Le strutture della Chiesa locale
La provincia "Venetia et Histria", che dopo la riforma amministrativa dioclezianea risultò compresa nell'Italia annonaria e subordinata al vicarius Italiae di Milano, dal punto di vista ecclesiastico fu sottoposta, tra la fine del IV e l'inizio del V secolo, alla giurisdizione del metropolita di Aquileia. Le sei diocesi della laguna veneta - Torcello, Malamocco, Jesolo, Caorle, Cittanova Eracliana e Olivolo/Castello - ancora non esistevano. La loro più tarda formazione è questione tuttora aperta, inceppata fra una contraddittoria tradizione cronachistica e frammentari dati documentari e archeologici.
Secondo il Chronicon Gradense, ascritto alla seconda metà dell'XI secolo (1), gli episcopati vennero istituiti dal patriarca aquileiese Elia nella sinodo tenuta a Grado nel 579 (2). L'attendibilità della notizia è stata da tempo revocata in dubbio, ma ultimamente rivalutata dal Fedalto sulla base di recenti scavi archeologici effettuati a Jesolo e di una rinnovata analisi filologica delle fonti scritte per Caorle e Cittanova Eracliana (3). Tuttavia, i ritrovamenti jesolani sembrano indicare semplicemente una continuità di luoghi di culto tra tardoantico e altomedioevo e non l'esistenza di strutture episcopali (4), né risulta decisiva l'identificazione dell'"insula Capritana" e del "castellum Novas", menzionati nelle lettere di Gregorio Magno, con Caorle (5) e con Cittanova Eracliana. Come è stato dimostrato in maniera convincente, il racconto della fondazione ad opera di Elia fu una falsificazione operata nell'interesse della Chiesa di Grado, più in particolare ispirata alla cosiddetta teoria gradense così come essa si affermò attorno alla metà dell'XI secolo (6).
Rigettato il Chronicon Gradense, resta il racconto del diacono Giovanni. Ad esso si manteneva aderente il Kehr, ritenendo la nascita dei sei episcopati non contemporanea ma progressiva: a Caorle, Cittanova Eracliana e Torcello, dove in seguito alle invasioni s'erano rifugiati rispettivamente i vescovi di Concordia, Oderzo e Altino, gli episcopati nacquero non come fondazioni nuove ma per traslazione dei rispettivi tre titoli di terraferma, traslazione ratificata per Caorle da papa Deusdedit (615-618), per Cittanova Eracliana e per Torcello da papa Severino (640). Jesolo, Malamocco e Olivolo furono invece di nuova creazione (7).
La versione fornita da Giovanni diacono fu contestata dal Cessi (8), il quale tuttavia almeno in parte finì con l'accoglierla. Secondo la sua opinione, che è quella a tutt'oggi più seguita (9), solo gli episcopati di Cittanova Eracliana e Torcello si affermarono come trasformazione dei vecchi titoli di Oderzo e di Altino, mentre le sedi di Jesolo, Caorle, Malamocco e Olivolo furono fondazioni nuove. Solamente per Olivolo sarebbe possibile assegnare con certezza la nascita agli anni 774-776 (datazione accreditata da Giovanni diacono e confermata dai dati documentari), mentre per la sistemazione complessiva delle altre diocesi, cioè per la nascita dei nuovi e per la trasformazione dei vecchi titoli di terraferma, si dovrebbe pensare, sempre secondo il Cessi, ai poco più di vent'anni intercorrenti fra la metà del IX secolo e 1'876-877.
Se l'esistenza delle sei diocesi prima degli anni 876-877 è certa - lo provano le lettere papali appunto di quell'epoca -, meno sicuro è il termine post quem, 1'853. Dal Cessi era stato fissato in considerazione del fatto che, ad esclusione dell'olivolense, gli altri cinque vescovi lagunari non figurano "nel placito ducale della prima metà del sec. IX, al quale partecipano tutte le gerarchie ecclesiastiche e civili esistenti" (10). Tuttavia, l'equazione assenza-inesistenza non tiene semplicemente perché, a differenza dell'epoca successiva, per quest'età non è rimasto alcun placito vero e proprio: la donazione (previlegium, largietas) operata nell'819 dai duchi Agnello e Giustiniano in favore dell'abate di S. Servolo non è tale (11), e la presenza in quell'occasione del solo patriarca di Grado accompagnato dal vescovo olivolense può essere giustificata dal fatto che la cappella oggetto della donazione rientrava nella giurisdizione di Olivolo, vescovado soggetto al patriarcato gradense, e col fatto che i duchi le concedevano alcune libertà nei confronti delle due sedi che potevano vantare su di essa la propria autorità. Altrettanto poco significativa è l'assenza degli altri vescovi lagunari alla redazione dei testamenti del duca Giustiniano e del vescovo di Olivolo, Orso, rispettivamente dell'828 e dell'853 (12), sicché l'ipotesi dell'istituzione delle altre cinque diocesi lagunari negli anni 853-876 risulta priva di fondamento.
Più recentemente, Wladimiro Dorigo ha ritenuto di poter delineare un quadro di traslazioni e fondazioni episcopali nel quale le notizie provenienti dalle cronache, e in particolare dalle diverse redazioni che concorrono a formare la cosiddetta Origo civitatum Italiae (13), si compongono in modo coerente (14). Ciò che più lo distingue dal Cessi e dal Kehr è la fede nella notizia, fornita dall'Origo ma ignorata da Giovanni diacono, del trasferimento del vescovo di Padova a Malamocco, trasferimento che sarebbe avvenuto attorno al 638-639 (la data, congetturale, si fonda sull'autorità dei settecenteschi Ughelli e Coleti) e che ben s'inscriverebbe nel pontificato di papa Severino, durante il quale anche i vescovi di Oderzo e di Altino si sarebbero trasferiti sulla laguna. Tutti i vecchi titoli si sarebbero poi trasformati nei nuovi, quelli lagunari, alla caduta del regno longobardo.
A questo punto, raccogliendo gli elementi certi o almeno probabili, si può ritenere assodato che una parte delle diocesi lagunari nacque per traslazione dei titoli di terraferma: i vescovi di Oderzo (dopo il 640), di Altino (attorno al 639) e forse di Concordia (alla fine del VI o all'inizio del VII secolo) (15) in seguito all'arrivo dei Longobardi ripararono sulla laguna. Il loro trasferimento, ratificato o no dai papi, non implicò una modifica dei rispettivi titoli se non quando da temporaneo si tramutò in definitivo, cosa che avvenne in un momento imprecisabile, prima però di quanto pensasse il Cessi. Il problema del titolo e dell'atto formale di istituzione dei nuovi episcopati non va comunque enfatizzato. Nel caso di Oderzo-Cittanova, il Cessi stesso ha sottolineato le difficoltà per il vescovo opitergino di ritornare a Oderzo, il cui territorio era stato subito smembrato fra i ducati limitrofi e la cui diocesi, stando a un discusso documento del 743, aveva subito la stessa sorte (16). Questa fu la situazione che impedì un ritorno sulla terraferma e portò all'accettazione di fatto della realtà "lagunare" del vescovo opitergino, esercitante il suo ufficio su di un moncone di diocesi. La sanzione giuridica poté pure esserci, ma non cambiò di molto l'esercizio della giurisdizione episcopale. Altrettanto vale per l'episcopato di Torcello, anzi a fortiori non si pose qui la questione di una formale trasformazione del nuovo titolo. La diocesi e il territorio altinate non subirono devastazioni paragonabili a quelle dell'opitergino (tanto è vero che la diocesi mantenne alcune propaggini nel territorio longobardo), né si rese necessaria una trasformazione dell'altinate in "vescovo veneto"; egli rimase quello che era, un vescovo che la pressione militare longobarda, unita alla decadenza di Altino, portava a gravitare sulla laguna, ma che alla fine del IX secolo poteva essere anche un bavarese, e che all'inizio del secolo XI ancora s'intitolava dalla sede altinate. Il pregiudizio di una chiesa 'nazionale' e 'veneziana' e la volontà di fissarne il momento della nascita ha portato a irrigidire una situazione che invece rimase, per parecchio tempo, ancora fluida (17).
Riguardo a Jesolo si è concordi nell'ammettere che la sede vescovile fu fondata ex novo, ma per il resto si brancola nel buio. Neppure le recenti scoperte archeologiche permettono di stabilire alcunché, dato che riguardano, come s'è accennato, un impianto cultuale collocabile tra l'inizio del V e la metà del VI secolo privo di strutture episcopali.
Per quanto riguarda Malamocco, saremmo portati ad aderire alla tesi del Kehr e del Cessi, a credere cioè non in un trasferimento del vescovo padovano a Malamocco ma in una fondazione ex novo. Sulla datazione della quale, rifiutata la congettura del Cessi, più plausibile appare quella del Kehr che pensa alla metà dell'VIII secolo, allorquando la sede del governo ducale venne spostata da Eracliana a Malamocco: "era ovvio che alla nuova sede ducale non potesse mancare una sede vescovile con una cattedrale, sicché è lecito collegare la fondazione del nuovo vescovado al trasferimento della sede del governo da Eracliana a Malamocco" (18). A fondamento dell'ovvietà qui invocata si può ricordare come già il canone 9 del concilio di Antiochia (341), che ebbe larga applicazione in Oriente, avesse disposto che il rango ecclesiastico di una città doveva modellarsi su quello politico (19).
Nel caso dell'isola di Olivolo accadde invece il contrario, cioè fu la sede episcopale, fondata attorno al 774-776, a precedere il trasferimento dei poteri civili. Alla base di quest'ultima fondazione vescovile si può comunque ipotizzare una crescita politica del nucleo realtino-olivolense ad opera soprattutto di rifugiati eracleesi filo-greci (20).
Come si vede, i tempi e i modi di formazione dell'intelaiatura diocesana lagunare sono ben lungi dall'essere delineati in modo soddisfacente. Ricorrere a nuove congetture, su una base archeologica e documentaria così carente, non appare produttivo.
La presenza a Grado di un presule datava dall'invasione longobarda del 569, in seguito alla quale il vescovo di Aquileia, Paolino, aveva abbandonato la sua sede riparando a Grado (21). Quest'isola insieme alle altre della laguna, alla fascia costiera e all'Istria era rimasta in mano bizantina, mentre la parte restante della provincia metropolitica di Aquileia era stata occupata dai Longobardi. Alla divisione politica seguì presto quella ecclesiastica: alla morte del vescovo Severo nel 6o7 il clero gradense del territorio bizantino che, fino ad allora aderente allo scisma dei tre capitoli come tutta la provincia aquileiese, era rientrato nell'obbedienza romana, elesse Candidiano, mentre il clero aquileiese della terraferma longobarda persistente nello scisma tricapitolino elesse l'abate Giovanni.
La frattura, in seguito alla quale i confini ecclesiastici vennero a coincidere con quelli politici esistenti fra territorio longobardo e territorio bizantino, venne rimessa in discussione quando, dopo il 695, Aquileia abbandonò la sua posizione scismatica rientrando in comunione con Roma. Il dualismo di titoli e giurisdizioni non aveva più ragione di essere e richiedeva di essere sanato. Nascevano i contrasti secolari fra le due sedi di Aquileia e di Grado.
Tra la fine dell'VIII e l'inizio del IX secolo le contraddizioni si fecero più acute. L'Istria, conquistata nel 770 dai Longobardi e incorporata poi nel regno franco, anche dal punto di vista ecclesiastico fu contestata all'area di pertinenza gradense e nell'827, nella sinodo di Mantova, fu riconosciuta ad Aquileia. La sinodo inoltre ripristinava l'unità dell'antica provincia riconoscendo il titolo di metropolita alla sola Aquileia e negandolo a Grado, ricondotta alla soggezione aquileiese: faceva propria cioè la tesi aquileiese, secondo cui i patriarchi avevano considerato Grado "ita ut unum proprium de titulis". Il colpo era gravissimo, ma tranne che per il possesso dell'Istria ebbe conseguenze limitate, giacché né la Curia romana si ritenne dalla sinodo vincolata né il governo imperiale ne trasse le dovute conclusioni. L'imperatore Ludovico II confermò al patriarca di Aquileia i diritti patriarcali sui vescovadi dell'Istria (e i suoi successori a lungo non andarono oltre tale concessione), mentre da parte papale si continuò a concedere agli eletti gradensi il pallio, simbolo della pienezza dei diritti arcivescovili.
Nel quadro della politica adottata dal duca Pietro IV Candiano, di indirizzo filoottoniano e animata da un nuovo interesse per la terraferma, si situa l'importante riconoscimento del patriarcato di Grado da parte di Ottone I. Sul finire del 967 una delegazione del doge e del patriarca insieme giunse a Roma, dove ottenne da Ottone I e dalla sinodo romana la conferma dello stato di fatto esistente da secoli, cioè il riconoscimento dei due patriarchi e delle rispettive giurisdizioni, gradense sulla laguna, aquileiese sulla terraferma già longobarda e sull'Istria. Il riavvicinamento di Venezia all'impero aveva ammorbidito l'opposizione Grado-Aquileia, e della favorevole situazione approfittò il patriarca gradense Vitale IV Candiano, che ottenne da Silvestro II e da Sergio IV il riconoscimento dei diritti metropolitici sulla Venezia e sull'Istria.
L'antagonista aquileiese non poteva rimanere ad assistere inerte. Probabilmente da parte di Giovanni di Aquileia ci fu una protesta e la richiesta di una nuova decisione conciliare. Di certo si sa che il patriarca di Grado venne convocato per ben tre volte alla sinodo, ma inutilmente. Il momento era nuovamente favorevole ad Aquileia, sul cui soglio era salito Poppone dei conti di Treffen. Questi nel 1024, approfittando di una crisi interna al ducato - in seguito a un'insurrezione popolare erano stati scacciati gli Orseolo, il doge Ottone e il patriarca Orso -, ritenne giunto il momento opportuno per invadere Grado, chiedendo a Roma il riconoscimento del fatto compiuto. Il neoeletto Giovanni XIX assentì ma in forma interlocutoria, confermandogli solo i diritti che Poppone avesse potuto provare; quando però, tre giorni dopo la partenza dei legati di Poppone, i messi del patriarca Orso Orseolo gli comunicarono il ritorno degli Orseolo e il rinnovato controllo di Grado, al pontefice non rimase che indire una nuova sinodo invitandovi i due patriarchi. La citazione venne accolta solo da Orso, il quale alla sinodo del Laterano del 1024 ottenne il riconoscimento della sua dignità metropolitica e la condanna dell'operato di Poppone. Per Grado tuttavia fu un successo solo parziale, poiché la sinodo non fece che confermare la situazione precedente l'invasione di Grado e non affrontò il nodo dei vescovadi dell'Istria.
