Le strutture assistenziali
Con gli anni Venti del Cinquecento, in alcune città europee vennero intraprese importanti riforme delle strutture dell'assistenza. In estrema sintesi gli obiettivi erano quelli di unificare nella mano pubblica la gestione dei mezzi assistenziali (loro raccolta e loro erogazione) e di eliminare dalle strade la mendicità. Ben presto, in quelle città e, successivamente, in alcuni stati, ci fu tutto un legiferare volto ad impedire un certo mendicare, volto a discriminare tra i vari tipi di bisognosi, volto alla creazione di pubblici uffici (elemosinerie generali, borse generali dei poveri, ecc.) i quali avessero ad assorbire la miriade delle vecchie strutture della carità, grandi e piccole, laiche ed ecclesiastiche, associative e no, procurando la loro eliminazione e la loro sostituzione con centralizzate iniziative pubbliche di ricovero per i bisognosi, di ricovero e lavoro coatto in funzione punitiva e rieducativa per i disinseriti di vario tipo come, per esempio, i vagabondi, i "falsi" poveri, i perturbatori dell'ordine e della laboriosità, ecc. Sarà nell'Olanda del Seicento, stato nuovo, in espansione economica, protestante, per taluni tratti borghese, che tali riforme avranno gli esiti più pieni e conseguenti (1).
A sollecitare disegni di riforma delle politiche da tenere nei confronti di certo pauperismo e di certe disturbanti presenze sociali erano di sicuro state, in notevole misura, le novità di dimensioni quantitative e di connotazioni qualitative che andavano assumendo i fenomeni del pauperismo e del disinserimento in molte contrade europee interessate da sviluppi demografici squilibrati rispetto alle possibilità di produzione dei mezzi di sussistenza, da crisi alimentari, da inurbamenti e mobilità nuove di gruppi della popolazione, da disastrose epidemie, da vicende continentali di guerre endemiche e quindi di eserciti e marinerie reclutati e smobilitati con conseguente messa in circolazione di uomini sradicati e disinseriti.
Anche a Venezia, nel Cinquecento, soprattutto dopo gli anni Dieci del secolo e la crisi dell'attacco dei collegati della lega di Cambrai, si vissero momenti e riflessi di tali scenari. Anni difficili e complessi dal punto di vista sociale. Costipazioni della popolazione, immigrazioni di gente povera dalla Terraferma e dallo "Stato da Mar", moltiplicazione in città di presenze umane disponibili ad esprimere vitalità esistenziale anche con la violenza, contraddizione tra la diffusione della ricchezza e del benessere e vite miserabili. I problemi posti dal pauperismo divennero particolarmente gravi negli anni 1528-1529 come lo diventeranno ciclicamente nei decenni successivi: guerre, avversità naturali, raccolti scarsi, prezzi in aumento, afflusso dall'entroterra di contadini a frotte in cerca di pane. Problemi posti dai poveri strutturali (inabili, vecchi, fanciulli non provveduti, donne incollocate...); problemi posti dai poveri congiunturali, cioè dai gruppi di popolazione che le circostanze sociali-economiche negative di periodo sospingevano in situazioni di bisogno e di povertà, framezzo ai quali erano da annoverarsi, per esempio, i poveri così detti "vergognosi"; problemi infine posti dai disinseriti, dai marginali, cioè da coloro che continuavano ad immettersi nella città a vivere di espedienti anche truffaldini o di elemosina pur non avendo il diritto di mendicare perché forestieri, perché non muniti di licenza, perché potenzialmente abili al lavoro (2).
Per far fronte a quei pressanti problemi ci furono, da una parte, le manovre del governo volte a proteggere le imprese commerciali e manifatturiere, a mantenere l'occupazione, ad assicurare gli approvvigionamenti alimentari di base con l'importar grani, con l'indirizzare d'imperio i conferimenti e le produzioni cerealicole della Terraferma, con il calmierare prezzi, con il combattere le speculazioni, e, dall'altra parte, gli interventi delle strutture dell'assistenza che, variegate e moltissime, la città aveva ereditato dal passato, o che la società veneziana saprà esprimere ex novo nel corso del secolo.
