Le società tra avvocati
Con una norma inserita nella legge annuale per il mercato e la concorrenza del 2017 il legislatore è intervenuto sul tema dell’esercizio della professione forense in forma societaria, radicalmente innovando, in particolare attraverso l’apertura ai soci investitori e alla multidisciplinarietà, il precedente quadro di riferimento dell’ordinamento forense. Si è però trattato di un intervento frammentario e disorganico, che sta determinando rilevanti problemi interpretativi e applicativi. Il presente lavoro, premessa una sintetica ricognizione dell’evoluzione della disciplina in tema di società tra professionisti e di società tra avvocati, si propone di illustrare la nuova normativa e di intrattenersi sulle principali criticità emerse, non senza auspicare un intervento di revisione organica della materia.
L’accavallarsi di provvedimenti aventi quale specifico oggetto l’esercizio della professione forense in forma societaria e di provvedimenti relativi invece al più generale tema delle società tra professionisti è stato ed è tuttora fonte di rilevanti incertezze interpretative e applicative. E pertanto la disamina delle fonti che attualmente disciplinano le società tra avvocati non può prescindere da una sintetica ricostruzione del panorama della normativa che nel tempo si è occupata dell’esercizio in comune dell’attività professionale, con particolare riferimento al modulo organizzativo societario.
Il primo intervento è stato quello della l. 23.11.1939, n. 1815, che consentiva (art. 1, co. 1) l’esercizio professionale in forma associata, ma con l’obbligo di usare «esclusivamente la dizione di “studio tecnico, legale, commerciale, contabile, amministrativo o tributario”, seguito dal nome e cognome, coi titoli professionali, dei singoli associati», restando vietata (art. 2) ogni forma diversa di esercizio associato di attività professionale. Di questo divieto è stata disposta l’abrogazione con l’art. 24, co. 1, l. 7.8.1997, n. 266 (cd. legge Bersani), che avrebbe dovuto essere seguita (co. 2) dall’adozione di un decreto ministeriale, mai peraltro emanato, con il quale avrebbero dovuto essere fissati i requisiti per l’esercizio in comune delle attività professionali.
In questo contesto è intervenuto il primo provvedimento relativo alla professione forense, quello di cui al d.lgs. 2.2.2001, n. 96. Il titolo II (artt. 1633) si occupa specificamente dell’esercizio della professione di avvocato in forma societaria. Si tratta dell’unico corpo normativo di carattere organico sull’argomento, talché, pur potendosi discutere, come si dirà, della sua sopravvivenza a seguito dell’entrata in vigore, nel 2017, dell’art. 4 bis della l. 31.12.2012, n. 247 (nuova legge professionale forense), di cui infra, § 1.4, mette conto ricordarne brevemente le principali previsioni. Fatte espressamente salve le associazioni professionali di cui alla l. n. 1815/1939, l’unica (ulteriore) forma di esercizio in comune diviene, con il d.lgs. n. 96/2001, quella della società tra avvocati, regolata da tale decreto legislativo e, ove non diversamente disposto, dalle norme codicistiche disciplinanti le società in nome collettivo (art. 16, co. 1, 2 e 5). È istituita una sezione speciale del registro delle imprese, l’iscrizione nella quale è destinata ad avere funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità notizia (art. 16, co. 3). La società tra avvocati è esclusa dal fallimento (art. 16, co. 3), se ne prevede l’iscrizione in una sezione speciale dell’albo e l’applicazione ad essa, in quanto compatibili, delle norme legislative, professionali e deontologiche disciplinanti la professione forense (artt. 16, co. 4, e 27, co. 1). L’oggetto esclusivo viene indicato nell’esercizio in comune della professione da parte dei soci (art. 17, co. 2). La ragione sociale deve contenere l’indicazione “società tra avvocati”, in forma abbreviata “s.t.a.” (art. 18, co. 1), viene prevista la possibilità di partecipare ad un’unica s.t.a. (art. 21, co. 2) e stabilito che il socio cancellato o radiato sia escluso di diritto, mentre la sospensione è qualificata causa legittima di esclusione (art. 21, co. 4). Viene altresì previsto: che l’amministrazione non possa essere affidata a non soci (art. 23, co. 1); che la s.t.a. informi il cliente, prima della conclusione del contratto, che l’incarico può essere eseguito da ciascun socio in possesso