La situazione tornò a capovolgersi con la discesa di Corrado II. Subito dopo l'incoronazione, questi fece convocare a Roma una sinodo che riconobbe a Poppone i diritti metropolitici su Grado (1027). Tale decisione era estremamente grave, perché negando a Grado il titolo di patriarca e perfino la legittimità di sede vescovile mirava a distruggere la Chiesa veneziana, cioè l'impalcatura ecclesiastica del ducato. E non si trattò di decisioni rimaste sulla carta, giacché ad esse seguì l'investitura di Poppone "de Gradu plebe sua". Poppone poté fare un'altra incursione a Grado, ma alla morte sua e di Corrado II la situazione politica mutò nuovamente. Nell'aprile del 1044 una sinodo appositamente convocata in Laterano, dopo aver ricapitolato le vicende che avevano visto Poppone come protagonista, annullava il privilegio del 1027 in quanto estorto con l'inganno e confermava a Grado la dignità patriarcale.
L'aggravarsi della situazione nei Balcani, che spinse Enrico III ad impegnarsi a fondo contro il regno di Ungheria, rese sempre più divergenti gli interessi imperiali da quelli della Curia pontificia, per la quale i problemi più urgenti erano i Normanni e i rapporti con la Chiesa di Costantinopoli. Il diverso orientamento spinse Leone IX a ricercare un più stretto collegamento con Venezia in vista di un compromesso con Bisanzio.
L'atteggiamento del tutto nuovo del papato fu favorito dall'elezione a patriarca di Grado di Domenico Marango, frequentatore dei concili romani, vicino a Umberto di Silvacandida e al partito riformatore, spesso impegnato al servizio della Curia. Nella sinodo romana del 1053, dopo averne lodato i buoni uffici, Leone IX concedeva al Marango un privilegio il cui testo non si è conservato ma che, come si è potuto stabilire, concedeva la dignità patriarcale e riconosceva il magisterium alla Chiesa di Grado; forse, come vuole il Dandolo, confermava l'uso del pallio e concedeva il di-ritto di farsi precedere dalla croce astile. Il papa inviava inoltre a tutti i vescovi della Venezia e dell'Istria uno scritto, poi definito "costituzione di Leone IX", una sorta di "Magna Charta" della Chiesa gradense, in cui si comunicava che la sinodo aveva riconosciuto Grado "Nova Aquileia" metropoli e caput di tutta la Venezia e l'Istria, e si ordinava di obbedire al Marango come al proprio primate e patriarca.
Era il trionfo completo di Grado. La sinodo accoglieva la teoria rivoluzionaria elaborata a Venezia che attribuiva a Grado la denominazione di Nuova Aquileia, cioè la riconosceva erede dei diritti e degli onori dell'antica, seconda in Italia per antichità solo a Roma. Ma anche se i successori di Leone IX confermarono sempre la sua costituzione, la contesa Grado-Aquileia non era per questo definitivamente risolta. Di fatto il patriarca di Aquileia, seppur ignorato per ottant'anni dalla Curia, continuò ad esercitare la giurisdizione metropolitica sulla Venezia longobarda e sull'Istria. Nel Io62, anzi, il patriarca Goteboldo fu investito da Enrico IV della signoria di Grado, dopo aver prodotto un "preceptum de plebe Gradensi" emesso da Enrico III; nel 1o81 l'imperatore concedeva ad Aquileia i vescovadi di Trieste e Parenzo, nel 1093 il diritto di nomina del vescovo di Pola.
Dopo una prima fase segnata da rapporti cordialissimi con Gregorio VII, le relazioni si deteriorarono già a partire dal 1076, in seguito ai divergenti interessi in Dalmazia e in Croazia e al riavvicinamento del ducato al Regno. In conseguenza di ciò pure l'atteggiamento del papa nei confronti dell'antica rivale di Grado, Aquileia, mutò. Anche con Urbano II gli interessi politici conducevano in direzioni opposte la Curia e Venezia, favorevole a Enrico IV.
Dopo l'elezione di Pietro Badoer a patriarca di Grado, la sede apostolica tentò di legare a sé questo prelato riformatore al quale, nell'inviare unitamente a un privilegio il pallio (dispensandolo così dal venire a Roma a riceverlo: cosa eccezionale), concesse anche il vicariato apostolico nel patriarcato. Questa concessione fu di grande significato giacché il vicariato, anche se presto avrebbe perso valore, non era qualcosa di onorifico ma sollevava di molto colui che ne veniva investito rispetto ai suoi colleghi di pari grado e rafforzava l'autorità del metropolita attraverso l'autorità apostolica (22).
I favorevoli rapporti fra la Curia e il patriarcato si mantennero con i successori di Urbano II, ma un grosso mutamento si verificò con Innocenzo II. Da Leone IX in poi i pontefici avevano riconosciuto come legittimi patriarchi ed eredi dell'antica Aquileia i presuli gradensi, negando all'aquileiese il titolo patriarcale. Il riavvicinamento tra Roma e l'Impero permise al patriarca di Aquileia di ottenere da Innocenzo II un privilegio che lo annoverava tra i primati e gli concedeva il titolo di patriarca e il pallio confermandogli, oltre ai vari episcopati e ai diversi possessi, anche i diritti sull'Istria: messa da parte l'ambizione di Grado di essere l'unica sede patriarcale e le sue pretese metropolitiche sull'Istria, si ritornava alle posizioni del X secolo (23).
La nuova situazione si rispecchiò nel privilegio che ottenne nel 1135 il nuovo patriarca di Grado Enrico Dandolo (24). Innocenzo II, dopo un significativo invito all'equità e dopo la condanna di ogni tipo di prevaricazioni, faceva al Dandolo le consuete concessioni ma con una riserva, cioè limitandole ai soli confini riconosciuti dai suoi predecessori alla Chiesa gradense; riserva vaga, come notava il Kehr, che poteva in ogni caso essere utilizzata anche contro Aquileia. Durante il suo lungo patriarcato Enrico Dandolo ottenne dai papi che si succedettero i soliti privilegi, ma per quanto riguarda l'Istria, antico terreno di scontro con Aquileia, dovette cedere a Udalrico di Treffen, patriarca aquileiese dal 1161, abile diplomatico (25). A Udalrico di Treffen, che nella lotta fra Federico I e Alessandro III si era schierato con quest'ultimo, il papa concesse un ampio privilegio che gli riconosceva non solo i sedici episcopati tradizionali di terraferma suffraganei del patriarca di Aquileia, ma anche l'episcopato di Capodistria e la chiesa di S. Giorgio di Venezia. Fu lui il vero vincitore del compromesso che nel 118o mise fine ai secolari contrasti con Grado: venute meno le storiche pretese nei confronti del patriarcato aquileiese, Enrico Dandolo dovette rinunciare in favore di Aquileia ai diritti metropolitici sui vescovadi istriani (pur mantenendo i redditi dell'episcopato di Capodistria) e perfino al tesoro sottrattogli da Poppone all'epoca delle sue incursioni.
I fatti ora narrati sono stati più volte illustrati nelle opere di sintesi e in particolare analizzati dal Lenel, dal Kehr, dal Cessi, dallo Schmidinger, dal Niero e dal Violante (26). Quest'ultimo, riprendendo lo studio del Kehr in Italia tuttora gravemente ignorato, ha considerato l'ampio contesto storico in cui le vicende del secolo XI si situarono (27), mentre il Cessi dal canto suo ha ricostruito minuziosamente le varie fasi di elaborazione della cosiddetta teoria gradense, quella che intendeva fornire un sostegno giuridico alle pretese del patriarcato di Grado interpretando quest'ultima come Nuova Aquileia, unica erede dell'antica (28).
Il punto culminante dell'affermazione del patriarca gradense fu la sinodo romana del 1053. Subito dopo di essa Domenico Marango, "pieno d'ingenuo orgoglio" (29), scriveva al patriarca di Antiochia Pietro III che le loro due sedi avevano una comune origine marciana e che la propria, in Italia, aveva ricevuto dallo stesso san Pietro l'onore del titolo patriarcale e il diritto di sedere alla destra del papa ecumenico nel concilio romano. L'affermazione fa sorridere, e anche Pietro III con una certa qual superiorità rispondeva di conoscere solo cinque patriarchi (cioè di Alessandria, Antiochia, Costantinopoli, Gerusalemme, Roma): gli suonava del tutto nuovo che i vescovi di Aquileia e Grado venissero così denominati.
La realtà era infatti diversa: il presule gradense ripeteva dalla sede aquileiese il titolo patriarcale che nel serrato confronto con questa era riuscito a conquistarsi. Ma questo titolo, per i metropoliti di Aquileia e Grado, era "un vuoto giochetto" (30) al quale non corrispondevano né diritti né poteri. Come ha dimostrato Horst Fuhrmann (31), l'appellativo di patriarca per i primi vescovi aquileiesi s'era affermato come uso locale. A quell'epoca esso non aveva ancora in Occidente l'esattezza terminologica che già aveva assunto in Oriente e che ne delimitava le possibilità d'utilizzazione. Mentre nelle altre chiese occidentali l'uso decadde, ad Aquileia lo scisma tricapitolino permise che il titolo venisse conservato grazie al forte senso di autocoscienza della chiesa aquileiese. La contesa Aquileia-Grado contribuì poi a far sì che entrambe le sedi, attraverso questo titolo, intendessero affermare la loro tradizione di metropoliti dell'intera Venezia ed Istria. Ma il titolo di cui si fregiavano era un semplice relitto dell'età precedente e non aveva niente a che vedere con l'istanza intermedia fra papa e metropoliti che attraverso la ricezione delle pseudoisidoriane divenne tecnica anche in Occidente; tanto che Odescalco di Augusta, del vescovo di Aquileia, poteva affermare che "abusive patriarcha vocatur" (32).
Il patriarca di Grado godeva di una praerogativa honoris, di una prerogativa onorifica (33), ma la sua posizione reale era quella di un semplice metropolita preposto a semplici vescovadi. Alla distanza fra titolo e rango effettivo si ovviò solo nel 1155, quando Adriano IV, constatando la limitatezza del patriarcato (ex brevitate patriarchatus) e intendendo elevare il presule a un grado gerarchico corrispondente al suo titolo (ad ampliandam dignitatem), sottopose a Grado l'arcivescovado di Zara (34).
Ma non era solo questione di grado gerarchico. Nell'XI secolo la sede gradense, che era stata invasa e saccheggiata da Poppone due volte, versava in tale povertà che lo stesso Domenico Marango, come poi il suo successore Domenico Cerbani, era stato tentato di abbandonarla: "propter nimiam egestatem locum deserere voluisse" (35). Nella stessa lettera del 1074 in cui lo ricordava, Gregorio VII lamentava ancora la miseria e la crisi di autorità che pativa il patriarcato, indegno persino di una "semplice sede episcopale". Ad aggravare la situazione era forse intervenuta la tensione intermittente fra il ducato veneziano e i pontefici, fautori di una politica nei confronti sia dell'Impero sia dell'Oriente non coincidente con gli interessi veneziani, tensione che poté riflettersi nei rapporti con il patriarca Domenico Marango, uomo di fiducia della sede apostolica (36). Tuttavia, la debolezza del patriarcato non dipendeva unicamente dalla congiuntura politica ma aveva caratteri strutturali.
Dopo la divisione politica a seguito dell'invasione longobarda, dell'antica circoscrizione aquileiese era rimasta di obbedienza gradense la fascia bizantina, e cioè la costa con le isole. Ma qui erano venute costituendosi o ricostituendosi le diocesi lagunari che di fatto impedirono la formazione di una diocesi gradense degna di questo nome: il 'patriarcato' di Grado non si estendeva oltre l'isola omonima e qualche isoletta vicina (37). Difatti, su null'altro se non sulla Gradensis insula si appuntarono le mire del patriarca aquileiese Poppone, che nel 1024 riuscì a farsela riconoscere da Giovanni XIX (38). Ancora più esplicite sono le lettere di Pasquale II (1109-1115) che denunciavano la mancanza di una vera e propria parochia (cioè di una diocesi) dalla quale il patriarca di Grado potesse trarre sostentamento e potesse vivere all'altezza del suo rango (39). La mancanza di una propria circoscrizione costringeva il patriarca a vagare dall'una all'altra delle diocesi suffraganee provocando le proteste dei vescovi della sua provincia(40).
L'annunciato invio da parte di Pasquale II di un legato apostolico che, col consiglio del duca e di altri maggiorenti locali, provvedesse di una parochia il metropolita gradense (41) non dovette essere risolutore. Di interventi di questo genere non si ha infatti notizia e il problema parochia rimase, anche se riproposto in termini nuovi.
L'esito dell'antica consuetudine di itineranza del patriarca gradense fu, in un momento difficilmente precisabile ma forse posteriore alle lettere papali citate, il suo definitivo trasferimento a Rialto presso la chiesa di San Silvestro di sua proprietà, nella diocesi di Olivolo/Castello. La scelta di Rialto rispetto ad altri patrimoni disseminati nelle diocesi lagunari era determinata dalla forza di attrazione che esercitava l'isola come centro politico del ducato, ma dal punto di vista ecclesiastico concentrò nella diocesi castellana la conflittualità di tipo giurisdizionale che fino agli inizi del secolo si era manifestata nei confronti di un po' tutti i comprovinciali.
Il primo contrasto a noi noto risale al 1041 e riguarda la chiesa dei SS. Gervasio e Protasio, che sia il patriarca sia il vescovo castellano rivendicavano e che per decisione del duca venne riconosciuta soggetta equamente a entrambi (42). Di lì a poco, cioè nel 1053, il vescovo otteneva da Leone IX un privilegio il cui trasparente obiettivo era di limitare l'invadenza patriarcale nei diversi ambiti di esercizio della giurisdizione episcopale (43); ma ciò non fu sufficiente a evitare l'interferenza del patriarca nella diocesi di cui era ospite.
