Le stagioni della fiaba, le regioni del racconto
Secondo Max Müller (1823-1900), indologo e fondatore della scuola di mitologia comparata, la lunga storia delle fiabe comincia con la stessa nascita del linguaggio e si sviluppa per via di quell’errore cognitivo (da lui definito ‘malattia del linguaggio’) che egli attribuisce alle parole con cui si descrivono gli eventi naturali, per cui la stessa potenza degli eventi, sul piano semantico, finisce per rendere necessaria una spiegazione che, prima che scientifica, è narrativa. I nomi (nomina) diventano dei (numina) e questi dei saranno protagonisti di una mitologia primitiva che racconta il mondo: i suoi «detriti», come scrive Giuseppe Cocchiara (Storia del folklore in Europa, 1952, nuova ed. 1971, p. 318), avrebbero costituito il materiale su cui sono nate le fiabe. Ma più che di questa, o delle altre ipotesi che si avvicendarono tra studiosi eruditi e ricercatori di gran parte del mondo (la metà euroccidentale), magistralmente ricostruite da Cocchiara, oggi si discute di un’altra storia, più breve e relativa a un ventaglio più ristretto di generi di racconto: la storia della fiaba, ovvero di quello che Rudolf Schenda (1930-2000), docente di letteratura popolare europea a Zurigo fino al 1995, ebbe a identificare come il risultato di un processo storico di decantazione, destinato a compiersi solo nel 19° sec. con l’elevazione della ‘fiaba’ a monumento alla tradizione orale, con il risultato, però, di mettere in ombra molti altri generi minori – o proclamati tali, perché il monumento risaltasse maggiormente (1986, pp. 319-39).
Nell’ambito della fiaba, come genere dominante, si sarebbe poi consolidato il primato estetico (ma in definitiva politico) della fiaba di magia, con principi e principesse, con fate e meraviglie, quella che evoca l’etichetta di fairy-tale o il nostro attributo ‘fiabesco’. A proposito della storia della fiaba, gli studiosi sono oggi più cauti che in passato nell’assecondare l’ipotesi, evolutiva e apparentemente lineare, di una sua genesi nella dimensione dell’oralità e di un successivo passaggio in quella della scrittura letteraria. Sembrava così di poter dare conto delle invarianze dei testi e delle corrispondenze che marcavano patrimoni di tradizione orale anche molto diversi e lontani tra loro, nonché delle «significative somiglianze tra storie presenti nel canone letterario costituito lungo l’asse Grimm, Perrault, Basile, Straparola, contestualizzandole in un mare di storie immutate ed immutabili» (Bottigheimer 2006, p. 216), da sempre presenti nel mondo povero della cultura illetterata. Attingendo a questo mare, gli autori letterati o i ricercatori avrebbero scritto, o ritrovato, sempre le stesse storie.
L’ipotesi contrapposta prevede, invece, una definizione della fiaba entro l’ambito della letteratura, dal quale, mediante le infinite e capillari reti della lettura ad alta voce (R. Schenda, Von Mund zu Ohr. Bausteine zu einer Kulturgeschichte volkstümlichen Erzählens in Europa, 1993) la fiaba sarebbe transitata nella tradizione orale, godendo dei meccanismi di trasmissione che le avrebbero garantito un’ampia diffusione geografica: ampia al punto tale che la presenza di forme e temi chiaramente identici tra popolazioni e lingue diverse, anche in assenza di grandi flussi di contatto tra i rispettivi ceti popolari di diverse popolazioni, privi di accesso alla lettura, non avrebbe potuto essere compresa se non immaginando quegli stessi ceti come la culla della narrazione fiabistica. Al centro del dibattito è la ricerca di Ruth B. Bottigheimer, docente presso la Stony Brook University di New York, ma profonda conoscitrice della scuola tedesca, che poneva l’attenzione proprio sulle fiabe-fiabesche (fairy-tales), identificandole sulla base di due tratti peculiari: il lieto fine e la presenza della regalità.
Si tratta di storie di restaurazione (principi o principesse che riguadagnano il trono o che recuperano il proprio rango) e di ascesa sociale (poveri giovani, di entrambi i generi, cui un matrimonio ipergamico, spalanca un destino di re o, rispettivamente, di regina): proprio quelle storie che voleva leggere un pubblico di lettori di matrice urbana, una classe media in ascesa, per la quale la realizzazione fiabesca della mobilità sociale evocava le nuove possibilità che di fatto si schiudevano sul piano economico e sociale. Dove e quando? A Venezia, in quella prima metà del 16° sec. in cui Giovanni Francesco Straparola compone Le piacevoli notti (1° vol., 1550; 2° vol. 1553), creando di fatto un genere del tutto nuovo (Bottigheimer, Fairy Godfather: Straparola, Venice and the fairy tale tradition, 2002, p. 6). La rivendicazione esplicita della natura letteraria della fiaba richiede un adeguamento della teoria della sua disseminazione, che per Bottigheimer sarebbe da distinguere tra micro e macro: la prima affidata a circuiti narrativi orali, attivi per tempi e in spazi relativamente limitati o ristretti, la seconda, invece, affidata alla scrittura, tramite produzioni editoriali che avrebbero trasportato temi e storie nel lungo periodo, su grandi distanze e, infine, oltre i confini linguistici. La rispondenza delle storie (provenienti da lontano e dal passato) alle caratteristiche culturali locali (che la folcloristica aveva riassunto nella categoria di ecotipo) sarebbe pertanto influenzata da precise strategie di adattamento dei contenuti ai gusti dei veri mercati locali, ai quali il prodotto librario si indirizzava (Bottigheimer 2006).
Il dibattito è, chiaramente, destinato a restare aperto: Dan Ben-Amos, per es., ritiene la tesi precedentemente esposta decisamente errata, segnalando esempi di racconti di ‘ascesa sociale’ antecedenti alle fiabe pubblicate da Straparola, e identificando nella sua raccolta le tracce di prestiti e citazioni di varie altre opere, ivi compresa la simulazione di un contesto di racconto. Per dirla con le parole di William George Waters, il traduttore delle novelle Le piacevoli notti (The nights of Straparola, 1894), riportate da Ben-Amos:
Straparola seguì le mode del suo tempo, ma si conformò anche alla tradizione del racconto orale. Attingendo a racconti di altri e trasmettendoli ad altri pubblici (audiences), Straparola si comportava come un narratore orale sotto le vesti dello scrittore. Utilizzando la stampa, l’allora nuovo mezzo di comunicazione, dava continuità ad un comportamento comune e proprio della cultura orale (Ben-Amos 2010, p. 430).
Trattandosi in realtà, più che di tesi contrapposte, di ipotesi di lavoro di ricerca, in questa sede era opportuno richiamarle per fondare la prospettiva dalla quale ci si propone di tracciare un quadro della narrazione di tradizione orale nella parentesi storica scelta per questo lavoro: una storia decisamente breve, la cui scarsa consistenza quantitativa – un periodo di settant’anni – è ampiamente bilanciata dalla quantità di accelerazioni e di discontinuità che la segnano e che, di volta in volta, intervengono nell’imprimere direttrici di diverso segno alla storia di questo tema.
La diatriba sull’origine orale o scritta della fiaba, in realtà, potrebbe anche riproporsi per questo breve passato, per assestarsi sulla realtà di un’inestricabile rete di rimandi reciproci tra i due ambiti. In fondo si è continuato ad attingere fiabe e storie di diversa natura, fino a pochi decenni fa, da testimonianze orali di narratori o narratrici, magari anche di semplici informatori o informatrici, dei quali si può dire con certezza fossero anelli di una trasmissione orale certificata dal loro analfabetismo o da una dichiarata estraneità ai circuiti di trasmissione a stampa. Ma per un verso, occorre sottolineare come trasmissione non significhi origine (e la presenza di determinati temi o testi nel repertorio di persone/collettività lontane dalla scrittura, può essere solo indizio di una ‘appropriazione‘ e pertanto sufficiente a legittimare il nesso orale/popolare); dall’altro, questa connessione bocca/orecchio, a partire dagli anni Settanta, finiva il più delle volte imbrigliata in un’audiocassetta, da dove il racconto, fiaba o non fiaba, avrebbe ripreso vita per cominciare una diversa esistenza, quella del discorso antropologico o narratologico, l’unico, spesso, che l’estremo anello della catena – costituito dal ricercatore – sapesse costruire.
Il ricercatore, l’ennesimo passaggio di una trasmissione orale (compresi tutti i prestiti e gli echi della trasmissione letteraria), è stato spesso l’ultimo segmento. Ciò è accaduto, per es., nel 1983 con la raccolta a tappeto del repertorio narrativo ancora circolante in una parrocchia del Chianti senese (poi confluito in F. Mugnaini, Mazzasprunigliola. Tradizione del racconto nel Chianti senese, 1999), dove dei tre narratori riconosciuti incontrati (Annina, Giuseppe detto il Sordo e Primo) uno solo (autodidatta) riferiva di una qualche passione per la lettura, ma tutti e tre esplicitamente rivendicavano come dote il rispettivo potenziale mnemonico, identificandolo come veicolo di apprendimento e di trasmissione. Annina, la ‘vecchia Annina’ (fig. 1), come veniva indicata dai suoi stessi familiari, per di più identificava nella propria madre, analfabeta anch’essa, la fonte principale del proprio repertorio, marcato dalle restrizioni tematiche che si convenivano a una narratrice. Nel caso di Annina, infine, la linea di trasmissione orale, oltre a confluire nel suddetto testo, si era allungata a ricomprendere un nipote di ennesimo grado, che agli esordi della propria scolarizzazione, aveva imparato a narrare i testi che gli piaceva sentirsi raccontare.
La trasmissione orale, quindi, nel periodo preso in esame, era certamente una delle modalità con cui la fiaba viveva nel presente, una modalità minoritaria, tuttavia, per visibilità e riconoscimento sociale, rispetto ad altri modi, che avevano aperto alla fiaba campi storicamente poco attraversati e certamente poco consoni alla connotazione popolare: la scuola, per es., il teatro, l’opera musicale, oltre alla pagina della scrittura specialistica e critica. Dalla metà degli anni Novanta in poi, per di più, e a circa vent’anni dall’ingresso dell’informatica nella ricerca (almeno di quella più avanzata), si sarebbe aggiunto il documento audiovideo digitale, immediatamente disponibile e divulgabile teoricamente all’infinito.
Le stagioni attraversate dalla fiaba nell’era delle regioni sono varie: il dopoguerra, gli anni dello sviluppo (i terribili anni Sessanta di memoria pasoliniana), la modernizzazione e la politicizzazione del sapere e dell’arte, il riflusso, l’era del consumo, e poi Internet, i risvegli identitari, la globalizzazione e, infine, le tradizioni come patrimonio. Poi la storia continua, ma si riparte dal Sessantotto.
In un episodio a firma di Mario Monicelli (1915-2010), intitolato La bambinaia, introduttivo a un film, Capriccio all’italiana, assemblato nel 1968 dal produttore Dino De Laurentiis attorno all’esile filo narrativo della via italiana alla modernità, veniva rappresentata la seguente scena. Un laghetto in pieno paesaggio urbano (forse l’EUR, a Roma), giornata di sole, bambini lieti, ben nutriti e ben vestiti si riposano dal gioco e si mettono a leggere fumetti: «Satanik», «Diabolik», «Kriminal». Una bambinaia, di nome Trudi e di madre lingua tedesca, ma con il volto-icona di Silvana Mangano, inorridisce davanti alla criminalità e alla violenza di cui i fumetti sono infarciti, li sfila dalle mani dei piccoli, ma avidi lettori, invitandoli a raccogliersi attorno a lei per sentire una delle storie «del vecchio bravo Perrault, una gentile favola come Cappuccetto Rosso, oppure Puccettino, figlio di boscaiolo senza niente da mangiare». Poi comincia a narrare. Con il procedere del racconto, alla scena dell’orco che uccide i bambini e dà la caccia a quelli nascosti a suon di «Ucci ucci sento odore di cristianucci», i bambini ben vestiti e ben nutriti scoppiano a piangere, di paura e di orrore. Così il caustico regista, liquidava, in una gag della breve durata di quattro minuti, ma resa incisiva dalla presenza della diva Mangano, il tema allora emergente del confronto fra la cultura di massa e la tradizione culturale, esemplificate rispettivamente, ed equiparate nel merito in questo caso, dalla violenza dei fumetti contrapposta alla violenza delle fiabe della grande tradizione europea.
La sopravvivenza della fiaba tradizionale, in realtà, non dipendeva più solo dalla buona volontà della bambinaia: in un mondo che cominciava a vedere nel bambino un promettente consumatore, il racconto era già transitato in prodotti industriali, rendendo autonomo il soggetto che ascolta dalla relazione sociale e affettiva con il soggetto che racconta.
Il Canzoniere italiano e le Fiabe italiane Nel momento in cui l’Italia, in adempimento dell’impegno costituzionale, inaugurava l’era delle regioni costituite (l’immediato postsessantotto) il patrimonio narrativo di tradizione orale si collocava in un’ambigua posizione: utile, in quanto deposito di temi e di tropi narrativi, superato in quanto repertorio di storie esemplari, connotato come arcaico e premoderno e progressivamente alienato dalle pratiche di socialità che ne avevano assicurato la trasmissione intergenerazionale di bocca in bocca, per tutti i lunghi secoli dell’analfabetismo di massa.