dei requisiti necessari; che il cliente ha diritto di chiedere che l’incarico sia svolto da uno o più soci da lui scelti sulla base di un elenco con l’indicazione di titoli e qualifiche di ciascun socio (art. 24, co. 2); che in difetto di scelta la s.t.a. comunichi il nome del socio o dei soci incaricati, prima dell’esecuzione della prestazione (art. 24, co. 3); che la prova dell’adempimento degli obblighi di informazione ora visti e il nome del socio o dei soci incaricati risultino da atto scritto (art. 24, co. 4). Il socio o i soci incaricati sono personalmente e illimitatamente responsabili per l’attività professionale svolta e la s.t.a. risponde con il proprio patrimonio (art. 26, co. 1). In difetto della comunicazione di cui all’art. 24, co. 3, è stabilita, oltre che la responsabilità della società, quella illimitata e solidale di tutti i soci (art. 26, co. 2). Si prevede che la società risponda delle violazioni delle norme professionali e deontologiche applicabili all’esercizio professionale in forma individuale (art. 30, co. 1) e che se la violazione commessa dal socio è ricollegabile a direttive impartite dalla società, la responsabilità del socio concorra con quella della società (art. 30, co. 2). Viene stabilito che la s.t.a. sia cancellata dall’albo qualora venga meno uno dei requisiti previsti e l’irregolarità non sia sanata entro tre mesi (art. 32).
Il divieto di esercizio professionale interdisciplinare viene meno con il d.l. 4.7.2006, n. 223, cd. decreto Bersani, che, all’art. 2, co. 1, lett. c), abroga le disposizioni che prevedevano, con riferimento alle attività libero-professionali e intellettuali, il divieto di fornire servizi professionali interdisciplinari da parte di società di persone o associazioni tra professionisti, peraltro con alcune limitazioni:
i) esclusività dell’oggetto sociale relativo all’attività libero-professionale;
ii) impossibilità di partecipare a più società;
iii) esecuzione della prestazione ad opera di uno più soci professionisti previamente indicati, sotto la loro responsabilità.
Rimaneva così confermato il divieto di partecipazione di soci non professionisti.
Il passo successivo è rappresentato dalla l. 12.11.2011, n. 183, che all’art. 10, co. 311, poi parzialmente modificati dal d.l. 24.1.2012, n. 1, apre a tutti i tipi societari previsti dal codice civile e alla partecipazione di soci non professionisti.
La normativa in questione prevede infatti nella sostanza quanto segue.
È consentita la costituzione di società per l’esercizio di attività professionali regolate nel sistema ordinistico secondo i tipi codicistici, con un limite minimo di soci, quanto alla cooperativa, non inferiore a tre (co. 3).
Possono assumere la qualifica di società tra professionisti (s.t.p.) le società il cui atto costitutivo preveda (co. 4):
i) l’esercizio in via esclusiva dell’attività professionale da parte dei soci;
ii) l’ammissione quali soci, oltre che dei professionisti, di «non professionisti soltanto per prestazioni tecniche, o per finalità di investimento», dovendo comunque il numero di soci professionisti e la partecipazione di essi al capitale sociale essere tale da determinare la maggioranza dei due terzi nelle deliberazioni o decisioni dei soci e costituendo, il venir meno di tale condizione, causa di scioglimento della società, con conseguente cancellazione dell’albo, salvo che non sia stata ristabilita la prevalenza dei soci professionisti nel termine di sei mesi;
iii) criteri e modalità affinché la prestazione sia resa da soci con i necessari requisiti e che la designazione del socio professionista sia effettuata dal cliente e, in difetto, che il nominativo venga preventivamente comunicato al cliente;
iv) la stipula di polizza assicurativa per gli eventuali danni;
v) le modalità di esclusione del socio cancellato con provvedimento definitivo. La denominazione sociale deve contenere l’indicazione di “società tra professionisti” (co. 5); è possibile la partecipazione ad una sola s.t.p. (co. 6). I professionisti soci devono osservare il proprio codice deontologico e la s.t.p. è soggetta al regime disciplinare dell’ordine di iscrizione (co. 7). La società può essere anche multidisciplinare (co. 8). Restano salve le associazioni professionali nonché i diversi modelli societari già vigenti (co. 9).
È disposta l’abrogazione della l. n. 1815/1939, di cui supra, § 1.1 (co. 11).