Alla metà del XII secolo il contrasto rinfocolò nutrendosi delle rivalità fra gruppi familiari e partiti politici di cui rispettivamente il patriarca Enrico Dandolo e il vescovo Giovanni Polani furono emanazione (44). Un primo scontro si ebbe attorno al 1140 in seguito all'erezione in canonica regolare della chiesa di S. Salvatore, che ottenne l'appoggio del patriarca ma incontrò l'opposizione del Polani, il quale sentì minacciata la sua giurisdizione (45). Quattro anni dopo, a distanza di dieci giorni l'uno dall'altro, venivano erogati due privilegi, il primo al Polani il secondo al Dandolo. Mentre quest'ultimo si risolveva in una semplice conferma del privilegio del 1135, con un'aggiunta riguardante i possessi in Costantinopoli, in Istria e nelle Venezie guadagnati alla mensa patriarcale dai predecessori del Dandolo (46), il privilegio indirizzato al Polani fu una vera e propria "sentenza giudiziaria contro le pretese del patriarca" (47): aprendosi con un'arenga in cui si ricordava il divieto di usurpare i termini di altro vescovo, di giudicare o scomunicarne i parrocchiani, esso confermava, ma precisandoli e definendoli, i diritti riconosciuti al vescovo di Olivolo nel 1053 (48).
A un'altra lite sempre di natura giurisdizionale, intercorsa negli anni Cinquanta fra il vescovo Polani e il Dandolo, accenna un più tardo atto del 1191 (49). Talora sollecitato dagli stessi laici fondatori di chiese od ospedali che a lui si rivolgevano perché ponesse la prima pietra (50), ma il più delle volte per sua iniziativa, il patriarca tendeva a ritagliarsi all'interno della diocesi castellana la parochia di cui era sprovvisto. Alla fine del XII secolo egli amministrava gli spiritualia in cinque chiese cittadine (51), poi oggetto di contestazione da parte del vescovo castellano, che ripetutamente le rivendicò. Ma ancora da parte papale si denunciava lo stato di necessità del patriarcato, tale da non aver paragone neppure con episcopati posti in città mediocri (52). Solo nel 1451, con la soppressione del titolo gradense e del titolo castellano e con la creazione del patriarcato di Venezia, si risolse definitivamente il problema della parochia del patriarca e insieme quello dei suoi rapporti con l'ordinario diocesano.
Nimia egestas, tanta inopia, exiguitas metropolis, brevitas patriarchatus, amplianda dignitas: queste espressioni, ricavate tutte da lettere papali, nella loro monotonia pongono in evidenza la precarietà strutturale di cui soffrì l'istituto patriarcale nelle Venezie (53). Nata per scissione dall'antica metropoli aquileiese, Grado dovette lottare fino all'XI secolo sul piano politico e della riflessione teorica per veder definitivamente acquisito il suo diritto all'esistenza. Ma continuò a mancare di mezzi di sussistenza, di una circoscrizione degna di questo nome, di un'autorità adeguata al suo grado gerarchico. Un patriarcato, insomma, che non era patriarcato né per potere né per ricchezza, ed era quasi inferiore ad una 'semplice sede episcopale'. Un involucro vuoto che non si poté o non si volle riempire.
Accanto alle difficoltà oggettive di ampliamento della circoscrizione gradense, operazione né semplice né indolore per vescovi che già soffrivano di sovraffollamento (54), si può pensare almeno episodicamente a una certa renitenza da parte dei pubblici poteri. Si è già visto che il dogato, pur facendo propria la causa di Grado contro Aquileia, non si mosse in costante e perfetta unità d'intenti con il patriarcato, specie quando prelati riformatori come Domenico Marango o Pietro Badoer si fecero interpreti e protagonisti della politica pontificia, talora non coincidente con quella ducale a proposito di Normanni e Bizantini. La mancanza di 'volontà politica' risalta chiaramente dalle lettere di Gregorio VII e di Pasquale II, il primo dei quali accusava i veneziani di essere 'ingrati e immemori del munifico beneficio divino', il secondo minacciava di privare dell'onore patriarcale la loro provincia, la cui nobiltà era gravemente offesa dall'indegno stato di abbandono di Grado (55). Altri indizi la confermano, ad esempio la negligentia a causa della quale, all'epoca del duca Domenico Contarini (metà del secolo XI), la dotazione di un appannaggio per il patriarcato di Grado non ebbe esecuzione (56). La sede ducale, sempre interessata al controllo della carica patriarcale monopolizzata, per quanto è possibile finora giudicare, da membri delle famiglie al potere, si servì del patriarcato per garantire l'unità e l'autonomia dello stato veneziano prima, come braccio ecclesiastico nelle sue conquiste dalmate e nella penetrazione nel Levante poi (57). Entro la cornice patriarcale, però, altri erano gli interlocutori del potere, dalla cappella palatina di San Marco ai monasteri di San Giorgio Maggiore e di San Nicolò del Lido.
Nonostante tutto ciò le strutture metropolitiche ebbero una tenuta di gran lunga maggiore che in tutte le altre province d'Italia. Lo testimonia la ricca serie di promissioni vescovili, cioè di giuramenti di obbedienza prestati dai vescovi eletti al patriarca, che nessun altro archivio italiano pare finora conservare (58). Dalle promissioni veneziane, molto più dettagliate delle superstiti promissioni fatte ad esempio al patriarca di Aquileia o all'arcivescovo di Spalato (59), si possono ricavare preziosi elementi particolari, come la persistenza della norma relativa alla convocazione della sinodo provinciale due volte all'anno, ma in generale ciò che più colpisce è la rigida formulazione della soggezione al patriarca. Questa considerazione e il fatto che il numero di testimonianze circa locali sinodi provinciali, pur inferiore al numero di sinodi effettivamente tenute, è rilevante, hanno indotto il Kehr a parlare di una "straffe Organisation", di una Chiesa locale rigidamente organizzata (60).
È facile pensare che ciò avvenne in virtù delle caratteristiche proprie del patriarcato gradense: l'inconsistenza e quasi inesistenza territoriale costrinse i presuli a incombere con la loro presenza nelle diocesi lagunari - ricordiamo le loro peregrinationes e le conseguenti proteste dei vescovi stigmatizzate da Pasquale II -, spingendoli a mantenere e sviluppare quelle relazioni di dipendenza che l'antica costituzione ecclesiastica aveva sancito. Tanto più la funzione unificante del patriarcato fu esaltata in quanto ne risultava irrobustita la stessa struttura statuale del ducato, che veniva rafforzata dalla coincidenza della circoscrizione politica con quella ecclesiastica. In conclusione il patriarcato, altrimenti negato (610, si affermò come struttura essenzialmente funzionale, di inquadramento e disciplinamento del frammentato e policentrico mondo ecclesiastico lagunare.
Irrisolta per il momento la questione delle origini, restano da considerare i caratteri dell'organizzazione diocesana lagunare che nella seconda metà del IX secolo appare ormai stabilizzata. Innanzitutto, va rilevata la densità degli episcopati: in una fascia ristretta come la lagunare si affollavano ben sei sedi vescovili e una sede metropolitica, tutte, ad eccezione di Torcello e di Malamocco, delle dimensioni di una microdiocesi. Questa caratteristica, assolutamente inconsueta nell'Italia settentrionale, assimilerebbe piuttosto la laguna all'Italia centro-meridionale, dove le diocesi furono più piccole e più numerose. Per questa parte d'Italia tale prerogativa è stata fatta scaturire dall'intensa municipalizzazione ivi progettata e coerentemente attuata da Roma dopo il bellum sociale degli anni 91-89 a. C.: nello sviluppo dell'organizzazione ecclesiastica del territorio la densa urbanizzazione influenzò direttamente la creazione delle sedi episcopali - com'è noto istituite nelle città -, il cui reticolo risultò ben più fitto rispetto all'Italia annonaria (62).
Per l'area lagunare la situazione era naturalmente diversa, giacché non vi era un preesistente impianto urbano che potesse giustificare la creazione delle sedi episcopali. Per spiegare l'anomalia il Kehr faceva riferimento all'isolamento in cui si trovarono le comunità: il carattere insulare determinò l'ambito di vita comunitario e le comunità costituirono gli episcopati. A sostegno di tale ipotesi il Kehr ricordava anche il caso dell'isola di Murano, che attorno alla metà del secolo XI tentò e momentaneamente riuscì ad ottenere la promozione ad episcopato (63). E evidente però che per spiegare la densità delle diocesi veneziane non si può prescindere dal processo stesso della loro formazione: in almeno tre casi, se non in quattro, lo stato di necessità, cioè il confluire del patriarca di Aquileia-Grado e dei vescovi di Oderzo, di Altino e forse di Concordia nelle propaggini lagunari delle loro diocesi originarie, diede vita a istituzioni parallele a quelle della terraferma creando, stante la difficoltà di ritornare nella sede originaria, una situazione di fatto difficilmente modificabile. In occasione poi dell'erezione in episcopato di Malamocco, se non si ammette la traslazione da Padova bensì la creazione ex novo nella nuova sede del ducato, le ragioni di prestigio e di opportunità politica prevalsero sui canoni che vietavano la creazione di sedi episcopali in villaggi o in modeste città. Non è forse inopportuno rilevare che la Venezia marittima fu un'area di frontiera, e che anche in altre zone di confine dell'impero bizantino, anche se in un'epoca più tarda, si assistette a una proliferazione degli episcopati coerente con le esigenze della difesa militare (64). Fu il caso della costa calabra dove, a seguito della seconda colonizzazione bizantina (88o), su un fronte di 300 Km trovarono posto come "autentico baluardo difensivo" almeno 15 diocesi (65). Una vera e propria fioritura di micro-diocesi si ebbe nella vicina costa istriana e dalmata: Capodistria, estesa a due soli oppida, la perangusta Emona, l'exiguus vescovado di Pedena in Istria (66) e le isole-vescovado di Arbe, Veglia, Ossero in Dalmazia. La scarsità delle notizie e degli studi a loro riguardo (67) non permette di istituire validi paragoni con la situazione veneziana ma solo di richiamare un dato generalissimo delle loro vicende successive, di ricordare cioè che l'esistenza di queste diocesi fu estremamente precaria, al punto che presto o tardi esse furono soppresse (68). Una stessa semplificazione, le cui avvisaglie si manifestano in piena età medievale, subirono gli episcopati veneziani: al patriarcato di Venezia, costituito nel 1451 unificando patriarcato di Grado ed episcopato di Castello, furono congiunti Torcello e Caorle nel 1818, mentre già nel 1466 Jesolo era stato soppresso e aggregato a Cittanova.
Non è facile ricostruire i confini delle sei diocesi strette fra la sottile fascia costiera e il tenue praetentum litus lagunare (69). Le circoscrizioni più estese erano quelle di Torcello e Malamocco nella laguna centro-meridionale, mentre più ristrette erano le diocesi di Caorle, Cittanova Eracliana e Jesolo. Lo spopolamento periferico determinatosi fra IX e XI secolo in seguito al gravitare, per ragioni politiche ed economiche, sulle isole centrali della laguna, colpì in modo particolare questa fascia, accelerandone anche il degrado fisico. Dopo le distruzioni subite nei secoli VIII e IX, Cittanova conobbe una decadenza politica e ambientale che portò ad accentuarne gli aspetti rurali rispetto a quelli urbani (70); anche Jesolo all'inizio del secolo IX dava segni di flessione, mentre il rapido tramonto di Caorle le cui tracce documentarie nei secoli centrali del Medioevo sono limitatissime, ne rende tuttora difficile l'ubicazione (71).
Le fonti dei secoli IX-X tradizionalmente utilizzate per lo studio del territorio, e cioè i cosiddetti pacta con l'Impero degli anni 84o, 967 e 983 (72), forniscono anche utili indicazioni sulla rispettiva consistenza delle sei diocesi. Dal confronto delle liste dei populi citati nei pacta risulta con evidenza che nelle diocesi di Olivolo (detta poi di Castello), di Cittanova Eracliana, di Jesolo e di Caorle si trovavano da uno a due centri del ducato di una qualche importanza (inclusa la città vescovile), mentre molto più ricche di insediamenti politicamente e demograficamente significativi, da quattro a sei, erano le diocesi di Torcello e di Malamocco. Non è forse un caso se nel 11o8 i monaci di S. Cipriano, costretti ad abbandonare il proprio monastero minacciato dalle intemperie e dalle maree, ottennero dal duca Ordelaffo Falier di trasferirsi appunto nelle diocesi di Torcello o di Malamocco (73). In tale concessione, più precisa rispetto all'autorizzazione patriarcale riguardante la generica provincia (74), si possono intravvedere ragioni pratiche di agibilità e insieme l'opportunità di non emarginare il monastero fuori delle aree politicamente, economicamente e socialmente più vitali del ducato.
Torcello e Malamocco sono anche le due diocesi che dal punto di vista ecclesiastico rivelano un'intelaiatura solida e per molti versi tradizionale. Attorno alla fine del secolo XI la situazione idro-geologica della regione di Malamocco si aggravò al punto che Malamocco venne distrutto e i suoi abitanti si spostarono in Malamocco nuovo (75). Le conseguenze dal punto di vista ecclesiastico furono la traslazione dell'episcopato (76), il trasferimento del priorato di S. Cipriano a Murano, in diocesi torcellana, e del monastero dei SS. Leonardo ed Erasmo, SS. Basso e Leone nell'isola di S. Servolo in diocesi castellana (77). La traslazione dell'episcopato, prima a Malamoco nuovo poi a Chioggia, non ebbe comunque conseguenze sull'assetto complessivo della diocesi, tipologicamente assimilabile, come si vedrà, a quella torcellana.
Sotto più riguardi Torcello occupava una posizione particolare. Sulla terraferma, nei confini politici del Regno, aveva estese proprietà e ivi giaceva la stessa antica sede altinate, dalla quale ancora ai primi dell'XI secolo l'episcopato si denominava (78). Con il Regno, Torcello ebbe rapporti più stretti di tutte le altre diocesi lagunari; basti pensare che alla fine del IX secolo sedeva sulla sua cattedra il bavarese Giselberto figlio di Carlomanno il quale, in una lettera indirizzata al vescovo di Pavia, parlava della communis domina Angilberga, vedova dell'imperatore Ludovico II, e annunciava l'invio di un prete di Altino, che Angilberga gli aveva richiesto per il monastero pavese di S. Marino (79): segno di una circolazione di uomini e di esperienze ancora possibile in quegli anni. Inoltre, la menzione nel diploma di Federico I in favore di Torcello (8o) di un precedente diploma di Corrado II, cioè dell'imperatore che era stato strenuo fautore del patriarca Poppone contro Grado, ha spinto il Bresslau a ipotizzare che Torcello, in una fase acuta della lite Grado-Aquileia, si fosse schierata almeno temporaneamente con Aquileia e con l'imperatore (81).
