Le strutture commerciali
Venezia fu un porto tutt'altro che franco. Una quantità incontrollabile di norme ne regolava e guidava la vita commerciale, nell'epoca fiorente della sua storia. A buon diritto Venezia potrebbe rappresentare - se ciò non costituisse un crudo anacronismo l'esempio opposto di quella dottrina che attribuisce ogni prosperità economica al libero mercato. E forse vero che le radici della burocratizzazione dei commerci risiedono a Bisanzio, dove lo Stato, fin dai tempi di Giustiniano, teneva costantemente sotto controllo le attività produttive e mercantili. Ma nel commercio veneziano non fu sempre come a Bisanzio: il grande balzo economico del secolo XII si verificò ancora in totale assenza di normative scritte. Fu poi nel secolo successivo che il comune Venetiarum si diede per la prima volta una pletora di regolamenti, statuti, capitoli e competenti uffici che diventerà tipica del mondo degli affari(1).
Vale a tale proposito - e in modo particolare per il commercio l'affermazione secondo cui la storia della costituzione e del'lamministrazione di Venezia si caratterizza per l'accavallamento delle competenze. Mentre in altri campi erano la lungimiranza e la saggezza a consigliare che organismi fra di loro concorrenti si controllassero a vicenda tramite la sovrapposizione delle rispettive attribuzioni, quanto al controllo della mercatura tale fenomeno era implicito, era nella natura stessa delle cose. Al pari di Genova, nemmeno Venezia conobbe mai una specifica corporazione di mercanti. Il concentrarsi di tutti coloro che svolgevano attività commerciali all'interno di una medesima formazione era fatto consueto nelle città dell'Italia settentrionale; non però nelle città marinare. Laddove nelle prime esisteva una corporazione mercantile, strutturata alla maniera delle organizzazioni di mestiere artigiane e al cui vertice sedevano dei consules mercatorum, nel caso delle seconde lo stesso comune - dunque anche il comune Venetiarum altro non era che un'associazione impiantatasi soltanto in conseguenza del commercio. I consules mercatorum erano a Venezia un'autorità pubblica e non già un organo di autogestione. Il fatto poi che il comune Venetiarum fosse l'effettivo raggruppamento dei mercanti risulta da diverse testimonianze: all'aspirante cittadino si richiedevano nel secolo XII il giuramento di fedeltà al doge e allo Stato, la disponibilità alle prestazioni militari, il versamento di prestiti allo Stato in forma di contributi e il rispetto delle norme sul commercio (2). La possibilità di esercitare la mercatura era una condizione implicita nel giuramento del neocittadino. Ma in concreto il diritto civile veneziano tardomedievale consentiva di commerciare per mare solamente a chi possedeva le prerogative civili de intus et foris, vale a dire ai patrizi e a quel ceto di persone denominate cives originarii. A tutti gli altri, avessero statuto di habitatores o usufruissero dei soli diritti de intus, il commercio all'ingrosso restava interdetto.
L'officium de navigantibus, fondato nel secolo XIV, controllava rigorosamente i titoli - per così dire - di venezianità: qualora non potessero venire dimostrati, la pena era l'esclusione dalla mercatura (3). Tutti i privilegi veneziani, ma anche tutte le norme regolatrici del commercio serenissimo, valevano quindi soltanto per coloro i quali godevano facoltà de intus et foris. Dal momento che nel comune Venetiarum poteva rivestire cariche esclusivamente chi deteneva pieni diritti civili, si dava il fatto che mercanti governassero su altri mercanti. "Le merci scorrono per quella nobile città come l'acqua dalle sorgenti", affermava Martin da Canal (4). I traffici erano la linfa vitale di questa città retta da mercanti, cosicché l'intero ordinamento statale era in qualche modo coinvolto nel commercio: la politica estera veneziana fu dunque, in un certo senso, anche politica commerciale.
Veneti avari homines sunt et tenaces et superstidioses et totum mundum vellent subiugare sibi, si possent, et rusticiter tractant mercatores, qui vadunt ad eos, et care vendendo et multa passagia in diversis locis in suo districtu ab eisdem personis eodem tempore accipiendo. Et si aliquis mercator portat ibi merces suas ad vendendum, non potest eas secum reducere, immo oportet quod vendat eas sibi, velit nolit. Et si aliqua navis non sua cum mercibus ex aliquo infortunio maris declinat ad eos non potest inde recedere, nisi prius merces suas vendat ibidem (5).
Queste dichiarazioni di Salimbene da Parma, uno dei critici eminenti dei Veneziani nell'Occidente duecentesco, richiamano uno degli assiomi fondamentali della politica commerciale veneziana. Dopo che Enrico IV, con il patto del 1095, aveva concesso ai propri sudditi di commerciare "per mare usque ad vos et non amplius" (6), i Veneziani avevano cercato di fare della loro città lo scalo generale dell'Occidente tutto. Principio informatore della politica commerciale serenissima era che le merci condotte per via di mare e dirette verso l'Italia del Nord o l'Europa continentale, per quanto prossimo ne fosse il territorio di provenienza e qualunque ne fosse la destinazione, dovessero necessariamente passare per Venezia.
Questi indirizzi, tesi ad assicurare una posizione di monopolio alla mercatura veneziana, sono già chiaramente riscontrabili nel secolo XII; e dopo gli eventi della quarta crociata si procedette con scrupoli ancora minori (7).
In tale contesto, il commercio delle derrate alimentari - settore nel quale, in tutte le città medievali, interveniva la mano dell'autorità pubblica - assunse un ruolo trainante. Intendimento di Venezia era l'unificazione in un solo impero adriatico delle malferme coalizioni già esistenti in Istria e Dalmazia, oltre alla costituzione di una rete di patti con i comuni della terraferma. Convincimento di fondo era che il modo più semplice di garantirsi il monopolio del commercio consistesse nell'eliminare i concorrenti dai mercati di sbocco. Nell'anno 1217 il re Andrea II d'Ungheria fu costretto a rinunciare a Zara; nel 1228 si tentò di costruire un'alleanza con le città minori delle Marche contro la rivale Ancona; negli anni Trenta venne sottomessa Ragusa e nel 1247 Zara cadde definitivamente sotto il dominio di San Marco: oltre all'obbligo militare, alle città soggette veniva imposto anche il diritto mercantile veneziano. Sia per i mercanti in arrivo da Ravenna che per quelli provenienti dalla Puglia vigeva l'obbligo di condurre a Venezia unicamente merci della loro produzione locale, con il divieto assoluto di imbarcare a fini di scambio merci d'altra origine. Quanto alle importazioni di generi alimentari, erano consentite soltanto entro i limiti del fabbisogno proprio, eventuali eccedenze dovendo essere portate a Venezia. Nel 1240, allorché Veneziani e papalini ebbero presa Ferrara, già nel primo articolo del trattato di pace i Ferraresi garantivano che sul Po sarebbero transitati esclusivamente i carichi provenienti da Venezia (8). Si apriva così la strada alla conquista veneziana del monopolio sulle forniture.
Le fortificazioni e le flotte di pattuglia serviranno poi a far valere la rivendicazione di tale esclusività: nei confronti di Ferrara, ma anche di Ravenna, Bologna e Ancona. Nel 1261 Ravenna rinunciò a svolgere in proprio qualsivoglia commercio con le città dell'Italia settentrionale, e Bologna venne costretta, mediante il blocco degli approvvigionamenti alimentari, ad avallare la politica commerciale veneziana. Ancona, che nel secolo XII aveva seriamente pensato di poter competere con Venezia, nel 1264 dovette abbandonare qualsiasi traffico adriatico e inoltrare alla volta della laguna ogni sua derrata. E dovette, inoltre, fare a meno del commercio di sale e di cotone. Quando la città si sollevò contro questo giogo, pagò il proprio gesto con un nuovo atto di sottomissione nel 1281. Nel corso del Duecento vennero temporaneamente sottomesse anche Cervia, grande concorrente nella produzione di sale, e Adria. E all'inizio del secolo XIV Venezia allungò le mani sul territorio di Ferrara, che metteva in grado quella città di dominare la via fluviale del Po. Sforzi molteplici, questi, prodotti allo scopo di fare di Venezia l'unico scalo dell'Adriatico. Durante il secolo XIII, la politica commerciale veneziana aveva dunque creato una regione di monopolio degli scambi interni garantita da trattati.
Secondo principio cui Venezia si atteneva era quello di dare assiduo sostegno e assoluta precedenza al settore mercantile rispetto a tutte le altre branche della vita economica (9). Si comprende l'atteggiamento veneziano solo tenendo sempre presente come il traffico a largo raggio fosse il motivo determinante che stava sullo sfondo di ogni decisione. Al Medioevo veneziano non è quindi possibile applicare la moderna contrapposizione fra libero mercato e protezionismo, come qualcuno s'è provato a fare. Non va comunque trascurato il fatto che a Venezia l'attività commerciale era un'impresa in parte organizzata dallo Stato, e ogni mossa di chi vi partecipava sottostava al controllo statale. Al commercio doveva subordinarsi ogni altro settore. I panni e le stoffe costituivano una delle più importanti voci merceologiche dell'esportazione in Levante; conseguenza obbligata, era necessario che l'importazione di questi prodotti dall'Inghilterra, dalle Fiandre, dalla Francia e dall'Italia settentrionale restasse libera ad ogni costo e, anzi, venisse sostenuta. Non così per quanto riguarda il sale, intorno al quale si lottò con ogni mezzo - non esclusa la guerra - per instaurare un regime di rigido monopolio.
