Le scuole neoplatoniche da Porfirio a Damascio
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Tra il IV e il VI secolo, il pensiero neoplatonico si sviluppa soprattutto in Siria, a Pergamo, ad Atene e ad Alessandria; i suoi maggiori esponenti sono Porfirio, Giamblico, Proclo e Damascio. Le differenze principali rispetto a Plotino sono la valutazione maggiormente positiva di Aristotele, la strutturazione delle ipostasi incorporee in numerosi ordini triadici, la
La filosofia dell’età tardoantica è dominata dalla scuola platonica, o neoplatonica, secondo la designazione invalsa dagli inizi del XIX secolo per indicare il pensiero di Plotino e dei suoi successori. Nell’arco di tempo che va dal III al VI secolo è infatti il platonismo l’unica corrente filosofica in grado di mantenersi veramente vitale e di accogliere e rielaborare al suo interno istanze di altre tradizioni.
Plotino aveva fondato a Roma, nel 244, la sua scuola, il cui funzionamento è descritto da Porfirio nella Vita di Plotino. È incerto se, dopo la morte del maestro (270), Porfirio abbia continuato a insegnare a Roma; certo è che, poco dopo quella data, l’attività dei neoplatonici prosegue e si sviluppa altrove. Giamblico, nato a Calcide in Celesiria e allievo di Porfirio, fonda una scuola ad Apamea, e forse successivamente a Dafne, sobborgo di Antiochia. Tra i suoi discepoli diretti vi sono Teodoro di Asine, Sopatro di Apamea, Dessippo ed Edesio, che dopo la morte del maestro fonda a Pergamo una scuola destinata ad avere grande fortuna. Le fonti antiche attribuiscono infatti a Edesio numerosi discepoli, tra i quali Crisanzio di Sardi, Prisco di Epiro, Eusebio di Mindo, Massimo di Efeso e il futuro imperatore Giuliano, il quale nella sua lotta contro il cristianesimo mette in campo proprio numerosi elementi della spiritualità neoplatonica.
Grazie soprattutto a Prisco, il neoplatonismo di ispirazione giamblichea si trapianta ad Atene, dove, quale fondatore della scuola (che idealmente si colloca nel solco della gloriosa Accademia platonica), è comunemente considerato Plutarco di Atene, detto il “Grande”, interprete e commentatore di Platone e di Aristotele. Alla sua morte (432) la guida della scuola è assunta da Siriano, e successivamente da Proclo, il maggiore rappresentante del neoplatonismo ateniese. Tra gli scolari di Proclo si contano Asclepiodoto, Ammonio, Zenodoto e Marino, che nel 485 ottiene la successione nello scolarcato. La Vita di Proclo di Marino, sorta di elogio funebre dai toni fortemente agiografici del maestro da poco scomparso, e la più tarda Vita di Isidoro di Damascio forniscono parecchie notizie utili a ricostruire le vicende dell’accademia neoplatonica di Atene, la quale tra gli ultimi rappresentanti più illustri annovera Damascio, Simplicio e Prisciano di Lidia. I decreti emanati nel 529 dall’imperatore Giustiniano, che vietano ai non cristiani l’insegnamento pubblico, determinano di fatto la chiusura della scuola; Damascio, che all’epoca è scolarca, Simplicio, Prisciano e altri quattro colleghi abbandonano allora Atene e cercano rifugio, come narra lo storico Agazia, presso Cosroe, l’illuminato re dei Persiani. Quando nel 532 il re persiano conclude la pace con Giustiniano, vuole che sia garantita ai filosofi la possibilità di tornare in Grecia e vivervi indisturbati; alcuni di loro (o forse anche tutti), tra cui Simplicio, si insediano allora nella città greco-arabo-siriana di Harran (Carre), situata all’interno dei confini dell’impero bizantino, ma di fatto sotto l’influenza della vicina Persia.
