Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’avvento delle terapie mediche, nonché i più importanti risultati di questi trattamenti sul piano clinico e sanitario, sono legati alle scoperte e agli sviluppi della chemioterapia antinfettiva e degli antibiotici. Qui illustriamo le principali tappe dell’evoluzione delle terapie antinfettive nel corso del Novecento, soffermandoci sulle principali scoperte, come quella dei sulfamidici e delle penicilline, ed evidenziando lo stretto rapporto tra ricerca chimica, indagini farmacologiche ed esperienze cliniche che ha caratterizzato la storia.
La definizione della chemioterapia e la scoperta del Salvarsan
Sul finire dell’Ottocento lo sviluppo delle tecniche di colorazione dei tessuti fornisce gli strumenti decisivi per l’avvio della chimica terapeutica antinfettiva. Nel 1876 Heinrich Caro, alla Basf, l’industria chimica tedesca, scopre il blu di metilene, che si dimostra efficace per colorare e quindi mettere in evidenza microrganismi e cellule nervose nelle ricerche istologiche. La possibilità di colorare in maniera differenziale i microrganismi, che costituisce un intervento specifico sulle loro proprietà fisiologiche, suggerisce a Paul Ehrlich di studiare le eventuali capacità dei coloranti di interferire selettivamente sui processi vitali dei microbi patogeni senza cioè interessare le funzioni dell’organismo umano. Nel 1891 Ehrlich realizza il primo incoraggiante tentativo di usare i coloranti di sintesi come “proiettili magici”, secondo la metafora da egli stesso proposta. Osservando che il blu di metilene colora selettivamente il plasmodio malarico, Ehrlich somministra il colorante a due pazienti colpiti di malaria. In quel periodo, l’assenza di modelli animali della malattia impedisce tuttavia la prosecuzione delle ricerche.
Nei primi anni del Novecento, Ehrlich apprende che un altro protozoo patogeno, il tripanosoma, causa della tripanosomiasi (o malattia del sonno) nell’uomo, infetta anche gli animali. Inizia così a saggiare vari agenti chimici sulla tripanosomiasi sperimentale, in particolare l’atoxil, un composto organo-arsenicale rivelatosi in grado di eliminare i tripanosomi dal sangue degli animali infetti. L’atoxil si dimostra tossico, causa di cecità e sordità e di lesioni a carico dei nervi del cranio. Ehrlich quindi tenta di modificarne la struttura chimica al fine di ottenere una nuova molecola con le stesse proprietà antinfettive ma non tossica per il nervo ottico. Il gruppo di Ehrlich sintetizza così centinaia di sostanze. Piuttosto incoraggianti sono i risultati ottenuti con gli arsenobenzoli.
Mentre vengono sviluppate queste ricerche, nel 1905, le spirochete sono state isolate come agenti causali della sifilide. Sulla base dell’apparente somiglianza di questi microrganismi con il tripanosoma, il gruppo di Ehrlich avvia la valutazione sulle spirochete dell’efficacia dei centinaia di composti arsenicali già formulati. Nel 1909 Sahachiro Hata, uno dei ricercatori del gruppo di Ehrlich, scopre che il composto 606 è attivo contro la sifilide. Dopo alcuni mesi di studi sugli animali e indagini precliniche, Ehrlich annuncia la scoperta delle proprietà terapeutiche del composto 606, l’arsfenamina, che veniva prodotta e commercializzata dalla Hoechst col nome di Salvarsan. Due anni più tardi viene messa a punto una nuova molecola, il composto 914, un derivato del Salvarsan, il Neosalvarsan, più solubile in acqua quindi più facilmente somministrabile ma sostanzialmente caratterizzato dalla stessa tossicità; ciononostante, i due composti rappresentano i primi chemioterapici (farmaci chimici attivi su microrganismi patogeni) antinfettivi per uso umano e rivoluzionano la cura della sifilide, restando la terapia di prima scelta sino agli anni Quaranta, all’avvento della penicillina.
I sulfamidici
Seguendo la strada aperta da Ehrlich, la ricerca sulle proprietà antinfettive dei coloranti porterà negli anni Trenta Gerhard Domagk alla scoperta dei sulfamidici, i primi farmaci antibatterici.