Era poi essenziale che il commercio marittimo potesse svolgersi nelle condizioni più favorevoli possibili. Altro principio, questo, della politica commerciale veneziana, realizzato per mezzo di leggi e uffici competenti nell'intesa di rendere remunerativi e sicuri i viaggi delle navi di San Marco.
I1 mercante veneziano si trovava inserito all'interno di un sistema giuridico che si sforzava di tutelarlo tanto a casa propria quanto, e soprattutto, in terra straniera. Ma dove l'azione politica di Venezia e il deterrente della rappresaglia non facevano breccia, la sua persona e i suoi affari finivano per trovarsi completamente privi di copertura giuridica. Erano quindi le leggi stesse di Venezia - si trattasse di consuetudine o di statuti scritti - nonché la rete di obbligazioni e privilegi internazionali - i pacta del linguaggio giuridico veneziano - i soli caposaldi posti a delimitare l'ambito entro il quale il mercante poteva muoversi sicuro. Ma la realizzazione di garanzie adeguate dipendeva dall'osservanza di tutto un intreccio di istituti e di usi, talché il commercio internazionale risulta perfino più complicato della materia giuridica degli Stati territoriali europei. E per la corretta applicazione del diritto vennero sviluppandosi regole determinate, conosciute come "gerarchia delle fonti" (10).
Poiché sul terreno mercantile l'insorgere di problemi con gli stranieri era eventualità tutt'altro che remota, la gerarchia delle fonti va dunque assunta nella forma in cui essa si presentava nel giuramento dei giudici del forestier, magistratura specificamente competente in tema di stranieri, di navigazione e di commercio fra Veneziani. Orbene, presso il forestier la sequenza dei contesti giuridici che doveva essere osservata affinché una norma appartenente alla sfera giuridica superiore sospendesse la validità del diritto inferiore era la seguente: 1) pactum, 2) statutum (compendiato dai consilia degli organismi veneziani, innanzitutto il maggior consiglio), 3) usus, 4) arbitrium. Nel traffico internazionale, fra le norme in uso, vigevano in prima istanza i pacta. Nel linguaggio amministrativo veneziano con il termine pactum si intendevano sia i patti veri e propri - accordi reciproci - che i privilegi unilateralmente accordati; atti raccolti dallo Stato, a partire dal tardo secolo XIII, in un considerevole numero di volumi. Datano al secolo IX i primi patti imperiali con l'Occidente, al successivo quelli con Bisanzio. Dal secolo XII, poi, s'inoltra la lunga serie di accordi e di privilegi a tutela dei diritti del mercante veneziano in ogni piazza importante sul suo itinerario. E dovunque si riscontra in piena evidenza come gli interessi di Venezia si ripercuotessero puntualmente nelle clausole conformi degli accordi internazionali (11).
La lunga serie di patti con le città dell'Italia settentrionale, fin da quello del 1107 con Verona, fissa un diritto unitario: la garanzia della libertà di commercio innanzitutto, poi le questioni doganali, in ultimo i rapporti giuridici. Diventa chiaro su questa base che il diritto processuale teneva in buon conto gli interessi del mercante: limitazione del numero delle citazioni in tribunale, semplificazione dell'analisi probatoria, riduzione dei termini temporali, accelerazione dell'esecuzione delle sentenze. Solo in questo modo il mercante in viaggio poteva efficacemente rivendicare i propri diritti nei confronti dei locali.
Ulteriore motivo di contrasto, l'uso di dar seguito al preteso pagamento di debiti contratti da forestieri tramite rappresaglie contro i loro conterranei (12) era pratica foriera di scontri interminabili. Già circoscritto da Federico Barbarossa e abolito dalla Lega delle città lombarde, Venezia mantenne il pignoramento, ma riducendolo entro linee regolamentate. In materia di rappresaglie la politica marciana creò con lo strumento pattizio una prassi uniforme, sottesa da un reticolo di accordi analoghi l'uno all'altro. In primo luogo il danneggiato tentava ora, nel pieno rispetto delle norme, di far valere le proprie rivendicazioni in tribunale. Una volta accettata l'istanza per il dibattimento, esibiva dunque al cospetto dell'autorità - nel caso di Venezia del doge - una lettera che esortava il comune interessato a discutere la causa. Solo se l'istanza a procedere fosse stata rifiutata interveniva il pignoramento a carico dei beni di un suddito di quel comune, sul quale si applicava il preteso diritto giurato dal danneggiato. La possibilità di rispondere a una confisca con una controconfisca era generalmente proibita: misura efficace per mettere fine a liti estenuanti fra controparti commerciali.
Anche nei trattati riguardanti il commercio marittimo erano sempre le stesse garanzie quelle su cui si appuntavano le insistenze veneziane. Innanzitutto si trattava di assicurarsi un quartiere commerciale proprio, dalla morfologia anche variabile: uno o più fondaci, come ad Alessandria, una strada con diversi caseggiati, come in numerose piazze del Levante, un quartiere con rappresentanza ufficiale, luogo di contrattazione e scambio, abitazioni, terme e mercato, come a San Giovanni d'Acri, ma soprattutto il settore veneziano di Costantinopoli o il terzo della superficie cittadina posseduto a Tiro, che i Veneziani avevano contribuito a conquistare. Questi quartieri sottostavano per la maggior parte a un diritto particolare, nel caso ideale alla giurisdizione del rettore veneziano direttamente in loco: il podestà a Costantinopoli, il duca di Creta, il castellano di Corone e Modone, i balli, i consoli o i visdomini in altre stazioni commerciali rappresentavano il doge ed erano preposti a far rispettare le disposizioni di Venezia. La vita del mercante si svolgeva allora in tutto e per tutto secondo le regole giuridiche della madrepatria. Laddove questo statuto privilegiato non poteva essere raggiunto in ogni aspetto politico, giuridico, fiscale ed economico, ogni sforzo veniva compiuto per conseguire almeno pienezza di prerogative in ordine ai processi fra sudditi veneziani.
Sempre fomite di discordie le vertenze con i cittadini stranieri, fosse o meno indicato nei pacta il competente tribunale. Proprio problemi di questo genere, ad esempio, diedero adito nel secolo XIII in Terrasanta a molteplici querele. Se la floridezza dei traffici prometteva rendite abbondanti ed era fin troppo allettante concedere ai residenti dei quartieri veneziani privilegi fiscali e commerciali, l'agitazione dei tempi offriva sufficienti pretesti di natura politica per giustificare le richieste marciane: se non l'assegnazione di un foro particolare, per lo meno la precisa individuazione della corte avente competenza. E dovunque insistevano i Veneziani affinché fosse mantenuta la promessa formulata dalla locale autorità politica, di essere disposta a trattare con giustizia le cause insorte. In Egitto, per fare un altro esempio, i consoli potevano inoltrare ricorso - e accadde sovente - al tribunale del Cairo in merito a eventuali reclami. Ma le maggiori garanzie Venezia le ottenne naturalmente nell'ambito dell'Impero latino di Costantinopoli. In quei tre ottavi del territorio imperiale sui quali il doge esercitava un potere diretto aveva corso per conseguenza il diritto veneziano; ma pure nel resto dell'Impero Venezia godeva di ogni sicurezza processuale in base a un trattato stipulato nel 1207. In Terrasanta, invece, il clima politico accendeva ripetutamente focolai di conflitto. Neppure le colonie di Tiro e di San Giovanni d'Acri poterono più vivere indisturbate dalle compagnie di crociati installate tutt'intorno, a differenza di quanto era avvenuto nel secolo XII quando fra i due gruppi vigeva una completa separazione. Ciò nonostante, durante il secolo XIII vi furono trattati che tutelavano in tempo di pace il mercante veneziano in tutti i porti regolarmente toccati.
Oltre al quartiere e al foro, le richieste costantemente avanzate dagli ambasciatori straordinari di Venezia incaricati delle trattative in vista di accordi commerciali riguardavano le dogane e gli sgravi d'imposta. In quasi tutti i territori importanti del commercio mediterraneo fu possibile ottenere la riduzione del tasso o addirittura la completa franchigia, a volte su scala generale, a volte solo per singole merci o gruppi di merci. I casi erano molto differenziati. Nel Mediterraneo il commercio andava soggetto ai gravami più diversi, all'invenzione, estensione e maggiorazione dei quali gli uffici preposti dimostravano un'enorme ingegnosità. Era nell'Impero bizantino, e poi in quello latino, che i Veneziani beneficiavano di condizioni di particolare favore, a fronte dei carichi fiscali ben più onerosi che pesavano sui Pisani e, soprattutto, sui Genovesi. Inoltre, l'applicazione di pesi e misure propri, punto fermo della strategia commerciale di Venezia, rappresentava per i mercanti della Serenissima un vantaggio innegabile nello svolgimento degli affari quotidiani.