Il mondo, così come pensato e rimodellato dalle spinte della modernizzazione sessantottina, sembrava non lasciare spazio ai tempi lunghi e alla lentezza della narrazione fiabistica: del resto le strutture sociali che ne avevano costituito l’humus di coltura e di trasmissione stavano rapidamente disarticolandosi. L’Italia della società di massa e delle spinte rivoluzionarie verso la modernità è lontana dalle cascine, dalle stalle riscaldate dal letame delle mucche, dai grandi focolari mezzadrili, dai cortili dei vicinati siciliani o pugliesi: tutti i luoghi in cui la dote non comune di saper narrare incontrava un desiderio di ascolto e una propensione all’abbandono alla parola sapiente del narratore – parola dialettale, intrisa di sapere locale, di conoscenze dirette e di gerghi ristretti alla comunità di racconto che la accoglieva. I contesti della tradizione del racconto erano disarticolati dall’inurbamento, i suoi protagonisti erano disorientati dai flussi della migrazione interna e, nei luoghi di approdo, mal si ritrovavano nelle forme culturali del passato, tanto quanto invece si sentivano a casa propria nelle nuove passioni collettive: così la Juventus diventava la ‘fidanzata d’Italia‘, per migliaia di ex contadini, poi divenuti operai nella periferia torinese, e poi via via, per sineddoche, di molte altre periferie.
Eppure, almeno dal punto di vista della fortuna editoriale – o della legittimità culturale – la tradizione narrativa era stata persino più fortunata di quella della poesia popolare, anch’essa di matrice orale. Si possono collocare agli esordi degli anni Cinquanta i due lavori collettivi che l’Italia nuova, repubblicana e democratica, esibiva come quarti di nobiltà culturale: Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare (1955), la raccolta curata da Pier Paolo Pasolini (1922-1975), e Fiabe italiane raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi cento anni e trascritte in lingua dai vari dialetti (1956), commissionate dall’editore Einaudi a un giovane Italo Calvino (1923-1985) alle sue prime fatiche letterarie.
I due lavori sembravano essere improntati a due diverse visioni della storia: tanto Pasolini leggeva nella stilistica popolare le tracce di una subalternità che la modernizzazione avrebbe di lì a poco inesorabilmente trasformato – e non necessariamente ribaltato o riscattato, tanto Calvino affidava all’ottimismo di una ragione creativa e letteraria la sua impresa di selezione e rinarrazione delle fiabe tratte dai grandi repertori di produzione ottocentesca, e insieme anche di alcune sue trouvailles di apprendista etnografo del racconto.
Pasolini chiudeva la sua raccolta con un distico senza speranza: «la poesia popolare come istituzione stilistica a sé, è in crisi. La storia è in atto» (p. 125); Calvino, invece, pur senza alcuna illusione passatista, ribadiva come nelle storie tradite e riplasmate dalla narrazione popolare si annidassero i destini dell’uomo e della donna su questa terra, come in una dimensione di sogno, ma non di evasione, vi si leggesse una «autocoscienza che non rifiuta l’invenzione di un destino», una «forza di realtà che interamente esplode in fantasia», perché secondo Calvino «miglior lezione, poetica e morale, le fiabe non potrebbero darci» (Fiabe italiane, 1971, p. XLII).
Sull’antologia di Fiabe italiane di Calvino, corredata da un saggio illuminante per profondità e documentatezza, è già stato scritto molto (Inchiesta sulle fate. Italo Calvino e la fiaba, 1988) e nell’introduzione a quest’ultimo testo, Alberto M. Cirese (Italo Calvino studioso di fiabistica, pp. 17-26), sottolinea l’attendibilità del contributo di «scienziato», sostanziato anche da un apparato di note di invidiabile precisione, sul quale sarebbe stato possibile costruire ancora per dare all’Italia quello strumento di classificazione del materiale narrativo che, a metà del secondo decennio del Duemila, non ha ancora saputo darsi.
Individuando una formula che ibrida competenza scientifica e creatività letteraria, Calvino, in qualità di scrittore, rivendica per sé lo stesso diritto di qualunque narratore di appropriarsi di un testo e narrarlo a proprio modo, e propone ai lettori un’antologia che è, a tutti gli effetti, una costruzione letteraria, priva di mimetismi vernacolari e di cedimenti infantili. I bambini che leggono le sue fiabe, o che se le sentono raccontare, sono già dentro un nuovo paradigma comunicativo: saranno (o avrebbero dovuto essere) i suoi lettori di domani. L’attenzione del mondo letterario (e stavolta non più di quel segmento del mercato per specialisti che aveva accolto durante la stagione ottocentesca le grandi raccolte storiche di Giuseppe Pitré, Gherardo Nerucci, Vittorio Imbriani, Gennaro Finamore, Raffaele Lombardi Satriani, e così via) è solo il punto di partenza di una stagione della fiaba che ne modificherà gli aspetti e gli attributi, come se il consolidato flusso del binomio oralità e scrittura si trovasse ad attraversare un prisma storicamente nuovo, costituito dall’industria culturale e dai mezzi di comunicazione di massa.
Entrata nelle librerie e nelle biblioteche, la fiaba nazionale – summa e sintesi delle fiabe regionali – riuscì a penetrare nelle case, anche là dove non sarebbe mai entrato il lavoro di Calvino come autore letterario.
Si prenda in esame la radio: mezzo di comunicazione fondamentale nel passaggio cruciale della guerra, e poi, con l’avvento della televisione, costretto a cercare spazi di consolidamento del proprio pubblico. La radio ospitò la tradizione fiabistica in varie maniere: dalla messa in onda di fiabe sceneggiate e recitate dalla Compagnia di prosa di Torino, nel programma “Gli zolfanelli” (1961), agli adattamenti di Alberto Manzi – il maestro noto per il suo programma televisivo dedicato all’alfabetizzazione degli adulti, “Non è mai troppo tardi” – interpretati da Elio Pandolfi, volto e voce noti e protagonisti dei programmi di varietà televisivi. Una performance narrativa particolare è quella che Vittorio De Sica, nel 1961, produsse nella serie di 22 favole dalla tradizione nazionale, alle quali – sulla base di una colonna sonora di musica contemporanea, e particolarmente lontana dalle melodie infantili – restituì lo spessore della coloritura dialettale e del racconto (così diverso sia dalla lettura sia dalla recitazione). Anche la fiabistica innovativa di Gianni Rodari (1920-1980) trovò spazio nei palinsesti della radio, che nel biennio 1969-70 trasmise “Tante storie per giocare”, un almanacco di racconti e filastrocche di segno progressivo, introdotto da una sigla che dichiarava il programma artistico e politico culturale di Rodari: «Tante storie ti voglio narrare/ tante storie per giocare / quando non ne so più / me le racconti tu./ Le storie di una volta/ parlavano di fate /di maghi, di streghe /di belle addormentate, /ma in giro per il mondo, /per chi le sa cercare,/ci son tante storie nuove / ancora da inventare».
L’altro mezzo di riproduzione della voce e della musica, sottratto alle decisioni centralizzate della radio di Stato, che in questo stesso periodo si diffuse espandendo e modificando significativamente il paesaggio musicale, è il giradischi, nella sua variante economica del mangiadischi, che riprodusse i dischi in vinile, nel formato dei 45 giri, di limitato livello sia qualitativo sia di prezzo. Anche questo nuovo mezzo venne sistematicamente colonizzato dai materiali della tradizione orale: insieme alla musica da ballo, di cui questo veicolo della modernizzazione alimentò il nuovo mercato, il disco 45 giri traghettò anche il repertorio della musica da ballo tradizionale, del canto dei cantastorie e dei repertori fiabistici. Ma, a differenza dei due primi generi, quest’ultimo non reclutò i propri esecutori nel mondo delle performance tradizionali. Franco Trincale, cantastorie siciliano, per fare un esempio, portò sul disco la propria voce; Eugenio Bargagli, suo omologo toscano, lanciò la voce della figlia, Mirella; le fiabe, invece, furono reinterpretate da voci di professionisti, raccontate e recitate da attori e doppiatori, del grande e del piccolo schermo. La Fabbri editore, nel 1966, lanciò la collana Fiabe sonore, seguita da case discografiche come Stella record, che affidò la cura di un’analoga serie a Vittorio Sessa Vitali, paroliere per lo “Zecchino d’oro” (il fortunato festival di canzoni per ragazzi nato nel 1959) e poi da AG, Signal, Ri-FI e Fonogram.
Le vetrine dei negozi di dischi, ma più ancora i banchi delle fiere, si riempirono di copertine dove occhieggiavano, in un nuovo e inedito conglomerato, i discorsi del duce, le fiabe dei Fratelli Grimm, i successi della Disney, le tragiche vicende di Ermanno Lavorini (a cui fu dedicata la canzone “Il ragazzo scomparso a Viareggio”), i discorsi di papa Giovanni XXIII, lo Zecchino d’oro e tutti i dischi di canzoni di successo che sconosciuti cloni dei cantanti di musica leggera incisero e vendettero semiclandestinamente. La tradizione orale, storicamente estranea a ogni logica di diritto di autore, nobilitata da voci impostate e sublimata nel prodotto certificato dalla Società italiana degli autori ed editori (SIAE), viveva insieme alle copie non ufficiali di canzoni di successo, che si appropriavano del prodotto d’autore, aggirandone i diritti, e reimmettendolo, a costi minori in un inesausto mercato delle varianti.
Il piano inclinato della tecnologia e la curva crescente della presenza del mercato in quello spazio di produzione culturale, che per tradizione veniva amministrato dalle relazioni dirette e dalle abilità creative e performative di singoli e per identificati individui (il microcircuito a cui si riferisce Bottigheimer nel saggio citato), continuarono ad accentuarsi, attraendo vecchi contenuti in nuovi contenitori, e tutto quello che era passato nel disco potè essere, di lì a poco, riversato in cassetta, e con qualche anno di ritardo, smaterializzato in forma digitale.
Al cinema – veicolo di modelli e di ideali di modernità – il pubblico venne, come si è prima detto, sollecitato a prendere le distanze da un senso comune che vedeva nel passato (la fiaba di Charles Perrault) un patrimonio di valori positivi e di equilibrio, assumendo che anche la tradizione della fiaba si portasse dietro non pochi elementi di violenza, inaccettabili per la sensibilità contemporanea.
Ma l’industria culturale – e il film assemblato da De Laurentis ne è un eccellente esemplare – riformulava in varie direzioni il rapporto con la tradizione narrativa, anche sfrondandone ogni aura romantica (o pedagogica) e riqualificandola come materiale da riplasmare. La radio e la televisione sono rimasti media particolarmente controllati dalle istituzioni politiche e culturali ufficiali, e quindi poco permeabili alla trasgressione e alla critica che caratterizzavano la tradizione narrativa affidata ai circuiti dell’oralità e della socialità. Questa libertà di approccio sarebbe stata invece prerogativa di altri settori dell’industria culturale, come il cinema e il fumetto: in questi due ambiti intorno agli anni Settanta si fece un imponente uso strumentale della tradizione narrativa da parte dell’ industria culturale, che si avvalse dello spazio di libertà conquistato da Pasolini stesso, e si produsse proprio sul terreno del racconto.
Il fumetto è un prodotto editoriale che si è emancipato dalla iniziale destinazione infantile, colonizzando estesi territori tematici: dal giallo all’horror, dalla storia romantica all’erotismo, rispondendo velocemente a domande di mercato nate a ridosso degli altri ambiti produttivi (cinema, televisione, stampa). Tra il 1970 e il 1971 l’albo a fumetti «Il Boccaccio», sembrava anticipare, per poi confluirvi, il latente filone erotico/medievale, che esplose sulla scia del successo e delle polemiche correlate del Decameron (1971) di Pasolini. Tra il 1972 e il 1976 il mondo della fiaba venne assorbito dal fumetto e riciclato in versione erotica, sempre più esplicitamente dettagliata da artisti della china come Magnus (pseudonimo di Roberto Raviola, 1939-1996) e Milo Manara. Le edicole si popolarono di «Sexy favole», «Fiabe proibite» o «Sexy fiabe», o anche di cicli narrativi che prendevano spunto dal nome di personaggi della più classica tradizione fiabistica: «Biancaneve» e «Cenerentola» pubblicate dal 1972 al 1978, così come «Cappuccetto rosso» (1973-1975), e la sua neovariante «Cappuccetto rotto» (1975-1979). Un taglio grafico virato sul comico, sul parodistico, con corpi grotteschi e genitalità del tutto irrealistiche, è il tratto con cui il fumetto conquistò la fiaba, poi il fumetto virò su altri toni (gotico, horror, cronaca nera, e così via) e si lasciò alle spalle, come giovani traviate, nomi e figure della fiaba jadis infantile e diventati ormai emblema di una produzione culturale parapornografica, per adulti (L. Barbiani, A. Abruzzese, Pornograffiti. Da Jacula a Oltretomba, da Cappuccetto rotto a Mercenari. Trame e figure del fumetto italiano per adulti, 1980).