Nel 1927, Domagk, incaricato dall’industria chimica IG Farben della ricerca sui farmaci per il trattamento delle malattie interne infettive, sceglie di condurre le ricerche di inibizione chimica dello sviluppo batterico sul modello sperimentale dell’infezione da streptococco. Dopo alcuni anni, la linea di ricerca più promettente si rivela quella sui coloranti azoici, tra cui in particolare la fenazopiridina (un colorante rosso) e un suo analogo, la crisoidina. Pur dotata di proprietà antisettiche sulle culture streptococciche, la crisoidina si rivela inefficace sul modello animale sperimentale. A questo punto Heinrich Horlein, direttore della divisione medica della IG Farben, si ricorda che nel 1909, lavorando alla Bayer, era riuscito a potenziare la capacità di legarsi alla lana dei coloranti azoici incorporando un gruppo sulfonamidico nella loro struttura. Suggerisce pertanto di tentare una cosa analoga per migliorare l’efficacia antibatterica dei coloranti azoici. Così, nel novembre del 1931, il test di efficacia sul primo colorante sulfamidico dimostra che la sua somministrazione guarisce gli animali dall’infezione streptococcica. Nel natale del 1932, Domagk presenta richiesta di brevetto per un gran numero di coloranti sulfamidici, uno dei quali sarebbe diventato universalmente noto come Prontosil rosso, primo sulfamidico per il trattamento delle infezioni batteriche nell’uomo. Le prove dell’efficacia clinica dei sulfamidici si accumulano velocemente, tuttavia Domagk attese sino al 1935 per pubblicare i risultati delle sue ricerche. Quello stesso anno un gruppo di ricerca dell’Institute Pasteur di Parigi, coordinato da Ernest Fourneau e di cui fanno parte Federico Nitti, Daniel Bovet, Jacques e Thérèse Tréfoüel chiarisce le ragioni per cui il Prontosil non possiede azione batteriostatica in vitro. Il Prontosil deve essere metabolizzato nell’organismo, cioè il gruppo azoico rosso dev’essere scisso, per formare un composto incolore, il sulfonilamide o sulfamidico, che è la sola e vera parte battericida. Il sulfamidico viene presto sintetizzato, dimostrando efficacia superiore al Prontosil. Negli anni successivi vengono sintetizzati decine e decine di nuovi sulfamidici, sempre più attivi e meno tossici, come la sulfapiridina, con la quale nel 1943 sarà curata la polmonite di Winston Churchill e il sulfatioazolo, che, formulato nel 1939 resterà per oltre due decenni il parametro di valutazione dell’attività antimicrobica di tutti i nuovi agenti antinfettivi. Con l’avvento della penicillina e dei suoi derivati semisintetici l’uso dei sulfamidici e la ricerca su questa classe di farmaci vengono significativamente ridimensionati. Verso la metà degli anni Sessanta però la scoperta dei meccanismi d’azione dei sulfamidici fa rinascere l’interesse per questa classe di versatili sostanze farmacologiche che oggi, pur ormai limitate nell’uso, entrano nella composizione anche di ipoglicemizzanti, diuretici, antitiroidei, non solo di preparati batteriostatici.
Gli antibiotici: la penicillina
Gli antibiotici sono composti generalmente ottenuti da microrganismi (muffee, funghi, batteri) capaci di distruggere microrganismi patogeni o inibirne la crescita. L’idea di terapia antibiotica viene avanzata per la prima volta da Louis Pasteur nel 1877, in una comunicazione nella quale si dimostra l’antagonismo tra clostridio settico e Bacillus anthracis, il batterio responsabile del carbonchio. Per descrivere la competizione tra specie diverse di microrganismi, il batteriologo francese Jean Paul Vuillemin propone nel 1889 il termine antibiosi.
In quella data si sono già accumulate diverse osservazioni sulla competizione tra muffe e batteri, in particolar modo sulle capacità di alcuni ceppi della muffa Penicillium di contrastare la crescita batterica. Tra queste ricordiamo le esperienze di John Tyndall del 1876; quelle di Vincenzo Tiberio a Napoli nel 1895. A ridosso del Novecento, di particolare rilievo sono gli studi di Bartolomeo Gosio e di Ernest Duchesne. Il primo a Roma, aveva cristallizzato nel 1896 una sostanza antibiotica a partire da una coltura di Penicillium glaucum. L’acido micofenolico – così Gosio chiamò questa sostanza nel 1913 – troppo tossico per un impiego in clinica, rappresentava tuttavia la prima penicillina mai indagata. A Duchesne si deve invece nel 1897 la prima lunga monografia dedicata all’esame delle possibili applicazioni terapeutiche della competizione tra microrganismi. Gli incoraggianti risultati ottenuti con il Penicillium però non riescono a dare impulso a ricerche sistematiche, così per oltre vent’anni nessuna significativa acquisizione sarà ottenuta sull’azione antibiotica di quella muffa.
Tornando dalle vacanze alla fine dell’estate del 1928, Alexander Fleming osserva a Londra l’inibizione della crescita in una coltura di stafilococchi intorno a una muffa di Penicillium sviluppatasi in una piastra di Petri dimenticata per oltre un mese sul bancone del laboratorio. Fleming ipotizza che la muffa rilasci la penicillina, una sostanza capace di produrre la lisi batterica. Tenta quindi di purificarla filtrando il fluido su cui era stato appositamente messo in coltura altro Penicillium notatum. Il filtrato dimostra di inibire la crescita e talora di uccidere vari tipi di batteri, ma non ad esempio il Bacillus influenzae. Nella pubblicazione di questa scoperta, Fleming sembra non comprendere appieno il significato delle sue osservazioni e userà a lungo la penicillina come reattivo di laboratorio per isolare in particolare il Bacillus influenzae.