L’ultimo grande centro da rammentare è Alessandria, la città dove Plotino ventottenne aveva cominciato a seguire le lezioni di Ammonio Sacca e dove la tradizione platonico-pitagorica aveva continuato a mantenersi vitale – si pensi soprattutto a Ipazia e Sinesio). Nel corso del V e del VI secolo l’attività in Alessandria di numerosi intellettuali neoplatonici è fiorente, anche se è improbabile che vi sia una scuola istituzionalmente organizzata come quella di Atene. Scambi e contatti tra i due centri, come attesta anche la già menzionata Vita di Isidoro, sono comunque sia assai intensi, e per quasi tutti i filosofi che operano ad Alessandria si ha notizia di un periodo di studio ad Atene, dove Ierocle studia sotto la guida di Plutarco, Ermia sotto quella di Siriano, Ammonio sotto quella di Proclo. La figura di maggiore spicco è quella di Ammonio, nato ad Alessandria intorno al 440 e noto anche come matematico e astronomo. Come filosofo, Ammonio si distingue nell’attività esegetica di Platone e di Aristotele, ma, mentre i suoi commenti a Platone sono andati perduti, sono numerosi i commenti superstiti ad Aristotele (di scritti logici, fisico-biologici, per giungere fino alla Metafisica) a lui attribuibili. Di suo pugno, a quanto pare, Ammonio redige soltanto il commento al De Interpretatione, mentre la pubblicazione degli altri corsi di lezione su Aristotele è dovuta ai discepoli Giovanni Filopono e Asclepio di Tralle. Tra i suoi allievi va ricordato anche Olimpiodoro, il quale, nel corso di un VI secolo caratterizzato dalla crescente egemonia culturale del cristianesimo, cura la formazione del commentatore David (Elias).
Gli studiosi di filosofia antica si sono a lungo impegnati a ricostruire la fisionomia delle varie “scuole” neoplatoniche, ma le loro caratterizzazioni, per molti aspetti senz’altro utili, vanno accolte con cautela, anche perché gli scambi e i contatti tra i vari centri, come si è detto, sono spesso vivaci. In un celebre saggio che risale a un secolo fa, Karl Praechter proponeva di distinguere tre correnti: una metafisico-speculativa, che avrebbe trovato espressione nelle scuole di Plotino, di Giamblico e di Atene, una a indirizzo religioso-magico, rappresentata dalla scuola di Pergamo, e una, infine, di carattere erudito, sviluppatasi ad Alessandria; anche la scuola “latina”, con Calcidio, Mario Vittorino, Macrobio e Boezio, avrebbe posseduto per Praechter un carattere eminentemente “erudito”. Una simile ricostruzione, se adottata meccanicamente, non rende conto della ricchezza e della complessità dei fattori che di volta in volta contribuiscono a determinare la fisionomia dei singoli pensatori, e rischia inoltre di oscurare fenomeni di portata più ampia, come l’indubbia rilevanza dell’elemento religioso e teurgico nell’intero tardo neoplatonismo, o la sostanziale affinità dei presupposti metafisici delle scuole di Atene e di Alessandria.
I neoplatonici, come già Plotino, non concepiscono la propria attività filosofica come elaborazione originale e autonoma, bensì come un’interpretazione, sempre più accurata e approfondita, del pensiero del “divino” Platone. Platone, tuttavia, non è l’esclusiva auctoritas per i neoplatonici, che tengono in grande considerazione anche le opinioni dei vari esponenti della tradizione platonica, di Aristotele e dei suoi commentatori, degli stoici e degli scritti di teologie elleniche e orientali. Come si può intuire, il valore attribuito alla tradizione incoraggia grandemente il ricorso alla forma letteraria del commento: parecchi degli scritti, conservati e non, dei neoplatonici sono infatti commentari, principalmente – ma non esclusivamente – alle opere di Platone. Non mancano tuttavia esempi, anche illustri, di opere redatte in forma di trattato autonomo: per esempio, le Sentenze di Porfirio, Sugli dèi e sul mondo di Sallustio (personaggio vicino all’imperatore Giuliano), gli Elementi di Teologia di Proclo, i Problemi e soluzioni sui primi principi di Damascio.