L’osmosi tra genere novellistico e pornografia caratterizza anche la trasposizione cinematografica della tradizione narrativa e della sua connotazione popolare. Il grande pubblico cinematografico, che aveva ignorato l’uscita sugli schermi di un libero adattamento in chiave erotica dai motivi fiabistici dei Grimm (Grimms Märchen von lüsternen Pärchen, 1969, di Rolf Thiele, distribuito in Italia come Divagazioni erotiche) aveva scoperto l’epica medievale in tono maccheronico con Brancaleone alle crociate (1970) di Monicelli, e fu turbato, ma allo stesso tempo attratto, dalla rilettura poeticamente scandalosa delle novelle del Decameron di Pasolini scatenando, insieme alla censura, una ridda di offerte cinematografiche fondate sul patrimonio novellistico nazionale e centrate sul risvolto comico/erotico, quello, appunto, boccaccesco. A neppure due mesi dall’uscita del film nelle sale, un lancio ANSA sulla «La Stampa» del 1° novembre 1971 annunciava la messa in produzione di ben cinque titoli che si sarebbero rifatti al Decameron. L’anno successivo, però, i film del filone erotico boccaccesco, riferibili più o meno direttamente al patrimonio novellistico dal Quattocento al Seicento, superavano i 30 titoli, proponendo al pubblico italiano un patrimonio connotato storicamente (un Medioevo immaginato e maccheronico) e sociologicamente (la dialettica fra contadini e signori, maschi e femmine) coincidente con una precisa zona posta tra la Toscana e la Tuscia, per di più usato come testa di ponte per uno spostamento dei confini del pudore, grazie alla trasformazione della narrabilità (ciò che si colloca nel patrimonio letterario nazionale) in visibilità (ciò che si profila oltre la frontiera del disvelamento del corpo, delle pratiche e delle identità sessuali).
Del ricco contenuto della tradizione narrativa, tra novella e fiaba, tra letteratura e folclore, l’industria culturale degli anni Settanta andava a estrapolare, evidenziandone la presenza e il ruolo, proprio i temi che la fiabistica aveva cercato di lasciare in ombra: i Grimm, edulcorando di edizione in edizione i racconti pubblicati a partire dal 1812, e quasi tutti gli altri raccoglitori (con rare quanto rilevanti eccezioni), tralasciando o attenuando i repertori a chiaro contenuto erotico, nascosti e censurati sotto la categoria dell’osceno.
Difficile immaginare più esplicita conferma della potenza dello scontro culturale in atto, percepita da Pasolini già nella sua riflessione sulla poesia popolare, e concretizzata qui, nell’Italia delle regioni, da una massiccia riscrittura delle connotazioni del narrato di tradizione orale. Per fortuna, non c’era però solo la logica del mercato a gestire il patrimonio tradizionale e, per quanto concerneva la fiaba (e il racconto in generale), il fondativo apporto calviniano stava dando altri e diversi frutti.
L’adesione poetica di Calvino alle caratteristiche del materiale su cui aveva lavorato (e in cui si era immerso) conobbe, invece, un vivace sviluppo, collocato anch’esso entro l’ampio alveo di una politica culturale esplicita e consapevole, ma orientata a una polarità che si potrebbe definire di riuso democratico e progressivo.
Da tale adesione che si era concretizzata anche nel lavoro di ammodernamento e di riformulazione letteraria dei racconti di tradizione orale, la fiaba di Calvino derivò il riconoscimento della dignità letteraria contemporanea e, per riflesso, la sua rilevanza tra gli oggetti di quella disciplina (lo studio delle tradizioni popolari) che proprio in questi stessi anni si stava riprendendo dall’abbraccio letale con le politiche culturali della dittatura, marcando la discontinuità con il folclorismo fascista.
Lo studio del folclore risentì positivamente delle prese di posizione di Ernesto de Martino (1908-1965), compresa l’effervescenza dei dibattiti che le accompagnarono; si registrò, poi, l’avanzare sulla scena politica e accademica di figure che diedero sistematicità – da militanti, nel caso di Gianni Bosio (1923-1971), da studiosi, nel caso di Cirese (1921-2011) – al nuovo discorso sulla tradizione popolare: quello che Cirese sviluppò nella tesi della demologia come studio dei dislivelli interni di cultura e dei fatti folclorici come quei fatti culturali che risultano popolarmente connotati, ovvero in un regime di solidarietà con la condizione sociale dei ceti strumentali e subalterni. Il clima culturale del Paese era abbastanza ricettivo a esperienze di riscoperta e di rivalutazione dell’eredità ‘popolare’, come dimostrò nel 1964 l’offerta dello spettacolo Bella ciao al Festival dei Due mondi di Spoleto, sebbene non senza reazioni vivacemente polemiche, come si evince dalle proteste che accolsero, in quella stessa circostanza, le canzoni più politicizzate.
Nel ventennio 1950-1970, nell’ambito della fiabistica, molti furono gli eventi rilevanti: sulla scena internazionale giganteggiava la figura di Vladimir Jakovlevič Propp (1895-1970), di cui apparvero in rapida sequenza un trattato sulla genesi storico-ritualistica del patrimonio fiabistico (Istoričeskie korni volšebnoj skazki, 1946, trad. it. Le radici storiche dei racconti di fate, 1949) e, in edizione inglese, Morphology of the folktale nel 1958, quella Morfologija skazki, pensata e generata in piena stagione formalista, nel 1928, ma destinata a tenere la scena – in Italia almeno, dove apparve nel 1966, con il titolo di Morfologia della fiaba, a cura di Gian Luigi Bravo, – per tutto il decennio degli anni Settanta. Lo stesso Propp, in realtà, già nella prima metà degli anni Sessanta, si era già spostato su altri temi: sulla relazione tra fiabe e altri generi del racconto, sul rapporto tra i vari generi di un patrimonio narrativo e tratti della comunità che lo adotta, sulla figura del narratore e l’arte del narrare, ma lo faceva nelle sue lezioni a Leningrado, su appunti che sarebbero stati pubblicati solo nel 1984 con il titolo di Russkaja skazka (trad. it. La fiaba russa. Lezioni inedite, 1984).
Su questo stesso piano, da un’altra periferia dell’Europa sovietica, nel 1962 Linda Dégh delineò un primo contributo (Märchen, Erzähler und Erzählgemeinschaft Dargestellt an der ungarischen Volksüberlieferung) dove il patrimonio narrativo venne studiato insieme alla comunità che vi si identificava e che lo usava; nel mondo germanico, la scuola di Vienna mise a fuoco tutte le aporie del modello grimmiano, mostrando quanto fossero largamente europei, per provenienza e per eredità culturale dei loro narratori, i racconti che avevano dato per tedeschi. Il personaggio più influente, tuttavia, risultò essere Stith Thompson (1885-1975), chiosatore e revisore della classificazione per tipi fiabistici di Antti Aarne (1867-1925), e, in proprio, dall’Indiana University di Bloomington, autore della classificazione per motivi: due strumenti fondamentali per lo studio comparativistico della fiaba (A. Aarne, S. Thompson, The types of the folktale, 1928,19612; S. Thompson, Motif-index of folk-literature, 6 voll., 1932-1936, poi ed. riveduta 1955-1958).
I repertori per tipi risultarono preziosi anche per mettere ordine nelle ampie raccolte regionali, come dimostrarono i due repertori approntati da Gianfranco D’Aronco (1953) per la Toscana e da Sebastiano Lo Nigro (1957) per la Sicilia. Fu proprio Cirese, insieme ad altri studiosi come Oronzo Parlangeli e a istituzioni nazionali che si mostrarono attente ai fenomeni tradizionali, quali l’Accademia di Santa Cecilia e la Discoteca di Stato, a dare il via, nel 1968 al più ampio e sistematico progetto di rilevamento etnografico che l’Italia abbia conosciuto. Partì, infatti, la campagna di documentazione delle Tradizioni orali non cantate che, con la collaborazione di Liliana Serafini, Cirese affidò a una generazione di giovani studiosi, sguinzagliandoli in 133 luoghi d’Italia, con il compito di registrare e affidare all’archivio della Discoteca di Stato, una documentazione rappresentativa del patrimonio narrativo di tradizione orale.
La fiaba, ma insieme a essa anche molti altri generi solitamente considerati minori, venne ‘salvata’ e affidata alle bobine conservate nella Discoteca di Stato, nel numero di oltre 11.000 documenti narrativi. L’indagine si sviluppò sull’intero territorio nazionale, sebbene nella distribuzione delle risorse (stando almeno ai risultati) si rivelarono diverse discrepanze: considerando anche il supplemento di indagine realizzato nel 1972, soprattutto in Piemonte e in Friuli, due sole, per es., furono le raccolte provenienti dalla Lombardia e dall’Emilia-Romagna, a fronte delle 15 che coprivano capillarmente la Sardegna o le 13 della Sicilia e della Toscana. Quanto a risultati, invece, dal Lazio proveniva il maggior numero di brani inventariati: 898, più i 151 registrati nella città di Roma da Serafini, nelle borgate del Tufello-Nomentano, tra i nuovi arrivati dal resto d’Italia, e a Prima Porta, presso una scuola media. Toscana, Umbria e Sicilia seguivano in questa meccanica classifica, confermandosi tra le regioni più doviziosamente documentate. I risultati della ricerca furono pubblicati nel 1975 come Tradizioni orali non cantate. Primo inventario nazionale per tipi, motivi o argomenti di fiabe, leggende, storie e aneddoti, proverbi, notizie sui modi tradizionali di espressione e di vita ecc. [...], di cui alle registrazioni sul campo promosse dalla Discoteca di Stato in tutte le regioni italiane negli anni 1968-69 e 1972, a cura di Cirese e Serafini.
Secondo un ciclostilato del 1968 a firma di Cirese, intitolato Indicazioni generali per la registrazione di fiabe e di altri documenti orali della vita popolare per conto della Discoteca di Stato (poi disponibile in www.amcirese.it/Z_FIABE/1968f_1discoteca_indicazioni._Binder1.pdf, 21 luglio 2014), i ricercatori (tra i quali si annoverano figure destinate a occupare posizioni di rilievo nell’accademia e nella storia dell’antropologia italiana, insieme ad altri studiosi e studiose più attivi sul piano locale) seguirono una traccia comune, che assicurava «un comune indirizzo di fondo a tutte le singole rilevazioni, sottraendole alla pura casualità o garantendo un minimo di comparabilità tra i dati raccolti nelle diverse zone» e che prevedeva l’attestazione di «Materiale narrativo di carattere tradizionale internazionalmente classificato» (i tipi fiabistici ritenuti più diffusi e caratterizzanti il patrimonio nazionale, dalle fiabe di magia agli scherzi e aneddoti), «Materiale narrativo a carattere leggendario, romanzesco, agiografico» (leggende locali, storie di Cristo sulla terra, storie cavalleresche o temi del feuilleton ottocentesco) e, infine «Indovinelli, Proverbi, Wellerismi». Tuttavia, accanto a questa componente prescrittiva, le linee guida firmate da Cirese, si premuravano di ricordare che la «traccia unitaria non deve irrigidire il lavoro di esplorazione, precludendo l’affiorare di materiali non previsti e quindi forzando o falsando le situazioni reali» (p. 1). Allo stesso modo, a una precisa indicazione di coloro che debbono essere accolti come informatori («almeno n. 5 donne di età superiore ai 60 anni, di condizione contadina e con scolarità non superiore alla terza elementare») segue il consiglio di fare «ricorso anche intensivo a informatori di altra qualità e soprattutto senza pregiudizio della utilizzazione di narratori particolarmente dotati» (p. 2).
Con questa impostazione la documentazione serve, in primo luogo, a posizionare la campionatura del patrimonio narrativo presente sul territorio nazionale entro il quadro internazionale fotografato dall’Indice dei tipi fiabistici di Aarne-Thompson; in secondo luogo, mette a disposizione della ricerca un cospicuo corpus di documentazione affidabile e comparabile. Tra i più attestati tipi fiabistici preselezionati come ‘traccia comune’, anche sotto il profilo quantitativo, c’è il tipo AT408, «Le tre melarance», che raggiunge 58 versioni, distribuite su 13 regioni, con molti brani raccolti in Umbria (14) e in Toscana (10). Il tipo AT425, «La bella e la bestia», si ferma a 35 versioni, provenienti da sole 10 regioni. Anche il tipo AT326, «Il giovane che voleva imparare cos’è la paura», che Calvino aveva identificato come il più diffuso e rappresentativo della fiabistica nazionale, risulta presente, qui, in 35 versioni e in 11 regioni, senza particolari addensamenti. Dalla Sardegna e dalla Calabria, per es., giungono molte varianti del tipo AT510 B, «I vestiti d’oro, d’argento e di stelle», che localmente viene ricongiunto alla figura di Cenerentola. La Calabria, inoltre, ha prodotto 14 varianti de «L’Ammazzadraghi», il tipo AT300.