Le istituzioni che, in tutto o in parte, svolgevano funzioni assistenziali a Venezia agli inizi del Cinquecento erano una miriade. Elencarne almeno una parte, seguendo gli esaurienti lavori degli ultimi anni di Brian Pullan, è utile per dare la sensazione di quanto vasta, radicata, irreversibilmente connotata, fosse la rete assistenziale sedimentata nella città nei secoli anteriori al Cinquecento.
Anzitutto, l'assieme delle Scuole grandi: S. Maria della Carità, S. Giovanni Evangelista, S. Maria della Misericordia, S. Marco, S. Rocco, S. Teodoro (dichiarata "grande" solo alla metà del secolo, ma antichissima). Si trattava di associazioni quasi tutte impiantate nel Duecento e nel Trecento, tranne S. Rocco avviata alla fine del Quattrocento; erano organizzate ad iniziativa di privati ispirati da intenti di religiosa carità; erano formate da membri di estrazione sociale cittadinesca, popolare e nobiliare (ai cittadini originari era appoggiata la direzione); i soci, nell'assieme, erano qualche migliaio (tremila, quattromila e più); la struttura associativa interna era regolata da statuti ed incentrata su un capitolo (assemblea generale) e su una "banca" di cariche elettive; i patrimoni accumulati grazie a mezzi finanziari e beni per lo più conferiti da privati (lasciti soprattutto) erano ingentissimi; le sedi apparivano di grande ampiezza, prestigio e ricchezza d'opere d'arte; l'intonazione organizzativa era laica. Le loro funzioni risultavano molteplici: da quelle rappresentative che avevano un loro posto preciso dentro l'immagine che la Repubblica offriva di sé, a quelle di vario appoggio allo stato (contribuzioni finanziarie, per esempio), a quelle di compattazione sociale, a quelle della pratica collettiva della pietà, a quelle dell'assistenza. Assistenza ai propri associati poveri o comunque in difficoltà e assistenza ai bisognosi esterni. Assistenza in denaro, in sovvegno medico, in sovvegno spirituale e psicologico, in doti per maritare o monacare donzelle, in allestimento di piccoli ospedali/ospizi, o in case gratuite per i poveri, amore Dei, come si diceva. Organo di controllo - soprattutto per gli aspetti amministrativi patrimoniali - era il consiglio dei dieci.
Un altro assieme di strutture assistenziali era quello delle Scuole piccole: forse più di cento, in grande maggioranza organizzate prima del Cinquecento; associazioni a carattere per lo più laico ispirate da religiosi intenti di carità, spesso appoggiate a chiese, conventi, ecc.; formate da membri di varia estrazione sociale; struttura interna regolata da statuti ed incentrata su un capitolo e su una banca di direzione eletta dal capitolo stesso; mezzi finanziari di varia entità provenienti da conferimenti per lo più privati; funzioni molteplici come, per quanto riguardava l'erogazione assistenziale, le elemosine in denaro, in cibo e vestiario, le doti, le case gratuite, l'assistenza medica, l'appoggio religioso-sociale, od altro ancora, a seconda dei tipi di bisogno. Non poche compattavano i membri di comunità non veneziane come la Scuola degli Schiavoni, o quella degli Albanesi. Scuole così dette, "piccole", ma talora in grado di azione assistenziale capillare e significativa. Il controllo su queste Scuole era, in prevalenza, esercitato dai provveditori di comun (3).
Strutture assistenziali importanti erano, ancora, gli Ospizi, od Ospedali. Molti - a decine - gli ospizi/ospedali minori veneziani e quasi tutti di origine anteriore al Cinquecento: qualcuno organizzato e gestito da corporazioni come, ad esempio, quello dei fornai; qualcuno da comunità straniere, come quello degli Armeni; molti gestiti da confraternite ed altre associazioni. Ospizi di piccola capacità (una decina di persone), ma qualcuno capace anche di venti ed anche di cinquanta ospiti come, ad esempio, la Ca' di Dio che ospitava per lo più vedove rispettabili. Qualcuno destinato a categorie particolari come quello di S. Antonio a Castello per marinai e galeotti. Qualcuno in un unico edificio e qualcuno strutturato in serie di casette come, per esempio, l'ospedale di S. Giobbe che ospitava, in circa centoventi casette gratuite, umanità di varia indigenza, impotenza e marginalità ed aveva una chiesa, una farmacia, dei pozzi d'acqua e distribuiva pane, vino ed elemosine e che, peraltro, non godeva di buona fama per via di alcune casette tenacemente trasformate in bettole di prostitute e di ebrei (4).