Al netto del problema se tale disciplina fosse applicabile agli avvocati (tema sul quale è intervenuta la decisione n. 19282/2018 delle Sezioni Unite sulla quale si tornerà: v. infra, §§ 1.4 e 3.) e ribadito dalla Suprema Corte come la norma in questione apra ai tipi codicistici di società e alla partecipazione di soci non professionisti, non sfugge come la normativa sia in larga misura ritagliata sul d.lgs. n. 96/2001 di cui si è detto, con le rilevanti aggiunte dell’obbligo di assicurazione e della possibilità della multidisciplinarietà, in assonanza con il d.l. n. 223/2006 sopra ricordato.
Con il d.m. 8.2.2013, è stato poi adottato il regolamento di cui all’art. 10, co. 10, l. n. 183/2011, il quale tra l’altro prevede quanto segue.
La s.t.p. deve informare il cliente circa il diritto di scegliere uno o più professionisti, la possibilità che l’incarico venga svolto da ciascun socio in possesso nei necessari requisiti, l’esistenza di situazioni di conflitto tra cliente e società, anche determinate dalla presenza di soci con finalità d’investimento, e deve consegnare l’elenco dei soci professionisti, con titoli e qualifiche, e dei soci investitori; la prova dell’adempimento di tali obblighi e il nominativo del professionista eventualmente indicato dal cliente devono risultare da atto scritto (art. 4). Il socio investitore deve possedere i requisiti di onorabilità richiesti per l’iscrizione nell’albo cui è iscritta la società, non deve avere riportato condanne definitive ad una pena pari o superiore a due anni di reclusione per reato non colposo, salvo riabilitazione, non deve essere stato cancellato da un albo professionale per motivi disciplinari e non deve avere subito l’applicazione, anche in primo grado, di misure di prevenzione personali o reali; tali previsioni valgono anche per legali rappresentanti e amministratori di società che abbiano la qualità di soci investitori; il mancato rilievo o la mancata rimozione di una situazione di incompatibilità integrano illecito disciplinare (art. 6).
La s.t.p. è iscritta nella sezione speciale del registro delle imprese di cui all’art. 16, co. 2, d.lgs. n. 96/2001, con funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità notizia (art. 7) e in una sezione speciale degli albi o dei registri nei quali sono iscritti i soci professionisti (art. 8, co. 1); la s.t.p. multidisciplinare è iscritta nell’albo o nel registro relativo all’attività individuata come prevalente nello statuto o nell’atto costitutivo (art. 8, co. 2). La s.t.p. deve essere cancellata se viene meno uno dei requisiti previsti dalla legge o da questo regolamento e non sia stato provveduto alla regolarizzazione nel termine di tre mesi, fermo il diverso termine di sei mesi previsto dall’art. 10, co. 4, lett. b), l. n. 183/2011 per il ristabilimento della prevalenza dei soci professionisti (art. 11).
Prima che venisse emanato il regolamento di attuazione di cui ora si è detto è intervenuta la l. n. 247/2012, di riforma dell’ordinamento professionale forense. La legge prevedeva all’art. 5 (abrogato dall’art. 1, co. 141, lett. c, l. 4.8.2017, n. 124), una delega al governo «per disciplinare, tenuto conto di quanto previsto dall’articolo 10 della legge 12 novembre 2011, n. 183, e in considerazione della rilevanza costituzionale del diritto di difesa, le società tra avvocati». I principi e criteri direttivi erano nella sostanza i seguenti (art. 5, co. 2): esercizio in forma societaria consentito esclusivamente a società di persone, di capitali e cooperative con soci avvocati iscritti all’albo; possibilità di far parte di una sola società; indicazione “società tra avvocati” nella denominazione o ragione sociale; impossibilità di nominare amministratori non soci; svolgimento dell’incarico, conferito alla società ed eseguito secondo il principio della personalità della prestazione, esclusivamente da parte di soci in possesso dei requisiti necessari; responsabilità del professionista esecutore della prestazione non esclusa dalla responsabilità della società e dei soci; iscrizione in apposita sezione dell’albo; obbligo della s.t.a. di rispettare il codice