Lo studio di Platone è fondamentale anche nella formazione del futuro filosofo: per l’allievo è dapprima previsto un corso propedeutico basato sugli scritti logici di Aristotele, poi, appunto, lo studio di Platone, scandito in due fasi. Secondo il canone stabilito da Giamblico, nelle lezioni del primo ciclo si esaminano dieci dialoghi platonici, presentati in un ordine prestabilito: Alcibiade I (introduttivo), Gorgia e Fedone (etici), Cratilo e Teeteto (logici), Sofista e Politico (fisici), Fedro e Simposio (teologici), e infine il Filebo (sorta di compendio e coronamento dei precedenti dialoghi). Nel ciclo superiore sono invece analizzate le due opere più divinamente “ispirate”, vale a dire il Timeo per le dottrine fisiche e il Parmenide per le teologiche. Seguendo e sviluppando il suggerimento di Plotino, infatti, i neoplatonici posteriori, ciascuno con modalità proprie, cercano di individuare nella sequenza delle ipotesi dialettiche del Parmenide i diversi gradi di realtà, o “ipostasi”, che dal principio supremo giungono fino alla materia.
Tra i tratti teorici comuni a tutti i pensatori neoplatonici vi è la nozione di un principio supremo, detto in genere “l’Uno” per influenza del Parmenide, collocato al di sopra dell’essere (a questo riguardo qualche dubbio, come vedremo, può sussistere per Porfirio); essere che, per i neoplatonici, corrisponde in sostanza al platonico mondo delle Idee intelligibili. Per la verità, quasi tutti i neoplatonici postulano l’esistenza di più di un principio superiore all’essere, e a tutti questi principi sovressenziali è applicata, in misura più o meno accentuata, quella particolare modalità di discorso comunemente nota come “teologia negativa”: ciò che è al di là dell’essere è per sua natura privo di determinazione e, come tale, indicibile e inconoscibile; di esso, pertanto, è possibile parlare solo per via negativa, negandogli cioè qualsiasi attributo – persino quelli di “causa”, “principio”, “dio” o “uno” –, dato che nessun attributo può rendere veramente conto della sua assoluta e trascendente semplicità. È una forma di descrizione del principio supremo, tipicamente plotiniana, che i neoplatonici approfondiscono ulteriormente, giungendo a teorizzare l’autodissolvimento di qualsiasi discorso relativo all’Uno.
Dalla perfetta unitarietà della prima causa procede, per sovrabbondanza di potenza, tutta la serie dei piani di realtà successivi, caratterizzati da gradi crescenti di molteplicità. Il grado massimo di dispersione nel molteplice, e quindi di imperfezione e disordine, si raggiunge nelle cose sensibili e nella materia. La derivazione di tutte le cose dall’Uno si articola, secondo i neoplatonici, in un continuum privo di lacune, scandito in ordini di realtà, o “ipòstasi”, dotati di fisionomia e caratteristiche proprie. A questo riguardo, la suddivisione plotiniana della sfera immateriale in Uno, Intelletto e Anima è dai neoplatonici posteriori complicata ulteriormente, attraverso la proliferazione di piani interni alle tre ipòstasi, organizzati in gruppi perlopiù triadici.
Dal punto di vista etico, l’imperativo fondamentale è per tutti i neoplatonici quello di mantenere la natura spirituale dell’anima il più possibile immune dalla degradazione connessa al corpo, ai piaceri e alle passioni, al fine di ricondurla al suo luogo di origine: l’intelligibile e, infine, l’Uno. A tale scopo, i neoplatonici praticano uno stile di vita basato sullo studio, sull’ascesi e – soprattutto a partire da Giamblico – su pratiche cultuali e magiche, in grado di operare infine la riunificazione dell’anima al principio.
Per originalità di pensiero e influenza culturale esercitata i neoplatonici postplotiniani più significativi sono probabilmente Porfirio, Giamblico, Proclo e Damascio, senza dimenticare, sul versante dei commentatori di Aristotele di formazione neoplatonica, soprattutto i nomi di Simplicio e di Filopono.
