Le scuole penalistiche
«Quantunque partiti da scuole diverse, tutti però eravamo figli della scuola penale italiana, e tutti amatori delle sue tenaci dottrine». Nel 1867 Francesco Carrara rappresentava così i penalisti impegnati nella stesura del c.p. della nuova Italia, ove erano vigenti tre diversi codici (Sul nuovo progetto del codice penale italiano, in Id., Opuscoli di diritto criminale [1870], 1878, p. 311). Per candidare all’indomani dell’Unità la scienza ad artefice della codificazione, Carrara sorvolava sulle differenze culturali della penalistica in Lombardia, a Napoli, a Padova, in Toscana, con i maestri «Pessina, Tolomei, Buccellati». Ne indicava un «pensiero comune, la sovranità del diritto e della sua protezione»; e sottolineava che quella dottrina si avviava a «divenire prevalente in Italia», perché nata non da un «Congresso giuridico o un uomo», ma da un «tacito accordo imposto dalla prepotente forza del vero». Nel confronto con la penalistica europea la «scuola italiana» assumeva identità, anche nel contrastare chi vedeva nello ius puniendi un «diritto proprio dello Stato che sovrasti il colpevole», cui Carrara opponeva il principio liberale della «tutela giuridica, spaventosa per alcuni correzionalisti» (Cardini della scuola penale italiana, «Rivista penale», 1876, p. 161).
Il Programma di Carrara, primo grande edificio della penalistica nazionale, guardava al penale come «necessità assoluta della legge suprema che governa l'umanità» e al tempo stesso concretissimo dilemma per il nuovo Regno, insidiato dalle logiche dell’eccezione. Nella drammatica stagione del brigantaggio indicava al legislatore una «pratica legislativa» fondata sulla «libertà», ove anche il danno mediato del delitto, la «sicurezza dei cittadini», era ricondotto a un canone liberale di organizzazione della vista sociale, con un c.p. da sottrarre ai «movimenti inconsulti della paura» (F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale. Parte generale (1860), a cura di F. Bricola, 19935, p. 95).
In questo orizzonte penalisti come lo stesso Carrara, Enrico Pessina, Giampaolo Tolomei, Antonio Buccellati, Pietro Ellero, Pietro Nocito, Pasquale Stanislao Mancini, Emilio Brusa, e poi Luigi Lucchini, Giovanni Battista Impallomeni, Giuseppe Zanardelli, intendevano il loro ruolo nel legare «progressi del diritto penale», «libertà politica», «aggrandirsi della nazione innanzi a sé stessa con la coscienza della sua personalità civile» (E. Pessina, Dei progressi del diritto penale in Italia nel secolo XIX, 1868, p. 147). Nel ripercorrere la storia del diritto penale italiano Pessina avrebbe riconosciuto il ruolo di quei penalisti nel c.p. del 1889, con Carrara «capo della scuola» (Il diritto penale in Italia, in Enciclopedia del diritto penale italiano, 2° vol., 1906, p. VIII).
Di questa presenza culturale si faceva portavoce «Rivista penale», fondata nel 1874 da Lucchini, «la prima unicamente rivolta alle discipline penali», aperta ai «più illustri cultori», cui Carrara indicava il primo compito: porre «alla vetta del fascio l'olivo di Minerva, alla vece della abbominevole scure» (Lettera al direttore, «Rivista penale», 1874, p. 7). La «scienza baluardo di ogni civile libertà» (L. Lucchini, Studi intorno al progetto 24 Febbraio 1874 di un nuovo codice penale italiano, «Rivista penale», 1874, p. 405) si mobilitava dunque contro la pena di morte, presente nel Progetto Vigliani; la battaglia abolizionista tralasciava toni umanitari o utilitari, per tematizzare la cifra politica della questione, l’abolizione come manifesto dello Stato liberale. Da qui anche la riconsiderazione della classificazione dei reati e della scala penale nel c.p. in fieri, da ancorare al bene giuridico leso e a criteri di moderazione e certezza, senza eccezione per i reati politici.
La penalistica raccolta intorno alla «Rivista penale» si riconosceva nelle grandi fondazioni illuministiche, il principio di legalità, di non retroattività, di proporzionalità, il divieto di analogia, un assetto della complicità e tentativo alternativo all'uniformità sanzionatoria, l’imputabilità limite alla incriminazione. Il penale era ricompreso nella più ampia questione della giustizia, che chiamava in causa, tra l'altro, un processo da riformulare nel segno della presunzione d’innocenza e delle garanzie per le libertà individuali, un'ampia riforma delle leggi di pubblica sicurezza, un'effettiva indipendenza e imparzialità dell'ordine giudiziario, un profondo incivilimento del sistema carcerario, il radicarsi di una cultura liberale degli operatori del diritto.
