Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
È con il X secolo che il mondo giudaico intensifica in modo significativo la relazione con la tradizione filosofica classica, e soprattutto con il peripatetismo arabo. Tra il X e il XII secolo si sviluppa un neoplatonismo ebraico. Nel XII secolo emerge la figura di Maimonide, un cardine nella storia del pensiero giudaico; mentre è soprattutto in Spagna, Renania e parti dell’Italia settentrionale che si sviluppa la corrente mistica della cabbala. Anche in Provenza e in Italia il pensiero ebraico vive un periodo fiorente, soprattutto tra XIII e XV secolo, con fecondi contatti con la filosofia cristiana e la scolastica latina.
Se il primo incontro del mondo giudaico con la filosofia greca avviene già con Filone di Alessandria, durante l’epoca talmudica, ossia dal II al V secolo, il giudaismo classico prende le distanze dal mondo greco e dal pensiero filosofico proseguendo sulla linea di una tradizione inizialmente poco incline ad aprirsi ad altri schemi concettuali.
La tradizione giudaica si basa su un sistema di norme, un corpus giuridico comprendente le sentenze rabbiniche, la cui funzione è di fare da completamento del testo biblico, che inizialmente viene tramandato oralmente e che viene poi codificato nel Talmud: questa parte normativa della tradizione è detta halakah. La aggada (“racconto”) è invece una parte non normativa, basata su racconti anche prodigiosi o detti sapienziali. Il Talmud si compone della Mishnah, ossia la ripetizione della legge (Torah), e della Gemarah, il commento scritto alla Mishnah. Esistono due commenti, da cui derivano due Talmud, quello babilonese e quello palestinese, detto di Gerusalemme. Di fatto il giudaismo nasce come una religione basata tutta sulla vita pratica dell’uomo, una religione priva di dogmi e non fondata su una teologia o su spunti speculativi, ma piuttosto un codice di azione e di comportamento; è incentrata sulla halakah, e non prevede nessuna ricerca di fondamenti teoretici.
È questo il motivo principale per cui il Talmud prende le distanze dalla filosofia greca, la quale viene considerata come una sapienza straniera, da contrapporre allo studio della legge e della tradizione. Nel 634 i musulmani d’Arabia invadono gli imperi bizantino e sassanide stabilendo un califfato con sede prima a Damasco e poi a Baghdad; sotto questo dominio le comunità ebraiche godono di un clima di tolleranza. Le tre religioni del libro entrano in contatto. Nel mondo islamico si sviluppa il kalam, un metodo di discussione teologica fondato sull’argomentazione razionale e dimostrativa con funzioni apologetiche nei confronti della religione, “nato, a quanto pare, da un lato dai dissensi tra le sètte all’interno dell’islam [...], dall’altro dalle discussioni tra musulmani e seguaci delle altre religioni dell’impero islamico” (Colette Sirat, La filosofia ebraica medievale, 1985). Parallelamente, anche nel mondo giudaico si sviluppa un’esperienza simile, che i critici definiscono come una sorta di kalam ebraico: una necessità apologetica nei confronti della religione a fronte sia delle molte conversioni all’islam sia delle critiche al giudaismo classico portate dalla setta dei caraiti. Sorta, probabilmente, intorno al VIII-IX secolo, questa setta rimprovera al giudaismo classico di essere privo di spessore dottrinale e rifiuta la tradizione talmudica per tornare alla sola Torah scritta. In reazione a questa corrente sorge la difesa del Talmud a opera dei rabbaniti. Tra gli esponenti del kalam ebraico spicca la figura di Saadia Gaon, ma ricordiamo anche Dawud al-Muqammis e, tra i caraiti, Abu Yusuf Yaqub al-Qirqisani e Yefet ben Eli.
Saadia ben Yosef nasce a Fayyum, in Egitto, da dove si sposta successivamente in Palestina, Siria e Iraq; è generalmente conosciuto con il nome di Saadia Gaon, dalla sua carica presso l’accademia di Sura (Mesopotamia). Grande astronomo e giurista, è il maggior rappresentante del kalam ebraico e della difesa del giudaismo contro i caraiti, difesa che porta avanti utilizzando metodi dimostrativi e razionali.