Originario di Tiro, in Fenicia, Porfirio riceve la sua formazione ad Atene, dove approfondisce gli studi di filologia, di critica letteraria e di filosofia presso il platonico Longino. Nel 263 si trasferisce a Roma alla scuola di Plotino, presso la quale rimane per sei anni; circa trent’anni dopo la morte del maestro cura l’edizione delle Enneadi, secondo i criteri dichiarati nella Vita di Plotino. L’influenza esercitata da Plotino su Porfirio è innegabile, ma significative sono anche le differenze tra i due filosofi: se Plotino era attratto dalle questioni schiettamente filosofiche, ed era incline all’approfondimento della soluzione “platonica” piuttosto che alla mediazione tra posizioni diverse, Porfirio è animato invece da una varietà di interessi quasi enciclopedica, da una spiccata attenzione ai vari fenomeni religiosi (è nota, per esempio, la sua polemica contro i cristiani), e dalla volontà di trovare punti di convergenza tra il platonismo e le altre correnti filosofiche. In uno scritto ora perduto, Porfirio si sforza infatti di dimostrare l’accordo sostanziale tra Platone e Aristotele, e favorisce in genere l’accoglimento delle tesi aristoteliche, soprattutto attraverso la rivalutazione della dottrina delle categorie che Plotino aveva invece radicalmente criticato.
Nella concezione porfiriana del primo principio sembrano coesistere aspetti contraddittori, dovuti presumibilmente alla mancata conciliazione di istanze plotiniane e di elementi propri del platonismo precedente: se infatti in alcuni scritti l’Uno è da Porfirio mantenuto rigorosamente separato dalle altre ipòstasi, ed è quindi superiore all’essere, altrove esso è descritto come equivalente all’essere puro e anteriore a ogni determinazione, che precede l’essere determinato delle idee intelligibili. Ciò può spiegare la maggiore fortuna goduta nell’Occidente cristiano dalla versione porfiriana del neoplatonismo: contro le concezioni che accentuano i caratteri di assoluta trascendenza e semplicità del principio, i teologi cristiani si sentono autorizzati anche da Porfirio a conferire a Dio il carattere positivo della pienezza d’essere.
Nell’etica Porfirio insiste sulla necessità di una condotta di vita ascetica per mantenere l’anima pura dalle passioni corporee; questo, unito alla pratica costante del pensiero (inteso non come mero accumulo di conoscenze, bensì come realizzazione integrale di una vita filosofica), potrà consentire il ritorno dell’anima a Dio e l’affrancamento, a quanto pare, dal ciclo delle rinascite. Le virtù, per le quali si compie l’ascesa morale, sono ordinate da Porfirio in una scala gerarchica (scala che sarà ripresa, e talora ampliata, da numerosi filosofi di epoca tardoantica e medievale) quadripartita: al primo grado si trovano le virtù civili, che si fondano sulla moderazione delle passioni – nozione centrale dell’etica aristotelica – e si esplicano nei rapporti personali e sociali; al secondo grado vi sono le virtù purificatrici, che operano il distacco dal corpo e dal mondo, e hanno per fine la mancanza di passioni, di stampo stoico; il terzo grado corrisponde alle virtù contemplative, per le quali l’anima volge costantemente il suo sguardo all’intelletto, sua origine; il quarto grado, infine, è rappresentato dai modelli ideali delle virtù presenti nell’essere-intelletto.