«Rivista penale» guardava anche a quel complesso crocevia di saperi che, dalla metà dell’Ottocento, andava coniugando «penalità e psichiatria» (L. Lucchini, Studi intorno al progetto 24 Febbraio 1874 di un nuovo codice penale italiano, cit., p. 6). Pertanto ospitava, tra l'altro, anticipazioni di L'uomo delinquente e Sull'incremento del delitto del «chiarissimo specialista cooperatore» Cesare Lombroso, che indicava ai lettori una «grande enciclopedia penale», cui voleva contribuire una «scienza nuova e pure già grande». In virtù di studi antropometrici e letture di statistiche giudiziarie Lombroso presentava ai giuristi «l'anormale», «uomo dato ai delitti oggetto di storia naturale o come varietà o mostruosità della razza». Nella convinzione dell’inutilità della pena detentiva per la minacciosa massa dei soggetti pericolosi, poneva il tema della neutralizzazione degli «incurabili o incorreggibili»; per gli altri, tra costoro anche poveri, vagabondi, minori, suggeriva una «cura preventiva del delitto», calibrata sulle «particolarità individuali», rimessa a «direttori e medici carcerari, giudici e cittadini» (C. Lombroso, Pazzi e delinquenti, «Rivista penale», 1874, p. 38; C. Lombroso, La cura del crimine, «Rivista penale», 1878, p. 566).
La concezione del penale come terapeutica sociale allontanava la penalistica raccolta intorno alla rivista di Lucchini dal positivismo criminologico. Le diverse ideologie in campo, con il c.p. in fieri posta in gioco, si precisavano e articolavano in 'scuole' entro il dibattito che si apriva tra i penalisti, nelle loro riviste, nelle prolusioni universitarie, fino ai trattati e monografie. Nel 1878 Lucchini recensiva la Teorica dell'imputabilità di Enrico Ferri, «efficace cooperatore del rinnovamento della nostra scienza» («Bollettino bibliografico della Rivista penale», 1878-79, p. CVII). Di lì a poco osservava che i ferriani «sostitutivi penali», misure d’ordine vario che il legislatore doveva prendere per prevenire i delitti,
legavano la libertà civile e diritto al carro della difesa sociale e della statolatria […] subordinavano tutte le funzioni dello Stato e della società alle penali discipline (L. Lucchini, Recensione a E. Ferri, I nuovi orizzonti del diritto e della procedura penale, «Bollettino bibliografico della Rivista penale», 1881, p. CCLXXIII).
Con la prolusione bolognese del 1882 il liberale Lucchini si proclamava ostile all’intervento statuale nella vita sociale e critico della «famigerata prevenzione», veicolo di un «esercito colossale di artificiosi delitti» (La giustizia penale nella democrazia, 1882, p. 18).
Nella prolusione senese Ferri presentava una «nuova scuola», dopo che, a suo dire, si era chiuso il «glorioso ciclo di Beccaria e Carrara, illustri rappresentanti della scuola italiana [...] che aveva per scopo pratico la diminuzione delle pene». In nome di una «nuova funzione sociale» del penale, la difesa della società, Ferri battezzava una «scuola positiva», dalla piena dignità giuridica, irriducibile a una «simpatica alleanza fra diritto penale e antropologia criminale». Dopo la «scuola classica» una «nuova fase dell'evoluzione della scienza criminale» intendeva portare nel
recinto del tecnicismo giuridico astratto l'alito delle nuove osservazioni, guarentigia somma e assai più rigorosa della difesa sociale, o giuridica che dir si voglia, contro il delitto (La Scuola positiva di diritto criminale, 1883, p. 11).
Ferri raccoglieva «osservazioni» che circolavano da tempo in Europa, con le culture della polizia transitate nel penale, declinato come contrasto al male, politica criminale, «diritto preventivo» (C. Cattaneo, Della pena di morte nella futura legislazione italiana, in Id., Opere scelte, 1972, p. 190). Alla pericolosità guardavano studi penitenziari e medici sull’«uomo colpevole», con le proposte di una reclusione, punitiva e correttiva, a tempo determinato dagli operatori del carcere e del manicomio (M. Beltrani Scalia, Programma, «Rivista di discipline carcerarie»,1872; G. Virgilio, Saggio sulla natura morbosa del delitto, 1873). Per Lombroso l'oggettività delle pene, cardine dell'ordine giuridico europeo, restituiva alla società un delinquente «punito ma non guarito», era l’arma spuntata nella «scherma contro il delitto recidivo e trionfante» (L'uomo delinquente, 1878, p. 10). Nello stesso senso Raffaele Garofalo, magistrato e criminologo sedicente «antidottrinario», introduceva nel lessico penale termini come lotta, nemico, razza delinquente, indicando il «criterio positivo della penalità» nella «temibilità», non del solo «reo» ma anche del «pericoloso» (Di un criterio positivo della penalità, 1880).
Tra darwinismo sociale ed evoluzionismo spenceriano, Ferri poneva ai giuristi e al legislatore il tema dei soggetti da disciplinare in vista della prevenzione. Da qui la classificazione dei delinquenti – pazzi, nati, abituali, occasionali, passionali – sempre anormali, nel non sapersi adattare all'ambiente sociale. La proposta ferriana di una «dosimetria penale» a tempo indeterminato, dai tempi del Pessina al c.p. Rocco sarebbe stata bollata come una «eresia giuridica» (Principii di diritto criminale, 1928, p. 51).