Accanto a molti di questi ospedali minori, dai secoli anteriori al Cinquecento Venezia aveva ereditato anche due ospedali/ospizi considerati maggiori: uno, non tanto grande, quello dei Ss. Pietro e Paolo nel sestiere di Castello, ed uno, veramente maggiore, cioè il brefotrofio di S. Maria della Pietà. Un istituto, quest'ultimo, già in funzione nel Trecento, specializzato nella raccolta ed assistenza degli esposti e dei trovatelli maschi e femmine; gestito da due congregazioni laiche, maschile e femminile, e con giuspatronato dogale. Una struttura organizzativa imponente per accumulo di patrimoni conferiti nonché per quantità e complessità degli interventi assistenziali (nel Cinquecento, si arriva ad assistere sino a milleduecento infanti e bambini) (5).
Pressoché tutti tali ospizi erano motivati da idealità religiose di carità e solidarietà, ma è anche evidente che essi assolvevano - in una sorta di ufficializzata supplenza allo stato - a funzioni strutturali essenziali per la vita sociale della grande metropoli veneziana. I loro patrimoni provenivano per lo più da conferimenti di privati; le strutture di governo erano, più o meno, quelle dell'associazionismo laico anche se la pratica assistenziale era spesso appoggiata all'attività di religiosi; talora erano sottoposti al patrocinio dogale, talora a quello dei procuratori di S. Marco che amministravano i lasciti dai quali dipendevano, talora erano controllati (anche in modo stretto) da altre magistrature.
Imponente, dunque, la rete assistenziale veneziana costituitasi nei secoli avanti il Cinquecento. Eppure, ancora, si potrebbero ricordare altri canali attraverso i quali si erogavano soccorsi e solidarietà. Si potrebbero rammentare le piccole Fraterne e Sovvegni attaccati a qualche chiesa; si potrebbe parlare della funzione anche di mutuo soccorso di molte delle Arti, cioè del centinaio e più di associazioni corporative che compattavano il mondo veneziano del lavoro, dell'artigianato, di certi commerci, di certi servizi; si potrebbero porre in evidenza talune funzioni di molti conventi, per esempio quelli femminili in cui trovavano collocazione, accanto alle religiose per vocazione, anche talune porzioni dei surplus di donne forzate al chiostro da strategie di interessi familiari (quelle ricche), o dal nudo bisogno di campare la vita (quelle povere); si potrebbe parlare delle manovre annonarie e di altre provvidenze adottate dal governo, dell'attivarsi di tante magistrature con grazie, pensioni (per esempio quelle per i così detti "poveri al pevere"), elemosine, agevolazioni, protezioni elargite caso per caso, spesso su sollecito di suppliche rivolte direttamente dai singoli governati.
È chiaro che, a fronte di tale vasto e variegato sistema di assistenza dispiegato dalla società, ci furono i modi di proporsi di coloro che all'assistenza aspiravano o che di essa fruivano, il loro chiedere, la loro implicita od esplicita, conscia od inconscia, offerta di sottomissioni, di ossequi, di non protesta, di accettazioni. In qualche misura le politiche dell'assistenza implicavano inespresse contrattazioni con le contropolitiche che, anche a livelli minimi di valenza, i poveri e i bisognosi e i marginali (individui o gruppi) dovettero pur adottare, mantenere, aggiustare, per vivere il loro essere nella società, per gestire il loro proprio viaggio storico. Una vicenda, quella di tali contropolitiche, ancora tutta, o quasi, da scrivere.