La lotta al furto dei relitti marittimi, in seguito al quale alla perdita della nave si aggiungeva la perdita del carico ad opera delle popolazioni costiere, fu un'esigenza avvertita da tutti i naviganti del Medioevo. La Promissio maleficorum del doge Orio Mastropiero già prevedeva una pena per tale reato; e d'altronde estirpare la pirateria dalle sponde mediterranee fu sempre un obiettivo dei Veneziani. Ovunque nei trattati si riscontra l'insistenza sulla salvaguardia dei carichi, anche se questa prassi secolare degli abitanti della costa non poté essere del tutto eliminata.
Ultima richiesta ricorrente nei pacta era il riconoscimento della validità giuridica del testamento di persone decedute in terra straniera. I traffici internazionali erano rischiosi e non era escluso che il mercante potesse perdere la vita durante il viaggio. Uno degli intenti della politica veneziana fu dunque quello di evitare che in caso di morte all'estero di un proprio suddito i beni di costui venissero confiscati. Dal punto di vista di Venezia l'eredità di un veneziano, non importa dove fosse trapassato, doveva essere senz'altro trattata come se fosse deceduto in patria: a tal fine si rendevano indispensabili il riconoscimento del testamento, l'intervento del rappresentante veneziano in loco a protezione dei beni ereditari e il trasferimento di essi alla volta della Serenissima. Siamo in possesso di sufficienti prove documentarie per poter ragionevolmente affermare che di norma le cose andavano effettivamente in questo modo. Appare in tutta evidenza che, in questi casi, gli ufficiali veneziani e i mercanti lavoravano in unità d'intenti per assicurare che l'eredità pervenisse alla famiglia del morto, in patria.
Sono questi i punti essenziali del diritto commerciale internazionale che Venezia indefessamente seguitava a farsi garantire nei pacta. E poiché la maggior parte delle prerogative fissate negli accordi bilaterali prevedevano la clausola della reciprocità, s'aveva cura che anche a Venezia venissero rispettate le obbligazioni contratte. Condizione necessaria per la prosperità dei commerci, occorreva che questo principio fosse saldamente stabilito, che sussistesse cioè la volontà di riconoscersi vicendevolmente determinati diritti. Interveniva poi la confisca per rappresaglia ogni qual volta una delle parti stimasse, per lo più in base a considerazioni di convenienza politica, non doversi procedere secondo la lettera dei pacta in questioni giuridiche inerenti i quotidiani rapporti di affari. Ma in linea di massima il reticolo pattizio messo in piedi dalla Serenissima costituiva uno strumento capace di proteggere i sudditi veneziani pressoché dappertutto nel Mediterraneo. E il sistema giuridico veneziano si estendeva, veicolato dalle norme della propria disciplina contrattuale applicate nell'area mediterranea, ben al di là dei confini dogali, fino a proporsi quale affidabile fondamento per un commercio che, nei secoli XII e XIII, continuò a espandersi inglobando nuovi spazi e nuovi mercati. Non appena altre rotte e altre piazze venivano rese sicure in virtù di un privilegio o di un trattato, anche il diritto commerciale veneziano si spingeva oltre.
Ma se il patto non contemplava un particolare caso, i giusdicenti si sarebbero attenuti alle leggi scritte di Venezia, vale a dire agli statuti. Dalla seconda metà del secolo XII la codificazione del diritto veneziano compì un rapido passo in avanti (13). All'usus patriae subentrarono in misura crescente gli statuta. Ciò non significa comunque che gli statuti avessero l'intrinseca ambizione di regolamentare tutto e tutti: "plus sunt negotia quam statuta", riconosceva infatti la grande codificazione di Jacopo Tiepolo nel 1242. Fine della sistemazione legislativa veneziana, e tenuto sempre in vista, era di fissare quelle norme che si rendevano necessarie per tener dietro a un'evoluzione soprattutto evidente nel campo degli affari. Se poi nessun cambiamento interveniva a modificare la fisionomia del diritto consuetudinario, si evitava allora di codificare espressamente l'usus. Nel settore degli scambi, retto da usanze conservatesi da secoli, occorre quindi presumere che rimanesse vincolante soprattutto la consuetudo.
Stando alla tradizione, fu il doge Domenico Morosini (1148-1156) il primo a promuovere la redazione di leggi in iscritto; e dopo lui, i successori ampliarono i libri statutari. Merita una particolare menzione la prima formulazione del diritto penale ad opera di Orio Mastropiero (1178-1192) (14), dalla quale emerge con chiarezza come la società veneziana vivesse essenzialmente del commercio. Già la norma che apre questa compilazione riguarda il furto di relitti, prendendo in considerazione sia il naviglio domestico che il forestiero. E la pirateria e l'inadempienza nei confronti di debiti contratti con stranieri sono fattispecie strettamente collegate all'attività mercantile. Il disegno di una legge civile, da tempo accarezzato, sfociò infine nella codificazione promulgata, secondo la più antica tradizione storiografica, dal doge Enrico Dandolo (1192-1205); opinioni più recenti la attribuiscono invece al di lui figlio Raniero, in assenza del padre impegnato nella quarta crociata(15). Comunque sia, la raccolta in settantaquattro capitoli va assegnata all'età di Enrico Dandolo. Elemento di estremo interesse, tutta una serie di capitoli è dedicata ai rapporti commerciali. Ma se i redattori statutari, da buoni giuristi, facevano materia di contenzioso la coerenza interna dei settantaquattro capitoli, la loro contestuale importanza viene piuttosto dal contenuto che non dalla sistematicità giuridica (capitoli 28-41). Se dunque il capitolo 28 mette a conoscenza delle conseguenze di una confisca effettuata in mancanza del benestare dogale, aprendo una casistica assiduamente considerata anche dai pacta, quello successivo tratta della confisca nell'ambito di un processo intentato a uno straniero. Seguono quindi le disposizioni sulla collegantia (capitoli 30-33) e sul credito concesso in assenza di documenti probanti e di testimoni (capitolo 34), nonché le norme sui termini di pagamento delle rogadia, degli affari su commissione nel commercio marittimo. Infine i capitoli dal 36 al 41 promulgano singole disposizioni in materia di debiti: è in quest'ultima parte che vengono trattati il commercio marittimo verso Costantinopoli, le perdite subite in caso di naufragio o di furto della nave, i pagamenti effettuati all'estero e l'intervento dei legati veneziani sulle piazze commerciali straniere. Accade così che il capitolo che fa da compendio agli statuti svolga specificamente l'argomento commerciale, laddove per solito le voci statutarie regolamentano piuttosto casi specifici del diritto processuale. Quanto alle appendici allegate, vi vengono di volta in volta esaminate particolari questioni giuridiche: il trattamento dell'eredità di persone decedute in terra straniera - tematica ricorrente nei pacta -, o singoli casi in relazione al contratto di collegantia. Una legislazione che raggiunse l'apice nel terzo libro degli statuti di Jacopo Tiepolo dedicati, nel loro complesso, alle diverse forme di negoziazione commerciale (16). In questa forma il diritto veneziano rimase in vigore fino a secolo XVIII inoltrato. Oltre agli statuti generali del diritto civile, formatisi nel giro di mezzo secolo, si pervenne anche alla delineazione di un diritto marittimo, a regolamentare una parte essenziale dell'attività del mercante veneziano (17). Va comunque sottolineato che pure in questo caso le fonti scritte non comprendevano l'intera materia. Come ha rilevato Frederic C. Lane, parti essenziali degli statuti marittimi non potevano trovare alcuna applicazione sulle galere; e lo stesso vale per la "tareta", assoggettata a proprie regole di caricamento. Gli statuti marittimi si rivolgevano dunque alla navis veneziana - un veliero normalmente dotato di due alberi e di vele latine - utilizzata in diverse dimensioni e varianti. Quando poi questo tipo di nave verrà soppiantato, all'inizio del secolo XIV, dalla "cocca", anche gli statuti del secolo XIII cadranno progressivamente in disuso. Questo il quadro delle leggi duecentesche preposte alla navigazione: 1) Gli Ordinamenta super saornatione, caricatione et stivatione navium, accolti nel "concio", l'assemblea generale del popolo, il 12 marzo 1227 sotto il doge Pietro Ziani; 2) il Capitulare navium, dello stesso doge, del 13 settembre 1229; 3) una ordinatio, sempre di Pietro Ziani, che il 7 giugno 1229 stabiliva la dimensione minima delle navi; 4) gli Ordinamenta del doge Jacopo Tiepolo, del 1° giugno 1229, deliberati dal maggior consiglio, dal minor consiglio, dalla quarantia e dal "concio"; 5) le integrazioni dello stesso doge, del maggio e dell'agosto 1233 e del 17 agosto 1236; 6) gli Statuta et ordinamenta super navibus et aliis lignis del doge Renier Zeno, del 6 agosto 1255, approvati in una assemblea popolare in San Marco; 7) gli Statuta tarretarum, certamente deliberati dopo la legge del 1255.