Tra le sue molte opere, grande rilievo ha il Libro delle credenze e delle convinzioni (in arabo, Kitab al-amanat wa-l-i’ tiqadat). Per Saadia l’argomentazione filosofica e scientifica e la rivelazione hanno un’origine comune. Egli procede nella sua argomentazione proponendo, per ogni problema, una dimostrazione razionale alla soluzione accompagnandola con passi biblici a sostegno. Alcuni importanti questioni esposte nel Libro sono la creazione del mondo, il tema della rivelazione e della profezia, i prodigi, l’unità divina.
Per quanto riguarda il problema della creazione del mondo, Saadia fornisce quattro prove razionali a sostegno di quanto dice la Bibbia sulla creazione ex nihilo, verità, dunque, sia rivelata che fondata su una dimostrazione. In merito alla rivelazione, Saadia Gaon pone il problema del perché sia necessaria l’esistenza di profeti nonostante la ragione abbia i mezzi sufficienti per giungere alla conoscenza. Il tema dell’unità divina viene messo in relazione a come essa si concili con la presenza di attributi divini. In merito ai precetti divini, poi, il problema è perché Dio abbia dato i precetti se l’uomo ha la libertà di disobbedire, cosa che gli chiede uno sforzo per obbedire; i precetti sono di due tipi, quelli la cui importanza è comprensibile per la ragione e alla quale si arriverebbe lo stesso, e quelli dati solo dalla rivelazione.
L’esegesi biblica di Saadia ha l’intento di fornire la corretta lettura di alcuni elementi che, considerati nel loro senso letterario, sarebbero in contrasto con la ragione o produrrebbero comunque una contraddizione; così ad esempio riguardo all’uso di attributi antropomorfici di Dio: termini come “occhio”, “orecchio”, “mano” e altri non devono intendersi come un’effettiva attribuzione a Dio di una fisicità (ciò non è possibile), ma un modo per parlare del divino (la mano, ad esempio, rappresenta la potenza divina). Significativo è, a questo proposito, il racconto biblico dell’asina di Balaam (Nm 22, 2-35), nel quale si narra di come l’indovino Balaam non riesca, contrariamente all’asina che devia appositamente il suo cammino rifiutandosi di proseguire, a scorgere davanti a sé l’angelo che Dio gli ha inviato per sbarrargli la strada e impedirgli così di maledire il popolo di Israele come voleva il re di Moab, Balac. La furia di Balaam che si accanisce a bastonate sul povero animale colpevole di non avanzare nel cammino, provoca la reazione dell’asina che
protesta per le percosse ricevute chiedendone ragione al suo cavaliere. Solo allora a Balaam si aprono gli occhi e riesce a scorgere l’angelo. Al di là del significato letterale che è possibile cogliere dalla lettura di questo episodio biblico, l’insegnamento che si nasconde dietro al significato allegorico di questo raccondo è chiaro: l’asina, paradossalmente, è più sapiente di Balaam e, nel riconoscere la presenza del Signore, dimostra quel discernimento profetico che, paradossalmente, manca al suo padrone.
Con la sua chiaroveggenza impedisce al profeta cieco di commettere un errore imperdonabile inducendolo non a maledire, ma a benedire il popolo di Israele.
In seguito all’esperienza apologetica del kalam, il pensiero giudaico entra in contatto, intorno al X secolo, con la filosofia, soprattutto inizialmente negli aspetti più tipici del neoplatonismo. Come può definirsi l’esperienza filosofica nel mondo giudaico medievale, ossia la filosofia ebraica? Come risposta a questo interrogativo, è significativa l’interpretazione fornita da Colette Sirat per cui lo sforzo della filosofia ebraica medievale è quello di “conciliare la filosofia (o un sistema di pensiero razionalistico) e il testo rivelato”.
Tale corrente razionalistica trova più di un punto di accordo, soprattutto nel X secolo, con il peripatetismo dei commentatori arabi e quella particolare lettura del pensiero aristotelico intrisa di elementi fortemente neoplatonici. L’incontro-confronto tra le tematiche neoplatoniche e alcuni elementi fondamentali della tradizione giudaica solleva tuttavia alcuni problemi, tra i quali un punto di discordanza risiede nella immagine del Dio biblico, la cui volontà creatrice, la presenza attiva nel mondo e la relazione immediata con l’uomo lo rende diverso dall’Uno neoplatonico che, impassibile, produce il mondo tramite un’emanazione involontaria.