Dalla riflessione positivista sul rapporto tra la società e il delitto e tra scienze penali e progresso della nazione scaturivano letture e proposte diverse dal biologismo evoluzionistico dei Lombroso e Garofalo. Nel 1883 Filippo Turati considerava la «connessione della questione criminale colla economica», e individuava la «causa prima dei delitti nel disordine degli istituti sociali, sperequazioni delle proprietà, ineducazione e sfruttamento dei ceti inferiori» (Il delitto e la questione sociale, 1883, p. 23). Napoleone Colajanni legava il decremento della criminalità al superamento dell'ordine liberale, e intrecciava sociologia criminale e socialismo (Socialismo e sociologia criminale, 1° vol., Il socialismo, 1884). Ferri rispondeva con il ribadire il peso criminogeno dei fattori biologici e naturali, oltre che sociali; sul piano politico indicava la difesa sociale come un «meno male più basso del sogno socialista di un ottimo lontano» (Socialismo e criminalità. Appunti, 1883, p. 157).
Di fronte alle questioni poste dal positivismo, che si facevano strada tra i giuristi e i politici, le reazioni di non pochi penalisti, a iniziare da Buccellati, erano ostili, nel negare alla «antropologia criminale» il carattere di «nuova scienza» (Gli studi sperimentali e la scienza del diritto penale, «Rivista penale», 1881, p. 128). Lucchini si dichiarava seguace di un metodo «seriamente positivo», di contro alla «bufera di empirismo che attraversa le sfere della dottrina» (Ai lettori, «Rivista penale» 1881, p. 18). Sul tema che più impegnava la penalistica civile, paventava gli sbocchi legislativi delle proposte dei Lombroso e Garofalo, fautori del «positivismo alla stricnina» (L. Lucchini, Pena di morte e positivismo, «Rivista penale» 1885, p. 401). Di fronte alla «nuova scuola», Aristide Gabelli ironicamente si iscriveva a una «vecchia», nella consapevolezza di «parole che nulla significano». Piuttosto la pena ridotta a difesa sociale, la negazione dell'imputabilità, il processo inteso come prognosi della pericolosità parevano sovvertire l'ordine liberale, con «una tale ingerenza dello Stato nella vita privata, da rendere troppo cari i benefici, dato che si conseguissero, della sua tutela» (Sulla «Scuola positiva» del diritto penale in Italia, «Rivista penale», 1886, pp. 524-26). Nello stesso senso Brusa – già collaboratore «di parte giuridica» dell'Archivio del Lombroso – scriveva un'ampia confutazione del determinismo, in nome di un «vecchio» metodo sperimentale, preferito al «nuovo positivismo» (Sul nuovo positivismo nella giustizia penale, 1887).
Da qui la densa Polemica in difesa della scuola criminale positiva, sottoscritta da Lombroso, Garofalo, Ferri e Giulio Fioretti, dedicata ai «politici» Ruggero Bonghi, Francesco De Renzis, Zanardelli. Privata dei contenuti «metafisici», la reazione dello Stato al crimine diveniva tecnica di contrasto di soggetti determinati al delitto, per cui, se nessuno era colpevole, tutti finivano per essere colpevoli, e passibili di eliminazione, segregazione, riadattamento, se possibile, alla vita sociale. Questa lezione, forte del «metodo positivo», doveva imporsi sul «bizantinismo» della «scuola classica», che aveva finito il suo «ciclo storico» (1886, p. 141).
Dal canto suo Lucchini scriveva un’ampia monografia per rintuzzare gli argomenti positivisti; rifiutava di essere ascritto a quella «che per dileggio fu detta la scuola classica», e, con un argomento destinato a imporsi nella penalistica del Novecento, ammetteva una «unica scuola», quella «giuridica». Irrideva ai semplicisti, convinti di ridurre le vicende umane e sociali a «metro e stadera»; ma criticava soprattutto il loro orizzonte su Stato e diritto, il loro porre il delinquente fuori della società. Il «furore criminalofobo» del Garofalo, anche nella versione del Ferri, appariva «puntello di dispotismo politico» (I semplicisti (antropologi, psicologi e sociologi) del diritto penale. Saggio critico, 1886, pp. XXIV, 241).
D’altro canto, i positivisti coglievano la crisi della giustizia nell’inefficacia della pena detentiva, specie di fronte alla recidiva. Lo stesso legislatore pareva sensibile a quella lezione: nella Relazione al Progetto del 1887 Zanardelli affermava che un «buon codice penale, degno di un paese libero e civile», non poteva risolversi in un mero «ben ordinato disegno di principi assoluti», e che una «savia legislazione» doveva avvalersi dell'«efficace concorso delle investigazioni psichiatriche e antropologiche», per l'«intima cognizione del reo e fissarne il più opportuno trattamento» (Relazione ministeriale, 1888, p. 147).