Nel decennio successivo alla scoperta di Fleming diversi gruppi di ricerca tentano vanamente di ottenere la penicillina in forma pura, al fine di avviarne la produzione per scopi terapeutici. Tuttavia la penicillina estratta con vari metodi risulta sempre troppo labile e si degrada prima di cristallizzare.
Nel 1938, a Oxford inizia la collaborazione di Howard Walter Florey ed Ernst Boris Chain per una ricerca finanziata dalla Rockefeller Foundation sulle sostanze naturali generate dai microrganismi. Nell’allora scarna letteratura sull’argomento, Chain rintraccia il lavoro di Fleming e i due quindi iniziano a studiare la penicillina. Giungono dapprima all’isolamento e quindi nel 1940 a identificare il principio attivo in forma stabile. La penicillina in forma pura e cristallizzata può ora essere saggiata in vivo nelle infezioni sperimentali sugli animali. Nel maggio del 1940 Florey inocula una sospensione letale di streptococchi a otto cavie: a quattro di esse somministra quindi dosi intraperitoneali di penicillina, mentre una riceve soltanto una singola dose. Gli animali non trattati muoiono, così come il topo trattato con una singola dose. È quella la prima dimostrazione sperimentale della moderna terapia antibiotica, che l’anno successivo viene testata per la prima volta sull’uomo, riscontrando un’analoga straordinaria efficacia per il trattamento delle infezioni batteriche.
La guerra dà uno straordinario impulso alle ricerche finalizzate alla messa a punto di tecniche di produzione della penicillina su scala industriale col metodo della fermentazione o alla scoperta delle procedure per la sintesi della sostanza. Prima della fine della guerra questo sforzo aveva portato alla produzione di quantità eccezionali di penicillina e alla messa a punto presso il MIT (Massachusetts Institute of Technology) di Boston delle prime penicilline semisintetiche.
Sembra che sia stato l’ucraino naturalizzato americano Selman Abraham Waksman a coniare il termine antibiotico, per designare le sostanze ottenute dai microrganismi e in grado di distruggere i batteri. A Waksman si deve anche la scoperta della streptomicina nel 1944, primo antibiotico specifico per il trattamento della tubercolosi.
Un’altra scoperta di rilievo nel campo degli antibiotici si deve a Giuseppe Brotzu, direttore dell’Istituto di Igiene di Cagliari. Questi, nel 1945, aveva notato che la muffa Cephalosporium acremonium impedisce lo sviluppo di batteri persino nelle acque di fogna. Usando la tecnica di Fleming, Brotzu riesce a ottenere dai fluidi di coltura un filtrato antibatterico molto attivo e a largo spettro. Le ricerche di Brotzu non riescono a suscitare interesse in Italia e ancor meno all’estero. Nel 1948 l’igienista sardo entrò in contatto con Florey e Norman Heatley e col gruppo di studio sugli antibiotici del Medical Research Council inglese. Si arriva così in Inghilterra a isolare un primo composto, la cefalosporina P, quindi la cefalosporina N e quindi nel 1962 la cefalosporina C. I composti isolati dal ceppo di Cephalosporium di Brotzu non ebbero impiego clinico ma serviranno come base per la ricombinazione chimica destinata alla produzione di cefalosporine semisintetiche. A partire dal 1964 la commercializzazione di varie cefalosporine, consentirà di affrontare infezioni batteriche non sensibili all’azione delle penicilline. Altrettanto ben tollerate come le penicilline, ma a differenza di queste quasi tutte somministrabili per via orale, le cefalosporine verso gli anni Settanta hanno superato nell’impiego la classe di antibiotici inaugurata dalla scoperta di Fleming.
Nei decenni successivi i farmacologi hanno sostanzialmente migliorato la qualità degli antibiotici scoperti, mentre la medicina ha evidenziato il problema della resistenza degli agenti infettivi agli antibiotici, che di fatto sta mettendo sotto scacco la terapia medica e spinge la ricerca a esplorare nuove strategie basate sulle tecniche della biologia molecolare in grado di neutralizzare la replicazione degli agenti infettivi, o addirittura a usare nella lotta contro i batteri dei virus che infettano e lisano i batteri (batteriofagi). Per esempio, una delle malattie che ha maggiormente guadagnato in termini di ripresa della sua diffusione dallo sviluppo della resistenza è stata la tubercolosi. Lo sviluppo della resistenza risulta sicuramente favorito dall’uso improprio degli antibiotici e dell’aumento di pazienti immunodepressi ospedalizzati, tuttavia alla base del fenomeno c’è soprattutto il meccanismo evolutivo della selezione naturale, che consente alle popolazioni batteriche di sviluppare, attraverso la sopravvivenza differenziale di ceppi meno suscettibili al farmaco, una risposta adattativa all’attacco terapeutico contro l’infezione.