Rispetto alle strutture assistenziali sedimentate nei secoli precedenti, le novità cinquecentesche non appaiono, a Venezia, di portata tale da configurare riforme della dimensione di quelle tentate od avviate in altri paesi europei. Certamente, tuttavia, potenziamenti e ristrutturazioni si ebbero anche a Venezia.
Un fatto nuovo appare quello della realizzazione di tre altri grandi ospedali/ospizi: l'ospedale degli Incurabili, organizzato negli anni Venti del Cinquecento (avrà notevoli ampliamenti e sistemazioni edilizie poi negli anni Settanta), specializzato in infermi soprattutto sifilitici, ma in prosieguo di tempo utilizzato anche per ricovero ed educazione di bambini e bambine orfani; l'ospedale dei Derelitti (ovvero l'Ospedaletto), in funzione dagli anni Trenta, per infermi, poveri della Terraferma, orfani, vedove, ecc.; infine, ma più tardo (primi del Seicento), l'ospedale dei Mendicanti, dapprima per ammalati, soprattutto di rogna, poi per poveri mendicanti senza fissa dimora in parte ospitati stabilmente, in parte in transito per essere collocati come apprendisti nelle botteghe artigiane, o come servitori, o come marinai, o rimandati con appositi affidavit ai luoghi di origine, una struttura che arriverà ad occuparsi anche di ottocento persone in un anno.
Altra novità cinquecentesca fu la realizzazione, per parte delle autorità pubbliche, della uniformazione organizzativa delle Fraterne parrocchiali dei poveri (una settantina), con preposizione ad ognuna di una banca direttiva formata dal parroco e da sei deputati eletti dai vari gruppi sociali, con compiti di raccolta di elemosine per i parrocchiani poveri, soprattutto quelli "vergognosi", di rilascio di licenze per mendicare, di "fedi di povertà", ecc.
Ancora una novità fu la creazione della Fraterna grande di S. Antonio, attiva dagli anni Venti-Trenta, con propria farmacia e con scopi di sovvegno soprattutto ai capi di famiglia ridotti alla miseria dalle avverse congiunture, diretta dal Patriarca e da una associazione di patrizi, cittadini originari e grossi mercanti. E ancora, l'avvio di istituzioni per una assistenza specializzata come le Convertite, alla Giudecca, dagli anni Trenta, quasi un ordine claustrale a regola agostiniana, fino a quattrocento presenze, con tra loro molte ex cortigiane di rango e di mezzi; e i Catecumeni, poco lontano dalla chiesa di S. Maria della Salute, istituiti dopo gli anni Cinquanta, che riunificarono iniziative precedenti di sostegno ed incoraggiamento per chi intendeva abbracciare la fede cattolica o far ritorno ad essa; e le Zitelle funzionanti dagli anni Sessanta alla Giudecca, una istituzione ispirata dal gesuita Benedetto Palmio per il ricovero di ragazzine belle e povere e perciò "periclitanti" da educare ed avviare possibilmente al matrimonio (fino a centocinquanta ricoverate); e il Soccorso, organizzato attorno agli anni Ottanta, per donne che si erano lasciate perdere in assenza dei mariti e per adultere; e la Fraterna del SS. Crocifisso di S. Bartolomeo dei poveri prigioni che alla fine del secolo concentrerà, potenziandole, le iniziative di varia assistenza ai carcerati; e infine, più tardi, l'Accademia dei Nobili alla Giudecca che dagli anni Venti del Seicento terrà ad ospizio educativo qualche decina di ragazzi figli di nobili poveri.
Su un altro piano, aspetti di novità nel Cinquecento presentò l'operare della quattrocentesca magistratura dei provveditori alla sanità: un attivismo, un intervenire più dilatato, sia con riferimento agli ospedali e sia con riferimento al controllo della mendicità e dei disinseriti con precipuo obiettivo di tutela sanitaria. Novità importante anche la stabilizzazione, dal 1565, della magistratura dei provveditori sopra ospedali e luoghi pii che incomincerà ad operare in direzione di una certa riunificazione delle competenze di controllo sui grandi complessi assistenziali con possibilità anche di interventi di orientamento delle loro amministrazioni e delle loro funzioni.