A costituire il complesso del diritto marittimo veneziano del secolo XIII era dunque tutta una serie di deliberazioni volte sempre a soddisfare esigenze ben precise: non già un insieme legislativo sistematico quanto piuttosto giustapposizione di norme separate che affrontano problemi al momento giudicati importanti.
Integrati nel secolo XIV, gli statuti marittimi duecenteschi vennero infine allegati, come parte del Liber sextus, ai cinque libri degli statuti di Jacopo Tiepolo.
Caratteristica fondamentale di questa legislazione in continua evoluzione è di occuparsi esclusivamente del fattore tecnico del trasporto di merci e di persone per nave, senza inoltrarsi nella pletora di questioni di diritto marittimo internazionale e addirittura senza contemplare istituti giuridici fondamentali in sede di commercio per mare quali il prestitum maritimum, la collegantia e il cambio, lasciati alla cura del diritto consuetudinario e, ma solo in casi specifici, degli statuti civili. Gli statuti marittimi si occupavano insomma esclusivamente del factum navium, comunque altrettanto fondamentale per lo sviluppo dell'intera società veneziana. Il commercio a lunga gittata aveva reso Venezia grande e potente, e le aveva dato un impero in Levante che nel secolo XIII poteva essere mantenuto soltanto grazie a flussi di scambio permanenti, proiettati ben oltre il mar Mediterraneo. Compito allora degli statuti era perciò la protezione di questi traffici e dei mercanti che ne erano i protagonisti, mentre tutto il versante più propriamente inerente alla tecnica commerciale restava fuori dalla trattazione.
Al centro di questa legislazione stava naturalmente la nave. Secondo Frederic C. Lane, due erano i tipi principali di battelli in uso a Venezia prima dell'avvento della "cocca" nel secolo XIV (18): la nave tonda - la navis, che gli statuti individuavano in più d'una variante: "navis vel banzonus vel buzus navis vel aliquid lignum" - e la galera. Quelli considerati nella compilazione statutaria erano solo i velieri, con vele latine e remo laterale: completamente differenti dalle galere, erano questi i veri battelli da trasporto, capaci di imbarcare ingenti quantità di carico. Secondo il diritto marittimo veneziano, venivano suddivisi per stazza e inseriti in categorie espresse in milliaria, per ciascuna delle quali erano fissati i massimali di carico. Trasparente qui l'intenzione del legislatore: salvaguardare innanzitutto i mercanti in grande stile e le loro merci, giacché le norme statutarie si riferivano esclusivamente alle navi da 200 a 1.000 milliaria, mentre la navigazione sottocosta stava al di fuori della regolamentazione statutaria. Tutto questo corrispondeva pienamente agli interessi delle fasce superiori della società veneziana, arbitri dei traffici su vasta scala con il Levante. Altra categoria considerata, quella delle navi con destinazioni extra culphum, andava soggetta a regole assai più rigide di quelle vigenti per la navigazione adriatica. Le operazioni di caricamento venivano prescritte dalla legge in ogni particolare: prima del primo viaggio, le navi venivano contrassegnate con una marcatura sulla linea di galleggiamento alla quale facevano appunto riferimento le severe norme sul carico, prescrivendone l'immersione a stivaggio completato. Il permesso di effettuare il carico dipendeva dall'età della nave, dalla destinazione e dal tipo di merci trasportate. Alle dimensioni della nave si riferivano invece le disposizioni in merito alla consistenza dell'equipaggio, al tipo di armamento ed equipaggiamento - remi, ancore, vele. I criteri informatori della legislazione sono evidenti: dar sicurezza alla navigazione, evitando altresì che per sete di guadagno essa potesse venir compromessa dai proprietari della nave o dai mercanti a bordo.
Le navi di Venezia costituivano la premessa fondamentale del funzionamento del commercio e dello Stato. Senza collegamenti costanti e il più possibile sicuri un impero coloniale come quello veneziano nel Mediterraneo non poteva assolutamente essere amministrato; inoltre una nave era anche un bene strategico poiché poteva essere impiegata in guerra. È per questo che le costruzioni navali e il commercio marittimo erano sottoposti a regole severe. In qualunque luogo un suddito serenissimo costruisse una nave, a Venezia come dovunque fosse presente un rector veneziano, il battello doveva essere subito registrato, soggiacendo immediatamente al divieto di essere venduto a stranieri. Solo i Veneziani potevano acquistare navi veneziane, ma il passaggio di proprietà doveva al più presto esser fatto trascrivere "in libro comunis". I1 nuovo proprietario assumeva allora tutte le responsabilità del predecessore. Ogni nave registrata a Venezia era soggetta a tutte le disposizioni dei consigli del comune Venetiarum. Veniva in tal modo assicurata l'osservanza degli statuti; e d'altra parte non restava che compiere un altro passo solamente per far sì che il viaggio per mare e il trasporto di merci su navi veneziane diventasse un obbligo per il mercante veneziano. Nel secolo XIII non era certo stato ancora definito quel sistema di galere statali che il tardo Medioevo conobbe, ma la tendenza alla separazione del traffico commerciale è già chiaramente in atto.
Disposizioni precise riguardavano poi quanti si trovavano a bordo (19): dai patroni ai mercanti, al nauclerius, ai marinai e agli scrivani. I patroni della nave - di fatto a Venezia una nave aveva diversi proprietari - erano tenuti ad accompagnare la spedizione: tutti, o alcuni di essi, o uno almeno. Questi comunque potevano farsi rappresentare da commissi, le cui attribuzioni tuttavia non andavano oltre ad alcuni aspetti dell'organizzazione di bordo - ad esempio le parti mobili della nave -, né sollevavano il proprietario dalla piena responsabilità. Dal punto di vista tecnico, economico e commerciale, i patroni dirigevano la navigazione assieme ai mercanti e al nauclerius. Su questo piano il secolo XIII evidenzia un mutamento fondamentale. Nel secolo precedente era ancora il nauclerius colui che teneva nelle proprie mani la gestione complessiva del viaggio commerciale, in posizione perciò assai simile a quella del capitano di una moderna nave mercantile. Ebbene, con la compilazione statutaria colui che fino ad allora dirigeva la nave con responsabilità totale divenne l'addetto al lavoro pratico di movimentazione e navigazione. Quel ruolo che nel secolo XII spesso rivestivano anche membri del ceto dirigente veneziano trasmutò in funzione subalterna, di servizio. Non deve quindi meravigliare che la condizione del comandante della nave somigliasse da molti punti di vista a quella dei semplici marinai.
Nel Duecento le questioni inerenti la navigazione venivano risolte collegialmente. Non un singolo individuo ma commissioni istituite per le diverse occorrenze sovrintendevano alle fasi più delicate del funzionamento della nave. I1 caricamento della zavorra, spesso causa di aspri conflitti fra interessi diversi, veniva diretto da un organo collettivo composto da un patronus, dal nauclerius e da due naulizati, mercanti viaggiatori. Qualora costoro non fossero riusciti a mettersi d'accordo, interveniva lo Stato incaricando della materia una quinta persona. Torna qui in evidenza il ruolo dello Stato quale istanza suprema in tutte le vertenze concernenti la vita commerciale. Effettuare un carico ordinato e regolamentare era competenza di due mercanti, coadiuvati dagli scrivani della nave; e al regimen navis in navigando presiedeva un comitato formato da un patronus, dal nauclerius e da tre mercanti.
Questa regolamentazione mostra una volta di più come la legge intendesse tutelare soprattutto le convenienze dei mercanti a bordo, solitamente portatori di una ricca esperienza di navigazione, ancorché il ricorso a organi collettivi avesse per scopo il raggiungimento di un equilibrio di interessi fra coloro che possedevano la nave e coloro che ne riempivano le stive. In ogni modo, solo i mercanti avevano voce in capitolo in tutti e tre gli ambiti sopra elencati: loro era in ultima analisi la direzione effettiva del viaggio.
I marinai erano uomini liberi, ingaggiati e pagati per la spedizione. Prescritti dalla legge, i loro doveri corrispondevano agli interessi dello Stato: erano chiamati, per fare un esempio, anche alla difesa armata della nave con armi proprie, pure se attrezzature di valore dovevano essere portate soltanto al di là di una certa soglia salariale. Durante il viaggio non era loro consentito intraprendere un nuovo lavoro, ma d'altro canto non potevano essere licenziati, salvo che la maggioranza dei mercanti a bordo decidesse diversamente. Peraltro, erano tenuti anch'essi a denunciare allo Stato qualunque violazione degli statuti. E avevano inoltre facoltà di commerciare essi stessi, nonché di condurre con sé a bordo averi ed effetti personali necessari al proprio sostentamento.