deontologico; previsione della sospensione, cancellazione o radiazione del socio quale causa di esclusione; qualificazione dei redditi della s.t.a. quali redditi di lavoro autonomo anche ai fini previdenziali; previsione che l’esercizio della professione forense in forma societaria non costituisce attività d’impresa e che conseguentemente la s.t.a. non è soggetta al fallimento e alle procedure concorsuali diverse da quelle di composizione delle crisi da sovraindebitamento; applicazione alla s.t.a., in quanto compatibili, delle disposizioni sull’esercizio professionale in forma societaria di cui al d.lgs. n. 96/2001. Emergono con evidenza le più vistose differenze rispetto alla disciplina di cui alla l. n. 183/2011: l’esclusione di soci non professionisti e della multidisciplinarietà (limitazioni superate, come si vedrà infra, § 2., con l’abrogazione dell’art. 5 l. n. 247/2012 e l’introduzione nella stessa legge dell’art. 4 bis), l’esclusione espressa della soggezione al fallimento e alle procedure concorsuali diverse da quelle relative alla composizione del sovraindebitamento, la qualificazione dei redditi quali redditi di lavoro autonomo. La delega prevista dall’art. 5 l. n. 247/2012, che, come si è ricordato, dichiarava applicabili, in quanto compatibili, le disposizioni sull’esercizio della professione di avvocato in forma societaria di cui al d.lgs. n. 96/2001, così espressamente mantenuto in vigore, non è stata esercitata nel termine (2 agosto 2013) e ciò ha fatto nascere il problema se le disposizioni di cui a tale norma o comunque il d.lgs. n. 96/2011 continuassero ad imporre per gli avvocati delle deroghe al regime comune previsto dalla l. n. 183/2011, ovvero se tale ultima normativa avesse acquisito portata generale, divenendo applicabile ad ogni forma di esercizio in società di qualsiasi attività professionale, tema al quale ha dato risposta le Sezioni Unite con la sentenza n. 19282/20181 già ricordata, nel senso – come si vedrà infra, § 3. – di ritenere che la perdurante validità dei modelli societari di cui agli artt. 16 ss. d.lgs. n. 96/2011 faceva sì che «l’avverbio “esclusivamente”, contenuto nel cit. art. 16 d.lgs. n. 96 del 2001, non» consentisse «per gli avvocati un concorso in via elettiva di entrambi i modelli societari che evitasse il conflitto tre le due norme (art. 16 cit. e art. 10 legge n. 183 del 2011)».
L’ultimo (per ora) tassello di questo travagliato percorso normativo è rappresentato dall’introduzione dell’art. 4 bis nella l. n. 247/2012 e dall’abrogazione dell’art. 5 della stessa legge.
Ciò è avvenuto con la l. n. 124/2017, come ricordato, e con la successiva l. 27.12.2017, n. 205. L’art. 4 bis ora prevede quanto segue.
L’esercizio della professione forense in forma societaria è consentito a società di persone, di capitali o cooperative (co. 1); norma che riprende la previsione dell’abrogato art. 5 e anche quella dell’art. 10 l. n. 183/2011 (che peraltro riduce a tre il numero minimo dei soci di cooperative di professionisti).
L’iscrizione avviene in una sezione speciale dell’albo (co. 1), come già previsto dall’art. 5, dal d.m. n. 34/2013 e dal d.lgs. n. 96/2001; presso tale sezione è resa disponibile la documentazione analitica, per l’anno di riferimento, relativa alla compagine sociale (co. 1).
Innovativa e assai opportuna è la previsione del divieto di partecipazione tramite società fiduciarie, trust o per interposta persona, a pena di esclusione (co. 1).
Il co. 2, lett. a), nell’aprire al socio investitore e alla multidisciplinarietà anche nelle società forensi, riproduce l’obbligo della prevalenza dei soci professionisti introdotto dalla l. n. 183/2011, riferendo i due terzi, oltre che ai diritti di voto, al capitale sociale (mentre la l. n. 183/2011 parla di numero di soci professionisti e di partecipazione al capitale sociale tali da determinare la maggioranza di due terzi nelle deliberazioni o decisioni dei soci). Sostanzialmente identica è poi la previsione che il venir meno di tale prevalenza è causa di scioglimento e di cancellazione, salvo il ristabilimento della prevalenza nel termine di sei mesi (co. 2, lett. a).