Nel complesso, alcune novità che connotarono le realizzazioni cinquecentesche dell'assistenza veneziana furono: una più preoccupata sollecitudine governativa ad incentivarli, ma con riferimento a moduli organizzativi (per esempio, iniziativa associazionistica tra la popolazione più o meno abbiente) provenienti dal passato; una maggior presenza ed incisività dei controlli governativi soprattutto per quel che riguardava le gestioni dei patrimoni degli enti assistenziali; una certa dipendenza di taluni istituti da ispirazioni e partecipazioni - talora vivacissime - provenienti dal mondo della riforma cattolica (Gaetano da Thiene e i Teatini, Girolamo Miani e i Somaschi, i Barnabiti, i Gesuiti...); una maggior specializzazione ed ampiezza di funzioni degli istituti di nuova fondazione che spesso assorbirono e concentrarono le attività di sparse, più piccole, più disorganiche istituzioni precedenti; talora una maggior complessità organizzativa interna delle nuove istituzioni e regole più rigide ed articolate per la vita dei ricoverati o, comunque, per l'erogazione dell'assistenza.
Furono tuttavia novità di carattere sovrastrutturale, non stravolgenti le connotazioni di fondo dell'associazionismo assistenziale veneziano. Non si trattò di riforme rapportabili a quelle che si stavano tentando od attuando in altri paesi europei. Infatti a Venezia non vi fu un intervento per eliminare le decine e decine di strutture assistenziali preesistenti al Cinquecento; né vi fu un accentramento nella mano pubblica della gestione dell'assistenza; né vi fu una sovversione dei moduli organizzativi degli istituti pur se gli istituti nuovi ebbero strutturazioni di governo talvolta parzialmente diverse da quelle del passato; né si instaurò una pratica generalizzata di ricoveri forzati, anzi, molto banalmente, c'è da ricordare che spesso, per entrare in un ospizio, occorrevano fedi di povertà e raccomandazioni e spesso ci si lamenterà di clientelismi e favoritismi nelle ammissioni. Certo, sempre più marcatamente, dal Cinquecento, certe frange della popolazione disinserita (i così detti "vagabondi" soprattutto) passarono (nell'ottica dei governanti e della società) dalla zona del pauperismo assistito alla zona dei soggetti portatori di situazioni di vita e di comportamenti penalmente rilevanti con conseguenze di arruolamenti e di imbarchi forzati, di imprigionamento, di espulsioni, ecc. Quest'ultima vicenda deve tuttavia essere considerata distintamente rispetto alla vicenda generale dei poveri e dell'assistenza e deve esser vista piuttosto negli ambiti della storia della criminalizzazione e della repressione penale.
In parziale difformità dalle considerazioni esposte, una parte della recente storiografia ha intravvisto anche nella Venezia cinquecentesca un recepimento, o peggio, una attuazione, di punti programmatici qualificanti di quella che viene indicata come la riforma generale europea dell'assistenza. Tale storiografia ha per esempio insistito sul fatto che una svolta di cambiamento nei modi veneziani di gestione dell'assistenza e di intervento sulla mendicità, si sarebbe avuta con le così dette "leggi sui poveri", del 1528-29.
Detto in sintesi, le leggi in questione - nell'emergenza di una carestia che aveva sospinto dalla Terraferma nella metropoli lagunare migliaia di poveri affamati - stabilivano che si trovassero tre o più luoghi nella città in cui erigere a spese pubbliche delle baracche di legno per un ricovero obbligato dei poveri stessi; stabilivano che si spedissero via da Venezia, anche in malo modo, i renitenti, e proibivano penalmente ai traghettatori di portarne di nuovi. Le leggi medesime prevedevano altresì che, per sopperire al mantenimento dei poveri concentrati nelle baracche, si imponesse una tantum una tassa ai veneziani con reddito, che la organizzazione del tutto fosse in mano dei provveditori alla sanità, ed infine che, finita l'emergenza, con il venire dei mesi estivi, le baracche fossero tolte di mezzo e i poveri fossero rinviati ai luoghi di origine ferma restando la proibizione di traghettarne di nuovi.