Più interessanti le figure degli scrivani, il cui numero dipendeva dalle dimensioni della nave, ai quali era affidata la registrazione di tutte le merci e degli affari negoziati nonché il controllo sul rispetto delle norme vigenti. Questo doppio incarico, da un lato far da notai ai mercanti e tenere i registri, dall'altro assolvere a compiti di sorveglianza per conto dello Stato, faceva degli scrivani una sorta di pubblici ufficiali. Pertanto, anche se i patroni presentavano propri scrivani, la conferma risiedeva presso i consules mercatorum, i quali, dopo averne valutato l'idoneità, si facevano prestare giuramento dai prescelti. Anche da questo appare evidente la tendenza a rendere personalmente responsabili della denuncia di eventuali illeciti tutti coloro che avevano una qualche parte nel mondo degli affari, anche quei chierici che di regola costituivano - stando ai documenti originali - la schiera degli scrivani di bordo.
Per quanto gli statuti rimanessero sempre in vigore, venivano costantemente integrati da "deliberazioni" del maggior consiglio che, va da sé, ritornava continuamente sulla materia commerciale. Conservateci dalla fine del secolo XIII (20), le deliberazioni, che dovevano essere rispettate da tutti gli uffici competenti, rappresentavano uno strumento flessibile e adatto a rispondere alle sollecitazioni provenienti dalla realtà di ogni giorno.
Se nei pacta o negli statuti non risultavano reperibili norme atte alla soluzione di una certa fattispecie, si procedeva allora secondo 1'usus. Il diritto consuetudinario, l'usus patriae delle fonti, ha avuto sempre un suo peso, e ciò perché, per scelta o per necessità, la legislazione veneziana era ben lungi dall'esaustività. I documenti commerciali indicano con sufficiente chiarezza come sussistesse tutta una serie di consuetudini giuridiche alle quali il mercante doveva far riferimento, senza che questo fosse dettagliatamente prescritto. A tal riguardo, era certamente un vantaggio di non poco conto che i componenti le magistrature giudicanti veneziane fossero membri del patriziato eletti a termine e non giudici professionali. Poiché normalmente gli stessi magistrati erano stati mercanti a loro volta, esibivano con il mondo commerciale e le sue regole una spontanea familiarità: se in ambito mercantile un certo comportamento corrispondesse o meno alla consuetudine, lo sapevano solitamente per esperienza personale.
Vantaggio che si faceva ancor più marcato qualora anche la norma consuetudinaria si rivelasse insufficiente. Demandata perciò la decisione della causa all'arbitrium dei giudici, si può supporre che uomini ben addentro alle questioni del commercio fossero i più indicati per stabilire se questa o quella procedura rientrasse nell'ambito della negoziazione onesta ovvero sconfinasse nell'illecito o addirittura nella truffa. Comunque, già nel secolo XIII il ricorso all'arbitrium quale fondamento della sentenza liberamente presa dai giudici a propria discrezione era sempre più raro presso le corti veneziane. Pacta e statuta venivano intrecciandosi in una rete sempre più fitta; e su quanto richiedeva ulteriori decisioni soprintendeva di solito il maggior consiglio, le cui risoluzioni avevano poi forza di legge.
Alla sorveglianza sull'applicazione delle norme giuridiche e alla loro eventuale modificazione partecipavano le magistrature più diverse del comune Venetiarum. Ma inizialmente, fino a quando gli organismi consiliari del comune non fecero più valere la propria competenza in questo campo, le condizioni del commercio rientravano nell'ambito del potere discrezionale del doge. Indubbiamente il maggior consiglio aveva la preminenza, tuttavia non estesa all'intero complesso degli affari quotidiani: le serie delle deliberazioni, pervenuteci dalla fine del secolo XIII, mostrano come normalmente fossero i problemi d'importanza generale a venir trattati dinanzi a questo consesso. Nella regolamentazione spicciola della vita commerciale erano invece il doge e il minor consiglio ad avere preponderante influenza, prima che il senato assumesse sempre più su di sé le questioni relative al commercio e alla navigazione.
Fonte privilegiata d'informazione è al proposito il Liber plegiorum - custodito presso l'Archivio di Stato di Venezia -, che contiene le risoluzioni del doge e dei suoi consiliarii dall'anno 1223 in poi (21). A questa altezza cronologica non il senato ma la signoria decideva in ordine alla materia commerciale. Solamente a partire dal secolo XIV le serie dei registri documentano l'attività dei pregadi: che cosa facessero o deliberassero nel secolo XIII sfugge alla nostra conoscenza.
Quel che subito si evidenzia dall'esame del Liber plegiorum è che a Venezia un unico organo collettivo, che emanava decreti, assommava prerogative sia giudiziarie sia amministrative nonché la direzione della politica estera. La signoria poteva avocare a sé qualunque processo di natura commerciale, tanto in civile quanto in penale. Osserviamo pertanto come, negli anni Venti del secolo XIII, il contrabbando verso Alessandria venisse regolarmente giudicato per motivi di opportunità politica al cospetto del doge e dei suoi consiliarii; è che la progettata crociata di Federico Il, continuamente pungolato dal papa, faceva ritenere opportuno un intervento dimostrativo della massima autorità contro i contrabbandieri. E anche gli atti di brigantaggio suscettibili di provocare attriti con i vicini venivano portati alla suprema istanza. Parallelamente la signoria esercitava il proprio controllo sulle magistrature inferiori. Non solo esaminava i conti dell'ufficio del grano, ma interveniva pure quando si trattava, ad esempio, di concedere permessi per la rivendita di cereali. E vagliava i rapporti in arrivo dalle stazioni veneziane del Mediterraneo, al caso sollecitando i provvedimenti dei competenti organismi cittadini. Ma soprattutto s'incaricava di prescrivere le regole di massima per il buon andamento dell'attività mercantile di ogni giorno. Era la signoria a emettere i divieti al commercio, che venivano controllati tramite la disposizione di garanzie, a stabilire la data di partenza delle mude, a fissare i premi sull'importazione dei grani: insomma, negli anni Venti del secolo XIII, il corso quotidiano della politica commerciale, come pure della politica estera, riposava nelle mani del doge e del minor consiglio. Quanto al maggior consiglio, ad esso spettavano le materie più generali; ma se, per ipotesi, Ancona richiedeva la riduzione del datium maris praticato a Venezia, era la signoria a pronunciarsi, sede ristretta in cui venivano dettate di giorno in giorno le linee direttrici della vita mercantile. Verso il 1229, forse in concomitanza con l'elezione del doge Jacopo Tiepolo, venne istituita una commissione del maggior consiglio, detta in origine consilium rogatorum, dalla quale avrà origine poi il senato (22). Pressoché nulla si sa delle responsabilità attribuite a questo organismo collegiale nel secolo XIII; certo è che dal secolo XIV, da quando cioè la sua attività è attestata dai registri pervenutici, il commercio e la navigazione appaiono fra i temi più ricorrenti, segnale dell'avvenuto trasferimento di parte almeno delle competenze inerenti il controllo della mercatura dal minor consiglio al senato.
Molte delle magistrature veneziane subordinate assolvevano in qualche misura a incarichi connessi con il commercio, prima fra tutte a comparire, nel 1228, quella dei consules mercatorum, il cui giuramento è depositato nel loro capitolare (23). Come indicano gli statuti del doge Renier Zeno, compito principale dei consules era il controllo sull'attività commerciale. A differenza dei consoli dei mercanti in altre città dell'Italia settentrionale, a Venezia si trattava di un organismo pubblico e non di uno strumento di autogoverno della corporazione mercantile. Le prime risoluzioni riportate dal loro capitolare risalgono a un periodo ben anteriore al 1240; da allora assiduamente integrate, esse danno la misura della continua trasformazione delle attribuzioni lungo i seicento anni di vita dell'ufficio. Ma nel secolo XIII l'incarico del consul era di sovrintendente della marina mercantile veneziana e, al pari di altri organi amministrativi del comune, di sanzionare le contravvenzioni commesse in quel settore: soprattutto il sovraccarico delle navi, le partenze in scadenze non previste, i contratti di credito fraudolenti. Come si vede, nel Duecento le competenze dei consules - più tardi passate a magistrature diverse coprivano tutta la materia del traffico per mare. A loro sottostavano gli agenti di cambio e le banche, loro vigilavano sulle aste delle merci a Rialto e a loro erano subordinati gli uffici della messetteria, senza la cui mediazione non era consentito concludere a Venezia alcuna negoziazione. In effetti, per ogni acquisto o vendita era prescritto l'intervento di un mediatore statale veneziano - cui spettava una provvigione -, tenuto a far rispettare le regole vigenti nonché assicurare il pagamento delle imposte dovute. Una fonte del secolo XIII menziona quaranta sensali della messetteria operanti a Rialto. Quando, nel 1225, Cremona subì la scomunica e l'interdetto papale, il doge e il minor consiglio vietarono a tutti i mediatori veneziani di prestarsi alla stipula di contratti con cittadini cremonesi: in pratica un'interdizione commerciale, giacché senza la presenza di un sensale pubblico non era legalmente ammessa qualsivoglia transazione. Anche sui sensali del fondaco dei Tedeschi si estendeva la giurisdizione dei consules, come pure sugli scrivani che accompagnavano le spedizioni marittime in qualità di rappresentanti pubblici, chiamati a redigere i libri mastri relativi alla nave e al carico. Certo, nel secolo XIII gli scrivani venivano scelti dai proprietari, ma dovevano poi prestare giuramento di fronte all'autorità consolare, libera peraltro di ricusarli per difetto d'idoneità. Insomma, in virtù del controllo esercitato su sensali e scrivani di bordo, i consules mercatorum avevano una visione precisa e completa di tutti gli affari lecitamente condotti dai mercanti di Venezia.