Peculiare è invece la previsione secondo cui i componenti dell’organo gestorio devono essere in maggioranza avvocati (co. 2, lett. b). Da tale disposizione e da quella della lett. c) del co. 2, secondo la quale i componenti dell’organo di gestione debbono essere soci (come previsto nell’art. 5 e nel d.lgs. n. 96/2001) e anche i professionisti possono essere amministratori, si ricava che possono far parte dell’organo amministrativo anche soci investitori, purché in minoranza. La l. n. 183/2011 non contiene invece disposizioni relative alla composizione dell’organo gestorio (occupandosi solo delle deliberazioni o decisioni dei soci). Il co. 3 sottolinea il principio della personalità della prestazione (previsto anche nell’art. 5) e la necessità del possesso dei requisiti necessari per lo svolgimento della stessa, precisando che i soci che la eseguono assicurano la piena indipendenza e imparzialità e dichiarano possibili conflitti di interesse e incompatibilità, iniziali o sopravvenuti, norma quanto mai opportuna, specie in presenza di soci investitori. La responsabilità della società e quella dei soci non esclude la responsabilità del professionista che ha eseguito la prestazione (co. 4); la sospensione, la cancellazione o la radiazione del socio dall’albo costituisce causa di esclusione (co. 5); la società è tenuta al rispetto del codice deontologico forense (co. 6), come già previsto nell’abrogato art. 5. I commi 6-bis e 6-ter, aggiunti dalla l. n. 205/2017, prevedono poi l’inserimento nella denominazione sociale dell’indicazione “società tra avvocati” e l’applicazione sui corrispettivi rientranti nel volume d’affari rilevante ai fini dell’IVA della maggiorazione (attualmente del 4%) relativa al contributo integrativo di cui all’art. 11 l. 20.9.1980, n. 576, importo da riversarsi alla Cassa forense, secondo un regolamento da emanarsi dalla stessa Cassa, sottoposto ad approvazione ministeriale.
Si tratta, all’evidenza, di una regolamentazione tutt’altro che organica, come si ricava già dal confronto con le altre fonti disciplinanti le società tra avvocati (l’art. 5 abrogato e gli artt. 16 ss. d.lgs. n. 96/2001). Non solo, infatti, non vi è alcuna disciplina relativamente alla natura del reddito prodotto dalle s.t.a. e ai relativi riflessi previdenziali, ma la lacunosità della normativa in questione lascia aperto il dubbio se essa possa essere integrata dalla regolamentazione di cui agli artt. 16 ss. d.lgs. n. 96/2001 su temi quali l’iscrizione nell’apposita sezione speciale del registro delle imprese (art. 16, co. 2), l’assoggettabilità al fallimento (art. 16, co. 3), l’applicabilità delle norme che disciplinano la professione forense (art. 16, co. 4), la possibilità di partecipare a più s.t.a. (art. 21, co. 2), gli obblighi di informazione e le modalità di individuazione del socio che esegue la prestazione (art. 24), il procedimento di iscrizione della s.t.a. (art. 28), la regolazione delle situazioni di incompatibilità o di conflitto (art. 31).
La Corte di cassazione, con la più volte ricordata sentenza n. 19282/2018 a sezioni unite, ha espresso un avviso contrario alla sopravvivenza del corpus normativo di cui agli artt. 16 e ss. del d.lgs. n. 96/2001. Giudicando in tema di ammissibilità di una società costituita da due avvocati e da una laureata in economia, ha ritenuto che prima dell’avvento dell’art. 4 bis l’unico modello societario utilizzabile dagli avvocati fosse quello di cui agli artt. 16 ss. d.lgs. n. 96/2001, mantenuto in vita dall’art. 10, co. 9, l. n. 183/2011 (l’avverbio «esclusivamente» di cui all’art. 16 in parola non consentendo il concorso con il modello di cui alla l. n. 183/2011)2 e che l’art. 4 bis, nell’innovare il sistema, abbia «sostituito la previgente disciplina contenuta negli artt. 16 e ss. d.lgs. n. 96 del 2001». La decisione della Suprema Corte appare condivisibile e convincente nella ricognizione che conduce a ritenere, prima dell’introduzione dell’art. 4 bis nella l. n. 247/2012, il tipo di cui agli artt. 16 ss. d.lgs. n. 96/2001 quale unico modello adottabile dagli avvocati. Qualche perplessità desta invece l’affermazione che l’art. 4 bis in parola avrebbe sostituito la disciplina del d.lgs. n. 96/2001.