In Parlamento Ferri criticava invece il Progetto, frutto di «principi giuridici astratti», poco «rigorista coi pericolosi, troppo con i meno», inadeguato alla società italiana, soprattutto perché alternativo alla visione positivista del «codice penale per i birbanti» (Il progetto Zanardelli, in Id., Studi sulla criminalità ed altri saggi, 1926, p. 381). A Lombroso quel testo, che appariva inadatto perfino a «paesi più liberi e meno infestati dai rei» dell'Italia, si sarebbe risolto in un inutile «ukase» (Troppo presto. Appunti al nuovo progetto di codice penale, 1888, p. 65).
Di queste critiche Lucchini coglieva i contenuti illiberali; al tempo stesso sottolineava che il legislatore era artefice di un c.p. aperto a un «pensiero di realità», vocato a una «tutela del diritto» adeguata alle «vere condizioni del paese» (Il progetto del nuovo codice italiano, «Rivista penale», 1888, p. 11). A proposito della scelta del c.p. non estranea alle logiche rese attuali dalla lezione positivista – la facoltà per il giudice, ove stimi pericolosa la liberazione dell'imputato prosciolto, di ordinarne la consegna all'Autorità competente per i provvedimenti di legge – nel 1927 Lucchini avrebbe scritto che «l'odierna novità delle misure di sicurezza» era già stata «consacrata senza far tanto rumore da quel codice in cui ebbe qualche parte chi dirige questa Rivista» (Una nuova scuola e una nuova Rivista, «Rivista penale», 1927, p. 198).
Nel 1891 Lombroso, Ferri, Garofalo, Fioretti fondavano «La Scuola positiva», dal 1895 diretta dal solo Ferri, che ripeteva la rappresentazione di due diverse «scuole». Se quella «classica» aveva fissato «verità progressive», patrimonio di tutti, non aveva senso la sua «vegetazione residuale», ostacolo al «germogliare fecondo delle nuove dottrine» (Programma, «Scuola positiva», 1891, p. VIII). Tra le «nuove dottrine» il positivismo esprimeva anche un composito socialismo penale: nel 1891 Turati fondava «Critica Sociale», sensibile anche ai temi della giustizia; Ferri e Lombroso aderivano al partito. Professori e avvocati si confrontavano con la questione sociale e offrivano risposte giuridiche ai temi del lavoro, dello sciopero, dei delitti della folla. Coglievano il nesso tra società e vagabondaggio, alcolismo, prostituzione, un’inedita e allarmante criminalità urbana, mafia e camorra; nell’Italia degli scandali bancari proponevano rimedi anche per la delinquenza delle classi agiate (A. Bianchi, G. Ferrero, S. Sighele, Mondo criminale italiano, 1892). Lombroso aggiornava i suoi schemi, distinguendo il delinquente comune, «atavico», espressione di degenerazione, quello politico, «evolutivo», e lo «strano partito degli anarchici» (C. Lombroso, C. Laschi, Il delitto politico e le rivoluzioni, 1890; C. Lombroso, Gli anarchici, 1895).
Soprattutto nelle pagine di Eugenio Florian e Adolfo Zerboglio la pretesa uguaglianza dei cittadini davanti alla legge pareva infrangersi nell'ordine liberale, investito dalle critiche per le «ingiustizie», il carattere di «difesa di classe» (E. Florian, Ingiustizie sociali nel codice penale, «La scienza del diritto privato», 1896, p. 47; A. Zerboglio, La lotta di classe nella legislazione penale, «La scuola positiva», 1896, p. 68). Ferri, capofila anche di questa componente sociale del positivismo, rispondeva col ricondurre il senso della legislazione non alla difesa di una sola classe, ma a quella di tutte le classi, la «difesa sociale» (Difesa sociale e difesa di classe nella giustizia penale, «La Scuola positiva», 1899, p. 591).
I postulati positivisti facevano breccia nelle culture di questori, direttori di carceri e manicomi, procuratori generali, e, come gli riconosceva un critico, «davanti ai magistrati […] coi difensori che parlano di follia morale, epilessia, delinquenti nati» (B. Alimena, Lo studio del diritto penale nelle condizioni presenti del sapere, «Rivista di diritto penale e sociologia criminale», 1900, p. 216). L'opinione pubblica si appassionava ai «processi criminali studiati antropologicamente» e alle fotografie dell’«Archivio» di Lombroso, che definiva Mondo criminale italiano, dal gran successo di vendite, la «cavalleria leggera della scuola nella società» (C. Lombroso, Prefazione a G. Bianchi, G. Ferrero, S. Sighele, Mondo criminale italiano, 1892, p. 3).
Fuori d’Italia, nel dibattito sul gran tema della politica criminale, si guardava con interesse a Lombroso, Ferri e Garofalo, e a Turati, Colajanni, Sighele, ricompresi in una «scuola italiana». Già nel 1882 il Programma di Marburgo di Franz von Liszt poneva il tema del superamento dell’oggettività delle pene, discutendo le «rivoluzionarie tesi degli Italiani» (F. von Liszt, Der Zweckgedanke im Strafrecht, 1883; trad. it. 1962, p. 9). Raymond Saleilles, che citava anche i semplicisti di Lucchini, da un lato teneva fermi i capisaldi della scuola chiamata «classica»; dall’altro indicava i nuovi compiti del penale nello Stato sociale, la prevenzione, una pena adatta alla personalità del criminale. La riforma di legislazioni invecchiate pareva passare per la lezione dell’«école italienne» (R. Saleilles, L'individualisation de la peine, 1898, p. 122); e anche negli Stati uniti si sarebbe guardato con attenzione alla «scuola» (B. Franchi, Il sistema giuridico della difesa sociale, 1910).