Proprio per i suoi interessi nel Regno l'episcopato fu destinatario di numerosi diplomi a protezione dei suoi possessi, rilasciatigli precisamente da Carlo Magno, da Lotario I, da uno degli Ottoni, da Corrado II, verosimilmente da Enrico IV, infine da Federico I. Questa sua presenza patrimoniale lo accomunò a quei monasteri veneziani che s'infiltravano con i loro possessi nella terraferma, anch'essi destinatari di diplomi, e fu importante tramite per il contatto con personalità e istituti del mondo della 'Langobardia'. Si considerino ad esempio i legami con i conti di Treviso, avvocati dell'episcopato torcellano (82), o la familiarità con la decima prediale, sconosciuta invece a Rialto: il diploma di Federico I citava con larghezza chiese con terre, selve e decime, prescrivendo nella sua parte finale l'annuo pagamento delle decime delle messi e del bestiame "per totam Altinensem parochiam". Decime prediali sono attestate anche nella diocesi di Cittanova per la località Marsiliacus (83), probabilmente sulla terraferma anche se non necessariamente entro i confini del ducato; insieme ad esse, il diploma in favore di Torcello testimonia l'infiltrazione, entro la provincia ecclesiastica lagunare, di un sistema di decimazione diverso da quello basato su quella decima personale (la decima dei beni mobili versata dai singoli alla propria chiesa) che, secondo i decretasti, "maxime in Venetiarum partibus cernitur custodire" (84).
Ultimo ad acquisire caratteri veneziani, l'episcopato torcellano costituì una sorta di ponte fra l'Italia e Venezia, e svolse un ruolo di cerniera fra il ducato e l'Impero (85).
Solo per la diocesi di Torcello è possibile delineare un quadro completo delle pievi e precisare per almeno due di esse il numero di cappelle dipendenti. Per Malamocco sihanno notizi frammentarie, mentre per le restanti diocesi - ad eccezione di Olivolo/Castello, che è un caso da valutare a parte - i dati sono del tutto insufficienti e non integrabili neppure con le Rationes decimarum, che sono di scarso aiuto nel disegnare la mappa ecclesiastica lagunare.
Da un privilegio papale del 1064 la diocesi di Torcello risultava comprendere sette pievi, precisamente nel lido Bovense, ad Ammiana, Costanziaco, Burano (due), Mazzorbo e Murano (86). L'elenco venne ripetuto tal quale nei privilegi del 1106 di Pasquale II e di Urbano III del 1187 (87) ma, a dimostrare la staticità di questo tipo di documentazione rispetto alla realtà in evoluzione, in un documento riguardante una controversia tra il vescovo e i suoi pievani degli anni 1136-115 I si parlava delle "otto pievi dell'episcopato". L'atto di composizione della lite veniva sottoscritto da altrettanti plebani, tra i quali uno solo di Burano, due di Murano e due di Costanziaco (88).
Fino al 1054 dipendevano dalla pieve di S. Maria di Murano quattro cappelle, alle quali entro il i o68 se ne aggiunse una quinta (89), posta sempre in Murano. Dalla pieve di S. Lorenzo di Ammiana dipendevano nel 1185 quattro cappelle (90) ma, se dobbiamo prestar fede alla tradizione cronachistica, in origine dipendevano da essa anche i SS. Sergio e Bacco e i SS. Massimo e Martelliano di Costanziaco (91), le due chiese che nel 1151, nella composizione tra il vescovo torcellano e i suoi plebani, sono presentate come pievi.
Una prima constatazione s'impone: contrariamente a quanto era stato ipotizzato (92), anche l'area lagunare conobbe il sistema dell'organizzazione ecclesiastica rurale 'a pieve', il tipo "plebs cum capellis" largamente diffuso sulla terraferma. Alla pieve in quanto chiesa battesimale spettarono prerogative e onori determinati, noti per S. Lorenzo di Ammiana (93) e per S. Maria di Murano, per la quale vennero a più riprese ribaditi (1054, 1109, 1120, 1153, 1172, 1189) (94). La pieve poté avere l'estensione di un'isola (Torcello, Mazzorbo), di uno o di più gruppi insulari: Murano comprendeva almeno nove isole, la pieve di Ammiana tre (95) e, stando al Chronicon Altinate, si sarebbe estesa al gruppo di Costanziaco.
Anche in diocesi torcellana il sistema pievano non fu statico ma si modificò in relazione con le vicende del popolamento, come testimonia la nascita di alcune pievi o la decadenza di altre. E come avvenne sulla terraferma, anche qui alcune cappelle manifestarono presto la tendenza all'emancipazione: S. Stefano di Murano, nominata nel 1151 fra le pievi, nel 1054 e nel 1109 aveva dovuto riconoscersi come soggetta alla plebs di S. Maria, e nel 1153, nel 1172 e nel 1189 ancora combatteva per affermare (senza successo) la sua completa indipendenza (96). Probabilmente lo stesso processo si verificò a Costanziaco: se si accetta la notizia del Chronicon Altinate, le sue due chiese vennero assoggettate dai fondatori a S. Lorenzo di Ammiana. La menzione, nel 1064, di una pieve "Costanciensem" e nel 1151 di due plebani a Costanziaco fa pensare a una promozione delle due chiese motivata dalla crescita anche politica del centro (i Constancienses appaiono menzionati per la prima volta fra i populi del ducato nel pactum con Enrico V del 1110) (97). Rispetto a S. Stefano di Murano, l'emancipazione fu probabilmente facilitata dall'individualità del gruppo insulare di Costanziaco rispetto a quello di Ammiana.
Anche nella diocesi di Malamocco si diffuse il sistema pievano, come attestano menzioni sintetiche di plebani (12 nel 1044) (98), o di plebes (1110) (99), e sparse indicazioni per le pievi di Chioggia Maggiore e Minore (100), di Pellestrina(101) e per i plebani di Loreo (102). La menzione, nel 1180, di un prete "pievano delle chiese di Pellestrina"103) potrebbe inoltre far pensare all'esistenza in quest'ultima di più cappelle, che tuttavia non sono altrimenti documentate.
Valutare le strutture di base della diocesi castellana è molto più difficile. Con particolare riferimento alla situazione realtina è stata infatti formulata l'ipotesi dell'inutilizzabilità dello schema pieve-cappelle, chiesa madre-chiese dipendenti, per affermare le prerogative immediatamente parrocchiali delle chiese veneziane: " nell'ambito realtino [...> manca quasi assolutamente la piccola chiesa sottomessa alla pieve" (104).
Bisogna innanzitutto precisare che il concetto di chiesa matrice, presente a Murano (105), non fu ignoto neppure a Venezia, dove è documentato in riferimento alla chiesa cattedrale di S. Pietro (106) E proprio in un documento in cui si qualificava S. Pietro ecclesia matrix si precisavano gli obblighi nei suoi confronti - obsequia e partecipazione alle cerimonie in essa celebrate il giovedì santo e in tutte le altre festività, "quando alii clerici Castellani Episcopatus ad nostram matrem Ecclesiam ve
niunt" (107) -, obblighi che rinviano alle tipiche prestazioni e agli honores dovuti alla matrice da parte delle chiese dipendenti. Il fatto che il concetto di matrice fosse operante anche nella diocesi castellana ma applicato nella sua accezione originaria, cioè ai soli rapporti di S. Pietro con le altre chiese realtine, si può giustificare ricordando che nella Chiesa primitiva la cattedrale fu l'unica ecclesia mater di una diocesi, cioè l'unica fornita di battistero e della pienezza dei diritti di cura animarum. La ristrettezza della diocesi castellana, che in massima parte coincideva con la civitas Rivoalti (e nel XIV secolo si dirà, quasi come in un'equazione, "in civitate Venetiarum sive diocesi Castellana" (108)) fece sì che in essa non si verificasse la decentralizzazione della cura d'anime con lo sviluppo di pievi vere e proprie, secondo il caratteristico processo della terraferma, ma permanesse invece l'unica matrice originaria, la cattedrale. L'unità della parochia attorno al suo vescovo e alla sua chiesa risalta da un passo del citato privilegio di Lucio II del 1144, in cui il vescovo appare come unico ministro degli spiritualia e in quanto tale unico destinatario delle decime diocesane (109).
Ancora più significativo il confronto fra la struttura di questo privilegio e quelli concessi ai vescovi di Torcello: mentre la diocesi torcellana si presenta come un insieme relativamente ordinato di monasteri, plebes e cappelle specificamente enumerate secondo lo schema classico delle diocesi di terraferma, la diocesi di Castello, accanto ai monasteri, presenta un appiattito profilo di semplici, indistinte ecclesiae.
La supremazia formale della cattedrale non esclude che alcune chiese comprese nella città-diocesi castellana potessero godere di prerogative più o meno ampie rispetto a quelle dei semplici tituli. Il fatto che la cattedrale fosse relativamente recente, posteriore come pare ad altre chiese dell'area realtina, potrebbe indurre a ritenere che prima di essa le funzioni di cura d'anime fossero esercitate altrove. L'ipotesi è stata ragionevolmente formulata per S. Maria Formosa, una delle chiese realtine più antiche e più importanti (110).
Va subito detto che manca qualsiasi indizio a sostegno di questa ipotesi. Anzi, dati come quelli relativi alla distribuzione delle decime, sui quali si ritornerà, non indicano per alcuna chiesa una posizione di supremazia, e allo stesso modo sono interpretabili due liste delle chiese soggette alla Chiesa castellana risalenti ai primi del Trecento, che equiparano tutte le chiese negli obblighi e nelle visite alla cattedrale, compreso il Sabato santo e il Sabato di Pentecoste "pro baptismo faciendo" (111).
Assoluta mancanza di indizi anche a proposito delle funzioni 'immediatamente parrocchiali' di tutte le chiese realtine(112): solo a partire dalla metà del secolo XI e in modo del tutto frammentario è documentato un certo grado di autonomia di singole chiese, in possesso di diritti di sepoltura, teoricamente spettanti alla matrice (1060) (113), di ampi diritti in campo matrimoniale (1184) e forse della facoltà di battezzare (114), facoltà quest'ultima sicuramente attestata, per una chiesa non delle maggiori, nel 1251 (115) .
Piuttosto, a una dinamica in senso parrocchiale, cioè a un processo di trasformazione delle singole chiese in parrocchie attraverso l'acquisizione di diritti propri della chiesa matrice, potrebbe far pensare il graduale passaggio dal titolo di vicario al titolo di plebanus nel designare i rettori delle diverse chiese cittadine. Tale mutamento, avvenuto a Venezia tra la metà dell'XI e l'inizio del XII secolo (116), può essere letto alla luce della coeva, più abbondante documentazione muranese, di argomento contenzioso e quindi attenta alle sfumature terminologiche (117) . In essa vicario e plebanus trovano una precisa accezione, indicando il primo i rettori delle chiese dipendenti dalla matrice, il secondo il rettore della chiesa battesimale. Su questa base si potrebbe ipotizzare che a partire dalla metà del Mille le chiese veneziane avessero assunto nuovi compiti pastorali, ma in quale misura è impossibile precisare. L'affermazione di plebanus fu comunque progressiva, . come testimoniano l'alternanza dei due titoli nella stessa persona o nella stessa chiesa e la sporadica presenza del termine vicario ancora nel XIII secolo (118), a indicare una non del tutto oscurata coscienza dell'unità spirituale e temporale della Chiesa castellana attorno al suo vescovo.
I criteri di distribuzione delle decime (decime personali, versate una tantum, normalmente alla morte: lo si vedrà) riflettono i caratteri 'ambigui' dell'ordinamento parrocchiale veneziano, e le controversie ad essi relative confermano il cammino dall'originaria unità della diocesi/parrocchia all'acquisizione di maggiore autonomia delle singole chiese.
Come s'è accennato, destinatario delle decime fu il vescovo. Nel distribuirle, questi seguiva la tradizionale quadripartizione gelasiana assegnandone un quarto al clero, uno a se stesso, uno ai poveri e uno al restauro delle chiese (119). Anche un privilegio di Alessandro III, ora perduto, riconosceva al vescovo la disponibilità dei tre quarti delle decime (escluso il quarto clericale) (120), ma non bastò a sedare le dissensiones e gli scandala che, in materia di decime, agitarono il clero castellano negli anni Settanta del XII secolo. Per ovviare ai quali, nel 1181, il vescovo Filippo Caysolo dovette dichiarare di accontentarsi, oltre che del proprio quarto, di un quarto delle due parti destinate ai poveri e al restauro (di quest'ultima solo fino alla sua morte), riconoscendo al clero le quote restanti (121). Successivamente, il nuovo vescovo Marco Nicola, ignorando il concordato del 1181 e appoggiandosi a concessioni papali (122), pretese non solo i tre quarti della decima, ma rivendicò perfino la facoltà di distribuire a suo piacimento la quarta del clero riesumando un'antichissima norma della Chiesa delle origini. Ne seguì nel 1188 una causa affidata a delegati papali che confermarono sostanzialmente l'accordo del 1181: il vescovo, che rimase ancora il formale destinatario delle decime, riscosse in totale i tre ottavi, comprendenti il quarto di spettanza vescovile, un quarto della parte destinata ai poveri e un quarto della parte riservata al restauro (123).