Gran parte della produzione di Giamblico è perduta, ma gli scritti conservati e le testimonianze posteriori attestano incontrovertibilmente l’importanza decisiva del fondatore della scuola siriana nella storia del neoplatonismo. Grazie a una sua opera in dieci libri (dei quali si sono conservati soltanto i primi quattro) interamente dedicata al pitagorismo, divengono patrimonio stabile della scuola aspetti caratteristici della tradizione pitagorica, quali la purezza dello stile di vita, la valorizzazione dell’aspetto matematico, la tendenza ad applicare schemi di pensiero dualistici con riferimento alla coppia di principi limite-illimitato. Agli Oracoli caldaici, una raccolta, risalente al II secolo, di rivelazioni concernenti gli dèi e il destino dell’anima umana, Giamblico dedica i 28 libri della sua Perfettissima teologia caldaica, assegnando così un ruolo di primo piano a pratiche magiche ed evocazioni di potenze divine, giudicate in grado di purificare l’anima umana e operare il suo definitivo ricongiungimento al principio senza più ricorrere alla ricerca intellettuale (si veda in questo senso anche lo scritto intitolato I misteri egiziani).
Giamblico
Sulla teurgia
I misteri degli Egiziani, II, 11
[...] e non è il pensiero che congiunge i teurgi agli dèi: ché, se fosse il pensiero, cosa impedirebbe a coloro che filosofano di arrivare fino all’unione teurgica con gli dèi? Ora, invece, la verità non sta in questo modo, ma l’esecuzione delle azioni inesprimibili e compiute in modo conveniente a dio e al di sopra di ogni pensiero umano, e il potere dei simboli muti, comprensibili solamente dagli dèi, producono l’unione teurgica. Ecco perché non è il nostro pensiero a compiere quelle opere; in tal caso la loro efficacia sarebbe di ordine intellettuale e partirebbe da noi: ma nessuna di queste due cose è vera. Infatti, senza che noi vi pensiamo, i segni stessi, per conto loro, compiono la propria opera.
Giamblico, I misteri degli Egiziani, trad. it. C. Moreschini, Milano, BUR , 2003
Oltre a fissare, come è stato detto, il canone scolastico, Giamblico innova profondamente il modo di leggere e commentare i testi, specialmente quelli di Platone: mentre in Porfirio prevale in genere l’indagine di tipo erudito e l’attenzione alle varie possibilità di interpretazione allegorica, Giamblico è animato da un intento tipicamente sistematico: di ogni dialogo platonico occorre dapprima individuare il tema (skopos) filosoficamente rilevante, e quindi interpretare alla luce di esso tutti gli altri contenuti. Ogni affermazione di Platone, ritiene inoltre Giamblico, appartiene, a un primo livello di analisi, all’ambito o della fisica, o dell’etica, o della metafisica, ma la sua validità si estende in realtà a tutti e tre i settori, giacché la stessa verità può essere espressa in termini fisici, etici o metafisici. Compito dell’interprete è pertanto quello di individuare e valorizzare i nessi esistenti tra i tre piani, alla luce del principio di corrispondenza universale (“Tutto è in tutto, ma in ciascuno secondo la propria natura”) che proclama la connessione unitaria di tutto il reale.
In ambito più specificatamente filosofico dobbiamo a Giamblico per prima cosa la teorizzazione di un principio supremo ancora superiore all’Uno: un motivo che sarà ripreso e sviluppato da Damascio. Oltre a ciò, sono da lui anticipate anche importanti dottrine procliane, come quella delle énadi sovressenziali posteriori all’Uno, la strutturazione triadica dei piani di realtà immateriali e il netto rifiuto della tesi plotiniana dell’anima non discesa. Giamblico prende le distanze anche dall’identità di essere e pensiero asserita da Plotino, anteponendo, all’interno dell’ipostasi successiva all’Uno, il carattere intelligibile a quello intellettivo: le idee che formano l’essere, in altre parole, sono in senso primario oggetti di pensiero e solo in senso secondario soggetti che esercitano il pensiero al suo grado più perfetto ed esemplare.