Altra importante responsabilità dell'ufficio era la stima e la registrazione della capacità di carico di ciascuna nave, premessa indispensabile alla compilazione di una sorta di registro navale. E nel secolo XIII i consules intervenivano direttamente nella valutazione: sulla base dei libri contabili della nave si computava quanto era stato caricato, fino al raggiungimento del prefissato massimale di immersione. Accertamento fondamentale poiché dalla capacità calcolata, espressa in milliaria, dipendevano molte delle disposizioni relative alla nave e pure la composizione numerica dell'equipaggio.
Una volta fissata la capacità di carico da parte dei consules, il livello di immersione veniva marcato sulla fiancata esterna del battello, nel caso delle galere e delle "tarete" con un chiodo. Quanto alle navi più grandi, la marcatura si trovava all'altezza del primo ponte di coperta. Fino a quale profondità la linea di carico potesse affondare, lo stabilivano gli statuti marittimi. Ma a seconda del tipo di carico o del viaggio da effettuare, di volta in volta la norma poteva essere modificata dalla signoria.
Che tali prescrizioni venissero poi effettivamente rispettate era affare dei consules mercatorum. Pare tuttavia che la loro competenza andasse restringendosi progressivamente alle sole naves: nel 1300 comparvero infatti i cercatores galearum, organo specificamente preposto - appunto - al controllo sulle galere. Per di più, dopo che la cocca ebbe soppiantato la navis duecentesca, molte prescrizioni degli statuti del 1255 divennero superflue.
Dato che i consules mercatorum avevano giurisdizione sugli scrivani, il caricamento delle navi e la scadenza delle partenze, in origine era il loro ufficio a detenere la responsabilità di tutte le procedure concernenti il traffico marittimo, compreso un ampio potere punitivo che venne comunque sempre più limitato nel corso del secolo XIII. Ma le ammende inflitte - per esempio quando una nave fosse salpata in periodo di chiusura delle vie marittime - non venivano esatte direttamente, essendo ad esse preposti i gastaldi o signori di notte. Inoltre, tramite gli advocatores comunis o per avocazione del minor consiglio, ogni procedimento poteva essere trasferito a istanze superiori. Ciò che solitamente accadeva nel caso di patenti trasgressioni, mentre le cause di diritto privato venivano per lo più regolate da un tribunale arbitrale o dagli officia palatii, le cui corti durante il secolo XIII si stavano lentamente sviluppando.
L'assetto giuridico raggiunse in campo commerciale una varietà pressoché imperscrutabile di competenze, impossibili da delineare precisamente stante la scarsità di atti giudiziari conservati (24). Anche i consules mercatorum mantennero infatti la giurisdizione nelle controversie civili. Oltre alla vecchia curia ducis si sviluppò, parallelamente ad altre corti giudiziarie, quella degli iudices comunis, che vennero associati, poco dopo, agli iudices forinsecorum.
Come attesta il nome, questa corte aveva in primo luogo il compito di raccogliere le querele fra forestieri o quelle inoltrate da cittadini veneziani contro forestieri. Quanto alle querele intentate da stranieri nei confronti di sudditi della Repubblica, venivano esperite dagli iudices de proprio. Sono, queste, destinazioni giudiziarie che lasciano intendere di per sé come in ambito civile la gran parte dei litigi fra Veneziani e stranieri riguardasse le attività connesse al commercio, campo nel quale si applicava più d'ogni altra la competenza degli iudices forinsecorum. A partire dalla metà del secolo, questa curia ottenne ulteriori prerogative in materia di diritto marittimo: nel 1225 le venne data la possibilità di costringere, mediante penalità, il proprietario della nave a consegnare le merci di sua pertinenza al mercante; e nel 1264 ottenne di sentenziare in tutti i casi in qualche modo connessi con la navigazione, quando il valore disputato non superasse le 10 lire, ricevendo saltuariamente dispensa per importi anche superiori.
Nove anni più tardi gli iudices forinsecorum si arrogarono tutte le cause intentate da Veneziani come da forestieri contro proprietari di navi in materia di noli, armamento, rotte e simili. E nel 1292 fu data loro giurisdizione relativamente a ogni problema di contratto commerciale, che fosse o meno collegato all'attività marinara. Infine, potevano emettere sentenze penali in caso di violazione dei contratti di ingaggio e pure fare eseguire condanne pecuniarie in relazione a questioni di navigazione. Nel giro di un secolo il tribunale dei forestieri diventò la corte specialmente preposta alle cause di navigazione. Tutto ciò che apparteneva ad rationem navis poteva essere dibattuto di fronte agli iudices forinsecorum.
Ma ancora ne mancava per saturare tutte le possibilità delle corti veneziane. Così gli iudices peticionum, originariamente competenti per tutti i casi di rappresaglia e tutte le controversie con città straniere, nel tardo Medioevo allargarono sempre più la propria sfera d'intervento nel campo del commercio e della navigazione (25), con particolare riguardo alle assicurazioni marittime. E naturalmente anche gli iudices de contrabannis avevano a che fare con le materie commerciali (26). Se si considera poi che pure il senato e la quarantia potevano avocare a sé talune fattispecie, ben si comprende come una tale varietà di attribuzioni e di accavallamenti giurisdizionali renda assai arduo districare la composita matassa curiale veneziana. Né i consules mercatorum dovevano tener conto di autorità concorrenti solo sul terreno dell'amministrazione della giustizia. I consoli svolgevano in effetti a Rialto un'importante funzione di controllo, ma l'ispezione della nave doveva comunque avvenire di fronte al palazzo Ducale, dov'erano ubicati gli attracchi. Ecco perciò che nella seconda metà del secolo XIII competenze ulteriori vengono trasferite ad altri magistrati, fra i quali si segnalano per ampiezza di prerogative rilevate dai consules con l'andare del tempo i domini super mercationibus Levantis (27). È un processo che trova corrispondenza nel travaso di attribuzioni decretato dal maggior consiglio ad altri organi consiliari. Per sollevare il carico dei consules mercatorum si pensò bene di creare magistrature specifiche per singole merci o gruppi merceologici che richiedevano un controllo particolare. Stante la giurisdizione sui prodotti di provenienza orientale, i "levanti" - come talvolta venivano chiamati i domini super mercationibus Levantis - potevano entrare in conflitto con i consoli. Inizialmente responsabili soprattutto delle importazioni di cotone dal Medio Oriente, i domini estesero considerevolmente la propria sfera di competenza, deliberando su chi avesse o meno diritto di partecipare al traffico di Levante e ispezionando le navi impegnate su quelle tratte. E poiché nell'assolvere a tale mansione si trovavano di continuo alle prese con il fenomeno del contrabbando, vennero temporaneamente associati, nel 1285, ai domini de contrabannis; senonché, visti gli scarsi risultati ottenuti, le due magistrature furono successivamente separate.
Quanto all'armamento delle navi, nel 1288 ne venne affidato il controllo ai cattaveri, ma già nel 1291 il compito fu devoluto agli stessi "levanti" i quali finirono per arrogarsi l'ispezione di tutto il naviglio mercantile su qualsiasi rotta. Tuttavia il campo precipuo dei "levanti" erano le grandi naves impiegate nel commercio con la Siria; e nella misura in cui il grosso dei carichi era costituito dal cotone, si può dire che detenessero una particolare giurisdizione su questo specifico settore commerciale.