L'interesse di queste vicende è molteplice. In una prospettiva 'cittadina' il quarto riconosciuto alle chiese realtine potrebbe essere assimilato alla quota decimale goduta dalle chiese comprese nel piviere urbano: a Padova, già fra XI e XII secolo le cappelle cittadine ottennero il quartese come corrispettivo del servizio pastorale prestato, e la stessa quota è documentata per le parrocchie pisane almeno nella seconda metà del XII secolo in armonia con quanto, nella discussione sulla distribuzione delle decime, fra i decretisti si ammetteva (124). Tuttavia non va dimenticato che il quarto era appunto la porzione che nel corso del secolo XI nell'Italia settentrionale divenne costume generale attribuire alla pieve (125). Anche nella diocesi torcellana la pieve di Ammiana risultava disporre, nel I185, di un quarto delle decime (era la pars clericorum), che per i restanti tre quarti andavano al vescovo (126). Se più tardi le chiese realtine pretesero i tre quarti delle decime - pretesa che non trova riscontro in coeve cappelle urbane - e si videro riconoscere dai delegati papali almeno i cinque ottavi delle decime, ciò vuoi dire che esse non vennero considerate alla stregua di semplici cappelle, ma intendevano assimilarsi alle pievi.
In conclusione, l'evoluzione della diocesi/parrocchia castellana, se paragonata sul piano teorico alla terraferma, sembra tardiva e al tempo stesso precoce. Tardiva se confrontata con l'articolazione della diocesi in pievi rurali, ma precoce rispetto agli sviluppi della pieve urbana: precoce la delimitazione delle circoscrizioni parrocchia li sulla base di un qualche elemento di cura d'anime (sono i confinia ecclesiae documentati nel terzo decennio del Mille, sui quali si fondò la distrettuazione civile (127), precoce l'assunzione di diritti parrocchiali in campo spirituale, addirittura senza paragone le rivendicazioni ai tre quarti della decima. Ciò non rende possibile un'astratta classificazione dello sviluppo ecclesiastico realtino fra i tipi urbano o rurale e anzi evidenzia quanto sia artificiosa ogni distinzione tra i due ambiti, investiti da un processo sostanzialmente unitario. La sua evoluzione fu però in se stessa coerente. "Sono le particolari condizioni di una città che ne improntano originalmente il sistema parrocchiale" (128): la storia ecclesiastica realtina appare segnata dalla persistente ambiguità di una diocesi-parrocchia, con plebani di chiese che propriamente plebes non erano ma che, rispetto alle parrocchie cittadine, si spinsero a rivendicare maggiori diritti in campo decimale.
Un ulteriore elemento va posto in evidenza: nelle discussioni circa la distribuzione delle decime il grande assente è il capitolo della cattedrale. A differenza di quanto avvenne sulla terraferma, dove a partire dal IX secolo le decime del distretto battesimale della città vennero conferite ai canonici (129), titolare della cura d'anime rimase qui il vescovo. La circostanza non si spiega semplicemente col fatto che la città era al tempo stesso la diocesi e che non poteva esserci un vero e proprio piviere urbano, ma ha più profonde motivazioni.
Se sulla terraferma il capitolo cattedrale si sviluppò come corporazione autonoma e come persona giuridica in grado di disporre, a partire dalla separazione della sua mensa da quella vescovile, di un crescente potere economico, con la facoltà di intervenire sempre più attivamente nel governo diocesano attraverso il diritto di consenso ai negozi giuridici posti in essere dal vescovo o con l'amministrazione della diocesi in caso di sede vacante (130), per i canonici di Castello la situazione fu diversa. Almeno fino alla fine del XII secolo i canonici castellani non compaiono mai come richiedenti o destinatari di lettere e privilegi pontifici, non risultano possedere un proprio sigillo. Economicamente deboli (non è facile dire quando avvenne la separazione delle mense) (131), la loro presenza e il loro consenso al vescovo in occasione di negozi giuridici appaiono saltuari ancora nel Duecento. I canonici castellani non riuscirono a raggiungere, nel XII e per ampia parte del XIII secolo, una posizione di autonomia e di indipendenza nei confronti dell'ordinario diocesano, incapacità che sul piano terminologico si rifletté nell'assenza, nei documenti, di termini tecnici (capitolo, coro, etc.) riferentisi ai chierici della cattedrale nella loro collegialità. E non riuscirono neppure a maturare una precisa coscienza della specificità del proprio status, come dimostrano le frequenti sottoscrizioni di 'preti e diaconi della chiesa castellana' con formule identiche a quelle usate da qualsiasi altro membro delle chiese veneziane, o con la menzione solo saltuaria della propria dignità capitolare. Si può dire che il capitolo castellano mantenne i connotati del presbiterium originario, rimase cioè una comunità di chierici coadiutori del vescovo e a lui completamente subordinata senza riuscire ad emergere come consilium specializzato e condizionante accanto al vescovo. E significativo che, quando nel 1198 i canonici intervennero per la prima volta a dare il loro consenso al vescovo, accanto ad essi e ugualmente interpellati appaiono anche i plebani (132). E nel 1229, in una questione che riguardava i plebani ma era comunque d'interesse generale, e cioè la distribuzione delle decime, il vescovo "primo et singillatim a plebanis, et consequenter a clero universo consilium postulavit" (133).
Anche per le altre diocesi lagunari le menzioni di canonici cattedrali, almeno fino alla fine del XII secolo, sono limitatissime, silenzio non del tutto imputabile alle lacune della documentazione. Solo il capitolo dei canonici di Torcello, e forse non casualmente, spicca per la sua maggiore individualità: nel 1127 i canonici appaiono in lite con il vescovo cui avevano rifiutato obbedienza (134), mentre dal 1128 si hanno testimonianze circa concessioni di diritti di pesca da essi attuate e circa una chiesa, S. Fosca, appartenente alla loro mensa, che era quindi distinta da quella vescovile (135). Ma è interessante notare che anche a Torcello i pievani ebbero un ruolo non irrilevante, tanto da venire esplicitamente citati accanto ai canonici in una contrastata elezione del vescovo attorno al 1176 (136). Una spia altrettanto significativa, anche se precedente di un secolo, riguarda Malamocco, al cui vescovo il papa riconosceva il diritto di essere accolto nel monastero di Brondolo insieme non con i suoi chierici né con i suoi canonici, bensì con 12 pievani (137). Si può dunque pensare che la persistente unità del clero diocesano attorno al vescovo abbia ritardato in modo più o meno marcato l'affermazione del capitolo come organo privilegiato accanto al vescovo nell'amministrazione della diocesi.
Per comprenderne appieno la debolezza istituzionale non si può non considerare che i capitoli lagunari non poterono disporre di diritti di natura immunitaria o signorile né a partire dalla suddivisione delle mense - se e quando ci fu - né per successive donazioni. Il diverso peso assunto in campo civile è aspetto non secondario della fisionomia dei collegi cattedrali lagunari rispetto ai capitoli di terraferma, forti dal punto di vista patrimoniale e giurisdizionale.
Un istituto al quale, per l'ambito lagunare, non si è prestata finora eccessiva attenzione è l'ecclesia propria, che ebbe nella cappella palatina di San Marco compiuta ma non esclusiva manifestazione. Per limitarsi alle fonti documentarie, sono attestate come chiese originariamente di proprietà laica S. Ilario, cappella privata dei duchi fino all'819 (138), S. Giorgio Maggiore e S. Cipriano, rispettivamente fino al 982 e al 1098 tituli della cappella marciana, di diritto cioè del palatium ducale (139), e la chiesa di S. Benedetto, donata nel 1013 al monastero di Brondolo dai Falier, cui apparteneva "ex successione parentum nostrorum" (140). Un esempio chiarissimo di chiesa privata adibita a monastero è offerto dalle disposizioni testamentarie del vescovo di Olivolo, Orso. Questi, nell'853, affidava alla sorella Romana la basilica di S. Lorenzo ereditata dal padre perché vi istituisse un monastero (141); Romana, cui era riservata la potestas dominandum, aveva anche la facoltà alla sua morte di disporre del monastero in favore di chiunque ella volesse (142).
Si può dunque affermare con sicurezza che la chiesa privata ebbe diffusione anche in area lagunare. Già il Feine, rilevando le non rarissime comparse nelle Venezie di questo istituto che aveva facilmente individuato nell'Italia longobarda, segnalava la particolarità del fenomeno rispetto ad altre aree di tradizione romanico-bizantina, come la ravennate e la romana. Al tempo stesso, però, ne precisava i limiti: nelle chiese private veneziane non sono evidenti i tratti dell'Eigenlcirchenrecht vero e proprio in quanto esse non appaiono oggetto di alienazione né d'investitura (143). Forse, solo per S. Lorenzo si può intravvedere la possibilità di alienazione nella facoltà riconosciuta all'erede (la sorella di Orso, Romana) di disporre del monastero in favore di chiunque.
Si può anche aggiungere che, a parte ancora una volta il caso di S. Lorenzo, monastero di dimensioni inizialmente domestiche per il quale non rimangono poi tracce di concezione privatistica, la proprietà privata si restrinse a basilicae, tituli e capellae, ebbe cioè un'applicazione limitata alle chiese minori. Proprio per queste sue caratteristiche l'ecclesia propria veneziana sembra comparabile, più che a quella diffusa sulla terraferma, alla chiesa privata bizantina, e più precisamente ha caratteristiche riconducibili al 'diritto di fondazione' bizantino (144), anch'esso circoscritto alle chiese minori.
Un'ulteriore conferma potrebbe venire dalla vicina Dalmazia, nella quale Heinrich Felix Schmid riteneva di aver individuato diritti di Eigenkirchenrecht che il Feine ha invece ridimensionato, riportandoli nell'alveo della costituzione della Chiesa delle origini (145). Anche per Venezia si può rinviare ai presupposti già presenti nella Chiesa tardoantica, non escludendo del tutto un influsso o meglio un incontro con la tradizione di area longobardo-franca. A questo proposito è interessante notare che nella documentazione locale si ha una precoce attestazione del termine franco capella nel designare una chiesa privata di proprietà ducale: è il caso di S. Ilario, qualificata tale nell'819. La testimonianza era nota all'Aebischer che del termine capella seguì la diffusione, ma venne da lui ritenuta inaffidabile in quanto il documento che la riporta è tràdito in copia tarda (146). Sulla base delle sue indagini, la prima menzione autentica di capella risalirebbe all'835. Lo studio dell'Aebischer, pur utilissimo, è indubbiamente bisognoso di aggiornamento, tanto più che il Castagnetti ha segnalato l'impiego del termine capella addirittura in un placito dell'801, tenutosi in Comacchio (147). Per quel che riguarda la testimonianza del documento veneziano, non ci sono valide ragioni per pensare a un'interpolazione, anzi, l'utilizzazione di formulario franco, recentemente riscontrata nella diplomatica veneziana coeva e nello stesso documento dell'819 (148), induce a ritenere autentico il passo in questione.
Al di là dei riscontri terminologici, importa sottolineare che l'ecclesia propria veneziana ebbe un ruolo niente affatto paragonabile a quello che lo stesso istituto esercitò sulla terraferma, né operò in senso disgregatore sulla circoscrizione plebana e diocesana: essa rimase effettivamente 'minore' e, a quanto è dato supporre, non assunse ulteriori prerogative in campo spirituale e temporale.
Sono stati più volte posti in rilievo i risvolti politici del culto marciano, prima ad Aquileia, poi a Rialto (149). All'epoca dello scisma tricapitolino, la nascita della leggenda sulla fondazione della chiesa aquileiese ad opera dell'evangelista Marco era in funzione antiromana e mirava ad affermare l'apostolicità della sede. Ricomposto lo scisma e rientrata Aquileia nella comunione con Roma, la leggenda ebbe nuova fortuna nel primo secolo IX, quando Aquileia intese riaffermare le proprie funzioni metropolitiche anche nei confronti di Grado, e alla sinodo di Mantova rivendicò la sua antichità e le sue origini apostoliche. Immediatamente dopo la sinodo di Mantova, che negava a Grado i diritti metropolitani affermandone la soggezione ad Aquileia, il corpo di san Marco venne sottratto ad Alessandria per essere portato a Rialto. Secondo taluni, il recupero fu una necessità politica, in quanto il possesso del corpo dell'evangelista poteva garantire la legittimità della sede gradense che la sinodo mantovana aveva posto in discussione.
Le reliquie di san Marco vennero accolte dal duca Giustiniano, che prese l'iniziativa di costruire una basilica dove deporle. Dal punto di vista giuridico San Marco nacque così, come chiesa privata dei duchi e, in quanto tale, la nomina del clero che l'officiava fu prerogativa ducale. E opinione comune tra gli studiosi che S. Marco fosse sottratta alla giurisdizione vescovile e patriarcale; l'affermazione dell'" assoluta indipendenza di S. Marco dalla autorità ecclesiastica" (150) si fonda sull'atto di fondazione del monastero di S. Giorgio Maggiore del 982 in cui S. Marco veniva dichiarata "libera a servitute sancte matris Ecclesie" (151). Se però si considera attentamente l'espressione nel suo contesto, si ricava che la libertà riconosciuta era una libertà determinata, relativa all'usum servitutis e ai prandia (152); questi ultimi si possono interpretare come quegli obblighi dovuti normalmente alla chiesa matrice - che nel caso di S. Marco era la cattedrale -, i quali avevano un valore ricognitivo ed erano segno della sottomissione delle chiese private alla chiesa madre (153). È sufficiente tale particolare libertà per dedurre che S. Marco fosse sottratta alla giurisdizione vescovile?
Stando alla documentazione edita, solo alla metà del XIV secolo si hanno prove certe circa la soggezione dei cappellani di S. Marco al solo duca (154). A dar credito al Dandolo, agli anni Trenta del Duecento risalirebbe una lite col vescovo castellano anche a proposito dell'esenzione di S. Marco, lite conclusasi con il riconoscimento della solita immunitas della cappella (155). Ma gli stessi studiosi locali che a partire da Antonio de Faustinis (156) si sono occupati delle libertà di S. Marco hanno dovuto rifarsi al solo documento del 982, appellandosi all'azione rovinosa di un incendio nel 1235 per giustificare l'assenza di lettere apostoliche attestanti i privilegi della basilica (157); hanno invece del tutto ignorato le indicazioni di segno opposto.