È infatti vero che l’art. 4 bis non richiama, a differenza di quanto faceva l’art. 5, tale corpo normativo, ma è altrettanto vero che non vi è nemmeno stata un’espressa abrogazione dello stesso, talché non pare fuori luogo ipotizzarne l’applicazione nei limiti della compatibilità con la disciplina dell’art. 4 bis, anche in considerazione della frammentarietà e della disorganicità delle disposizioni recate da tale ultima norma, che, se ritenuta l’unica fonte normante le società tra avvocati, lascerebbe privi di disciplina diversi settori, quali quelli poco sopra ricordati, regolati invece dal d.lgs. n. 96/2001. Una veloce sintesi, per concludere, di alcune delle molte criticità determinate dalla frammentarietà e disorganicità segnalate e dalla difficoltà di coordinare i vari segmenti della normativa sulle società professionali. Un primo tema è quello della possibilità della partecipazione a più società. Il d.lgs. n. 96/2001 e la l. n. 183/2011, come si è detto, escludono questa possibilità (anche l’abrogato art. 5 l. n. 247/2012 la escludeva). Il silenzio dell’art. 4 bis sul punto come va interpretato? È vero che la l. n. 124/2017 ha abrogato (con l’art. 1, co. 141, lett. a, n. 2) il divieto di partecipazione a più associazioni professionali, previsto dall’art. 4, co. 4, l. n. 247/2012, ma di certo non sembra coerente che una norma che appare volta a favorire la riservatezza e la trasparenza nonché la salvaguardia da conflitti di interesse nei rapporti tra professionista e cliente, venga esclusa proprio per la professione forense, nella quale questa esigenza è particolarmente forte. Se si opinasse, come pare possibile, che il d.lgs. n. 96/2001 sia tuttora in vigore, un’applicazione analogica dell’incompatibilità non parrebbe da escludersi, per le ragioni ora ricordate3.
Altro argomento critico è quello della natura dei redditi prodotti dalla s.t.a. L’art. 4 bis non ha ripreso la disposizione dell’art. 5 che qualificava tali redditi come redditi di lavoro autonomo anche ai fini previdenziali.
A ciò si è aggiunta la risoluzione n. 35/E dell’Agenzia delle entrate del 7 maggio 2018, secondo cui, «in assenza di una esplicita norma, l’esercizio della professione forense svolta in forma societaria costituisce attività d’impresa, in quanto, risulta determinante il fatto di operare in una veste giuridica societaria piuttosto che lo svolgimento di un’attività professionale», con la conseguenza della qualificazione del relativo reddito quale reddito d’impresa.
Tale ricostruzione parrebbe poter essere superata in considerazione del fatto che l’oggetto sociale della società tra avvocati risulta poter concernere solo lo svolgimento di attività professionale (lavoro autonomo), seppure anche multidisciplinare (peraltro sarebbe opportuno, nell’auspicabile revisione organica della materia, prevedere espressamente l’esclusività dell’oggetto sociale), come emerge dal primo comma dell’art. 4 bis («L’esercizio della professione forense in forma societaria…»), dal riferimento alla personalità della prestazione e dalla previsione che «[l]’incarico può essere svolto soltanto da soci professionisti in possesso dei requisiti necessari per lo svolgimento della specifica prestazione professionale richiesta dal cliente» (co. 3), dall’assoggettamento al rispetto del codice deontologico forense (co. 6) e dalla previsione dell’applicazione del contributo integrativo di cui all’art. 11 l. n. 576/1980 ai corrispettivi rilevanti ai fini IVA (co. 6-bis)4.
Vi è poi il tema degli obblighi informativi da assolvere nei riguardi del cliente, argomento particolarmente sensibile nel rapporto tra lo stesso e la società, dovendosi assicurare la massima trasparenza e al contempo la possibilità del cliente di effettuare, nell’affidamento dell’incarico, una scelta informata.
Anche su tale tema l’art. 4 bis tace, a differenza del d.lgs. n. 96/2001 e del regolamento attuativo della l. n. 183/2011.
Tuttavia anche in questo caso un’applicazione in via analogica della disciplina del d.lgs. n. 96/2001 (art. 24, di cui si è detto), nell’attesa di un necessario intervento normativo di organica rivisitazione della disciplina, non parrebbe impraticabile.
Altro tema sensibile è quello dei requisiti di ammissione del socio investitore, sul quale l’art. 4 bis nulla dice.