La preminenza di Proclo tra i tardi neoplatonici è motivata sia dalla sua statura di pensatore sia dalla straordinaria influenza esercitata sulla filosofia posteriore. È infatti lecito affermare che è in massima parte procliana l’immagine di Platone che l’antichità trasmetterà al Medioevo e al Rinascimento. Di Proclo si apprezzano in genere più la coerenza del sistema e la lucidità dell’argomentazione che l’originalità del pensiero: si è già detto dei suoi debiti verso Giamblico, ai quali vanno aggiunti quelli, forse ancora più ingenti, nei confronti del venerato maestro Siriano: a lui Proclo deve l’innovativa interpretazione del Parmenide, il giudizio sul livello teoretico di Aristotele (in molti ambiti pregevole, ma manchevole nella metafisica o teologia), la dottrina dei tre principi supremi (Uno, limite e illimitato), la ricerca di concordanze tra l’insegnamento di Platone e quelli di Orfeo, di Pitagora e degli Oracoli caldaici.
Molto della sua vastissima produzione è andato perduto, ma molto si è anche conservato: tra l’altro, ampie sezioni di commenti a Platone (all’Alcibiade primo, al Cratilo, alla Repubblica, al Timeo, al Parmenide) e al primo libro degli Elementi di Euclide, tre opuscoli sulla provvidenza, nonché due trattati, gli Elementi di teologia e la Teologia platonica, che sono le sue opere più rappresentative. Nella prima, formata da 211 proposizioni seguite dalle relative dimostrazioni, Proclo deduce in maniera geometrica la sua scienza metafisica, soffermandosi sulla natura e sui rapporti della varie realtà incorporee: l’Uno, le enadi, gli intelletti (ovvero, la sfera dell’essere), le anime. Le enadi sono per Proclo le prime entità che procedono dall’Uno totalmente semplice: unitarie e quasi del tutto simili al principio, esse, in quanto molteplici e in possesso ognuna di una proprietà peculiare, sono responsabili del primo insorgere della pluralità e della differenza. Diversamente dall’Uno, che è “impartecipato”, le enadi sono infatti “partecipate”, e come tali capostipiti dei vari ordini “partecipanti”; esse svolgono, cioè, una funzione analoga a quella svolta dalle idee nei confronti delle cose sensibili, essendo però cause sovressenziali delle idee stesse. Superiori, a quanto pare, persino alle enadi sono i principi del limite e dell’illimitato, l’unione dei quali, il “misto”, corrisponde alla prima manifestazione dell’essere. Il gruppo ternario limite, illimitato e misto si riproduce nei vari ordini di realtà successivi, e costituisce il modello di strutture analoghe; della triade permanenza-processione-conversione, per esempio, attraverso la quale Proclo esprime la legge, dinamica e circolare, che governa l’azione di ogni principio: l’Uno, o qualsiasi causa, “permane” dapprima in sé, nella sua perfezione; poi esce, “procede”, da sé per sovrabbondanza di potenza, e genera così il suo prodotto, che altro non è che la causa in forma dispiegata e pluralizzata. La somiglianza che sussiste tra causa ed effetto consente infine a quest’ultimo di volgersi, “convertirsi”, verso la sua origine, riguadagnando la perfezione iniziale.
Nella Teologia platonica Proclo intende raccogliere e interpretare tutti gli insegnamenti “teologici” – concernenti, cioè, i principi metafisici – rintracciabili nei dialoghi di Platone e ordinati sistematicamente nel Parmenide; anche al fine di integrarli con quelli dei responsi oracolari caldaici, delle rapsodie orfiche, della mitologia omerico-esiodea, del patrimonio dottrinale (neo)pitagorico (ciò spiega anche il ricorso al linguaggio misterico che, nella Teologia platonica, spesso si affianca o si sovrappone a quello più propriamente filosofico). Rispetto agli Elementi di teologia, la gerarchia divina è qui più complessa, prevedendo ripartizioni ulteriori all’interno delle ipostasi intellettiva e psichica: (1) l’Uno o primo Dio, (2) le énadi divine, (3) gli dèi intelligibili, (4) gli dèi intelligibili-intellettivi, (5) gli dèi intellettivi, (6) gli dèi sovramondani (con essi, di fatto, si interrompe l’esposizione), (7) gli dèi intramondani, (8) le anime universali, (9) gli esseri superiori (angeli, demoni ed eroi). Questa cospicua proliferazione di piani di realtà risponde principalmente a due esigenze: assicurare un posto nella gerarchia metafisica a ogni divinità tradizionale, unificando così prospettiva filosofica e prospettiva religiosa, e mediare quanto più possibile il passaggio dall’Uno al molteplice sensibile, stabilendo – anche attraverso la ricerca talora esasperata di termini medi capaci di istituire un nesso di somiglianza tra termini opposti, e formare quindi una triade – una successione di gradi di realtà immune da lacune o da “salti”.