Nel 1144 Lucio II riconosceva al vescovo di Castello l'obedientia e la dispositio di S. Marco al pari di tutte le altre chiese e di tutti gli altri chierici della diocesi (158). Nel valutare tale riconoscimento la prudenza è d'obbligo, dato che, com'è noto, i privilegi papali non sempre rispecchiavano lo stato di diritto ma spesso erano oggetto di negoziazione in sede locale. Nel caso in questione si potrebbe a tutta prima pensare che il vescovo castellano avesse sollecitato il privilegio come mezzo per riaffermare la pienezza della propria giurisdizione a scapito del duca, in un momento poi in cui questi subiva l'affermazione del Comune. Una simile ipotesi va però respinta, giacché il vescovo Giovanni Polani, destinatario del privilegio, era figlio del duca Pietro; la comune azione svolta proprio in quegli anni contro il patriarca Enrico Dandolo induce ad escludere divergenze fra i due Polani o eventuali tendenze autonomistiche del vescovo Giovanni. Scartata l'utilizzazione strumentale del privilegio, si possono dunque ritenere fondati i diritti vescovili su San Marco, riconosciuti da Lucio II al Polani. La soggezione della cappella all'ordinario diocesano venne del resto confermata da Adriano IV (1156) e da Celestino III (1192) (159) mentre, per quanto riguarda la giurisdizione patriarcale, nel 1222 Onorio III riconosceva al patriarca di Grado lo ius metropoliticum sulla chiesa, sul primicerio e sui suoi canonici (160).
È dunque certo che S. Marco, in quanto chiesa privata, godette di un notevole grado di autonomia nei confronti dell'ordinario diocesano e che, rispetto a una semplice ecclesia propria, usufruì anche di particolari libertà dalla chiesa matrice, la cattedrale. Che però il suo clero fin dalle origini non fosse "sub patriarcha Gradense nec sub episcopo Castellano, sed [...> ad correctionem et obedientiam D. Ducis et Primicerii" (161) non è documentato, anzi smentito dai dati in nostro possesso.
La mancanza di una solida base documentaria impone molta cautela nello stabilire eventuali analogie con la cappella palatina carolingia da una parte e le chiese di palazzo bizantine dall'altra (162). L'uso di un vocabolario di origine franca è indubbio, ed è significativo che sia stata la cancelleria carolingia ad attribuire per prima, nel diploma di Guido dell'891, il titolo di cappellano a prete Domenico, legato del duca e "capelanum suum" (163). Cio tuttavia non è sufficiente per affermare una riproposizione di contenuti giuridici, e lo stesso può dirsi per Bisanzio, con la quale le analogie meno estrinseche paiono limitarsi al campo architettonico (164).
Di fronte al silenzio documentario diventa altrettanto difficile seguire il cammino istituzionale di San Marco, connetterlo alle vicende del potere ducale e all'affermazione del "Comune Veneciarum", tradizionalmente assegnata agli anni Quaranta del XII secolo. E certo che dalla seconda metà del secolo XI appaiono in San Marco i primi segni di un ruolo nuovo, diverso da quello di semplice cappella destinata al servizio liturgico del duca. Nel 1074 è documentata la "camera Sancti Marci" (165), in cui il Cessi individua già il tesoro statale (166), e a partire dal 1152 appare il procuratore dell'Opera di San Marco, preposto alla fabbrica e all'amministrazione della cappella. Già attorno agli anni Settanta del secolo XII l'Opera appare impegnata in operazioni di prestito che preludono alla sua compiuta evoluzione in istituto finanziario di stato, realizzatasi nella prima metà del Duecento (167). Al suo procuratore, Alessandro III nel 1165 riconobbe le chiese di S. Marco di Tiro e di Accon (168), segno della nuova dimensione extradiocesana in cui l'Opera si stava proiettando.
Il complicarsi delle funzioni della primitiva cappella ducale fu concomitante con la seconda fioritura del culto marciano (ricostruzione della basilica e inventio delle reliquie nel 1094) (169), ma ebbe nuovo impulso ai primi del XII secolo. Se la coincidenza non è dovuta alla maggiore disponibilità documentaria rispetto all'epoca precedente, resta da concludere che l'articolazione delle strutture di San Marco e il rilancio del simbolo marciano avvenne nel momento in cui la parabola del potere ducale era discendente e andava delineandosi un nuovo assetto del potere. Il 'mito' marciano, pur avendo le sue lontane radici nella traslazione delle reliquie dell'828, si consolidò allora, in età comunale più che ducale.
La possibilità di movimentare la storia della basilica al di là delle rigidezze del mito e del rito ha delle conseguenze non solo a proposito del `regalismo' ducale, ma anche nella più ampia prospettiva dei rapporti fra potere civile e potere ecclesiastico. Per questi problemi, si è guardato a ragione al rituale civico e in particolare all'elezione e all'investitura ducale, nella cui evoluzione "si rifletterà sempre - sia pure confusamente - la concezione che i Veneziani avevano della fonte dell'autorità del doge, dei rapporti fra la Chiesa locale e lo Stato veneziano, del vincolo tra il doge, simbolo terreno della Repubblica, e san Marco, simbolo ultraterreno" (170). Va però sottolineato che i dati sui quali è possibile fondarsi sono tutti di tradizione tardiva: dopo la relazione di Domenico Tino del 1071, che per la prima volta illustra l'investitura del duca in San Marco, bisogna rifarsi alle cronache di Martino da Canal e di Andrea Dandolo (171) o agli statuti dei canonici di San Marco del XIV secolo (172). Per l'investitura di patriarchi, vescovi, abati e badesse effettuata dal primicerio nella basilica di San Marco (173) - che rivoluzionava, seppur a livello ideale, l'organizzazione gerarchica della Chiesa locale e che era testimonianza significativa del 'particolare' sistema veneziano - non si può risalire oltre i primi del Duecento (174), e non sono rintracciabili radici più antiche neppure al cosiddetto culto dogale "che aveva il suo centro in San Marco e i suoi ministri nei cappellani" (175). Nonostante l'arcaicità di taluni elementi, appare insomma di elaborazione tardiva il complesso sistema rappresentativo fondato su san Marco, nel cui simbolo si sarebbe celebrata la simbiosi delle istituzioni ecclesiastiche con la società e con lo stato veneziano (176), nella cui basilica sono stati visti "la base e il fondamento del vasto ius circa sacra della Repubblica Veneta" (177). Di conseguenza, dal rituale civico tardomedievale e rinascimentale non si può estrapolare alcuna concezione dei rapporti politico-ecclesiastici che sia valida anche per l'età ducale se non a costo di appiattire la prospettiva storica, di soggiacere ancora una volta al mito di una Venezia perfetta nella sua astoricità (178). Quella stessa astoricità che ha indotto a individuare origini bizantine al diritto ecclesiastico veneziano del basso Medioevo e dell'età moderna ignorando il travaglio dei secoli altomedievali (179). Una considerazione più equilibrata dell'ecclesiologia e delle ideologie non può prescindere dalle strutture della Chiesa locale alle quali, in sede di conclusioni generali, conviene ora ritornare.
A Venezia, secondo una linea di tendenza comune all'area bizantina e all'Occidente germanizzato, gli ordinamenti ecclesiastici si svilupparono in profonda simbiosi con quelli civili. L'identità fra ceto di governo e gerarchie ecclesiastiche, la presidenza ducale delle sinodi e, per converso, la partecipazione dei grandi ecclesiastici al placito ducale ne sono nota e significativa testimonianza (180). A differenza, però, dei regni occidentali, tale intimità non comportò mai una confusione di ruoli, un'interferenza e un condizionamento reciproco a livello istituzionale, in una parola quell'"ambiguità delle istituzioni" che il Tabacco ha indicato per l'età carolingia (181). Ordinamento politico ed ecclesiastico rimasero paralleli: l'Ecclesia non fu chiamata a svolgere funzioni di supplenza nei confronti delle istituzioni civili né le res ecclesiarum ottennero dignità istituzionale.
La diversità si fa evidente se si considera la figura vescovile, assolutamente estranea alla progressiva attribuzione di funzioni pubbliche e di poteri politici tipica dei vescovi di terraferma. Altrettanto discriminante è il fatto che né gli episcopati, né i capitoli cattedrali, né i monasteri veneziani conobbero alcuna evoluzione in senso immunitario nell'ambito del ducato. Come la "Romania", l'area lagunare rimase estranea allo sviluppo di poteri signorili a base territoriale di cui, nella "Langobardia", gli enti ecclesiastici furono per tanta parte protagonisti. Solamente al di fuori delle lagune i monasteri e l'episcopato torcellano s'incontrarono e s'inserirono in una società che si evolveva in forme signorili. L'azione dei primi in particolare è del tutto assimilabile, nella costruzione di signorie immunitarie, a quella dei coevi enti monastici della "Langobardia".
I contatti personali e istituzionali col mondo longobardo-franco non poterono non incidere sulla 'cultura' veneziana in senso lato né, su un piano diverso, si può ignorare che almeno nelle aree più marginali del ducato s'instaurò un regime decimale simile al franco. Questo tipo di influssi, di interazioni e di comuni sviluppi non va sottovalutato, ma certo non riuscì a condizionare le strutture ecclesiastiche lagunari. Esemplare è il caso della chiesa privata, che non conobbe alcuna evoluzione e non intervenne come forza centrifuga nell'organizzazione ecclesiastica diocesana proprio perché non s'inserì in un sistema come quello curtense né entrò in combinazione con altri fenomeni disgregatori come l'incastellamento. Ciò spiega perché la Chiesa veneziana appaia per molti aspetti in continuità con la Chiesa tardoantica, e perché il suo sviluppo sia consonante con quello di un'area, quale la Dalmazia, anch'essa di tradizione romanico-bizantina.
Entro una Chiesa locale così strutturata, chiusa forse più di altre nel suo 'egoismo diocesano' (182), restano tutte da verificare le tendenze e i tornanti della storia ecclesiastica occidentale, dal monachesimo al movimento riformatore nelle sue diverse espressioni, dalla lotta per le investiture all'orientamento monarchico del papato. Su questo sfondo le concezioni ecclesiologiche o politiche possono acquistare consistenza e attendibilità. E i risultati saranno tanto più significativi se accostati non tanto all'Oriente bizantino quanto alla vicina "Romania", nel solco delle recenti, innovative ricerche comparative che sulla "Langobardia" e sulla "Romania" si vanno conducendo (183).
1. Sui problemi di citazione del Chronicon, recentemente Antonio Carile, Chronica Gradensia nella storiografia veneziana, in AA.VV., Grado nella storia e nell'arte (A.A., 17), Udine 1980, pp. 129-133 (pp. II1-138).
2. Chronicon Gradense, in Cronache veneziane antichissime, a cura di Giovanni Monticolo, Roma 1890 (Fonti per la storia d'Italia, 9), pp. 43-44.
3. Giorgio Fedalto, Jesolo nella storia cristiana tra Roma e Bisanzio. Rilettura di un passo del Chronicon Gradense, in AA.VV., Studi Jesolani (A.A., 27), Udine 1985, pp. 91-105; Id., Cittanova Eracliana, "Studi Veneziani", n. ser., 2, 1978, pp. 15-35; Id., Le origini della diocesi di Venezia, in AA.VV., Le origini della Chiesa di Venezia, a cura di Franco Tonon, Venezia 1987, pp. 134-140 (pp. 123-142).
4. Giuseppe Cuscito, L'antica comunità cristiana di Equilio, ibid., pp. 21-25 (pp. 9-29).
5. L'ipotesi era stata già rigettata da Paul F. Kehr, Rom und Venedig bis ins XII. Jahrhundert, "Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken", 19, 1927, p. 24 (pp. 1-180) e da Roberto Cessi, La crisi ecclesiastica veneziana al tempo del duca Orso (1928), ora in Id., Le origini del ducato veneziano, Napoli 1951, pp. 53-98. Per una recente discussione delle due tesi che collocano i due toponimi rispettivamente sull'estuario veneto e in Istria, Lujo Margetiâ, Le prime notizie su alcuni vescovati istriani, in Id., Histrica et Hadriatica. Raccolta di saggi storico-giuridici e storici, Trieste 1983, pp. 113-125.
6. P. F. Kehr, Rom und Venedig, pp. 16-2o.
7. La cronaca veneziana del diacono Giovanni, in Cronache veneziane antichissime, pp. 64-65, 84, 98-99. P.F. Kehr, Rom und Venedig, pp. 26-44.
8. R. Cessi, La crisi ecclesiastica, pp. 61-67.
9. V. ad esempio il recente Antonio Niero, La sistemazione ecclesiastica del ducato di Venezia, in AA.VV., Le origini della Chiesa di Venezia, a cura di Franco Tonon, Venezia 1987, pp. 103-111.
10. R. Cessi, La crisi ecclesiastica, pp. 84-89. La cit. è da p. 85.
11. SS. Ilario e Benedetto e S. Gregorio, a cura di Luigi Lanfranchi - Bianca Strina, Venezia 1965, doc. 1, pp. 5-17.
12. Ivi, doc. 2, pp. 17-24 e S. Lorenzo, a cura di Franco Gaeta, Venezia 1959, doc. 1, pp. 5-12.
13. Origo civitatum Italiae seu Venetiarum (Chronicon Alti-nate et Chronicon Gradense) , a cura di Roberto Cessi, Roma 1933 (Fonti per la storia d'Italia, 73).
14. Wladimiro Dorigo, Venezia Origini. Fondamenti,ipotesi, metodi, 1, Milano 1983, pp. 267-273.
15. L'incertezza nasce dal fatto che la distruzione di Concordia, che la notizia di Giovanni diacono fa supporre (il locale vescovo si rifugiò a Caorle "Longobardorum timoratione territus"), non è altrimenti attestata: R. Cessi, La crisi ecclesiastica, pp. 62-64 e P. F. Kehr, Rom und Venedig, p. 29 n. 2.
16. Codice diplomatico longobardo, a cura di Carlrichard Brühl, III/1, Roma 1973 (Fonti per la storia d'Italia, 64), nr. 16, pp. 70-76.
17. Sul vescovo altinate quale "vescovo veneto", R. Cessi, La crisi ecclesiastica, p. 88 (n.). Per Altino-Torcello v. infra, nn. 78-79.
18. P. F. Kehr, Rom und Venedig, p. 42.
19. Su questo 'fatale' principio, Hans Georg Beck, Kirche und theologische Literatur im byzantinischen Reich, München 19722, p.73.
20. W. Dorigo, Venezia Origini, pp. 272-273.
21. La stesura di questo paragrafo è largamente debitrice del citato saggio di P. F. Kehr, Rom und Venedig e, limitatamente al secolo XI di Cinzio Violante, Venezia fra papato e impero nel secolo XI, (1965),ora in Id., Studi sulla cristianità medioevale. Società, istituzioni, spiritualità, raccolti da Piero Zerbi, Milano 1972, pp. 291-322. Per altri riferimenti bibliografici v. infra, n. 26.