«Sintesi esatta della vera scuola italiana», «opera collettiva della scuola italiana» per Zanardelli (G. Crivellari, Il codice penale per il Regno d'Italia, 1889, p. CCCXVIII), il c.p. del 1889 non a torto appariva a Lucchini la «consacrazione di quei principi che formano il programma e segnano l'indirizzo della nostra Rivista» (La terza serie della Rivista penale, «Rivista penale», 1890, p. 6). La lezione dei Mancini, Pessina, Impallomeni, Lucchini, lo stesso Zanardelli si era risolta nell'abolizione della pena di morte, mitigazione della scala penale, bipartizione dei reati, nozione di imputabilità, distinzione tra delitto tentato e consumato, in un equilibrio tra tutela della sicurezza dello Stato e della libertà di pensiero e discussione. Con il c.p. la penalistica civile aveva garantito il livello alto della legalità; l’onda lunga di questa dottrina avrebbe segnato il c.p.p. del 1913, pur criticato da Lucchini per «gli infiniti ingranaggi inquisitori» (Il nuovo codice di procedura penale, «Rivista penale», 1913, p. 683).
Al tempo stesso nell’ultimo decennio dell’Ottocento l’acuirsi del conflitto politico e sociale mostrava la fragilità dell’ordine liberale, di cui era già sintomo la legge di pubblica sicurezza, voluta nel 1889 da Francesco Crispi per i «sospetti […] e il sospetto è per natura sua ribelle ad ogni disciplina giuridica» (L. Lucchini, Ammonizione, in Il Digesto italiano, 1895, p. 28). Quando nella sanguinosa crisi di fine secolo l'«eccesso di potere» pareva segnare «ogni atto dell'Autorità» (E. Brusa, La giustizia penale eccezionale ad occasione della presente dittatura militare, «Rivista penale», 1894, p. 447), la penalistica legava l’oggetto della scienza alla tutela delle libertà statutarie, senza «dissenso tra i criminalisti classici e i positivisti» (V. Olivieri, L'art. 3 della legge eccezionale 19 luglio 1894 e la competenza del giurì, «La Scuola positiva», 1894, p. 843). Le leggi eccezionali del 19 Luglio 1894 erano bersaglio di Lucchini, che stigmatizzava la «caccia alle società» (Lo scioglimento delle associazioni socialiste, «Rivista penale», 1895, pp. 78-79); come di Ferri, che invocava il ritorno al «diritto comune», al «liberalesco nostro codice a servizio degli interessi di classe sempre preferibile alle disposizioni eccezionali» (La legge eccezionale 19 Luglio 1894 e l'art. 2 del codice penale, «La Scuola positiva», 1896, p. 106).
I principi del c.p. erano anche strumento per la critica della Cassazione, che ammetteva la legittimità del «diritto marziale applicato allo stato d'assedio politico», fino a «sconvolgere i rapporti legittimi dei poteri costituzionali» (E. Brusa, La giustizia penale eccezionale ad occasione della presente dittatura militare, cit., p. 448). Un celebre ricorso di Impallomeni coglieva nelle condanne per i promotori dei Fasci siciliani il collasso del principio di legalità, «elevare a reati dei fatti che la legge non prevede come reati» (I metodi della Corte di Cassazione nel ricorso di De Felice e compagni, «Rivista penale», 1894, p. 251). Nella Milano del 1898 la memoria difensiva di Majno per i «giornalisti e deputati» indicava alla Cassazione che «la Carta costituzionale» e le «leggi penali» erano state scritte per «dar forma e limiti allo jus imperii» (Ricorso alla Cassazione di Roma, «La Scuola positiva», 1898, p. 524).
Gli arbitrii di quella stagione, dal domicilio coatto politico al tristemente noto caso Frezzi, erano bollati da Impallomeni come momenti della «legge manomessa dall'alto». Nell’aggirare il c.p. e lo Statuto i «vecchi e nuovi arnesi del reazionarismo autoritario» parevano i più «pericolosi nemici delle istituzioni» (G.B. Impallomeni, Responsabilità ministeriale e responsabilità comune a proposito del caso Frezzi, «La Giustizia penale», 1897, p. 414). Nelle sedi scientifiche e in Parlamento, nei tribunali e nelle università i penalisti si mobilitavano contro le «aberrrazioni dittatoriali», e contribuivano al naufragio dei decreti del ministro Luigi Girolamo Pelloux, «enormità incostituzionale». Anche con una fortunata campagna di stampa per l’amnistia, si saldavano con il ceto politico e l’opinione pubblica liberale, determinanti nella svolta del Novecento. Da professori, avvocati, politici, evitavano le discussioni sul metodo, e concepivano il loro specialismo come vocato alla critica del diritto e alla scienza della legislazione. In quella stagione, per l'ultima volta, sceglievano di legare le leggi penali alle «vicende delle pubbliche libertà» (L. Lucchini, Ai lettori, «Rivista penale», 1900, p. 5).
