sperimentali.
Angelo Mosso (1846-1910), allievo di Ludwig a Lipsia, fu tra i primi ad adottare il modello concettuale e le tecniche di ricerca analitico-quantitative della nuova fisiologia fisicalista. La sua ricerca più famosa è quella sulla circolazione del sangue nel cervello, iniziata a Torino nel 1876. Mosso misurava la circolazione cerebrale ai suoi pazienti durante l’esecuzione di varie operazioni, come la lettura, i calcoli matematici, l’osservazione di figure, il richiamo e il racconto di eventi del passato e così via. I suoi studi costituirono il primo organico tentativo di correlare la circolazione cerebrale alle funzioni mentali. Essi ebbero vasta eco internazionale e diedero impulso a una nuova fertile direzione di ricerca, fornendo i principi teorici e metodologici che informano le attuali tecniche di visualizzazione in vivo delle funzioni del cervello, come la PET (Positron Emission Tomography), la SPECT (Single-Photon Emission Computed Tomography), la risonanza magnetica funzionale, la magnetoencefalografia: tutte queste tecniche permettono la misurazione della circolazione di sangue nel cervello per rilevare e studiare le basi nervose dei processi mentali. Una delle evidenze più suggestive ottenuta da Mosso era la dimostrazione che «le emozioni morali» hanno un effetto assai più consistente sulla circolazione cerebrale rispetto a tutte le altre attività psicologiche. Le emozioni dunque, anche in ragione del loro carattere ubiquitario – tra fisico e psichico – diventarono per Mosso il fenomeno più adatto all’esplorazione delle correlazioni tra processi cerebrali e attività mentale. Le sue ricerche sulla paura sono riportate in un volume pubblicato nel 1884 che conobbe un successo internazionale.
I risultati ottenuti da Mosso saranno al centro delle evidenze sperimentali su cui William James (1842-1910) e Carl Lange (1834-1900) costruirono tra il 1884 e il 1885 la cosiddetta teoria periferica delle emozioni, termine di riferimento nel Novecento per ogni teoria psicofisiologica dei processi emozionali. Secondo questa teoria le emozioni sarebbero in realtà le modificazioni somatiche – cardiovascolari, muscolari, viscerali, respiratorie – innescate dallo stimolo emotivo, mentre il vissuto soggettivo delle emozioni sarebbe la percezione di queste modificazioni fisiologiche periferiche.
Nel 1919, in una prospettiva più strettamente neurofisiologica, Mario Camis (1878-1946) avanzò tra i primi a livello internazionale una teoria centrale delle emozioni in Il meccanismo delle emozioni. Egli sostenne che, fermo restando la componente somatica, non si dà emozione se non per l’intervento di un’elaborazione corticale, di un atto cognitivo. Solo la valutazione degli stimoli a livello della corteccia cerebrale conduce, secondo Camis, alla completa attivazione della risposta emozionale nelle sue dimensioni biologiche e soggettive. Questa formulazione anticipò la cosiddetta teoria centrale di Walter B. Cannon (1871-1945).
Un originale sviluppo della teoria somatica delle emozioni verso il piano cognitivo fu prospettato da Vito Maria Buscaino (1887-1978), che identificò il vissuto emotivo soggettivo con la codificazione corticale, con la percezione delle singole, minute e correlate variazioni fisiologiche concomitanti alla reazione emozionale (Biologia della vita emotiva, 1921). Buscaino applicò questo modello somatico di spiegazione alla ricerca e alla comprensione degli altri fenomeni psicologici. In Neurobiologia delle percezioni (1946) egli descrive il fatto percettivo come risultato della sintesi realizzata nel cervello tra afferenze sensoriali e coincidenti schemi di attivazione motoria e viscerale. Uno schema che estenderà all’intero dominio della vita psichica in Vita psichica ed attività cerebrale (1960).
Clinica e patologia hanno avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo delle scienze del cervello, in particolare in Italia, dove almeno sino alla metà del Novecento la ricerca di base sul sistema nervoso è stata praticata soprattutto nelle cliniche neurologiche e psichiatriche.
Il disturbo neurologico che più ha ispirato e sostenuto la ricerca sul cervello per buona parte del Novecento è stato senza dubbio l’epilessia. La ricerca italiana è stata a lungo all’avanguardia negli studi sull’epilessia sperimentale e nel suo utilizzo per la comprensione dei meccanismi neurofisiologici e dell’organizzazione funzionale del cervello.
Questa tradizione di ricerca nacque in Italia con Silvestro Baglioni (1876-1957), il quale nel 1900, ancora studente presso l’Istituto fisiologico di Jena diretto da Max Verworn (1863-1921), mise a punto il metodo della stimolazione chimica localizzata e circoscritta, una delle più feconde strategie di indagine sulla fisiologia del sistema nervoso prima della generalizzazione dell’uso delle tecniche elettrofisiologiche.
Negli anni Venti, Giuseppe Amantea (1885-1966), allora aiuto di Luciani all’Istituto di fisiologia di Roma, modificò la tecnica di Baglioni, applicando sui centri corticali soluzioni di stricnina assai diluite (1‰), in dosi in sé inefficaci a promuovere un accesso convulsivo. Amantea riuscì a indurre l’accesso con stimoli meccanici sulla cute corrispondente all’area corticale trattata con la sostanza convulsivante. Egli aveva così scoperto l’epilessia sperimentale riflessa o da eccitamenti afferenti, nota oggi anche come epilessia di Amantea. Nel 1928 invece, Antonino Clementi (1888-1968) ottenne un accesso convulsivo generalizzato applicando stricnina su aree corticali sensitive e sottoponendo l’animale alla stimolazione degli specifici recettori sensoriali. L’epilessia sensoriale riflessa di Clementi dimostrò per la prima volta che l’accesso poteva generalizzarsi all’intera corteccia anche quando il suo sito d’origine non fosse localizzato sulle aree corticali motorie.