22. La concessione, rinnovata da Pasquale II, rimase tuttavia un fatto episodico; importante figura nel gioco diplomatico della Curia, il patriarca perse il vicariato apostolico non appena i presupposti politici mutarono.
23. Paul F. Kehr, Italia pontificia, VII, Venetia et Histria, I, Provincia Aquileiensis, Berlin 1923, riprod. anast. 1961, p. 35 nr. 79.
24. Su questo protagonista della storia veneziana del XII secolo v. il recente profilo di Giorgio Cracco, Dandolo, Enrico, patriarca, in Dizionario biografico degli italiani, XXXII, Roma 1986, pp. 448-450.
25. Il giudizio è del Kehr (Rom und Venedig, p. 134). Su Udalrico di Treffen, che nel 1169 ricevette il vicariato apostolico, e sulle vicende dello scisma, Paul F. Kehr, Kaiser Friedrich und Venedig während des Schismas, "Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken", 17, 1914-1924, pp. 230-244.
26. Walther Lenel, Venetianisch-istrische Studien, Straßburg 1911; P. F. Kehr; Rom und Venedig; Roberto Cessi, "Nova Aquileia" (1929), ora in Id., Le origini del ducato, pp. 99-148; Heinrich Schmidinger, Patriarch und Landesherr. Die weltliche Herrschafi der Patriarchen von Aquileja bis zum Ende der Staufer, Graz-Köln 1954, pp. 7-17, ripreso molto sinteticamente in Id., Il patriarcato di Aquileja, in Id., Patriarch im Abendland. Beiträge zur Geschichte des Papsttums, Roms und Aquileias im Mittelalter, a cura di Heinz Dopsch - Heinrich Koller - Peter F. Kramml, Salzburg 1986, pp. 297-303 C. Violante, Venezia fra papato e impero; Antonio Niero, Dal patriarcato di Grado al patriarcato di Venezia, in AA.VV., Grado nella storia e nell'arte (A.A., 17), Udine 198o, pp. 265-284.
27. C. Violante, Venezia fra papato e impero.
28. R. Cessi, "Nova Aquileia".
29. Horst Fuhrmann, Studien zur Geschichte mittelalterlicher Patriarchate (2. Teil), "Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte ", kanonistische Abteilung, 40, 1954, p. 58 (pp. 1-84). Anche il Kehr parla di "köstliche Naivität" (Rom und Venedig, p. 99).
30. ALBERT HAUCK, Patriarchen, in Realencyklopàdie fiir
protestantische Theologie und Kirche, 14, Leipzig
19043, riprod. anast. Graz 1971, p. 767.
31. H. Fuhrmann, Studien zur Geschichte, pp. 43-60.
32. Cit. ibid., p. 59.
33. L'espressione si ritrova in una lettera di Adriano IV del 1155 (infra, n. seguente).
34. P. L., 188, col. 1387 nr. 17 e P. F. Kehr, Italia pontificia, VII/2, pp. 62-63 nr. 118.
35. M.G.H., Epistolae selectae, II, Gregorii VII registrum, a cura di Erich Caspar, 19673, II, nr. 39, p. 176.
36. Su questo aspetto C. Violante, Venezia fra papato e impero, pp. 309-310.
37. Pietro Sella - Giorgio Vale, Rationes decima-rum Italiae nei secoli XIII e XIV, Venetiae-Histria - Dalmatia, Città del Vaticano 1941, p. IX, dove si rinvia con riserva a Vittorio Piva, Il patriarcato di Venezia e le sue origini, I, Venezia 1938, pp. 107-1 10.
38. Ferdinando Ughelli, Italia sacra sine de episcopis Italiae et insularum adjacientium, rebusque ab iis praeclare gestis deducta serie ad nostram usque aetatem, V, Venetiis 17202, a cura di Nicolò Coleti, riprod. anast. Bologna 1973, col. 1110. P. F. Kehr, Italia pontificia, VII/2, pp. 52-53 nr. 78.
39. P. F. Kehr, Italia pontificia, VII/2, pp. 59-60 nr. 108.
40. Ibid, p. 60 nr. 109.
41. Ivi.
42. Flaminius Corner, Ecclesiae Venetae antiquis monumentis, nunc etiam primum editis, illustratae ac in Decades distributae. Decas septima et octava, Venetiis 1749, pp. 240-242.
43. F. Ughelli, Italia sacra, V, coll. 1217-1218; P. F. Kehr, Italia pontificia, VII/2, p. 130 nr. 4.
44. G. Cracco, Dandolo, Enrico, p. 448.
45. Ibid., pp. 448-449.
46. F. Ughelli, Italia sacra, V, coll. 1121-1122 P. F. Kehr, Italia pontificia, VII/2, pp. 61-62 nr. 114.
47. P. F. Kehr, Rom und Venedig, p. 130.
48. P. L., 179, nr. 7, coll. 835-836; P. F. Kehr, Italia pontificia, VII/2, pp. 130-131 nr. 5.
49. Il Dandolo, invitato dal fondatore, aveva benedetto e posto la prima pietra della chiesa dell'ospedale di San Clemente sollevando le proteste del Polani, che accampava diritti in quanto l'ospedale era stato edificato nella sua diocesi: F. Corner, Ecclesiae Venetae [...>. Decas duodecima, p. 233 (1156 ottobre), e Codice diplomatico veneziano, datt. a cura di Luigi Lanfranchi (d'ora in poi CDV), presso l'Archivio di Stato di Venezia, 1191 marzo (con riferimento a fatti avvenuti circa quarant'anni prima).
50. Oltre al caso di San Clemente sopra citato, si v. anche la cessione della chiesa di San Matteo al patriarca da parte dei fondatori: F. CorneR, Ecclesiae Venetae [...>. Decas quarta, pp. I 77- I 79 (1156 febbraio).
51. Confermate da Innocenzo III nel 1200: F. Ughelli, Italia sacra, V, col. 1134.
52. P. L., 200, nr. 1483, coll. 1284-1285, e P. F. Kehr, Italia pontificia, VII/2, pp. 67-68 nr. 133.
53. Su questo aspetto Alfred Felbinger, Die Primatialprivilegien fiir Italien von Gregor VII. bis Innocenz III. (Pisa, Grado und Salerno, "Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte ", kanonistische Abteilung, 68, 1951, pp. 131-134 (pp. 95-163).
54. V. in fra, testo corrispondente alle nn. 65-72.
55. Le lettere papali sono cit. nelle nn. 35 e 39.
Roberto Cessi, Venezia ducale, II, Commune Venetiarum, Venezia 1965, pp. 56-59.
56. S. Giorgio Maggiore, II, Documenti 982-1159, a cura di Luigi Lanfranchi, Venezia 1968, doc. 31, p. 94.
57. A. Felbinger, Die Primatialprivilegien fiir Italien, pp. 134-152 (per la politica ecclesiastica in Dalmazia) e Giorgio Fedalto, La Chiesa latina in Oriente, I, Verona 19812, pp. 226-234, 243-282 e passim.
58. P. F. Kehr, Rom und Venedig, p. 154.
59. V. ad es. Codex diplomaticus regni Croatiae, Dalmatiae et Slavoniae, I, a cura di Marko Kostrencic, Zagrabiae 1967, nr. 72, pp. 100-101, nr. 100, p. 133, nr. 143, p. 184.
60. P. F. Kehr, Rom und Venedig, pp. 157-162 (da quest'ultima p. è tratta la cit.).
61. V. anche le osservazioni di Antonio Carile sull'incapacità di sviluppo, dopo 1'XI secolo, della cronachistica gradense: Chronica Gradensia, pp.
119 s.
62. Cinzio Violante, Le istituzioni ecclesiastiche nell'Italia centro-settentrionale durante il Medioevo : province - diocesi - sedi vescovili, (1974), ora in Id., Ricerche sulle istituzioni ecclesiastiche dell'Italia centro-settentrionale nel Medioevo, Palermo 1986, pp. 28-29 (pp. 25-62).
63. P. F. Kehr, Rom und Venedig, pp. 102-104.
64. V. ad es. Heinrich Gelzer, Ungedriickte und ungeniigend veröfentlichte Texte der Notitiae episcopatuum. Ein Beitrag zur byzantinischen Kirchen und Verwaltungsgeschichte, "Abhandlungen d. Philos. - Philol. Cl. d. Königl. Bayer. Akademie der Wissenschaften", 21, III. Abt., Miinchen 1901, p. 562 (pp. 529-641), per la situazione nella Cappadocia orientale prima del secolo X.
65. Pietro De Leo, Per la storia delle parrocchie calabresi nel basso Medioevo, in AA.VV., Pievi e parrocchie in Italia nel basso medioevo (sec. XIII-X V) . Atti del VI convegno di storia della Chiesa in Italia (Firenze, 21-25 settembre 1981), II, Roma 1984 (Italia sacra, 36), p. 1149 (pp. 1133-1171).
66. P. F. Kehr, Italia pontificia, VII/2, p. 216 (Capodistria), p. 227 (Emona), p. 240 (Pedena).
67. Per Capodistria e Pedena v. però L. Margetig,
Le prime notizie, pp. 113- 12 3 e 131- 133
68. A. Felbinger, Die Primatialprivilegien, pp. 131, 135 per Ossero e Arbe. P. F. Kehr, cit. nella n. 66, per Pedena ed Emona.
69. Sull'ambiente geografico il rinvio obbligato è a Luigi Lanfranchi - Gian Giacomo Zille, Il territorio del ducato veneziano Ball' VIII al XII secolo, in AA.VV., Storia di Venezia, II, Dalle origini del ducato alla IV crociata, Venezia 1958, pp. 3-65.
70. Ibid., pp. 13-14 e Pierluigi Tozzi - Maurizio Harari, Eraclea veneta. Immagine di una città sepolta, Parma 1984, pp. 9-70.
71. L. Lanfranchi - G.G. Zille, Il territorio del ducato, pp. 19 e 14.
72. M.G.H., Legum sectio II, Capitularia regum Francorum, II, a cura di Alfred Boretius - Victor Krause, 1980-19842, pp. 130-135, nr. 233; M.G.H., Diplomata, Ottonis I. Diplomata, a cura di Theodor Sickel, 19802, nr. 350, Ottonis H. Diplomata, a cura di Theodor Sickel, 19802, nr. 300.
73. Vittorio Lallarini, Originali antichissimi della cancelleria veneziana (osservazioni diplomatiche e paleografiche) , in Id., Scritti di paleografia e diplomatica, Padova 19692 (Medioevo e Umanesimo, 6), doc. IV, pp. 181-182 (pp. 158-182).
74. Flaminio Corner, Ecclesiae Torcellanae antiquis monumentis nunc etiam primum editis illustratae, pars tertia, et ultima, Venetiis 1749, p. 193.
75. L. Lanfranchi - G. G. Zille, Il territorio, pp. 27-28.
76. Venetiarum historia vulgo Petro lustiniano Iustiniani filio adiudicata, a cura di Roberto Cessi - Fanny Bennato, Venezia 1964, pp. 90-92. Circa la traslazione dell'episcopato e la dotazione della chiesa di S. Maria di Malamocco Nuovo si v. diverse testimonianze nella sentenza 4 del Codex Publicorum (codice del Piovego), I, a cura di Bianca Lanfranchi Strina, Venezia 1985, pp. 34-42.
77. L. Lanfranchi - G. G. Zille, Il territorio del ducato, p. 28.
78. Si v. ad esempio la donazione del 1001 in favore dell'"Episcopatus Sancte Genetricis Dei et Virginis Marie Sede Sancte Altinatis Ecclesie" (F. Corner, Ecclesiae Torcellanae [...>, pars prima, p. 167) e la menzione, in Giovanni diacono, di Valerio "Altinatis ecclesie presul", suo contemporaneo (La cronaca, p. 171).
79. P. F. Kehr, Rom und Venedig, pp. 143, 149-150.
80. M.G.H., Diplomata, Friderici I. Diplomata, a cura di Heinrich Appelt, III, 1985, nr. 691.
81. Harry Bresslau, Karls des Grossen Urkunde fiir das Bistum Torcello, "Neues Archiv der Gesellschaft für ältere deutsche Geschichtskunde", 38, 1913, P. 527 (pp. 527-534).
82. Antonio Baracchi, Le carte del Mille e del Millecento che si conservano nel r. Archivio notarile di Venezia, "Archivio Veneto", 10, 1880, t. 20, p. 68 (teste Amabile).
83. P. F. KehR, Rom und Venedig, app., pp. 179-180 (1173 marzo).
84. Die summa magistri Rolandi nachmals papstes Alexander III. nebst einem Anhange incerti autoris quaestiones, a cura di Friedrich Thaner, Innsbruck 1874, p. 41. Catherine E. Boyd, Tithes and Parishes in Medieval Italy. The Historical Roots of a Modern Problem, Ithaca-New York 1952, p. 199.
85.P. F. Kehr, Rom und Venedig, pp. 39 e 143.
86. Paul F. Kehr, Papsturkunden in Italien. Reiseberichte zur Italia Pontificia, V, Città del Vaticano 1977,
pp. 524-526 nr. I; ID., Italia pontificia, VII/2, p.
90 nr. 9.
87. Id., Italia pontificia, VII/2, pp. 91-92 nr. 16, p. 94-95 nr. 27; ID., Papsturkunden in Italien, V, pp. 530-531 nr. 3. e F. UGHELLI, Italia sacra, V, coll. 1378-1379.
88. CDV, 1151 agosto.
89. F. Ughelli, Italia sacra, V, coll. 1371-1373. La quinta cappella è San Salvatore (coll. 1374-1375).
90. S. Lorenzo di Ammiana, a cura di Luigi Lanfranchi, Firenze 19692, doc. 71.
91. Origo, p. 36.
92. S. Maria Formosa, a cura di Maurizio Rosada, Venezia 1972, pp. IX-X.
93. Doc. cit. supra, n. 92.
94. Doc. cit. supra, n. 90 e F. Corner, Ecclesiae Torcellanae [...>, pars seconda, pp. 92-97 e 100.
95. L. Lanfranchi - G. G. Zille, Il territorio del ducato, pp. 33 e 24.
96. Doc. cit. supra, n. 95.
97. M.G.H., Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, I (911-1197), a cura di Ludwig Weiland, 19632, p. 153, nr. 102.