Prima che la nave potesse uscire dal porto si presentava a bordo un rappresentante dei "levanti" che verificava il numero dei marinai ingaggiati confrontando il proprio dato con quello attestato dalla registrazione della nave rilasciata presso i consoli. E si assicurava inoltre delle dotazioni difensive, procedendo poi a sigillare il luogo in cui venivano tenute le armi; tre giorni dopo la partenza un rappresentante dei mercanti a bordo era incaricato di ispezionare quel luogo. Era questa una procedura intesa a far sì che la prudenza e la sicurezza non venissero trascurate, che non si scaricassero le armi più pesanti per fare spazio ad altre merci. In violazione di dette norme, i "levanti" potevano infliggere pene pecuniarie la cui esazione era affidata ai signori di notte. Poiché i "levanti" erano in ogni caso tenuti a procedere all'ispezione della nave, gradualmente venne trasferita loro anche la cura della regolarità del carico e la verifica del livello di immersione, compiti già assolti dai consules mercatorum. Ma neppure le attribuzioni dei "levanti" andarono esenti dalla concorrenza di altre magistrature. I cattaveri, i signori di notte, i provveditores comunis - insediati nel 1280 senza che per quest'ultimo scorcio del secolo XIII ne siano note le competenze -, tutti costoro si occupavano della regolamentazione delle attività dei mercanti veneziani in patria.
Accanto a questi uffici pubblici che generalmente sovrintendevano al commercio e alla navigazione, v'erano poi altre magistrature con specifiche competenze. Nulla di strano dunque che Venezia si dotasse di uno speciale ufficio preposto al commercio del grano (28). Nel Dogado infatti non si coltivavano granaglie e la necessità dell'approvvigionamento era stata fin dall'inizio un vettore di movimentazione del traffico veneziano. In tutte le città italiane il commercio del grano era gestito dalla mano pubblica, e ciò perché il rifornimento alimentare della popolazione costituiva una delle condizioni della stabilità politica. È nel 1223 che a Venezia s'incontrano per la prima volta ufficiali addetti alla sorveglianza sui grani. I domini de frumento dovevano sovrintendere e amministrare le scorte, contemporaneamente occupandosi degli acquisti. Ma in un settore vitale per gli interessi dello Stato anche il doge - che secondo la promissione ducale era chiamato a garantire l'accaparramento del grano - e la signoria avevano voce in capitolo. Era soprattutto la supervisione sullo smercio all'ingrosso, fattore politico di primaria importanza, che gli organi superiori riservavano a sé, e così pure il sostegno all'importazione per mezzo di incentivi e premi eventuali, come accadde sovente durante il secolo XIII. Il commercio al dettaglio e la distribuzione del grano in arrivo erano comunque competenze dei domini de frumento.
Il sale era stato il primo articolo commerciale prodotto da Venezia stessa (29). Già nel secolo XII era stato istituito un monopolio statale a regolamentarne la distribuzione, con due ufficiali pubblici, i salinarii Clugie chiamati a controllare la raccolta e lo smercio del sale chioggiotto. Una seconda autorità, i domini salis maris, era incaricata dell'importazione di sale mediterraneo, che nel secolo XIII divenne sempre più importante per il monopolio veneziano. Ma resta il fatto che anche in questi settori la signoria non si tratteneva dall'intervenire con assiduità.
Non è sempre agevole comprendere se questo o quell'ufficio pubblico veneziano si occupassero della produzione locale piuttosto che del commercio. Il più delle volte si coniugavano entrambe le funzioni: l'importazione di materie prime fissava un punto di contatto con un mondo mercantile sul quale ancora si esercitava l'azione dei superstantes auro et argento cocto (30), dei superstantes pannorum aureorum et fustaneorum (31) e dei superstantes auri (32), i cui compiti specifici andavano ad alleggerire le incombenze di altre magistrature. E vanno altresì menzionati i numerosi uffici doganali, ciascuno specializzato in modo analogo alle diverse autorità amministrative. Non esistevano soltanto le dogane preposte al commercio terrestre e marittimo: olii e grassi, vino e carne avevano gli uffici doganali propri (33). Del commercio si occupavano, infine, anche i capitanei postarum et lignorum chiamati a controllare i traffici in qualità di autorità di confine e di corpi di guardia.
Se a Venezia una multiforme burocrazia gestiva la vita commerciale, nemmeno nel Mediterraneo il mercante veneziano sfuggiva alle disposizioni della madrepatria, le cui norme mantenevano efficacia anche nei porti stranieri. La rete diffusa dei rappresentanti serenissimi si incaricava di far rispettare le regole: il podestà a Costantinopoli, il duca a Creta, il bailo a Negroponte, il castellano a Corone e Modone, i rettori veneziani in Terrasanta, i consoli che Venezia insediava in ogni porto di qualche importanza, gli inviati nelle città della terraferma e presso il patriarca di Aquileia, tutti quanti - oltre alle funzioni eminentemente politiche - avevano l'ordine di vigilare sull'osservanza di norme, disposizioni e divieti. Così in ogni porto forestiero doveva essere espletata da parte del rappresentante di Venezia - che agiva sul posto in vece dei consules mercatorum - l'ispezione del carico e dell'equipaggio con il suo armamento. Perfino nei luoghi sprovvisti di rappresentanza ufficiale marciana i mercanti erano tenuti a scegliere da se stessi una delegazione cui affidare l'ispezione. E a rendere più efficace il controllo si affermò il principio di lasciare parte delle merci confiscate a colui il quale avesse denunciato una trasgressione.
Dal traffico marittimo restavano esclusi sia gli abitanti dei comuni italiani della terraferma sia i Tedeschi. In effetti, consentire a quei tradizionali acquirenti l'approvvigionamento diretto avrebbe rappresentato un grave discapito per il commercio veneziano. Al contrario, i mercanti serenissimi dovevano negoziare oltremare lasciando i rapporti continentali agli ospiti stranieri: addirittura, nel 1278 si arrivò al punto di interdire ai Veneziani il commercio con la Germania. Allo scopo di meglio sorvegliare le attività dei forestieri furono allestiti a Venezia degli alloggiamenti appositi. Sappiamo dei Modenesi che nel secolo XIII frequentavano alberghi propri, ma certamente l'evento di maggior portata fu la costruzione del fondaco dei Tedeschi. All'idea di far risiedere i mercanti stranieri in una casa propria i Veneziani si erano abituati nel Levante. Così, verso l'anno 1225, anche a Venezia fu edificato il fondaco dei Tedeschi, la cui gestione venne inizialmente messa all'incanto dietro contribuzione di un cespite annuo (34). Ma già entro la prima metà del secolo se ne affidò la direzione ai visdomini del fondaco, dunque a un ufficio pubblico. Organo di controllo, i visdomini sovrintendevano al traffico commerciale facente capo al fondaco, disponendo allo scopo di numeroso personale: il portinaio, incaricato del rispetto degli orari d'apertura, i sensali pubblici, senza i quali alcuna transazione poteva venir effettuata, i facchini e i legatori di balle, i notai, che avallavano con la propria firma la conclusione degli affari in termini legali. A tutti i conducenti di barca era poi fatto divieto di condurre i mercanti tedeschi in arrivo in luogo diverso dal fondaco, ove le merci venivano messe all'asta. Con l'esclusione dei mercanti dell'Europa continentale dal traffico marittimo il sistema commerciale messo in piedi dai Veneziani poté dirsi compiuto. E se Venezia diventò il grande centro di scambio delle merci del Levante e dell'Occidente, l'opera di intermediazione fu appannaggio dei suoi mercanti.
Traduzione di Marta Keller
1. La documentazione intorno alla regolamentazione della vita commerciale veneziana inizia, per lo più, soltanto nel secolo XIV, perché la fonte per eccellenza, i registri del senato, sono conservati solo a partire da questo periodo: Roberto Cessi, L'"Officium de Navigantibus" ed i sistemi della politica commerciale veneziana nel sec. XIV, in Id., Politica ed economia di Venezia nel Trecento, Roma 1952, pp. 23-61. Frederic C. Lane, Le galere di mercato, 1300-1334: esercizio privato e di Comun, in Id., Le navi di Venezia, Torino 1983, pp. 49-81; Id., Normativa e amministrazione del diritto marittimo, 1250-1350, ibid., pp. 91-1 14. Una sintesi la offre Gino Luzzatto, Storia economica di Venezia dall'XI al XVI secolo, Venezia 1961, pp. 116-127.
2. Giuramento di Rodolfo de Zoto da Mantova, 1188: cf. Samuele Romanin, Storia documentata di Venezia, II, Venezia 19732, p. 296 n. 4.
3. R. Cessi, L'" Officium de Navigantibus", pp. 23-61. Frederic C. Lane, The Enlargement of the Great Council of Venice, in Florilegium Historiale. Essays Presented to Wallace G. Ferguson, a cura di John G. Rowe-W.H. Stockdale, Toronto 1971, pp. 258 ss. (pp. 236-274) (trad. it. L'ampliamento del Maggior Consiglio di Venezia, "Ricerche Venete", 1, 1989, pp. 21-58).
4. Martin da Canal, Les estoires de Venise. Cronaca veneziana in lingua francese dalle origini al 1275, a cura di Alberto Limentani, Firenze 1972, pp. 4-5.
5. Salimbene da Parma, Cronica, II, a cura di Ferdinando Bernini, Bari 1942, p. 169.
6. Gerhard Rösch, Venezia e l'Impero 962-1250. I rapporti politici, commerciali e di traffico nel periodo imperiale germanico, Roma 1985, p. 38.