Ricavare, però, dall’Inventario (in Tradizioni orali non cantate) una fotografia della distribuzione dei tipi fiabistici secondo le aree regionali rimane un compito arduo e minato soprattutto dal principio che la sola informazione attendibile è l’attestazione in positivo: l’assenza di un tipo, o di un genere non è leggibile; ciò che non risulta nell’inventario può semplicemente essere sfuggito alle maglie della rete. Per es., su 83 brani documentati nel corso della ricerca personale di chi scrive, nel Chianti senese, 41 non risultano classificabili secondo la griglia dei tipi fiabistici e, tra i restanti classificati, 22 non risultavano nell’Inventario. Anche la presenza, tuttavia, deve essere ponderata con molti fattori: la quantità di rilevamenti assegnati a ciascuna regione; le costanti difficoltà a identificare univocamente le unità narrative (che la classificazione Aarne-Thompson ha costantemente comportato). È per es. il caso del ciclo di Giufà, lo sciocco che tutti conoscono, ampiamente diffuso in tutta l’area mediterranea, ma che, essendo in realtà un’assemblaggio di tipi fiabistici di base, risulta poco visibile perché distribuito su più unità narrative modulari. È anche il caso dei racconti del ciclo «il paese degli sciocchi», che Florio Carnesecchi ha documentato estesamente nell’area senese/grossetana (Le novelle de’ montierini. I racconti sui paesi degli sciocchi. Testi e classificazione, 2008), ma di cui ha ricostruito una diffusione ampia sull’intero territorio nazionale, che la classificazione Aarne-Thompson distingue in decine e decine di tipi diversi e che, pertanto, non è identificabile come tale a partire dall’Inventario.
Per trovare, nell’Inventario, un tema narrativo davvero altrettanto unificante occorre restare nella sezione degli «Scherzi e aneddoti», e scendere verso la fine, dove comincia il ciclo degli «Scherzi sui parroci e sugli ordini religiosi»: i tipi AT1725-1849. Qui il piano nazionale è sostanziato da ben 15 regioni su 20, con Umbria e Toscana rispettivamente con 20 e 17 brani, e poi Sardegna, Molise, con 11 ciascuna, Lazio e Abruzzo con 9 e il Veneto con 9. È il segnale più evidente che il baricentro del repertorio narrativo della tradizione popolare non risiede nelle fiabe di magia, né nelle storie romantiche e a lieto fine; i numeri cominciano a crescere via via che ci si avvicina alle storie cucite su aspetti di vita reale iperbolicamente e comicamente risolti. Da 16 regioni provengono brani umoristici (barzellette e storie buffe) non classificabili tra i tipi Aarne-Thompson: sono oltre 100 brani per il Veneto e l’Umbria, oltre 50 per la Toscana, oltre 20 per la Sardegna e il Lazio, 18 per il Molise, 11 per l’Abruzzo, e via via scemando con le altre regioni. Ampia diffusione sul territorio nazionale hanno anche le storie di briganti, quelle che, secondo Aurora Milillo, nella Basilicata che avrebbe traversato più volte nel corso della sua ricerca nel Meridione, costituivano il crinale tra la storia e la fantasia (Milillo 1983, p. 33; Milillo 1977). Qui la regionalizzazione è, caso mai, marcata dall’accentuata presenza in Sardegna, Abruzzo e Basilicata; restando nell’ambito del racconto storico, e mettendo a fuoco temi risorgimentali, si vede come la Val d’Aosta abbia rilasciato il maggior numero di storie della famiglia Savoia, quasi un compatto ciclo su Vittorio Emanuele II, il maggior numero di leggende locali (19 brani) e un buon numero di storie locali a carattere satirico (7), in una serie in cui, però, primeggia il Molise, con 14 brani, seguito dalla Liguria con 9 e poi, con 7 brani ciascuna, Piemonte e Puglia. Quest’ultima, infine, risulta essere la regione più generosa in fatto di preghiere, giaculatorie e componimenti religiosi, con 23 brani, seguita dall’Abruzzo con 12 e dalla Basilicata con 9.
Presupposto necessario per lo sviluppo di una fiabistica comparativa, l’archivio non ebbe la fortuna meritata. L’Inventario che rendicontava lo sterminato patrimonio archiviato, fu pubblicato, come si è visto, nel 1975. Il decennio nel quale venne a racchiudersi l’intera impresa, tuttavia, è cruciale: dal punto di vista degli studi, preludeva a un mutamento di paradigma, come poi si vedrà; dal punto di vista della vitalità della tradizione narrativa, si deve notare come sia proprio quello durante il quale le condizioni della trasmissione narrativa mutarono rapidamente, dando vita a contesti radicalmente nuovi, dove non più le fiabe potevano trovare spazio, ma altre forme della tradizione orale, altri temi o altri obiettivi, diversi dall’intrattenimento serale, dall’educazione, dalla plasmazione di destini immaginari e immaginifici. La creatività e la fantasia, ormai, dovevano fare i conti con l’immaginario industriale: il cinema e la televisione raccontavano sempre più e sempre meglio e si prendevano tutto il tempo e l’attenzione che prima, e altrove, venivano dedicati ai racconti. La tradizione, però, respinta dalla socialità serale, quando il dopocena diventava prime time, si riciclava in ‘presapere’ scolasticamente valorizzato. Il ciclo si ricomponeva: la fiaba era passata dalle raccolte per specialisti, e prodotte dagli specialisti ottocenteschi, alla scrittura di un autore importante come Calvino e tale legittimazione, insieme all’eredità di un programma di riforma della scuola vetero fascista, solo parzialmente attivato, faceva sì che dalla scuola, nei suoi libri di testo, nelle iniziative dei maestri più arditi e sperimentatori, si ridesse spazio e fiato alla narrazione, chiedendone documenti e resoconti ai bambini – come, in fondo, aveva fatto pionieristicamente Walter Anderson per compilare la sua raccolta di racconti nel territorio di San Marino nel 1926 (Novelline popolari sammarinesi, pubblicate ed annotate da Walter Anderson, 2 voll., 1927-1929).
Esiste poi una filiera che si potrebbe definire di ‘fiabistica progressiva’, politicamente impegnata, democratica e innovativa, che da Calvino conduce a Rodari, genio creatore e divulgatore di una narrazione che guarda ai bambini e alle bambine, ma senza perdersi nell’infantilismo sentimentale (secondo l’accezione che ne dà Hermann Bausinger, Volkskultur in der technischen Welt , 1961; trad. it. Cultura popolare e mondo tecnologico, 2005) né pagare pegno alla tradizione e accogliere passivamente quelle tracce di sessismo, violenza e senso del tragico che non avrebbero dovuto transitare nel futuro per cui aveva senso ‘narrare’.
Questa linea passa per Mario Lodi, per le fiabe che raccolse dalle parole dei bambini italiani e che per loro scrisse (Fiabe italiane inventate dai bambini d’oggi, 1993); include Franco Lorenzoni e il suo lavoro sull’oralità nella Casa-laboratorio di Cenci, in Umbria, e si diffonde nel mondo della scuola, dove il potenziale pedagogico della fiaba e del racconto va difeso come risorsa cognitiva e affettiva, fondamentale per il bambino come per l’insegnante. Dalla Casa-laboratorio di Cenci poi l’uso della fiaba sperimentato da Lorenzoni si è esteso alla didattica interculturale, dove risaltano i temi centrali della fiaba (il viaggio, per es., le prove, quelle che nelle storie individuali, narrate perché vissute, si rivelano essere «nodi di dolore»), il modo epico, il suo prodursi in un cerchio che avvicina fisicamente le persone coinvolte, il suo essere un processo «di riunificazione e riconoscimento di sé, realizzato con l’aiuto di un ascolto degli altri» (Lorenzoni, Martinelli 1998, p. 81).
Si approda così alle recenti proposte di Vinicio Ongini, che valorizzano la fiaba in quanto genere ibrido e migrante. Lungo questa filiera la fiaba scava un proprio alveo storicamente nuovo, entro il vasto dominio della didattica di base (soprattutto nelle scuole elementari), dove sembra essere allo stesso tempo portatrice di valori in proprio (sia stilistici sia tematici) e di un potere di erosione del dominio linguistico e letterario di una letteratura per bambini, allo stesso tempo ingenua e ideologicamente orientata in senso conservativo; poi si riveleranno altri valori: il rapporto con la presa di parola e la teatralità del racconto, la capacità multivocale della tradizione narrativa che, come mostrano i lavori di Ongini, è capace di parlare dello stesso personaggio facendo il giro del Mediterraneo, e quindi rappresentare una via privilegiata per l’incontro tra provenienze culturali solitamente distanti (Chi vuole fiabe, chi vuole? Voci e narrazioni di qui e d’altrove, 2002).
Il potenziale dialogico o polifonico della fiaba viene ottimizzato nelle numerose esperienze di uno dei collettivi politici e culturali più tenaci e capillari, quello degli insegnanti del Movimento di cooperazione educativa (MCE), che ha traghettato l’attenzione costruttiva alla fiaba anche nelle stagioni più vicine e in una didattica innovativa. La didattica tramite la fiaba mira a recuperare il rapporto tra generazioni e il rapporto tra il presente – multiculturale quando non anche direttamente multilinguistico – e il passato della tradizione, sottraendo quest’ultima all’oscillazione costante fra due rischi: la scomparsa, da un lato, e la sovraesposizione da politiche di patrimonializzazione, dall’altro. Il ricorso alla fiaba, infine, da parte delle famiglie omogenitoriali nel quadro di un lavoro di preparazione all’accoglienza di questa nuova modalità di vissuto affettivo e familiare è oggi una conferma postuma di questo suo continuativo ruolo di mediazione tra il reale e il reale possibile: Francesca Pardi, ha vinto nel 2012 il premio Andersen per il miglior libro 0/6 anni, con la pubblicazione di Piccolo uovo (2011), una quasi-fiaba d’autore, illustrata da Francesco Tullio Altan e, con la piccola casa editrice Lo Stampatello, sta creandone di nuove, in contiguità stilistica con le fiabe tradizionali, sottolineandone anche alcune continuità implicite o inespresse, nel segno di una anticipazione narrativa di un futuro e di un destino desiderabile.
La fiaba, quindi, si impone nella scuola e nelle attività educative extrascolastiche (con la funzione metonimica di pars pro toto) come attività concreta, sia per la tradizione orale sia per l’azione del raccontare, basata sul binomio «corpo-memoria», come scrive Lorenzoni, e registra gli apporti degli studi in direzione della narrazione come performance, che tradurrà in laboratori teatrali ed espressivi.
Tra gli anni Cinquanta e Settanta, quindi, la tradizione del racconto orale registrò una dislocazione evidente, tanto macroscopica da far pensare alla sua scomparsa. Si disarticolarono gli equilibri tra filiera di competenze e gamma delle condizioni (o contesti), che di fatto storicamente avevano consentito la realizzazione delle performance narrative.
I contesti della tradizione di lungo periodo, quelli che si realizzavano entro gli spazi domestici o di vicinato, governati da regole di ospitalità reciproca, inquadrati in cornici temporali qualitativamente differenziate, determinate dal calendario contadino o agropastorale (inverno ed estate, buio e giorno, caldo e freddo), si dileguarono con la scomparsa più o meno repentina di interi sistemi produttivi (la dissolvenza della mezzadria) o con la fuga di segmenti di popolazioni (le generazioni intermedie che emigravano e si inurbavano). Alla loro dipartita conseguiva la perdita del ruolo strategico che quelle persone avevano esercitato nella trasmissione orale delle tradizioni legate al loro vissuto. Ai filò, alle veglie, ai curtigghi, a questi luoghi marcati dalla presenza di più generi e di più generazioni (uomini e donne, vecchi, giovani e ragazzi) si sostituirono pratiche di socialità distinte e maggiormente selettive: nei quartieri dell’inurbamento, o anche nelle campagne rese transitabili dalla diffusione dei mezzi a motore, i bar, i circoli dell’Ente nazionale associazione lavoratori (ENAL) o delle Associazioni cristiane lavoratori italiani (ACLI), le botteghe plurifunzionali (le cosiddette privative o appalti) ospitarono una popolazione sempre più marcatamente maschile, liberata dalle frange estreme – i più anziani e i bambini – che potè sviluppare pratiche di intrattenimento più mirate (il gioco a carte, per es.) e orientarsi su una gamma più ristretta di discorsi – fattori che comportarono una diminuzione delle opportunità e la conseguente scomparsa di molti generi narrativi, presenti invece nei contesti di tipo tradizionale. Le altre componenti familiari, inclusa solitamente la parte femminile, si adattarono a situazioni residuali (‘stare a veglia’ senza gli uomini che, pur giocando a carte, erano presenti con bestemmie, commenti, battute) e finirono per essere assorbite dal fenomeno televisivo, non appena il mezzo tecnico diventò accessibile anche alle fasce più povere della popolazione. Nello stesso periodo, inoltre, cominciò a profilarsi l’altra distinzione, quella generazionale, che vide costituirsi luoghi e pratiche di socialità specifiche per i giovani: uno dei veri e propri prodotti del dopoguerra, presupposto in una propria inedita alterità – in opposizione ai cosiddetti ‘matusa’ – e assegnatario di obblighi di modernizzazione, di felicità, di realizzazione nelle pratiche di consumo.
In questo scenario vennnero meno le condizioni per la continuità della tradizione narrativa, le cui componenti si divisero e refluirono in diversi canali: la ripresa di fiabe di tipo classico, quelle riplasmate per un pubblico infantile già dalle ultime edizioni dei Fratelli Grimm e recepite in tale disposizione anche da Calvino, continuò, da un lato, in contesti estremamente intimi e familiari, ovunque una figura adulta (capace di narrare) si prendesse cura di bambini o bambine. Dall’altro, nel contesto istituzionale e specifico della formazione scolastica, dove il patrimonio fiabistico fu attinto dalle raccolte, di impronta letteraria, dai presaperi della componente docente (i racconti dell’insegnante Marisa Schiano negli anni Ottanta nelle scuole di Pistoia) o di altre figure professionali presenti nell’orizzonte scolastico – come la custode che ha accompagnato l’azione didattica nel Grossetano di Nevia Grazzini (La voce che racconta. Dalla fiaba di tradizione orale alla narrazione infantile, a cura di N. Grazzini, 2008), una maestra che, alla passione della ricercatrice di tradizioni popolari, univa quella per l’insegnamento nella scuola elementare. Da questo contesto, tuttavia, si irradiò una domanda di racconto, indirizzata alle famiglie degli alunni che rieducò alla fiaba – invertendo il senso generazionale della trasmissione – le generazioni intermedie che se ne erano dimenticate o ne avevano preso le distanze.