Proclo
Sul metodo apofatico
Commento al Parmenide, VII
Se infatti l’Uno non è dicibile, e di lui non vi è alcun discorso definitorio, in che modo saranno vere di lui le negazioni? Ogni proposizione, infatti, ha la forma “questo appartiene a quello”; ma dato che non è lecito che alcun “questo” appartenga all’Uno, esso è del tutto innominabile. Deve esserci tuttavia un qualche nome che funga da soggetto alle proposizioni negative. Le negazioni, pertanto, non sono vere dell’Uno, benché in riferimento a lui siano più vere delle affermazioni; anch’esse, però, sono inferiori rispetto alla semplicità dell’Uno. E difatti ogni verità risiede nelle affermazioni e nelle negazioni, ma l’Uno è maggiore di ogni verità. Come allora qualcosa potrebbe essere vera di lui?
Proclo, Commento al Parmenide, trad. it. A. Linguiti
Proclo
Sul metodo apofatico 2
Teologia platonica, II
E intendo stabilire che attenersi al procedimento negativo si addice a chi presta fede a Platone e a chi non aggiunge niente all’Uno. Infatti, qualunque cosa tu gli attribuisca, diminuisci l’Uno, e lo rendi di conseguenza non uno, ma dell’Uno fai un effetto; perché ciò che non è uno soltanto, ma è anche qualcos’altro rispetto all’essere-uno, possiede l’uno per partecipazione. Questo modo delle negazioni è pertanto trascendente, unitario, primordiale, e superiore all’universo nella sua inconoscibile e indicibile eccellenza di semplicità. E dopo aver attribuito al primo dio un tale modo, si deve ancora separarlo dalle negazioni. Infatti, dice il Parmenide, di lui non vi potrà essere “né discorso, né nome”. E se non vi è alcun discorso su di lui, è evidente che non vi è neppure negazione.
Proclo, Teologia platonica, trad. it. M. Casaglia, Torino, UTET, 2007
L’ultimo scolarca dell’Accademia si distingue per non comuni senso critico e abilità dialettica, di cui fa le spese soprattutto Proclo, nel senso che Damascio, pur non mettendo veramente in discussione l’impianto generale della tarda metafisica neoplatonica, interviene spesso (si veda per esempio il suo Commento al Parmenide) con puntualizzazioni polemiche e interpretazioni alternative su molte delle affermazioni dei suoi predecessori. Nella prima parte del trattato Problemi e soluzioni sui primi principi, Damascio sviluppa una notevole critica della nozione di principio, dando nuovo vigore alle tesi di Giamblico: l’Uno, in quanto principio di tutte le cose, è in qualche modo coordinato a esse, e il fatto stesso di esistere, e di essere pensato, in relazione ai molti lo rende imperfetto e non compiutamente trascendente; è pertanto necessario postulare l’esistenza di un’entità ancora superiore, un principio totalmente ineffabile che sia in tutto e per tutto separato e trascendente, al punto di non tollerare neppure le qualifiche di “principio” e “trascendente”, che implicano pur sempre relazione ad altro. Del principio totalmente ineffabile anteriore all’Uno possiamo avere solo un oscuro presentimento, e dobbiamo rinunciare a ogni descrizione razionale di esso: qualsiasi discorso che abbia per oggetto ciò che per sua natura non può essere oggetto di discorso finisce infatti (non diversamente da come accadeva alle affermazioni degli scettici) per annullare se stesso, per autoconfutarsi.