Al riguardo si può osservare che quei provvedimenti erano legati a una emergenza temporanea; inoltre che, se pure in uno dei luoghi in cui erano state allestite le baracche sorgerà poi l'ospedale dei Derelitti, si tratterà di una vicenda autonoma rispetto a quella delle leggi in questione; inoltre, ancora, che nessuna riforma venne intentata, neppure in quella occasione, sulle preesistenti strutturazioni dell'assistenza.
Del resto, iniziative dello stesso tipo di quelle ordinate dalle leggi del 1528-29 torneranno ad essere prese all'occasione di analoghe emergenze di scarsa disponibilità di generi alimentari lungo il secolo (anni Quaranta, Settanta, Novanta) e ciò indica che, passata l'emergenza, le situazioni concrete tornavano alla normalità di un sistema assistenziale che, sia pure aggiornato in qualche motivazione e in qualche obiettivo, rimaneva fedele alle sue caratteristiche strutturali passate. Del resto ancora, gli ambasciatori veneziani nell'Olanda del Seicento continueranno puntualmente a meravigliarsi nelle loro relazioni - come di cosa senza riscontri a Venezia - del sistema pubblico accentrato di assistenza e di lotta alla mendicità ed alla devianza di Amsterdam e Haarlem, fatto di ospizi e di case di lavoro coatto ("spinhuis" e "rasphuis") per mendicanti riottosi (6). Del resto ancora, a Venezia, solo nel secondo Settecento ci si troverà a discutere, e senza seguiti di realizzi concreti, della creazione di un centralizzato Albergo universale dei poveri (un po' ricovero, un po' casa di lavoro coatto, un po' prigione) (7), e solo con la Municipalità democratica del 1797 si parlerà della fondazione di una centralizzata cittadella ospedaliera, e solo nel primo decennio dell'Ottocento con il napoleonico Regno d'Italia si arriverà alle liquidazioni del vecchio sistema assistenziale dell'ex Repubblica, il quale, con le sue radici e connotazioni medievali, era venuto avanti nei secoli fino alle soglie dell'età contemporanea.
Per quanto poi riguarda i propositi di eliminazione della mendicità, c'è da osservare che, nonostante le leggi e gli interventi repressivi, la presenza dei mendicanti per le strade cittadine sarà destinata ad aumentare in modo continuo e vistoso dal Cinquecento in poi fino ai grandi numeri settecenteschi rilevati dai censimenti e dalle inchieste del 1760 e 1787: addirittura un paio di decine di migliaia di questuanti (8).
In realtà, uno stato come quello veneziano il quale, con il Cinquecento e con il "raccoglimento", incominciava ad essere interessato a una manovra (che non avrebbe poi mai avuto fine) di conservazione degli assetti istituzionali e sociali interni sui quali andava costruendo non solo un mito celebrativo, ma anche un mito politicamente produttivo, uno stato siffatto non poteva sovvertire i moduli della miriade di strutture assistenziali di cui si è detto, non aveva alcun interesse a sacrificare strutture associative utili non solo allo specifico dell'assistenza, ma ormai indispensabili anche al mantenimento della compattazione sociale e del consenso; strutture entrate nel mito, magari minore, di Venezia se qualche autore, già nel Cinquecento, discorreva di esse come di "republichete" le quali ripetevano, nel loro piccolo, i moduli stessi di governo della Repubblica e davano così spazi di partecipazione (o di illusione di partecipazione) alla vicenda statuale e ai cittadini originari e ai popolari, facendo altresì la loro parte di meccanismi (impasti di paternalismo, carità, lasciar fare) per la conservazione dell'acquiescenza se non del consenso della popolazione, poveri e disinseriti compresi, almeno entro certi limiti (9).
Tutto ciò era talmente nell'ordine delle cose che proprio nel Cinquecento si verificò un sforzo dispendioso per ampliare, abbellire, arricchire di manufatti artistici le sedi di alcune importanti associazioni veneziane aventi anche funzioni assistenziali. Si pensi per esempio alle ristrutturazioni e alle decorazioni pittoriche della sede della Scuola grande di S. Rocco. Un sforzo di promozione d'immagine che a taluno parve eccessivo, non produttivo ai fini essenziali e sostanziali di quegli enti. Il poeta-gioielliere Alessandro Caravia, ad esempio, prese la penna per protestare (10).