Venne in parte dispersa, invece, l’arte del narrare, quella che i teorici della performance narrativa identificavano come un atto di responsabilità di fronte a un pubblico che si aspettava l’esibizione di abilità – magari non necessariamente pensate come competenze di tipo artistico. Le narratrici, per es., donne anziane o di mezza età che, interrotta la pratica delle veglie e rarefatta la socialità domestica o di vicinato, non trovarono molti altri contesti in cui operare. L’arte del narrare è stata in parte riversata nei nuovi contesti più pubblici e più selettivi, selezionando temi e generi di racconto, scartando quelli più impegnativi – come le storie di paura, per es., che richiedevano una prolungata e intensa concentrazione collettiva, o come le storie interminabili che si sviluppavano su più giorni, contando evidentemente sulla presenza continuativa dello stesso pubblico. Il bar, la bottega, il circolo sono luoghi di maggiore transito, dove vigono le regole dello spazio pubblico – entra ed esce chi vuole e quando vuole – diverse qualitativamente dalle regole della visita domestica, dove vige invece un regime di familiarità dagli evidenti risvolti anche morali.
Se la pratica – inconsapevolmente artistica – del racconto si riversa in questi nuovi e più selettivi contesti, dove nessuna ricerca si è spinta per documentarne i temi, le forme, i modi, le regole – un altro dei ritardi incolmabili della ricerca demologica nei confronti della modernità – l’arte del racconto, esercitata consapevolmente come performance da parte di un individuo che si assume la responsabilità di tipo estetico di fronte a una collettività, a sua volta costituita come il proprio pubblico, si concentrerà in alcune figure focali, destinate a fungere da punto di ripristino e di rilancio per susseguenti fasi espansive della pratica del racconto d’arte.
Si possono identificare, d’accordo con Marina Sanfilippo (2007), in Marco Baliani, Marco Paolini, Laura Curino e l’esperienza del Teatro Settimo, Giacomo Verde, il Teatro delle Albe, Moni Ovadia, Ascanio Celestini, le figure principali che, alla fine degli anni Ottanta, si sono posizionate tra il teatro di parola del grande affabulatore Dario Fo, identificato generalmente come padre del teatro di narrazione (L. Caretti, Storia e racconto in scena, in Non solo storia. Saggi per Camillo Brezzi, a cura di M. Baioni, P. Gabrielli, 2012, p. 108) e il racconto come cronaca, come condivisione di saperi, su cui si fondano comunità del sentire politico e del riconoscimento culturale. Sono grandi storie di lungo periodo, come quelle che accompagnano gli uomini e le donne del ‘popolo ebraico’ cui dà voce Ovadia, e grandi tragedie, autentici hallmarks nel paesaggio temporale di una nazione, come il disastro del Vajont, che Paolini ha narrato in uno dei più intensi spettacoli del teatro contemporaneo. Orazione civile è l’etichetta con la quale Paolini riporta sulla scena teatrale l’esercizio del monopolio della parola narrante, istruendone la confezione con dati, riferimenti di cronaca, prendendo a prestito il linguaggio giornalistico e mescolandolo con riferimenti interiori, con brani di testimonianze raccolte dalla voce dei sopravvissuti, immaginando dettagli necessari in quanto poeticamente veri, anche se storicamente infondati.
Alla base di questo movimento c’è un imprinting narrativo, come scrive Gerardo Guccini, ricevuto da:
affabulatori popolari oppure, più frequentemente, nonne, zie: raccontatrici esperte nell’arte femminile e domestica d’intrecciare fra loro il mondo quotidiano e la storia narrata, che, in tal mondo, non viene soltanto “riferita”, ma si dilata nell’atto narrativo pervadendo le ombre della cucina, l’antro tenebroso del camino, le genealogie familiari, la vita del paese e quella del piccolo ascoltatore che ospita la storia fra i fatti dell’esistenza. Sono esperienze contrassegnate dagli elementi della cultura popolare: vi si ritrovano fiabe o affabulazioni condotte secondo schemi narrativi d’impronta fiabesca, rituali domestici, superstizioni, credenze magiche, cerchie muliebri […]. (Teatro di narrazione, «Hystrio», 2005, 1, p. 2).
Oltre che da tradizioni di racconto in dimensione domestica si attinge da tradizioni locali già posizionate nello spazio pubblico, come i cuntastorie specializzati nell’epica cavalleresca (G. Di Palma, La fascinazione della parola. Dalla narrazione orale al teatro: i cuntastorie, 1991). Il teatro di narrazione si è affermato come nuova possibilità espressiva della pratica teatrale, estendendosi dalle periferie industriali, Settimo Torinese, per es., a molti altri luoghi e temi, attingendo anche all’antropologia – si pensi all’intensa rappresentazione della storia di vita di Maria, raccolta e analizzata da Clara Gallini – e rinarrata dall’attrice Gianna Deidda, recuperando la dimensione domestica – a partire da Stabat Mater, di Teatro Settimo, fino alle varie edizioni di Teatro nelle case, del Teatro delle Ariette, ridando corpo e parola a una figura di narratore/narratrice che si era rarefatta con i mutamenti nella socialità e nelle pratiche del racconto tradizionale, e che era rimasta confinata in poche pagine delle migliaia dedicate ai testi, ricavati dalle narrazioni.
Dal teatro di narrazione, ai laboratori di narrazione attivati presso le scuole, ai festival del racconto con narratori dichiarati tradizionali, chiamati a esibirsi sul palco, il passo è breve: gli esempi in territorio italiano non sono ancora così frequenti e vitali come accade altrove, in particolare negli Stati Uniti o in Inghilterra, dove chi si propone come storyteller ha a tutti gli effetti lo stesso statuto professionale di un autore letterario o di un artista teatrale. In ogni caso, è evidente, che anche questo esito professionalizzante va interpretato come uno dei modi nei quali il presente accoglie e rifunzionalizza il portato della tradizione narrativa, facendone una selettiva rilettura e dandone una continuità più ideale che effettuale.
La rivitalizzazione dell’arte del narrare, con la parola detta come proprio baricentro, tuttavia, riporta in scena le peculiarità regionali del narrare, quelle che Calvino aveva attenuato riconducendo tutto al suo italiano letterario, per quanto innovativo. Con il veneto di Paolini, con il siciliano di Mario Perrotta e Davide Enia, il romano di Celestini e il sardo della compagnia Cada Die teatro, recupera un valore di paradigma anche il personaggio che Roberto Benigni aveva, precocemente, portato fin dai primi anni Settanta sulle scene e poi sugli schermi (grande e piccolo). Lo scenario di una Toscana periferica, segnata dall’autostrada come da una cicatrice, chiusa tra decadenza di modi, risorse culturali rurali e ansie di riscatto futuro, tutto affidato ideologicamente a una militanza politica devota e ingenua allo stesso tempo (emblema di una tipologia di comunista che si sarebbe costituita come un tratto identitario regionale), e riassunto nello stralunato mondo locale del suo Cioni Mario, si esprime in linguaggio esplicito fino all’oscenità, nel quale moduli narrativi e codici estetici (l’improvvisazione in ottava, per es.) fungono da estremi punti di riferimento propri e specifici. Isolato, come il genio, per un ventennio, a oggi si può considerare come parte di quel repertorio artistico che ha trovato nell’eredità del saper narrare, nei suoi temi e nei suoi stilemi, un solido appiglio per rinnovare il nesso tra discorso e identità sociale, tra arte e partecipazione politica, tra proposta estetica e impegno etico e critico.
In quanto patrimonio narrativo, invece, ovvero come insieme delle storie, dei temi, dei personaggi, delle azioni, e metanarrativo – e quindi come linguaggio, come disposizioni morfologiche, come strumenti di demarcazione testuale – la fortuna del mondo della fiaba è passata dal coro delle voci narranti, assemblate dalla ricerca fiabistica con la documentazione di ciò che ogni voce diceva nella propria casa e davanti al proprio ristretto pubblico, alla performance collettiva costituita come rappresentazione teatrale, con tutti gli ingredienti del teatro all’italiana, a partire dal ruolo centrale di un autore e di un regista, contribuendo a rinnovare un’offerta teatrale chiusa tra il teatro classico (dai greci fino a Pirandello) e un teatro di avanguardia ormai in via di classicizzazione (la distanza brechtiana, l’oltranza artaudiana, la sacralità di Jerzy Grotowski, la militanza del Living theatre).
La rinascita ‘in teatro’ (e non solo come parola narrante) della fiaba è una possibilità che ha avuto altri momenti di rilievo, come per es. gli spettacoli che mise in scena il Teatro dell’Elfo di Milano, a partire da Bertoldo a corte (1974-1975), Pulcinella nel giardino delle meraviglie (1975-1976) e Pinocchio bazaar (1976-1977) per approdare a Le Mille e una notte (1977-1978).
L’evento più significativo si produce al festival di Spoleto, nel 1976, quando Roberto De Simone, traendo frutto da una decennale frequentazione con la musica popolare partenopea e la tradizione musicale culta, mise in scena La gatta cenerentola (fig. 4), un sontuoso affresco sulla vita popolare napoletana che propone insieme la fertilità semantica dell’argomento e della fabula tratta dalla ibridazione delle versioni di Giambattista Basile (1566-1632) con la tradizione orale napoletana e campana, e l’intreccio con la grande arte teatrale barocca, sia visiva sia musicale. I personaggi della fiaba, quelli che la tradizione orale, secondo lo studioso Max Luthi (1909-1991), si risolvevano nella unidimensionalità, mettono qui in risalto le proprie radici popolari, le ansie di promozione sociale (anche per la matrigna), un desiderio sessuale pervasivo e polimorfo, l’accettazione consapevole della propria condizione di subalternità (di popolo schiacciato tra le minacce del vulcano e le promesse di un «santo senza capa»), e la plasticità di una concezione dell’ordine sociale in cui uomini e donne sono identità reciprocamente interscambiabili, e dove, come conclude il testo, si potrebbe vivere in pace prescindendo dall’ordine dei generi.
La gatta cenerentola è un’opera ben diversa dai prestiti che il mondo dell’opera lirica aveva attinto dalla tradizione popolare: da Gioacchino Rossini (1792-1868) a Giacomo Puccini (1858-1924), il plot popolare era stato solitamente un pretesto per parlare d’altro e per proporre un’arte che tutt’al più si concedeva qualche citazione dal mondo della musica popolare; De Simone, invece, propone un equilibrio più avanzato, basato sul pieno riconoscimento dello statuto artistico della tradizione popolare al pari della tradizione culta, con la sintesi del suo apporto autoriale (la sua scrittura, la sua musica, la sua regia).
La Napoli cortigiana e popolare, cenciosa e pretenziosa, astuta e fatalista, irriducibile all’ordine, a partire da quello tra i generi, ma subalterna alle forme dell’autorità, devota e laica, si pone, sulle scene, per un meridione che rivendica attenzione e riconoscimento politico. Non si tratta, qui, di una rappresentatività di taglio realistico o documentario, ma una scelta di rappresentanza nei termini di politica culturale che, allo stesso tempo, colma alcune lacune (la distanza tra estetica culta ed estetica popolare) e ripristina una storia condivisa e plurale: l’esperienza di ricerca di De Simone spazia dalla classicità, incarnata dal mito di Virgilio mago, ai grandi repertori barocchi e religiosi, per confluire poi con il valorizzare le peculiarità stilistiche della tradizione orale napoletana.
Alla fine degli anni Settanta cominciò a profilarsi con nettezza quanto Schenda avrebbe sintetizzato poco più di un decennio dopo: la tradizione narrativa di matrice orale è transitata nell’era della cultura di massa, traghettandovi repertori testuali chiaramente inattuali quanto a temi, durata, prerogative stilistiche e linguistiche. Ma, nel suo insieme, il sapere tradizionale è più che attuale: è necessario per metabolizzare le novità introdotte dal mercato, dalla tecnologia e dai mutamenti sociali.
Il nuovo è più credibile se presentato insieme alla tradizione; questa nuova deriva funzionale diede nuovamente spazio – ovvero parola e occasioni di ascolto – al patrimonio tradizionale, ma lo disarticolò e ne valorizzò solo alcuni aspetti o componenti: brevità, comicità, iconicità (Folklore e cultura di massa, in Oltre il folklore. Tradizioni popolari e antropologiche nella società contemporanea, a cura di P. Clemente, F. Mugnaini, 2001, pp. 73-88).
La ricerca scientifica, rilanciata dalla fortuna della fiaba nella didattica e dall’attenzione di cui godevano le fonti orali, trovò negli anni Ottanta, in una vasta area di studio interdisciplinare, le sue migliori realizzazioni, sebbene con un approccio caratterizzato da un elevato grado di isteresi: più che studiare la presenza della fiaba nella contemporaneità, ci si dedicò alla raccolta delle ultime testimonianze disponibili, senza la sistematicità del progetto di comparatistica ciresiana, pertanto con metodi e obiettivi anche molto diversificati e con una generica attenzione ai tratti ‘locali’ del patrimonio.