7. Walter Lenel, Die Entstehung der Vorherrschaft Venedigs an der Adria. Mit Beiträgen zur Verfassungsgeschichte, Strassburg 1897, pp. 27 ss.; Roberto Cessi, La Repubblica di Venezia e il problema adriatico, Napoli 1953.
8. Bernardino Ghetti, I patti tra Venezia e Ferrara dal 1191 al 1313 esaminati nel loro testo e nel loro contenuto storico, Roma 1907, p. 186: "quod potestas Ferrarie et Ferrarienses perpetuo modo aliquo non recipient aliquem mercatorem venientem Ferrariam per mare scilicet per portus Primarii, Volani et Gauri vel undecumque per mare". G. Rösch, Venezia e l'Impero, pp. 68 e 181-182.
9. G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, pp. 122-123.
10. Capitolare dei giudici del comun o del forestier: Melchiorre Roberti, Le magistrature giudiziarie veneziane e i loro capitolari fino al 1300, II-III, Venezia 1909-1911: II, pp. 103 ss., cap. 5: "Item omnes singulas causas, vertentes inter Venetos et forinsecum vel forinsecum et forinsecum, audire et examinare et definire debeor et in eis procedere secundum formam pactorum et, si pacta non fuerit, secundum formam statuti, ubi statutum loquitur, ubi statutum defecerit, secundum usum, et ubi usus mihi defecerit, secundum meam conscientiam, bona fide sine fraude". Cf. Lamberto Pansolli, La gerarchia delle fonti di diritto nella legislazione medievale veneziana, Milano 1970, pp. 83 ss.
11. A.S.V., Libri Pactorum, I-IX (secoli XIII-XV); inoltre, dalla metà del secolo XIV il Liber Blancus e il Liber Albus, dalla metà del secolo XVI il Codex Trevisaneus. Originali si trovano nelle serie - parimenti conservate presso l'A.S.V. - degli Atti diplomatici e privati e delle Ducali e atti diplomatici. I pacta con l'Occidente sono pubblicati in modo sparso; una specifica trattazione in G. Rösch, Venezia e l'Impero, passim. Per i secoli XII e XIII, la maggior parte degli atti riguardanti il bacino mediterraneo è edita da Gottlieb L.Fr. Tafelgeorg M. Thomas, Urkunden zur älteren Handelsund Staatsgeschichte der Republik Venedig, I-III, Wien 1856-1857. Per queste fonti cf. anche Idd., Der Doge Andreas Dandolo und die von demselben angelegten Urkundensammlungen, "Abhandlungen der Bayerischen Königlichen Akademie der Wissenschaften", 3. Klasse, 8. Band, I. Abt., 1885, e Jacqus Marze J.L. De Mas Latrie, Rapport sur le recueil des archives de Venise intitulé Libri pactorum ou Patti, "Archives des Missions Scientifiques et Litteraires", 2, 1851, pp. 261-300 e 341-358.
12. Giovanni I. Cassandro, Le rappresaglie e il fallimento a Venezia nei secoli XIII-XVI, Torino 1938.
13. Enrico Besta, Il diritto e le leggi civili di Venezia fino al dogado di Enrico Dandolo, "Ateneo Veneto", 20, nr. 2, 1897, pp. 290-320; ibid., 22, nr. 1899, pp. 135-184; ibid., 22, nr. 2, pp. 61-93 e 202-248. L. Pansolli, La gerarchia delle fonti, pp. 25-59.
14. Heinrich Kretschmayr, Geschichte von Venedig, I, Gotha 1905, pp. 494-497.
15. Enrico Besta-Riccardo Predelli, Gli statuti civili di Venezia anteriori al 1242, "Nuovo Archivio Veneto ", n. ser., 1, 1901, pp. 205-300.
16. Gli statuti veneziani di Jacopo Tiepolo del 1242 e le loro glosse, a cura di Roberto Cessi, Venezia 1938.
17. Gli statuti marittimi veneziani fino al 1255, a cura di Riccardo Predelli - Adolfo Sacerdoti, Venezia 1903. Giovanni I. Cassandro, La formazione del diritto marittimo veneziano, in Venezia e il Levante fino al secolo XV. Storia, diritto, economia, a cura di Agostino Pertusi, I/1, Firenze 1973, pp. 185-218. F.C. Lane, Normativa e amministrazione del diritto marittimo, pp. 91-114; Id., I carichi di cotone e le norme contro il sovraccarico, in Id., Le navi di Venezia, Torino 1983, pp. 115-123.
18. Cf. l'articolo di Frederic C. Lane, in Zibaldone da Canal, manoscritto mercantile del secolo XIV, a cura di Alfredo Stussi, Venezia 1967, pp. LIX-LXVII. Id., Il naviglio veneziano nella rivoluzione commerciale, in Id., Le navi di Venezia, Torino 1983, pp. 3-23. Id., La marina mercantile della Repubblica di Venezia, ibid., pp. 24-44. Ugo Tucci, La navigazione veneziana nel Duecento e nel primo Trecento e la sua evoluzione tecnica, in Venezia e il Levante fino al secolo XV. Storia, diritto, economia, a cura di Agostino Pertusi, I/2, Firenze 1973, pp. 821-841.
19. G.I. Cassandro, La formazione del diritto, pp. 194 ss. Frederic C. Lane, I marinai veneziani e la rivoluzione nautica del medioevo, in Id., Le navi di Venezia, Torino 1983, pp. 150-169. Id., Salari e regime alimentare dei marinai all'inizio del Trecento, ibid., pp. 170-175.
20. Le deliberazioni del maggior consiglio sono conservate in registri a partire dall'anno 1282: quelle relative al secolo XIII in Deliberazioni del Maggior Consiglio di Venezia, III, a cura di Roberto Cessi, Bologna 1934.
21. Deliberazioni del Maggior Consiglio di Venezia, I, a cura di Roberto Cessi, Bologna 1950. Riccardo Predelli, Il Liber Communis detto anche Plegiorum del R. Archivio Generale di Venezia. Regesti, Venezia 1872.
22. Le deliberazioni del Consiglio dei Rogati (Senato) . Serie "Mixtorum", I, a cura di Roberto Cessi-Paolo Sambin, Venezia 1960; II, a cura di Roberto Cessi - Mario Brunetti, Venezia 1961. Enrico Besta, Il Senato veneziano. Origine, costituzione, attribuzioni e riti, Venezia 1899. Giannina Magnante, Il Consiglio dei rogati a Venezia dalle origini alla metà del secolo XIV, "Archivio Veneto", ser. V, 1, 1927, pp. 70-111.
23. F.C. Lane, Normativa e amministrazione del diritto marittimo, pp. 99 ss. Deliberazioni del Maggior Consiglio di Venezia, II, a cura di Roberto Cessi, Bologna 1931, pp. 252-257.
24. L'opera principale resta sempre quella di M. Roberti, Le magistrature giudiziarie veneziane. Il capitolare dei giudici del comun o del forestier, ibid., II, pp. 103-119. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, pp. 205-206.
24. Capitolare edito in M. Roberti, Le magistrature giudiziarie veneziane, III, pp. 101-130. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, pp. 203-204. Giovanni I. Cassandro, La curia di Petizion, "Archivio Veneto", ser. V, 19, 1936, pp. 72-144 e 20, 1937, pp. 1-210.
26. M. Roberti, Le magistrature giudiziarie veneziane, III, pp. 197-239. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, pp. 219-222. Pompeo G. Molmenti, Il contrabbando sotto la Repubblica Veneta, Venezia 1917.
27. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, pp. 289-292.
F. C. Lane, Normativa e amministrazione del diritto marittimo, pp. 106 ss.
28. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, pp. 286-289.
G. Rösch, Venezia e l'Impero, pp. 240 ss.
29. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, pp. 206-209, pp. 321-324. Fondamentale Jean-Claude Hoquet, Le sel et la fortune de Venise, I-II, Lille 1978-1979. Clemens Bauer, Venezianische Salzhandelspolitik bis zum Ende des 14. Jahrhunderts, "Vierteljahrschrift für Sozial- und Wirtschaftsgeschichte", 23, 1930, pp. 273-323.
30. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, pp. 304-305.
31. Ibid., p. 306.
32. Ibid., pp. 312-313.
33. Bilanci generali della Repubblica di Venezia, a cura di Fabio Besta, in Documenti finanziari della Repubblica di Venezia, ser. II, t. 1, Venezia 1912, pp. LIII ss. G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, pp. 113 ss. Le disposizioni del secolo XIII per gli uffici doganali in Deliberazioni del Maggior Consiglio, II.
34. Fondamentale Henry Simonsfeld, Der Fondaco dei Tedeschi in Venedig und die deutsch-venezianischen Handelsbeziehungen, I-II, Stuttgart 1887. Georg M. Thomas, Das Capitular des deutschen Hauses in Venedig, Berlin 1874. G. Rösch, Venezia e l'Impero, pp. 138 ss. (con altra letteratura).