I dati acquisiti da Amantea e Clementi erano di straordinario interesse per la clinica, in quanto il fenomeno sperimentale riproduceva fedelmente ciò che si verifica in modo spontaneo nell’epilessia umana, in cui spesso le crisi sono scatenate da stimoli sensitivi o sensoriali. Almeno sino all’avvento delle neuroimmagini, nessun’altra tecnica ha permesso di studiare in modo altrettanto preciso e selettivo l’insorgere dell’accesso convulsivo, di comprendere i diversi aspetti della fisiologia e della fisiopatologia dei processi epilettici e sviluppare procedure diagnostiche in grado di individuare eventuali predisposizioni verso la malattia.
Dal punto di vista neurofisiologico, di fondamentale importanza è stata l’utilizzazione dell’epilessia sperimentale per lo sviluppo delle conoscenze sulle interazioni tra emisferi cerebrali. Nel 1935, Mario Gozzano (1898-1986) e quindi nel 1939 Giuseppe Moruzzi (1910-1986) registrarono elettroencefalograficamente il ruolo del corpo calloso – l’insieme delle fibre di connessione tra emisferi cerebrali – nella generalizzazione dell’accesso epilettico. Essi dimostrarono poi che la resezione di questo fascio di fibre previene l’accesso epilettico generalizzato. Il riscontro era alla base dell’introduzione della chirurgia del corpo calloso, cioè la separazione dei due emisferi cerebrali, per il trattamento dell’epilessia resistente ai farmaci. Questa terapia ha fornito i casi di studio attraverso i quali si è giunti dagli anni Sessanta alla comprensione della specializzazione e della lateralizzazione delle funzioni dei due emisferi. Moruzzi, insieme a Edgar D. Adrian (1889-1977), già Nobel nel 1932 per le sue ricerche neurofisiologiche, realizzò a Cambridge nel 1938 la prima registrazione dell’attività elettrica di un singolo neurone, dimostrando che anche i neuroni corticali, come quelli sensoriali e motori periferici, codificano l’intensità degli stimoli in termini di frequenza di scarica, e che quindi la spaziatura temporale dei potenziali d’azione è il codice unitario di comunicazione per tutte le interazioni e le funzioni nel sistema nervoso. Un altro eccezionale risultato conseguito da Moruzzi riguarda invece le basi cerebrali degli stati di coscienza e del ciclo sonno-veglia.
Nel 1949, durante la sua permanenza alla Northwestern University di Chicago, Moruzzi e Horace W. Magoun (1907-1991) dimostrarono che la stimolazione della formazione reticolare, una struttura posta nel tronco encefalico, provocava il risveglio e l’aumento dell’attenzione nell’animale, mentre la distruzione della reticolare faceva cadere gli animali nel coma permanente. Era la scoperta che poneva le basi fondamentali per la comprensione dei meccanismi del ciclo veglia-sonno, cui i successivi lavori di Moruzzi contribuirono in modo determinante. Gli studi sul sistema reticolare di Moruzzi contribuirono anche a chiarire molti aspetti funzionali e fisiologici dei processi emotivi e rappresentarono uno spartiacque nella storia delle neuroscienze.
Tornato nel 1949 a Pisa, egli assunse la direzione dell’Istituto di fisiologia e nel 1958 anche quella del Centro di studio per la neurofisiologia e del Centro di ricerca del CNR. È qui utile sottolineare che il CNR ha avuto un ruolo fondamentale, molto più dell’università, nello sviluppo delle scienze del cervello.
Dagli anni Sessanta Moruzzi guidò a Pisa uno dei più affermati sistemi di ricerca e formazione a livello internazionale, al centro di una fitta rete di rapporti con i più autorevoli ricercatori del mondo, tra cui molti Nobel o futuri Nobel come Adrian, sir John C. Eccles (1903-1997), Ragnar A. Granit (1900-1991), e dove si formarono molti fra i maggiori studiosi italiani. Tra le ricerche più importanti vanno menzionate quelle di Mauro Mancia (1929-2007) sul sonno, di Ottavio Pompeiano (1927-2008) sul controllo vestibolare della postura, le indagini di elettrofisiologia e psicofisica della visione di Lamberto Maffei (n. 1936), e gli studi di Giacomo Rizzolatti (n. 1937) sul riconoscimento delle azioni nella corteccia premotoria che, dall’inizio degli anni Novanta, hanno portato alla scoperta dei neuroni specchio, da allora uno degli oggetti più interessanti della ricerca sul cervello per le potenziali implicazioni nella comprensione delle funzioni cognitive, dei comportamenti sociali e di alcuni disturbi del comportamento, come l’autismo e la schizofrenia.
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Si veda inoltre:
S. Canali, Storia delle neuroscienze in Italia. Pubblicazioni online dell’Accademia nazionale delle scienze detta dei XL, http://media.accademiaxl.it/pubblicazioni/ neuroscienzeXL/indice.htm (14 marzo 2013).