Di questa rinnovata attenzione furono espressione due collane editoriali particolarmente longeve, che nel corso di pochi anni si proposero di coprire l’intero territorio nazionale con un puzzle di repertori regionali. Gli Oscar Mondadori, con la collana Fiabe regionali italiane (1982-1991), curata da Guido Davico Bonino da un lato, e la collana Tradizioni italiane della Newton Compton, dall’altro, si mossero senza obiettivi di sistematicità metodologica e puntarono al consolidamento di un folk concept, ovvero l’idea che le fiabe avessero una connotazione territoriale, più che sociale, e linguistica, più che stilistica; che rispondessero a tratti culturali specifici di determinati territori, invece che a tratti culturali differenziali e socialmente connotati, come invece continuava a suggerire la metodologia ciresiana. Territorio per territorio, un autore letterario venne incaricato di riscrivere testi selezionati da un curatore dell’antologia, individuato tra studiosi di varia provenienza (dall’antropologia alla filologia, dalla semiotica alla linguistica), a partire dalle raccolte, prevalentemente ottocentesche, con l’eccezione del volume Fiabe toscane (1984), che Carlo Lapucci assemblò con i frutti di una sua personale raccolta. La collana della Newton Compton, invece, ha attinto anche ai contributi di ricerca degli autori medesimi, confermando la scelta di pubblicare testi in italiano, ma senza investire nel raggiungimento di un’esplicita qualità letteraria; questa collana sopravvive alla serie degli Oscar dedicati alle fiabe regionali, ed è tutt’ora in catalogo, sebbene entro un insieme eterogeneo dove si mescolano insieme «l’arte, l’architettura, il folclore, i proverbi e i modi di dire, la tradizione culinaria, la storia e le storie delle nostre regioni e delle nostre città» (Catalogo della Newton Compton editori), con una marcata attenzione a storie segrete, misteri, volti nascosti, saghe aristocratiche e altre promesse tra il gothic e il fantasy.
L’impresa del rilancio delle fiabe regionali è, allo stesso tempo, un sottomultiplo del modello calviniano e una deviazione. Sulla regionalità del patrimonio narrativo Calvino aveva già fatto il punto nella sua antologia Fiabe italiane (1956), quando ammoniva a non leggere nell’indicazione della provenienza (di un testo da un luogo) anche una presunzione di appartenenza. Il luogo è presente nella lingua con cui i narratori si esprimono e nelle figurazioni che la narrazione assorbe dal luogo in cui è raccontata, «un paesaggio, un costume, una moralità, o pur solo un vaghissimo accento o sapore di quel paese» (p. XXI), ma non è sensato parlare di dove sia una fiaba. Anche la lettura della stessa come documento storico della concezione del mondo «subalterna» o della tradizione popolare che la esprime, secondo lo stesso autore, dovrà essere esplorata senza limitarsi alle coloriture superficiali, ma avvalendosi dei metodi di indagine dell’analisi morfologica e strutturale.
Nessuna essenza identitaria, quindi, nel tessuto narrativo, ma una sua coloritura contestuale: l’ironia, il senso dell’equilibrio, la moderazione, tutti quei tratti che Lapucci riscontra nelle fiabe toscane (Come una fiaba diventa toscana. Il gatto con gli stivali, 1992), attribuendole a un improbabile toscano idealtipico, non sono della fiaba che, per averli assunti, diventerebbe toscana; quando non è il prodotto di una creazione letteraria consapevole, sono, invece, il risultato della sovrapposizione di apporti individuali di cui è costituita la filiera che dal narrato porta alla sua edizione: la personalità del narratore, la sua sensibilità alle aspettative dei destinatari, le predilezioni del raccoglitore che orientano lo stesso narratore (o la stessa narratrice), poi le selezioni dei repertori da pubblicare, il peso delle antologie preesistenti, le scelte editoriali pure e semplici e così via.
Identità corrispondenti a stereotipi regionali o locali sembrano nel senso comune – a sua volta, oggetto e cornice di repertori narrativi – poter avvalorare tassonomie di ordine morale, ideale o ideologico, o estetico: è una tentazione che risale almeno alla teoria del sostrato etnico, elaborata da Costantino Nigra (1828-1907) e poi smontata da Michele Barbi (1867-1941), quella di cogliere specifiche e univoche pertinenze tra luoghi e patrimoni orali, cercando anche in strati identitari preesistenti la chiave di spiegazione. Nella matrice celtica, dell’Italia settentrionale, e italica, di quella centro meridionale, e negli esiti linguistici di questa distinzione, si anniderebbe, per Nigra, la ragione di una distribuzione areale della tradizione poetica epico-lirica (a Nord) e lirico monostrofica (a Sud). Barbi non dovette neppure fare i conti con l’architettura argomentativa della dicotomia etnica: gli fu sufficiente dimostrare che la diffusione dei generi poetici e dei loro tratti estetico-tematici era semplicemente del tutto diversa (Poesia popolare italiana. Studi e proposte, 1939). Qualcosa di analogo va pensato per quanto concerne la distribuzione regionale del patrimonio narrativo: generi, tipi e motivi narrativi possono costituire ‘identità’, in quanto – e solo per questo – definiscono comunità di discorso (o di racconto), poiché ricorrono, come punti di riferimento esemplare ed emblematico, nelle rappresentazioni dei fatti del mondo in cui si riconosce un determinato gruppo sociale e, in quanto tale, localizzato, ovvero riconducibile a determinate coordinate spazio-temporali. Ma non nell’altro verso: il confine regionale, come tale, non significa né omogeneità culturale, né condivisione di concezioni del mondo, né implica una valenza esclusiva e differenziale di specifici tratti identitari e/o culturali.
Tutt’altra questione, invece, è quella della rappresentatività socioculturale, per la quale sono i rapporti sociali (visti nella prospettiva consentita a chi ne parla e chi ne racconta) a essere leggibili nelle scelte di temi e di stile che si riverberano nei repertori e nelle raccolte regionali. Il nesso tra il tessuto narrativo e il luogo passa per la mediazione della rappresentatività sociale dei narratori. Sono i mezzadri a rendere più toscana o più umbra una fiaba; è la dialettica città/campagna a rendere fiorentine le storie raccolte da Imbriani; sono le relazioni di potere del grande latifondo a spiegare perché sia siciliano quel preciso modo di rappresentare il potere che circola nelle fiabe siciliane; è la presenza di un vissuto alpino o montanaro a popolare i racconti di uomini dei boschi o di donne delle acque.
Nella presentazione che Giovanni Battista Bronzini (1993) fa dell’Italia, per la Enzyklopädie des Märchens, impegnata nella restituzione di un quadro dettagliato, regione per regione, è evidente come la maggiore o minore fortuna di un territorio, per la documentazione storicamente accumulatasi, intervenga nel determinarne una ‘rappresentazione’ plausibile. Alcune regioni, quindi, si frammentano nelle molteplici identità parziali – si direbbe, oggi, etniche –, che convivono entro il confine amministrativo, e risultano depositarie di tratti derivanti, magari, da popolazioni marginali, dalle minoranze linguistiche, la cui differenza ha protetto i rispettivi repertori fino alla loro traduzione. Altre regioni vengono presentate, invece, come segnate dalla storia: l’appartenenza allo Stato della Chiesa, per es. Altre ancora, come la Toscana, sono presentate con la storia dei raccoglitori che ne hanno valorizzato un repertorio appetibile, per motivi linguistici e politici, per l’intera comunità nazionale (costituenda e, poi, costituita). Compito arduo è quello di Bronzini, che poteva essere svolto solamente assumendo una griglia eterogenea di tratti linguistici, etnici, storici, e facendo riferimento a un’altrettanto ampia gamma di generi narrativi, dove fiaba, leggenda, storie di paura, aneddotica, si alternano secondo il bisogno, e, infine, ricorrendo alla dialettica tra storia letteraria e storia degli studi di fiabistica.
Dallo stereotipo regionale discendono i tratti delle fiabe da sottolineare, o gli elementi da segnalare come caratteristici del patrimonio narrativo che circola nella rispettiva area di pertinenza.
Gli stereotipi regionali, tuttavia, sono dotati di una loro forza e di un complesso di argomenti (cui il folclore ha attivamente contribuito con costumi tipici, maschere carnevalesche, almeno dall’esposizione del 1911), tali da ricadere come cornice cui conformarsi, e alla quale, magari, sacrificare anche sottopartizioni territoriali, linguistiche, sociali. Le italiche genti sono molto più diversificate delle regioni costituzionalmente definite e allo stesso tempo accomunate da estese sintonie, da corrispondenze e affinità, che vanno anche ben al di là degli italici confini. Alla luce della griglia derivante dall’incrocio tra luogo/ecosistema, condizione sociale, sistema tecnico-produttivo, veicolo linguistico, appartenenza religiosa e identità politiche, si dovrebbe rapportare il patrimonio di parole dette per narrare fatti e storie capaci di produrre senso e raccogliere consenso e di trasmettersi, così, da una generazione all’altra, e, insieme agli uomini e alle donne, da un luogo all’altro.
La ricerca accademica accoglie la spinta localista che proviene anche dal crescente dialogo con le neonate istituzioni regionali, ma risponde con alcuni eventi che marcano, allo stesso tempo, l’autonomia degli studi e la crescente delocalizzazione del tema: si possono menzionare, in breve, il convegno organizzato a Parma nel 1979, dal titolo Tutto è fiaba (Atti del Convegno internazionale di studio sulla fiaba, 1980), dove risalta l’apertura agli studi di germanistica e della fiabistica letteraria, il convegno su Oralità e scrittura nel sistema letterario, a Cagliari nel 1980 (Atti del Convegno, a cura di G. Cerina, C. Lavino, L. Mulas, 1982) e, più avanti, quello svoltosi a San Giovanni Valdarno nel 1986, Inchiesta sulle fate. Italo Calvino e la fiaba (Atti del Convegno, 1988) dedicato espressamente alla collocazione delle Fiabe italiane di Calvino, nella giusta prospettiva sia del suo mondo autoriale sia del suo apporto a un terreno di studio molto sfaccettato e aperto a una pluralità di letture, quale la fiabistica di tradizione orale. Di particolare ambizione, per ampiezza di prospettive e per notorietà dei partecipanti, il corso di perfezionamento sulla fiaba tenuto a Napoli nel 1988-1989 dall’Istituto Suor Orsola Benincasa, i cui contributi sono apparsi nel volume Da spazi e tempi lontani. La fiaba nelle tradizioni etniche (1991), dove si sommano apporti dall’etnologia, dalla classicità, dalla lettura simbolica ed esoterica.
Questa è la stagione in cui si definirono alcuni dei profili di maggiore specializzazione sui temi della narrazione e della fiaba, superando le secche dell’indagine strutturale e della lettura semiotica, che pure continuò a trattare la materia prescindendo dalla sua natura di performance narrativa (sull’argomento si veda V. Pisanty, Leggere la fiaba, 1993).
Cristina Lavinio, per es., si avvalse della linguistica del testo e di una speciale attenzione ai regimi orale/scritto, in totale autonomia dal pur rilevantissimo corpus documentario che si era consolidato presso il polo di ricerca demoantropologica di Cagliari (C. Lavinio, La magia della fiaba. Tra oralità e scrittura, 1993).
Milillo, invece, nelle ricerche confluite nelle opere già citate coltivò un suo particolare rapporto con lo spazio, inteso in primo luogo come il campo di una intensa etnografia del racconto, e quindi i territori – prevalentemente meridionali – attraversati, descritti, interpretati. Per Milillo, tuttavia, lo spazio è anche collocazione sociale, in una proposta di approccio alla ricerca narratologica che fa di lei la figura centrale della fiabistica italiana di questo periodo.
È una proposta di etnografia del racconto, vissuta senza la mediazione di una (infondata) priorità testuale, praticata grazie a un elevato grado di empatia nei confronti dei portatori della tradizione che studiava, e aperta a esperienze di valorizzazione teatrale dell’eredità culturale e politica racchiusa nei racconti di vita e nella vita (sociale) dei racconti. Da questa stagione sono emerse ulteriori domande, maggiormente concentrate sulla tematica del ‘contesto’ e sulla figura del ‘narratore’, delle sue sintesi e della sua arte, e i repertori locali di tradizione orale vengono attratti dal più generale fenomeno della costruzione della memoria, che ha caratterizzato il passaggio alla postmodernità.
Proprio l’arte del racconto, grazie anche ai mutamenti tecnologici che hanno democratizzato l’accesso alle fonti sonore e agli strumenti di riproduzione audiovisiva, ispira nuove iniziative pilota: lo fu certamente la pubblicazione de Li fatti di Carmela Mangiola. Il repertorio narrrativo di una donna di Condofuri (1994), edita insieme a un’audiocassetta, con la voce della narratrice, e la trascrizione fedele dei ‘fatti’ da lei narrati, dove vita e tradizione narrativa si mescolano, a opera del ricercatore/raccoglitore Valentino Santagati, protagonista a sua volta di un personale percorso di ricerca tra musica, vita e radicamento locale, voce, anch’egli di un luogo (Reggio Calabria) e già interprete, insieme a Caterina Bueno, del canto popolare toscano.