«Tanto il sentimento della giustizia emanante da Dio, quanto quello dell'utile sociale, non possono risolvere il problema del fondamento da assegnarsi al diritto penale». Allo scadere dell’Ottocento per il giovane Vincenzo Manzini le due speculari «metafisiche», carrariane e ferriane, avevano costretto il penale in una «crisi», la cui via d'uscita risiedeva nel relegare storia, filosofia, sociologia e politica nel retroterra culturale del penalista, chiamato a costruire un edificio sistematico «sopra rapporti giuridici, fissati dalle leggi positive dello Stato» (La crisi presente del diritto penale, 1900, p. 51).
Tramontava la dimensione del penale come scienza integrata e come scienza della legislazione, da qui una «scuola critica» (B. Alimena, Lo studio del diritto penale nelle condizioni presenti del sapere, «Rivista di diritto penale e sociologia criminale», 1900, p. 186), poi detta «terza scuola» (E. Carnevale, Una terza scuola di diritto penale, 1906). Nel 1900 positivisti socialisti come Alfredo Pozzolini e Zerboglio fondavano una rivista, intesa a superare l'«urto sistematico fra i classici e i positivisti». Si negava il senso di «terze o quarte scuole» per un «diritto penale una branca di sapere a sé» (A. Zerboglio, A. Pozzolini, Ai lettori, «Rivista di diritto penale e sociologia criminale», 1900, p. 3).
Il positivista socialista Florian ampliava queste osservazioni, affermando che la «fase odierna del problema penale» esigeva la distinzione tra «politica sociale contro il delitto», rimessa allo Stato, e «diritto penale». Questa ultima «scienza giuridica» era vocata a «difendere tutte le classi sociali con uguale energia», col penalista indifferente alla «organizzazione concreta della società» (E. Florian, La fase odierna del problema penale, «Rivista di diritto penale e sociologia criminale», 1900, p. 8). Anche per la fiducia nello sviluppo di «forme democratiche di governo», che l'Italia giolittiana pareva promettere, Impallomeni assegnava al penale il senso di «limite all’urto delle forze e tutela degli interessi della totalità dei cittadini» (G.B. Impallomeni, La funzione sociale nel diritto penale, 1905, p. 4).
A un positivismo che, anche in Europa, intendeva giuridicizzarsi, Ferri rispondeva con il ribadire la dignità giuridica dello «studio dell'uomo delinquente e dei fattori del delitto», da non relegare in un «capitolo preliminare, tra le solite addormentate scienze ausiliarie del diritto penale» (Sociologia criminale, 1° vol., 1929, p. 35).
Ai giuristi e ai giudici il Trattato del Manzini, su cui si sarebbero formate generazioni di penalisti, indicava invece un penale come «sistema di norme che si forma e opera esclusivamente nell'ambiente dello Stato» (Trattato di diritto penale italiano, 1° vol., 1908, p. 2). La nota prolusione di Arturo Rocco nel 1910 sistematizzava dunque lo spirito del tempo, affidando alla «scienza» l’«elaborazione tecnico giuridica del diritto penale positivo e vigente». Consegnava alla storia sia la «gloriosa opera di Carrara», un «diritto diverso da quello delle leggi dello Stato», che l'«indirizzo positivo moderno», con la sua «onta al principio della divisione del lavoro scientifico». Questa la condizione per collocare il penale nel quadro costituzionale dello Stato liberale; il «giusnaturalismo» lasciava il posto al metodo del diritto privato, per la costruzione di un sistema di «principi di diritto» (A. Rocco, Il problema e il metodo della scienza del diritto penale, «Rivista di diritto e procedura penale», 1910, p. 518).
Il monumentale Oggetto del reato e della tutela giuridica penale di Rocco poneva i temi di «una pena non riparatoria, vendicativa, ma difensiva dell'esistenza della società giuridicamente organizzata cioè dello Stato» e del «pericolo della delinquenza», ancorché ancorato al «reato già commesso» (1913, p. 462). Non escludeva dunque dal penale la pericolosità, che, nel primo decennio del Novecento, appariva il cardine di un europeo «diritto in formazione». Non c'erano vincitori o vinti tra penalisti, semmai una divisione di compiti tra diritto penale e politica criminale; in particolare Silvio Longhi dedicava a Vittorio Emanuele Orlando una savignyana sistemazione «unitaria del diritto penale attuale, complesso di norme repressive e preventive» (Repressione e prevenzione nel diritto penale attuale, 1911, p. 1030).