Il regolamento attuativo della l. n. 183/2011 tratta invece l’argomento, all’art. 6, disciplinando i presupposti perché un socio investitore possa far parte di una s.t.p. Il tema andrebbe trattato anche per le s.t.a., in un auspicabile intervento di riorganizzazione della materia, atteso il ruolo e l’influenza che un socio di capitale può avere. Andrebbe così considerata, oltre che la necessità di precisi requisiti per l’ammissione, anche l’introduzione del divieto, per la società, di trattare affari che riguardino, in modo diretto o indiretto, il socio di capitale, inibendo che lo stesso possa diventare, anche per interposta persona, cliente della società. Vi è poi la questione dell’assoggettabilità della s.t.a. alle procedure concorsuali diverse da quelle concernenti la composizione del sovraindebitamento5. L’art. 4 bis non riproduce le disposizioni dell’abrogato art. 5 l. n. 247/2012 e dell’art. 16, co. 3, d.lgs. n. 96/2001 che, rispettivamente, escludevano tale assoggettabilità e la soggezione al fallimento. Tuttavia se, come si è già detto trattando della natura dei redditi prodotti dalla s.t.a, l’oggetto sociale di questa risulta poter concernere solo lo svolgimento di attività professionale e cioè se l’attività svolta è attività professionale e non imprenditoriale, e salvo il limite di cui all’art. 2238, co. 1, c.c., non appare disagevole affermare che anche le s.t.a. siano escluse dall’applicazione delle procedure concorsuali (diverse da quelle relative al sovraindebitamento)6. Ancora: dal momento che l’art. 4 bis risulta consentire che la s.t.a sia multidisciplinare (co. 2, lett. a)e che l’unico contesto nel quale è prevista la necessità che i soci avvocati siano in maggioranza è l’organo di gestione (co. 2, lett. b), può darsi una s.t.a. nella quale i soci avvocati siano in minoranza? Oppure in tale caso si entra nell’ambito della s.t.p. di cui alla l. n. 183/2011, il cui regolamento attuativo prevede (art. 8, co. 2) che la società multidisciplinare sia iscritta nell’albo o nel registro dell’ordine o collegio relativo all’attività individuata come prevalente nello statuto o nell’atto costitutivo?7 Vi è chi ha affermato che detto regolamento valga anche per l’attuazione dell’art. 4 bis8, ma ciò non appare agevolmente sostenibile, quanto meno perché si tratta di regolamento riferito a legge diversa e disciplinante fattispecie differenti da quelle oggetto dell’art. 4 bis.
Parrebbe piuttosto da ritenere che dalla creazione di uno statuto ad hoc per gli avvocati che intendono esercitare in forma societaria (art. 4 bis, co. 1: «L’esercizio della professione forense in forma societaria è consentito…») discenda necessariamente la conseguenza che una società che veda partecipare un avvocato come socio professionista non possa che essere costituita e operare in conformità di quanto previsto dall’art. 4 bis, indipendentemente dal numero e dall’entità della partecipazione dei soci avvocati, e che pertanto gli avvocati non possano partecipare alle s.t.p. di cui alla l. n. 183/2011.
Sono dunque evidenti le numerose criticità applicative della normativa sulle società tra avvocati.
È da auspicare che il legislatore metta mano all’intervento del 2017, nella prospettiva di una revisione organica della disciplina che consenta, a chi intenda esercitare la professione adottando un modulo organizzativo di tipo societario, di intraprendere il relativo percorso con le necessarie certezze.
1 Cass., S.U., 19.7.2018, n. 19282.
2 In questo senso già Bertolotti, G., Le società tra professionisti tra ordinamenti professionali e disciplina dell’impresa, in Corr. trib., 2014, 1805 s.
3 Sul tema Marasà, G., Società e associazioni forensi dopo le modifiche introdotte dall’art. 1, comma 141, l. 4 agosto 2017, n. 124: prime considerazioni e interrogativi, in Giur. comm., 2018, I, 40.
4 Sul tema Salazar, M., Brevi note sulla società tra avvocati, in La previdenza forense, 2018, 240.
5 Sull’argomento Marasà, G., Società e associazioni forensi, cit., 41 s.
6 In questo senso Salazar, M., Brevi note, cit., 241.
7 Sull’argomento Marasà, G., Società e associazioni forensi, cit., 35 ss.
8 Busani, A., La società tra professionisti si iscrive all’Albo “prevalente”, Il Sole 24 Ore, 5.8.2018.