L’endiade voce/testo, ovvero ascolto e lettura, si ripresentò poco dopo, sul versante sardo, confermatosi come uno dei laboratori più avanzati, grazie al lavoro di Enedina Sanna, che con il ciclo Contami unu contu. Racconti popolari della Sardegna (3 compact disc, 1996-1998), con la collaborazione di Enrica Delitala e Chiarella Addari Rapallo, propose un’antologia rappresentativa per aree linguistiche e, poi, per generi e temi della narrazione di tradizione orale in Sardegna, tratta dal fondo archivistico universitario della cattedra di Storia delle tradizioni popolari di Cagliari. Questa serie vede insieme la digitalizzazione – la definitiva dematerializzazione del documento di un’arte già di per sé intangibile – e la trascrizione annotata, dove si oggettiva il contributo specifico del rilevatore e dell’analista del documento, lasciando che la voce del narratore, nei luoghi del racconto effettivamente prodotto (e documentato), esprima da quale terra provenga e per quale mondo si sia prodotta nella narrazione.
Paolo Toschi, introducendo i due volumi dedicati al patrimonio di tradizione orale della propria terra d’origine, la Romagna, rimarcava come le regioni privilegiate dal punto di vista della raccolta fossero quelle di cui si era consolidato un corpus a opera di uno studioso, come «per la Sicilia il Pitré con i 4 voll. di Fiabe e racconti popolari, per la Calabria il Di Francia e il Lombardi-Satriani e per la Puglia il La Sorsa», oppure come la Toscana, dove si sommano i lasciti di Imbriani, Pitré, Nerucci, Ildefonso Nieri a dare «un panorama ampio e meritamente famoso della novellistica popolare di tale regione» (Buonsangue romagnolo. Racconti di animali, scherzi, aneddoti, facezie 1960, p. IX).
Le varie regioni, quindi, sono state difformemente rappresentate in un ideale repertorio nazionale, come del resto aveva già sperimentato Calvino nel suo adoperarsi per una rappresentazione equilibrata tra temi, territori e repertori disponibili. La ricerca che si sviluppò nel ventennio Settanta/Ottanta, e che in molti casi fu valorizzata da pubblicazioni molto più tarde, in realtà modifica quel dato.
Da segnalare l’impresa cui si è dedicata, su iniziativa di Andreina Nicoloso Ciceri, la Società filologica friulana che, a partire dal 1968, ha impostato un piano di rilevamento capillare, valorizzando le raccolte storiche e facendo tesoro delle peculiarità linguistiche e culturali che si sono intrecciate sul territorio regionale. Ancora attiva la serie che comincia con la raccolta della stessa Nicoloso Ciceri, Racconti popolari friulani (1968) e continua, fino a superare una ventina di raccolte, senza contare i repertori e le riedizioni, costituendo uno dei più organici corpus regionali.
Altra campagna di rilevamento del patrimonio tradizionale in ambito regionale è quella che ha promosso la Regione Lombardia, tramite l’Archivio di etnografia e storia sociale, a partire dal 1972, con la pubblicazione prima della serie «Quaderni di documentazione regionale» e poi della storica Collana mondo popolare in Lombardia, in 15 volumi dedicati a singoli temi o territori provinciali, comprensiva ovviamente anche di raccolte di fiabe e di documenti di narrativa orale.
La Lombardia, per es., vide pubblicareVentisette fiabe raccolte nel mantovano (1976), a cura di Giancorrado Barozzi, e Fiabe bergamasche (1981), a cura di Marino Anesa e Mario Rondi; il Veneto annovera le Favole del Feltrino, raccolte e commentate da Daniela Perco (1981) e quelle del Bellunese, raccolte da Gianluigi Secco (1979), che ha avviato in questo modo una carriera di raccoglitore/divulgatore, destinata a confluire prima in fortunate trasmissioni televisive locali e poi a estendersi, insieme a Giorgio Fornasier, ai veneti di oltreoceano. Alla cultura popolare di questo Veneto transnazionale è stato dedicato l’archivio dell’Associazione culturale per la promozione della conoscenza e diffusione delle culture locali da loro fondata, Soraimar, ancora operante. Molto difficile risulta, però, dare conto della fortuna che ha avuto la raccolta di fiabe, ampliata a tutto il patrimonio narrativo, inclusi i generi minori e quelli tradizionalmente censurati. Nasce persino un bollettino («Fonti orali. Studi e ricerche», diretto da Luisa Passerini e pubblicato dall’Istituto Gramsci di Torino, 1981-1987) per armonizzare tanta attenzione al patrimonio narrativo e al bisogno di testimonianza. Le iniziative di ricerca e di valorizzazione nascono spesso sulla base di spontanee volontà, e talvolta con metodi improvvisati.
Di tanta varietà di intenti e di iniziative neppure la presente stagione di riduzione all’ordine informatico dei cataloghi delle biblioteche pubbliche sembra poter avere ragione: non ci sono algoritmi classificatori né certezze di procedure di catalogazione, capaci di racchiudere questa messe di lavori in una banca dati sufficientemente ampia e sistematica, da interrogare su come questa stagione abbia modificato le disponibilità documentarie dei repertori narrativi regionali. Quanto alla Toscana, il privilegio goduto nel periodo ottocentesco sembra riprodursi in questa stagione, se si considera l’azione congiunta e simultanea di studiosi come Gastone Venturelli (1942-1995) e Roberto Ferretti (1948-1984), autori di ricerche che hanno privilegiato un orientamento territoriale: la Maremma grossetana e il Monte Amiata, per Ferretti (Fiabe e storie della Maremma nel fondo narrativo di tradizione orale “Roberto Ferretti”, 1997), l’area garfagnina-lunigianese per Venturelli (1983), senza dimenticare la rilevanza della prospettiva narratologica, l’intero volume dedicato da Venturelli (1994) al repertorio di Gemma Frati vedova Rigali, la sua novellatrice più provetta. Ad arricchire il panorama toscano, tuttavia, vanno citati altri contributi, quali quello di Paola Tabet, che riproduce i materiali di un rilevamento condotto nel Mugello, a Castagno d’Andrea, misurando anche gli effetti dello spopolamento che ferisce la società contadina nell’intervallo di un decennio, tra la prima indagine e il ritorno sul campo (Tabet 1978).
Un altro contributo meritevole di segnalazione è quello di Maria Luigia Rossi sull’aneddoto nell’area casentinese: un contributo importante perché mostra come fosse ricco il repertorio non fiabistico circolante oralmente, alimentato da lapsus linguistici, gaffe e motti di spirito derivanti dalla dinamica sociale, che nel vissuto quotidiano coinvolge e travolge i ruoli e le figure delle istituzioni (Rossi 1987). Emerge, in tutto ciò, l’altro grande settore della tradizione di racconto: quel narrare tra storia e fantasia che non si cimenta con le vette del sublime romantico, né con i racconti di riscatto e di risalita sociale di pastori che diventano re. Qui si parla del quotidiano, della nobile miseria delle pieghe del vissuto, dove l’alto e lo spirituale (la fede, per es.) deve tradursi nelle metafore umilianti, quasi blasfeme di predicatori inetti, o incauti, tentati dal desiderio e ottusi dall’avarizia; qui al bacio che risveglia la bella addormentata si sostituisce l’amplesso veloce, adulterino, rubato con l’inganno e la furbizia. All’aneddotica locale, rispondente al genere del «paese degli sciocchi», è interamente dedicata la già citata ricerca di Carnesecchi sulle storie dei montierini. Un’analoga attenzione a questa pluralità di generi è presente in altre raccolte e pubblicazioni di repertori narrativi su base locale: la ricerca di Tatiana Dodaro sulla tradizione orale in Salento, del 1982-83 (Cunti e storie. La tradizione orale a Campi salentina, 1989). Oltre all’aneddoto locale, trapela anche la tematica erotica espressa fuori dalle metafore romantiche e pudibonde (F. Mugnaini, Mazzasprunigliola. Tradizione del racconto nel Chianti senese, 1999). Questo aspetto – spesso rimosso della ricerca fiabistica – caratterizza il repertorio di alcuni narratori calabresi (Sabino 1991) e connota anche una parte consistente del grande repertorio assemblato da De Simone per la Campania (Fiabe campane. I novantanove racconti delle dieci notti, 1994).
Da Napoli e dal suo entroterra, luogo primario della tradizione narrativa sul piano storico, da cui Giambattista Basile attinse i temi e la lingua che trascrisse nel libretto usato come sostegno delle proprie performance narrative per il suo pubblico aristocratico, e su cui De Simone compì una lunga e vasta indagine quarantennale, poi portata alle stampe con la collaborazione di Ugo Vuoso (Fiabe campane, 1994), emerge un filone esplicitamente erotico, intrecciato con le ambientazioni romantiche e cortigiane da un lato, e con la riproduzione narrativa di contesti popolari dominati da una ‘concezione bachtiniana’ del corpo e del piacere sessuale, dall’altro.
Si potrebbe dire che la grande fortuna della fiaba nell’ultimo quarto del 20° sec. si è sostanziata di una stagione di intense e fruttuose indagini, maturate in un ventennio destinato ad alimentare un’ancor più lunga stagione editoriale, che ha condotto alla sontuosa edizione della raccolta di De Simone, nel 1994, fino alla già citata pubblicazione integrale del patrimonio raccolto da Ferretti, scomparso nel 1984, dopo un decennio di infaticabile lavoro di animatore culturale nella Maremma grossetana. Ma è stata anche una stagione di riscoperta di lasciti più antichi: Luisa Rubini, per es., ha pubblicato le fiabe siciliane raccolte oltre un secolo prima da Laura Gonzenbach nella Sicilia ionica (1998). Dal fondo assemblato da Domenico Comparetti per alimentare la collana dedicata a Canti e racconti del popolo italiano, pubblicata e curata insieme ad Alessandro D’Ancona, sono riemersi rispettivamente Novelle popolari senesi, raccolte da Ciro Marzocchi, 1879 (1992), a cura di Milillo, e la parziale edizione dei materiali sardi, a cura di Enrica Delitala, Novelline popolari sarde dell’Ottocento (1999).
Rimane ampiamente da valorizzare il materiale depositato nell’Archivio etnico-linguistico musicale (AELM) presso l’Istituto centrale per i beni sonori e audiovisivi (ICBSA), prima Discoteca di Stato – di cui, mediante trascrizione e commento, si è dato valore solo ai repertori della Toscana meridionale (Voci della Maremma. Novelle e altri racconti dal Fondo delle tradizioni orali non cantate della Discoteca di Stato. Castell’azzara, Sorano e Sovana, Talamone, a cura di Paolo Israel, 2001).
Non è possibile scendere a un livello ulteriormente dettagliato perché la base documentale sarebbe destinata a crescere esponenzialmente: malgrado la fiabistica accademica sia incorsa in una fase di raggelamento (e di ripensamento) dopo le fortune degli anni Ottanta, l’attenzione sul piano locale non ha invece conosciuto sosta e comune per comune, pro loco per pro loco, si sono accumulati testi di maggiore o minore rilievo che hanno assolto al compito di traghettare un sapere da una stagione all’altra, o per meglio dire da un’era – l’era della scrittura e della stampa – a un’altra – quella dell’oralità di ritorno e della multimedialità.
Un interessante commento, in proposito, è quello di Mario Luzi, che benedisse, con una scarna ma densa presentazione, il volume Fiabe toscane (1984). Si era accinto a leggere l’antologia propostagli da Lapucci, immaginando di ritrovarvi quella ‘oralità affabulatrice’ che marcava il suo ricordo infantile, propria della natura della fiaba; ma ciò che sentì emergere, da lettore, anche nel proprio intimo, fu invece ‘una insopprimibile tendenza alla visualizzazione’. Tutti i prodigi e gli artifici narrativi si tradussero in:
strips dalla vivida iconografia o […] in films da ritmo serrato che brucia tutti i passaggi intermedi e incalza la sequenza degli eventi. La fantasmagoria dinamica a cui siamo stati educati da Disney aveva la sua parte e trovava il suo cibo. La sorpresa verteva anche sul fatto che fossi io, attempato lettore, a verificare la curiosa sorte di questa materia propria della leggenda e dell’affabulazione orale venuta a cadere in piena civiltà dell’immagine, in piena cultura iconica; e a constatare i cambiamenti di senso e i mutamenti di credibilità che ne derivano (prefazione a Fiabe toscane, 1984, p. VI).