Il tema si imponeva specie di fronte ai mutamenti della società e a nuove forme di criminalità; la «politica criminale» era il centro di una prolusione di Manzini, che nel 1911 lamentava il «lusso» della abolizione della pena capitale davanti alle crescenti «delinquenza e malavita» (La politica criminale e la lotta contro la delinquenza e la malavita, «Rivista penale», 1911, p. 8). Il penale «di guerra» acuiva poi la distanza tra «nuovo della vita» e «vuoto della legislazione», ponendo al legislatore il tema del raccordo tra pena e criminalità (A. De Marsico, La giurisprudenza di guerra e l'elemento sociale del diritto, 1918, in Id., Studi di diritto penale, 1930, p. 24), cui il guardasigilli Ludovico Mortara nel 1919 rispondeva nominando Ferri presidente della Commissione per una riforma del c.p. voluta soprattutto a difesa dalla delinquenza abituale.
Nel 1928 Ferri avrebbe scritto che il suo Progetto del 1921, summa del positivismo, a cominciare dalla responsabilità sociale – e che avrebbe ispirato i c.p. della Russia sovietica – era alternativo agli schemi del «metodo detto tecnico giuridico», cui avrebbe ancora opposto una scienza giuridica, ma irriducibile al tecnicismo «privatistico», per «avere per oggetto non l'uomo del negozio giuridico», ma l'«uomo anormale» (Principii di diritto criminale, 1928, p. 66)
Il «tecnicismo giuridico» era invece il manifesto di Arturo Rocco e Manzini, che nel 1920 fondavano la Società italiana per gli studi di diritto penale. La divisione scientifica del lavoro non impediva di allargare l’orizzonte anche a una «scienza de lege ferenda»; Rocco e Manzini legittimavano un «diritto criminale preventivo che riguarda le cosiddette misure di sicurezza»; in questo senso il «conflitto tra le cosiddette scuole» appariva «superato» (Il problema e il metodo della scienza del diritto penale, «Rivista di diritto e procedura penale», 1920, p. 353).
Se nell'Italia liberale il confronto tra i penalisti era stato la cifra del penale, in quella fascista era la monumentale legislazione a restituirne il senso. I penalisti – con l'eccezione di Lucchini – abdicavano al ruolo storico in favore delle garanzie, per mettere la sapienza tecnica al servizio della politica criminale del regime, dall’amnistia per le violenze squadriste, alle leggi contro gli antifascisti, a quelle antiebraiche, un sistema organico ben reso dal termine «bonifica umana» (D. Grandi, Bonifica umana, 1941). Non era più tempo di dibattiti, neppure tra penalisti, anche se nel 1927 spuntava una «Scuola penale unitaria», intesa a «comporre il dissidio tra le due tendenze, impersonate oggi, alle ali estreme irriducibili, nel Lucchini e nel Ferri». Era l’occasione per celebrare l'ambiguo eclettismo di Alfredo Rocco, «illustre giurista che regge il dicastero della Giustizia» (G. Sabatini, Il programma della Scuola penale unitaria, «La scuola penale unitaria», 1927, p. 2).
Più scopertamente nel 1929 Arturo Rocco e Manzini, con Eduardo Massari, presentavano «Rivista italiana di diritto penale», rivendicando la paternità della codificazione per l’«indirizzo tecnico giuridico», preteso in continuità con la «tradizione gloriosa della scienza penale» e aperto al tempo stesso ai «risultati utili del moderno indirizzo sperimentale». Anche la lettera del guardasigilli riconosceva ai direttori della Rivista il merito della «riforma fascista», nel superamento dei «fardelli» contrapposti, «esagerazioni liberali» e «fatalità del delitto» (A. Rocco, V. Manzini, Ai lettori, «Rivista di diritto penale», 1929, pp. 3-6).
Pur senza intaccare il nullum crimen sine poena, il c.p. stravolgeva l’ordine liberale, a cominciare dalla pena di morte, già reintrodotta nella legge per la difesa dello Stato del 1926, ed estesa anche ad alcuni reati comuni, riflesso della guerra dello Stato contro i suoi «nemici» (S. Longhi, Fascismo e diritto penale, in Id., Anticipazioni della riforma penale, 1931, p. 122). Aggirava tassatività, attenuava tipizzazioni, introduceva indeterminatezze, tutelava interessi dai profili maiestatici, la «Personalità dello Stato», sul cui «interesse superiore» Manzini costruiva il codice di procedura penale.
Per il guardasigilli l’aver preso «da ciascuna scuola soltanto ciò che c'è di buono e vero [...] per foggiare un sistema che tutte le scuole componesse nell'unità», era un persuasivo fondamento di legittimazione dei codici. Se ammesso nel cielo dei «principi teorici», il «dissidio» era stato «placato sul terreno pratico delle realizzazioni legislative», in vista del «consolidamento dello Stato, senza il quale non vi è sicurezza pei cittadini, né grandezza per la nazione» (A. Rocco, Relazione, in Codice penale, 1930, p. 7).