98. SS. Trinità, doc. 9, p. 37.
99. Venetiarum historia, pp. 90-92.
100. CDV, 1071 aprile e SS. Trinità, II, doc. 24, p. 68 per la menzione di un "plebanus de Clugia Maiore" e S. Giorgio di Fossone, a cura di Bianca Strina, Venezia 1957, doc. 3 p. 9 per Chioggia Minore.
101. S. Maria Formosa, pp. 23-25, doc. 15.
102. Venetiarum historia, pp. 81-85.
103. S. Giorgio Maggiore, Il, doc. 395, pp. 163-164.
104. S. Maria Formosa, p. XIX, n.
105. Doc. cit. supra, n. 95.
106. Ad es. doc. cit. supra, n. 42 e CDV, 1184 novembre.
107. F. CORNER, Ecclesiae Venetae [...>, Decas prima, p. 325 (1198 gennaio).
108 Id., Ecclesiae Venetae [...>, Decadis decimae sextae pars posterior, p. 253 (a. 1349)
109. Cit. supra, n. 48: "Sancimus, ut illi, qui in vestra parochia assidue commorantur, et quibus tam ipsis, quam eorum familiis spiritualia administratis, decimas vobis absque alicujus contradictione persolvant".
110. Per questo problema mi permetto di rinviare al mio Aspetti e organizzazione della cura d'anime a Venezia nei secoli XI-XII, in AA.VV., La Chiesa di Venezia nei secoli XI-XIII, a cura di Franco Tonon, Venezia 1987, pp. 56-58 (pp. 53-72).
111. A.S.V., Mensa patriarcale, b. 1, Catasticum episcopatus Castellani, c. II.
112. Lo rileva lo stesso Rosada nell'avanzare l'ipotesi: S. Maria Formosa, p. IX.
113. CDV, 1060 maggio.
114. F. Corner, Ecclesiae Venetae [...>, Supplementa ad ecclesias Venetas et Torcellanas antiquis documentis, pp. 107-109.
115. Città Del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, Fondo veneto, perg. 14825.
116. D. Rando, Aspetti dell'organizzazione, p. 55.
117. Cit. supra, n. 95.
118. Giambattista Gallicciolli, Delle memorie venete antiche profane ed ecclesiastiche, Venezia 1795, 1. II, t. III, pp. 170-172.
119. C. E. Boyd, Tithes and Parishes, pp. 75-76.
120. P. F. Kehr, Italia pontificia, VII/2, p. 133 nr. 14.
121. Bianca Betto, Il Capitolo della basilica di S. Marcoin Venezia : statuti e consuetudini dei primi decenni del sec. XIV. In appendice un confronto con il Capitolo della cattedrale di S. Pietro di Castello fino al secolo XVI, Padova 1984, App. I, nr. 3, pp. 264-268.
122. P. F. Kehr, Papsturkunden in Italien, I, p. 30 nr. II; Id., Italia pontificia, VII/2, p. 134 nr. 22.
123. La sentenza è riportata nelle lettere di Clemente III alle chiese di S. Canziano e di S. Maria Mater Domini: P. F. Kehr, Italia pontificia, VII/2, p. 159 nr. 5 e p. 166 nr. 1.
124. C. E. Boyd, Tithes and Parishes, p. 142.
125. Ibid., pp. 119-125; C. Violante, Pievi e parrocchie, p. 745.
126. Doc. cit. supra, n. 91.
127. L. Lanfranchi - G. G. Zille, Il territorio del ducato, p. 54 e R. Cessi, Venezia ducale, II/1, pp. 131 S.
128. Mauro Ronzani, L'organizzazione della cura d'anime nella città di Pisa (secoli XII XIII), in AA.VV., Istituzioni ecclesiastiche della Toscana medioevale, Galatina 1980, p. 84 (pp. 35-85).
129. Id., Aspetti e problemi delle pievi e delle parrocchie cittadine nell'Italia centro-settentrionale, in AA.VV., Pievi e parrocchie in Italia nel basso medioevo (sec. XIII X V) . Atti del VI convegno di storia della Chiesa in Italia (Firenze, 21-25 settembre 1981), I, Roma 1984 (Italia sacra, 35), pp. 310 e 313 (pp. 307-349).
130. Per brevità si rinvia a Hans Erich Feine, Kirchliche Rechtsgeschichte. Die Katholische Kirche, Köln-Wien 19725, pp. 197-199, 379-382 e a Cosimo Damiano Fonseca, Canoniche regolari, capitoli cattedrali e " cura animarum", in AA.VV., Pievi e parrocchie in Italia nel basso medioevo (sec. XIII-XV). Atti del VI convegno di storia della Chiesa in Italia (Firenze, 21-25 settembre 1981), I, Roma 1984 (Italia sacra, 35), pp. 257-278.
131. B. Betto, Il Capitolo, pp. 216-217.
132. F. Corner, Ecclesiae Venetae [...>. Supplementa, pp. I22-123 (a. I197).
133. Id., Ecclesiae Venetae [...>. Decadis decimae sextae pars posterior, pp. 229-230.
134. F. Ughelli, Italia sacra, V, pp. 1370-1371.
135. CDV, 1128 gennaio, Codex Publicorum, sent. 35, pp. 244-246.
136. P. F. Kehr, Italia pontificia, VII/2, pp. 92-93 nr. 2I.
137. SS. Trinità, doc. 9, p. 37.
138. Doc. cit. supra, n. 11.
139. S. Giorgio Maggiore, II, doc. I, p. 20 e V. Lallarini, Originali, app., doc. II, pp. 177-179.
140. SS. Trinità, doc. 5, pp. 26-28.
141. S. Lorenzo, doc. I, pp. 7-9.
142. Ibid., p. 8: "[...> habeat firmissima potestatem post hobitum suum monasterium hordinare quacumque homine voluerit pro vera virtute sicut et ego ei omnia hordinavit".
143. Hans Erich Feine, Langobardisch-italisches Eigenkirchenrecht (III. Teil), "Zeitschrift der Savigny-Stiftung fiir Rechtsgeschichte", kanonistische Abteilung, 32, 1943, p. 134 nr. 177 (pp. 64-I90).
144. Emilio Herman, " Chiese private" e diritto di fondazione negli ultimi secoli dell'impero bizantino, "Orientalia christiana periodica", 12, 1946, pp. 302-321.
145. Hans Erich Feine, Eigenkirchliche Erscheinungen in Dalmatien im frühen Mittelalter, "Zeitschrift der Savigny-Stiftung fiir Rechtsgeschichte", kanonistische Abteilung, 33, 1944, pp. 263-277.
146. Paul Aebischer, Esquisse du processus de dissémination de capella en Italie, "Archivum Latinitatis Medii Aevi", 5, 1929, pp. 13-14 (pp. 5-44),
147. Andrea Castagnetti, Arimanni in "Romania" fra conti e signori, Verona 1988, p. 53.
148. Si veda Id., Insediamenti e "populi", n. 70.
149. Silvio Tramontin, Realtà e leggenda nei racconti marciani veneziani, "Studi Veneziani", 12, 1970, pp. 35-58 e ID., Origini e sviluppi della leggenda marciana, in AA.VV., Le origini della Chiesa di Venezia, a cura di Franco Tonon, Venezia 1987, pp. 167-180.
150. Andrea Galante, Per la storia giuridica della basilica di S. Marco, "Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte", kanonistische Abteilung, 2, 1912, p. 296 (pp. 283-298).
151. S. Giorgio Maggiore, II, doc. I, p. 20.
152. "Verum, quia ecclesia fuerat pertinens ad dominium basilice Beati Marci que est capella nostri palacii et libera a servitute sancte matris aecclesie, volumus ut eadem libertate semper consistat, ut nullus episcopus servitutis usum requirere aut prandia presumat, nisi tantum ut previsorem decet rectitudinem illos tenere doceat et pabulum vite aeterne ministret" (ibid.).
153. In tal senso interpreta il passo Hans Erich Feine, Langobardisch-italisches Eigenkirchenrecht (I. Teil), "Zeitschrift der Savingy-Stiftung für Rechtsgeschichte ", kanonistische Abteilung, 30, 1941, p. 94 nr. 247 (pp. 1-95)
154. G. Gallicciolli, Delle memorie venete, 1. II, t. IV, p. 201.
155. Andreae Danduli Chronica per extensum descripta, a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII/1, 1939, p. 294.
156. Canonico di San Marco, dal 1483 pievano di San Basso, indirizzò al duca il suo De immunitatibus Ecclesiae S. Marci, pubblicato poi da G. Gallicciolli, Delle memorie venete, 1. II, t. IV, pp. 183-235.
157. Ibid., p. 196 e bibliografia cit. in A. Galante, Per la storia, p. 297 nr. 3.
158. Doc. cit. supra, n. 48.
159. P. F. KEHR, Italia pontificia, VII/2, p. 131 nr. 7 e pp. 136-137 nr. 35.
160. Pietro Pressutti, Regesta Honorii papae III, II, Roma 1895, nr. 4038, p. 80.
161. Doc. cit. supra, n. 47.
162. La comparazione è tentata da B. Betto, Il capitolo, pp. 6-21. Si vedano però i rilievi metodologici del Fleckenstein circa le possibilità di accostamento delle cappelle palatine alle chiese di palazzo bizantine: Josef Fleckenstein, Die Hofkapelle der deutschen Könige, I, Grundlegung. Die karolingische Hof kapelle, Stuttgart 1959, p. 43 nr. 178.
163. La sottoscrizione di "Dimitrium tribunum notarium nostre capelle primicerium" quale rogatario della donazione di S. Ilario nell'819 ha indotto a ritenere provata l'esistenza di cappellani ducali ancor prima dell'arrivo delle spoglie di san Marco a Venezia: Gina Fasoli, Liturgia e cerimoniale ducale (1974), ora in Ead., Scritti di storia medievale, a cura di Francesca Bocchi - Antonio Carile - Antonio Ivan Pini, Bologna 1974, p. 546 (nn. 529-561) e B. Betto, Il capitolo, p. 14. La tradizione dell'atto è molto tormentata, tuttavia va rilevato che nella copia (C), molto più corretta della (B), manca il "nostrum capelle primicerium". Questa circostanza, e la stranezza di un laico quale primicerio inducono a ritenere interpolata la copia (B) in questo punto (SS. Ilario e Benedetto, pp. 5-8 circa la tradizione del doc., p.10 e p. 14 per le citazioni). La prima menzione del cappellano è in M.G.H., Capitularia regum Francorum, II, p. 147 nr. 239.
164. Giovanni Lorenzoni, Venezia medievale, fra Oriente e Occidente, in AA.VV., Storia dell'arte italiana, V, Torino 1983, pp. 402-406 e 422 (pp. 385-443).
165. S. Giorgio Maggiore, I, doc. 31.
166. Roberto Cessi, L'"investitura" ducale, "Atti dell'Istituto veneto di scienze, lettere ed arti", 126, 1967-68, p. 289 nr. 70 (pp. 251-294)
167. Reinhold C. Mueller, The Procurators of San Marco in the Thirteenth and Fourteenth Centuries: a Study of the Office as a Financial and Trust Institution, "Studi Veneziani", 13, I 971, pp. 108- 110.
168. P.L., 200, nr. 336. P. F. Kehr, Italia pontificia, VII/2, p. 141 nr. 2.
169. S. Tramontin, Realtà e leggenda, pp. 54-55.
170. Gina Fasoli, Nascita di un mito (1958), ora in Ead., Scritti di storia medievale, p. 454 (pp. 445-472). Sul rituale civico, Edward Muir, Civic Ritual in Renaissance Venice, Princeton 1981 (trad. it. Il rituale civico a Venezia nel Rinascimento, Roma I 984).
171. La discussione delle fonti è in G. Fasoli, Liturgia e cerimoniale ducale, pp. 532-534.
172. Editi insieme alle consuetudini In B. BETTO, Il capitolo, pp. 87-193.
173. B. Betto, Il capitolo, p. 106, cap. XXX.
174. L'"investitura sancti Marci" è attestata dall'Editio tertia dell'Origo, ascritta ai tempi di Pietro Ziani (†1229) (Origo, p. 134) e da un testimoniale del 1222 (A.S.V., Cancelleria inferiore, b. 30, notaio Rustico "de Compagnino", [1222> luglio 5, teste Donato monaco di San Giorgio Maggiore).
175. G. Fasoli, Liturgia ducale, p. 545.
176. Paolo Prodi, Strutture e organizzazione della Chiesa di Venezia tra il XV e il XVII secolo: ipotesi di ricerca, "Atti della Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna, classe di Scienze morali, Memorie" 61, 1970-1971, p. 9 (pp. 5-30).
177. A. Galante, Per la storia, p. 285; cf. pure p. 290, dove la cappella ducale è vista come "fulcro della potestà giurisdizionale dei dogi in materia ecclesiastica".
178. Sul peso di tale mito nella cronachistica, G. Fasoli, Nascita di un mito, pp. 445-472; A. Carile, Chronica Gradensia, pp. 11 2-118.
I 79. Olimpia Aureggi Ariatta, Influssi delle relazioni col Levante sul diritto ecclesiastico della Repubblica Veneta, "Archivio Storico Lombardo", ser. IX, 7, 1968, pp. 214-219.
180. Giorgio Cracco, Venezia nel medioevo: un "altro mondo", in AA.VV., Storia d'Italia, diretta da
Giuseppe Galasso, VII/I, Torino 1986, p. 20
(pp. I-157)
181. Giovanni Tabacco, L'ambiguità delle istituzioni
nell'Europa costruita dai Franchi, (1975), ora in AA.VV., Forme di potere e struttura sociale in Italia nel Medioevo, a cura di Gabriella Rossetti, Bologna 1977, pp. 73-81.
182. Gabriel Le Bras, Le istituzioni ecclesiastiche
della Cristianità medievale, a cura di Luigi Prosdocimi e Guerrino Pelliccia (Storia della Chiesa.
Dalle origini ai nostri giorni, XII/2), Torino
1974, p. 694.
183. Se ne veda un bilancio in A. Castagnetti, Arimanni in "Romania", pp. 7-11.