L’‘operazione Calvino’ – redistribuire a tutti, in italiano, ciò che era storicamente di ciascuna regione o, meglio ancora, nella più o meno ristretta area linguistica-dialettale – veniva interrotta dalla rinascita dei localismi, che insieme alla lingua recuperarono l’identità come valore e le sue manifestazioni culturali come patrimonio posseduto e qualificante un delimitato territorio: sapori alimentari, forme estetiche e modi di dire o di rappresentarsi tornarono a godere dell’attribuzione di un’essenza per la quale le fiabe ‘sono diventate’ toscane, umbre, campane, e così via. Ma il processo di standardizzazione richiesto dal passaggio dentro le strutture testuali e nell’oggetto libro ha comportato mediazioni che o hanno celato la specificità locale, o l’hanno esasperata finendo per risultare incomprensibili ai più. Quando Luzi intuì che l’offerta delle fiabe per l’esperienza della lettura si era incontrata con un’aspettativa da cultura iconica, egli aveva già compreso gran parte del percorso che sarebbe venuto a compimento solo nella seconda metà degli anni Novanta, quando diventò possibile non solo leggere le fiabe, ma sentirle e vederle, e quando ciascuno poté, volendo, emanciparsi dalle scelte di editori grandi o piccoli. Si è già visto come l’arte del narrare si esporti verso la performance attoriale (da Benigni a Paolini, Ovadia, Vincenzo Pirrotta, Celestini) e verso le tecniche didattiche – narrare a scuola (e poi sul web). L’arte del divertire, invece, si disloca dalla fiaba ad altre forme testuali di tradizione orale, quali la barzelletta e il motto di spirito (Schenda in Oltre il folklore, 2001, cit.) e, in un panorama di scambi, nelle conversazioni dominate dalla lingua standard o dai gerghi speciali dei giovani e degli aficionados, diventa narrativa di valorizzazione di azioni o performance, che non sono più né narrative né consapevolmente o volontariamente prodotte.
L’identificazione locale, infine, non dipende più da informazioni di cornice o da criteri di trascrizione o di rappresentazione grafica delle peculiarità fonetiche di una parlata vernacola: il dato qualificante della ‘localizzazione’ è implicito nella traccia sonora che la voce narrante imprime su un nastro, prima, e su un percorso di bites, poi, immediatamente, direttamente e plurimamente fruibile.
La geografia della trasmissione narrativa cambia in maniera radicale nel momento in cui diventa popolare (nell’accezione di maggioritario, preponderante, indifferenziato) l’accesso alla produzione, alla riproduzione e alla divulgazione di materiali culturali via web, in versione digitale, integrando immagine e sonoro. Il nuovo scenario contribuirà ad articolare diversamente le varie regioni del sapere narrativo, aprendo di fatto una fase di cui si può parlare solo al presente.
La rete ospita attualmente un numero quasi incommensurabile di siti dedicati alle fiabe o alle novelle, sotto forma di blog, che si rivolge a una rete di appassionati, ma, accanto a questi luoghi di riproposta di materiali di tradizione spesso confusi e mischiati a testi di provenienza letteraria, con forti inclinazioni verso il meraviglioso e il genere fantasy, si possono reperire anche ‘oggetti’ non contestualizzati dal soggetto che li espone, offerti invece alla fruizione da parte di chiunque: nasce così il ciclo dedicato (come un postumo omaggio) da due nipoti (terribili) alle escandescenze, alle reazioni alle provocazioni – anche irrispettose – di un irascibile nonno umbro.
Nonno Fiorucci, questo il nome d’arte dell’uomo (secondo la rete, Vincenzo Gagliardoni Proietti, 1934-2007, di Assisi) è per anni visto e goduto da centinaia di migliaia di utenti in un video di Youtube, che si divertono alle sue lunghe sequenze di bestemmie, colorite, aggressive e iperboliche fino a perdere qualunque valenza di intenzionalità blasfema. Non c’è racconto, qui, ma azione: non si narra di uno scherzo, ma lo si compie. Non si riferisce di una battuta a effetto, ma la si produce. I personaggi sono un nonno, in ciabatte e canottiera, attempato al punto da rinviare a una Umbria contadina e popolare, in un contesto abitativo contemporaneo, di media condizione, bersaglio di provocazioni da parte di un nipote, lo stesso che lo riprende (probabilmente con una telecamera da telefono cellulare), mentre si lascia andare a esilaranti reazioni. Nella performance individuale di nonno Fiorucci si apprezza uno stile individuale, con ampie radici nella pratica collettiva – della bestemmia come click linguistico – per questo anche relativamente legittimata, che assume la valenza di una creazione estetica disponibile a una fruizione reiterata, senza bisogno della mediazione narrativa e con un ingresso diretto del mezzo tecnologico nelle occasioni di socialità che si orientano alla sua condivisione. Nonno Fiorucci per un qualche tempo convive con la documentazione audiovideo delle sue performance, che si accumulano nel corso di un triennio, fino a comporre una piccola saga blasfema, irresistibile – per chi non si sente respinto da tanto abuso – di cui era divenuto scarsamente consapevole. Poi è venuto a mancare, e attualmente sono rimasti in rete alcuni montaggi – uno prodotto dai suoi nipoti e, allo stesso tempo, padri del suo personaggio; altri, come accade con quanto avviene in rete, semplicemente presi da altri videoutenti, scaricati e ricaricati come contributo personale alla grande tempesta vernacola della rete.
Dello stesso tipo è la fortuna che aspettava una coppia di anonime persone, che si inferisce essere marito e moglie, impegnate a otturare una falla nel circuito di alimentazione di una motozappa. Il documento è registrato solo in audio; ma nella rete circolava montato su alcune immagini di repertorio (campagna, lavori agricoli) o su foto fisse, per avvicinarsi allo standard principale che è l’audiovisivo. Anche in questo caso il tema è la bestemmia come risorsa linguistica e poetica per far fronte alle contrarietà. Il tratto linguistico (area senese/grossetana) rende il testo perfettamente comprensibile anche a utenti di diversa provenienza, tanto che il numero di coloro che lo hanno visionato, su Youtube, è piuttosto elevato.
Per i giovani utenti nativi-digitali questi spezzoni di ‘alterità’ culturale, intrisa di familiarità e, in fondo, di affetto, sono parte di quell’universo che riflette on-line l’infinita varietà del mondo off-line, e lo colloca in sintagmi di fruizione (per es. le sedute di visionatura di Youtube) dove spezzoni di trasmissioni televisive, di tutto il mondo, si intersecano con spezzoni di video caricati da altri utenti, sparpagliati anch’essi sull’intero pianeta. Presi in esame, invece, dalla prospettiva del patrimonio narrativo di tradizione orale, è facile riconoscervi la continuità con i cicli narrativi che si condensavano nel genere delle ‘facezie’, storie che trasferivano l’evento (una litigata, uno scambio felice di battute, un’espressione linguisticamente scorretta o inappropriata) dal piano locale e della storia a quello del patrimonio narrativo: dalle battute di Bertoldo a corte, fino alle facezie del prete o del predicatore fino all’aneddoto del contadino toscano bestemmiatore che entra nel patrimonio aneddotico locale. La rete ospita, senza altre mediazioni oltre a quelle di chi controlla la tecnologia, i documenti di quell’arte della parola che si produce entro i contesti locali, dai quali, in passato solo la mediazione della raccolta a opera dello studioso (con l’implicito processo di correzione e di riscrittura) potevano riscattarli.
La narrazione di tradizione orale, locale per definizione, in quanto espressa in ciascun contesto narrativo nelle appropriate forme linguistiche, stilistiche, nelle destinazioni funzionali e nelle marcature semantiche, è stata legittimata in epoca repubblicana dall’opera di sintesi affidata a Calvino, che selezionò, riformulò e riscrisse in italiano, azzerando le peculiarità locali (quelle rimaste leggibili date le condizioni tecniche della raccolta fino alla metà del 20° sec.) e restituì centralità alla fiaba rispetto ad altre forme minori della narrativa di matrice orale.
La disgregazione dei contesti narrativi propizi alla trasmissione orale delle fiabe, tuttavia, comportò la progressiva dissolvenza delle pratiche: nel ventennio 1960-1980 i generi che convivevano nelle pratiche si autonomizzarono e per ciascuno di essi si produssero contesti, funzioni e significati nuovi.
Il patrimonio narrativo entrò nella sfera d’azione del mercato e dell’industria culturale dove venne usata per le finalità più diverse: dalla pubblicità ai film soft-core, ai fumetti pornografici. L’appropriazione del patrimonio fiabistico da parte dell’industria culturale, tuttavia, rese esplicita l’interna articolazione della tradizione del racconto, mettendone in luce componenti adombrate dalle politiche di documentazione e di pubblicizzazione delle raccolte. Narrazione non è solo fiaba: il cinema assunse l’impegno di sottolineare la componente erotica e comica in racconti di matrice realistica, che facevano perno sulla rappresentazione grottesca e iperbolica di un vissuto quotidiano, corporeo e relazionale. Per un verso la fiaba, quella centrata sul racconto della meraviglia, vide i suoi personaggi – Biancaneve, Cappuccetto rosso – come oggetto di manipolazioni che li resero irriconoscibili per attributi, e quindi si disperse nel crescente settore del porno di massa indirizzato alla popolazione adulta, o adolescente. Per altri versi, invece, la fiaba nell’accezione calviniana emerse come potente strumento didattico e trovò nella scuola un alveo di espansione, capace di valorizzare competenze residue, di testare le abilità di nuovi performer (maestre e maestri, o attori/narratori consapevoli della peculiarità delle competenze di cui si avvalevano) e persino di reinnescare processi di trasmissione intergenerazionale, stavolta però al contrario, con figli/alunni che raccontavano e insegnavano ai genitori/insegnanti. Gli altri generi, la cui presenza e importanza nella pratica narrativa di tradizione orale si doveva intendere come inversamente proporzionale alla documentazione che se ne era prodotta, trovarono ciascuno un proprio modo di convivere con le mutate condizioni sociali e con lo scenario tecnologico che si era costituito come novità storica per la sociabilità, determinandone le pratiche concrete.
La socialità specializzata attrasse i generi della barzelletta, del discorso comico; l’aneddotica locale si incuneò negli scambi conversazionali dove si mescolava con il discorso politico, la cronaca e dove germinarono, come pseudonotizia, le leggende metropolitane, o per meglio dire la via contemporanea alla leggenda: un dire che presuppone un credere e che, secondo le letture prevalenti, diede voce ad ansie e bisogni di natura collettiva o condivisa, in circolazione entro determinate comunità di discorso. Il mercato trovò il modo di mettere a profitto questa continuità riuscendo a far tesoro persino di quei limiti, idiolettali o vernacoli che erano stati, in passato, oggettivo motivo di frammentazione nei flussi di circolazione culturale. Ne sono prova i tanti bozzetti regionali che sono emersi, trascinati certamente dall’industria cinematografica e televisiva, che a lungo investì nell’equazione dialettalità e comicità, presupponendone anche l’inversione, ovvero cercando di produrre comicità sperimentando varie salse dialettali. In un Paese come l’Italia, la cui estetica teatrale e letteraria è inscindibilmente connessa al valore delle espressioni dialettali (da Carlo Goldoni a Carlo Porta, da Giuseppe Gioacchino Belli a Luigi Pirandello, da Carlo Emilio Gadda a Eduardo De Filippo sino ad Andrea Camilleri), tennero la scena tanti personaggi comici marcatamente locali e vernacoli, a riaffermare la via locale alla risata e al buon umore. Vicenda esemplare dal versante della stampa periodica è quella della rivista satirica «Vernacoliere», edita a Livorno e concepita come celebrazione di una implicita e specifica concezione del mondo e della vita livornese, che, pur proponendo alla lettura una scrittura resa impervia dalle entrate lessicali vernacole e da un tentativo di restituire anche l’oralità del dialetto labronico, è diffusa in ogni angolo della penisola. «il Vernacoliere» è stato, per tutti gli anni Novanta, un potente veicolo di redistribuzione del patrimonio comico, diffondendo barzellette che ciascun lettore, poi, ha potuto rimettere in giro e senza alcun obbligo di citazione né di fedeltà alla forma linguistica della variante scritta.
Sempre nel «Vernacoliere» si può riscontrare l’esempio di come a questi generi storicamente considerati minori si connettono, intrecciandosi, funzioni diverse: l’intrattenimento marcatamente comico, in questo giornale, si intreccia alla elaborazione di posizionamenti critico/politici nei confronti del tempo presente, difficilmente riconducibili a geometrie ideologiche di tipo pre e postmoderno. Ridere e pensare vanno insieme in un rapporto circolare tra località (il luogo della fruizione, dove qualcuno legge, ride e rinarra) e centro (il luogo della produzione, dove qualcuno indirizza una storia che, narrata localmente, ha mostrato il proprio potenziale comico, perché torni in circolo).
La frontiera tecnologica che si apre, nella seconda metà degli anni Novanta, con il modello di Internet, sempre più permeabile a istanze locali e individuali, è stata diversamente colonizzata da questi flussi di materiale.
Il tratto di cultura nazionale che la fiabistica aveva derivato dal modello Calvino, e che si era consolidato nella pedagogia della fiaba, era stato messo in discussione dall’accumulo di ricerche e di documentazione sulla narrazione, che avevano valorizzato gli aspetti locali e regionali. La regionalità si era sviluppata in particolare attorno alle funzioni di carattere comico/critico. L’ingresso nell’era telematica, registra una colonizzazione della rete da parte della passione per la fiaba – che si pone in continuità con la valorizzazione pedagogica; ma le regioni minori del racconto si conquistano una visibilità inedita e sorprendente, dove le diversità culturali locali vengono offerte a una valorizzazione volontaria e partecipe. Il milione di utenti che ha partecipato, ridendone, si spera senza deriderlo, alle vicende di nonno Fiorucci è la manifestazione più conclamata di come i tanti cicli aneddotici locali, avrebbero anche attualmente ragion d’essere. La rete, per la sua prossimità alle pratiche della socialità libera e non istituzionalizzata, potrebbe essere oggi l’omologo funzionale di quella pratica (democratica) del racconto, di cui la patrimonializzazione, antica e contemporanea, produce insieme la celebrazione e la negazione.
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