Il fatto è che in quella vicenda di pompe ed abbellimenti cinquecenteschi v'era anche un contenuto di celebrazione di istituzioni che avevano servito e - si sperava - avrebbero continuato a servire in avvenire alle armonie sociali della Repubblica, di celebrazione di un passato di strutture assistenziali che non poteva che riproporsi - immutato nella sostanza - anche per il futuro.
1. Paul Bonenfant, Les origines et le caractère de la réforme de la bienfaisance publique aux Pays-Bas sous le règne de Charles-Quint, "Revue belge de philologie et d'histoire", 5, 1926, pp. 887-904; 6, 1927, pp. 207-230; Ludovico Vives, De subventione pauperum, a cura di Armando Saitta, Firenze 1973; Michel Foucault, Storia della follia nell'età classica, Milano 1963; Id., Sorvegliare e punire, Torino 1976; Jean Pierre Gutton, La società e i poveri, Milano 1977; Brian Pullan, Poveri, mendicanti e vagabondi (secoli XIV-XVIII), in AA.VV., Storia d'Italia. Annali, I, Dal feudalesimo al capitalismo, Torino 1978, pp. 981 -1047; Bronislaw Geremek, Povertà, in Enciclopedia, X, Torino 1980, pp. 1054-1082; AA.VV., Timore e carità. I poveri nell'Italia moderna. Atti del Convegno "Pauperismo e assistenza negli antichi stati italiani". Cremona, 28-30 marzo 1980, a cura di Giorgio Politi - Mario Rosa - Franco Della Peruta, Cremona 1982; Flavio Baroncelli - Giovanni Assereto, Sulla povertà. Idee, leggi, progetti dell'Italia moderna, Genova-Ivrea 1983; Giovanni Scarabello, Pauperismo, criminalità e istituzioni repressive, in AA.VV., La Storia, III, Torino 1987, pp. 113-132.
2. Per aspetti del pauperismo nonché delle politiche assistenziali a Venezia nei periodi considerati, rimane fondamentale: Brian Pullan, La politica sociale della Repubblica di Venezia (1500-1620), I-II, Roma 1982. L'opera contiene ampie informazioni sulle fonti e sulla bibliografia specifica.
3. Sulle Scuole grandi e piccole, fra i lavori recenti oltre a quello del Pullan: Le Scuole di Venezia, a cura di Terisio Pignatti, Milano 1981; Silvia Gramigna - Annalisa Perissa, Scuole di arti mestieri e devozione a Venezia, Venezia 1981.
4. Sugli ospizi minori veneziani, oltre al citato lavoro del Pullan, fra le opere d'assieme recenti: Francesca Semi, Gli "Ospizi" di Venezia, Venezia 1983.
5. Per gli ospedali maggiori, oltre al citato lavoro del Pullan, fra le opere d'assieme recenti: Bernard Aikema - Dulcia Meijers, Nel regno dei poveri. Arte e storia dei grandi ospedali veneziani in età moderna 1474-1797, Venezia 1989.
6. Relazioni veneziane. Venetiaansche Berichten over de Vereenigde Nederlanden van 1600-1795, a cura di Pieter J. Blok, S'--Gravenhage 1909, in particolare: pp. 121-122 e 171.
7. Documentazione in Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 504 (= 7611), Memorie per l'erezione di una Casa di Correzione e sopra gli Ospedali di Venezia.
8. Daniele Beltrami, Storia della popolazione di Venezia dalla fine del secolo XVI alla caduta della Repubblica, Padova 1954, p. 204.
9. Una esemplificazione in Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 709 (= 8403), Antonio Milledonne, Ragionamento di doi gentil huomini l'uno Romano, l'altro Venetiano, sopra il governo della Repubblica Venetiana, fatto alli 15 di gennaro 1580 al modo di Venezia, c. 52r-v.
10. Alessandro Caravia, Il sogno dil Caravia, Venetia 1541; v. anche B. Pullan, La politica sociale, pp. 130 ss.