Da subito e senza riserve la penalistica faceva dei codici il perno della costruzione scientifica del sistema, senza che la pretesa neutralità del metodo giuridico impedisse di celebrare il carattere politico delle «riforme», dopo la «impotenza della democrazia socialistoide» (V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano secondo il codice del 1930, 1° vol.,1933, p. 67). Nel 1932 Arturo Rocco e Manzini fondavano anche gli «Annali di diritto e procedura penale», auspicando un lavoro di giudici e giuristi che cogliesse il nuovo nella codificazione del nuovo Stato. Lamentavano infatti che la «dottrina straniera» apprezzasse il c.p. e il c.p.p. più di quella «italiana», e soprattutto l’«attaccamento nostalgico alla antica legislazione», col rischio di veder la nuova applicata con le «incrostazioni mentali della abrogata» (A. Rocco, V. Manzini, Ai lettori, «Annali di diritto e procedura penale», 1932, p. 3).
Dalla giuspubblicistica una più estrema istanza politica di rinnovamento della dogmatica lambiva anche la penalistica, anche se era Francesco Carnelutti a porre nel 1935 il tema dell’«atto socialmente dannoso», da punire anche se non «espressamente previsto dalla legge» (L'equità nel diritto penale, «Rivista di diritto processuale civile», 1935, p. 116); un’analogia in penale ammessa anche da Norberto Bobbio (L’analogia e il diritto penale, «Rivista penale», 1938, p. 527). Più scopertamente Giuseppe Maggiore auspicava un penale totalitario per lo Stato totalitario (Diritto penale totalitario nello Stato totalitario, «Rivista italiana di diritto penale», 1939, p. 140). Francesco Antolisei proponeva di disancorare la tutela dal bene giuridico, per colpire la «criminalità virtuale» (Problemi penali odierni, 1940, p. 105), con una eco delle teorie biologico securitarie tedesche (F. Grispigni, E. Mezger, La riforma penale nazionalsocialista, 1942).
Tutti i giuristi sono concordi nel riaffermare il valore del principio Nullum crimen sine lege […] non vi è in Italia l’impotenza del giudice nei confronti del delinquente (G. Vassalli, Nullum crimen sine lege, «Giurisprudenza italiana», 1939, p. 127).
Un denso scritto di Giuliano Vassalli rispondeva agli antiformalisti, ricordando la lezione del «sommo Carrara» e assegnando all’art. 1 del c.p. il ruolo di cardine del sistema, pur nel mutare dei «punti di vista», dalla garanzia delle «libertà individuali» a quella della «autorità dello Stato» . Anche Petrocelli si dichiarava indisposto ad archiviare certe grandi fondazioni, pena la perdita di identità della «scienza del diritto penale»; il principio di legalità, il divieto di analogia, l’imputabilità, la teoria del bene giuridico erano rivendicati come patrimonio di un «indirizzo italiano».
Al tecnicismo giuridico sarebbe stato ascritto il merito di aver evitato lo stravolgimento dei codici del fascismo, di cui Rocco e Manzini erano stati artefici; d’altro canto il nullum crimen sine lege perdeva il senso, conquistato storicamente, di certezza di legge garanzia, per ridursi a certezza di legge potenza, strumento della «autorità dello Stato» (B. Petrocelli, Per un indirizzo italiano nella scienza del diritto italiano, «Rivista italiana di diritto penale», 1941, p. 20). Negli ultimi anni dell’era fascista il metodo tecnico giuridico assolveva dunque a una funzione ben diversa da quella del primo Novecento, come osservava già Paolo Rossi, che, in un libro ritirato dal regime e recensito da Croce, imputava il concretissimo solco tra diritto legale e diritto giusto al legalismo della «dogmatica penale» (P. Rossi, Scetticismo e dogmatica nel diritto penale, 1938, p. 88).
All'indomani della Liberazione l'«indirizzo tecnico-giuridico» viveva un'altra stagione: esaltava la «forza imponente della scienza» sulle ragioni di una qualunque «forza politica» (R. Pannain, La riforma della legislazione, 1944, p. 28); rovesciava in difesa della «Scuola», del «diritto» vocato a «dominar la politica», l'accusa mossa all'«indirizzo tecnico-giuridico di risolvere il diritto col diritto, trascurando l'elemento politico» (T. Delogu, L'elemento politico nel codice penale, «Rivista penale», 1945, p. 195). Si scindevano le responsabilità dei giuristi da quelle del regime, tema tra gli elementi costitutivi della continuità dello Stato. Nel salvataggio previa defascistizzazione dei codici era decisivo l'argomento della «resistenza della scienza a qualsiasi infiltrazione del dato politico nel tradizionale sistema penale» (G. Leone, La scienza giuridica penale nell'ultimo ventennio, «Archivio penale», 1945, p. 28).
Da allora, passando per la Costituzione fino agli anni Settanta del Novecento, la penalistica continuava a riconoscersi nel ‘vecchio’ tecnicismo giuridico, con il contribuire, più che all'inadempimento costituzionale, a riforme compatibili con la tradizione liberale, più o meno inventata. Già nel 1945 Giuseppe Bettiol poneva il tema dell'«interpretare liberisticamente e democraticamente un complesso legislativo che pure pretendeva d'essere espressione di una concezione totalitaria dello Stato» e al tempo stesso del «salvare una tradizione di cui l'Italia era andata sempre orgogliosa» (Diritto penale. Parte generale, 1945, p. XVIII).
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