Gli studiosi hanno individuato alcuni testi come fonti non esplicite del primo neoplatonismo ebraico, non citate direttamente nei testi, ma con i quali questi evidenziano una certa concordanza. Secondo Mauro Zonta, queste sono soprattutto identificabili in al-Kindi, la Teologia di Aristotele, il Liber de Causis, il Libro delle cinque sostanze, l’Enciclopedia dei Fratelli della purità, ma anche testi non provenienti dalla tradizione della falsafa, come alcuni trattati medici e di fisica. Dopo il XII secolo si fa riferimento anche a nuove fonti e soprattutto Avicenna e al-Farabi.
In questo periodo, gli autori di maggior spessore sono Isaac Israeli, Shelomoh Ibn Gabirol, o Avicebron, Bahya Ibn Paquda, Abraham Ibn Ezra. Isaac Israeli, attivo soprattutto in Egitto, è noto per le sue opere di medicina; egli è il primo pensatore a recuperare, integrandole nel pensiero ebraico, fonti filosofiche tardoantiche. Non privo di alcuni elementi aristotelici, il suo pensiero è particolarmente orientato sul recupero della tradizione neoplatonica, al dialogo con la filosofia di al-Kindi ma anche alla Teologia di Aristotele e Plotino. Del neoplatonismo, tuttavia, Israeli non sposa il concetto di emanazione non volontaria del mondo, ma sostiene invece la tesi tradizionale della creazione dal nulla. La sua cosmologia prevede un Creatore, Dio, in luogo dell’Uno plotiniano, una Materia Prima e un Forma Prima dalla cui unione viene l’Intelletto, e un’Anima nella quale sono tre funzioni, non ben separate tra loro, la vegetativa, la razionale e l’animale. L’anima umana è emanazione dell’Intelletto, che è pura luce, e deriva dalla congiunzione della Materia Prima con la Forma Prima. Grazie a questo legame, l’anima può risalire il processo dell’emanazione dalla quale è stata prodotta, e giungere così all’estasi.
Ibn Gebirol è invece un poeta religioso e mistico. Tra le sue opere ricordiamo anzitutto il Fons Vitae (in ebraico Meqor Hayyim), scritto in arabo e successivamente tradotto in ebraico, poi in latino per mano di Giovanni Ispano e Domenico Gundisalvi; nella versione latina l’opera si presenta in forma di dialogo, mentre quella araba si rifa probabilmente a una versione più breve. Notevole è anche la Corona regale, lungo poema scritto in ebraico (Keter Malkut). Il pensiero di Ibn Gebirol ebbe una certa influenza tra i pensatori cristiani; sono presenti elementi aristotelici ma anche neoplatonici, e si caratterizza per il ruolo che viene dato alla nozione di Volontà.
Nell’essere ci sono tre cose: la materia e la forma, la sostanza prima (Dio) e la Volontà che è intermediaria tra le due. Ogni grado dell’essere, al di là della sostanza prima, è composto di materia e forma; esiste una materia universale, comune a tutte le cose, e una forma universale. Di materia e forma dunque sono composte anche le tre sostanze semplici, in relazione tra loro tramite un processo di emanazione: queste sono l’Intelletto, l’Anima (da questo emanata e suddivisa, per funzioni, in razionale, animale e vegetativa) e la Natura (emanata dall’Anima); dalla Natura proviene la sostanza corporea. Nella trattazione di cosa sia a stabilire l’individualità degli esseri, Ibn Gabirol sembra proporre soluzioni diverse, alternativamente riconoscendo la causa dell’individualità nella materia (più o meno densa) o nella forma. Tra i latini il nome di Ibn Gabirol ricorre con frequenza nel contesto della discussione sull’ilemorfismo, di cui diventa sostenitore esemplare; Tommaso d’Aquino lo chiama in causa per criticarne le tesi dell’ilemorfismo delle sostanze angeliche e della pluralità delle forme (ossia l’esistenza di una molteplicità di forme che concorrono a stabilire in ciascun essere la sua individualità).
Il fine ultimo della vita umana è la scienza, intesa come conoscenza del mondo (della materia e della forma) e della volontà, mentre Dio è inconoscibile per l’uomo; attraverso la conoscenza l’uomo è in grado di abbandonare la prigione nella quale, platonicamente, l’anima è rinchiusa nel mondo corporeo, e risalire, quindi, alla propria fonte: Dio. In virtù di una corrispondenza e di una connessione esistente tra l’anima umana e la struttura dell’universo, l’anima conosce se stessa e, contemporaneamente, arriva a conoscere il cosmo e tutte le cose.
Abraham Ibn Ezra nasce in Spagna, dalla quale emigra in seguito alle persecuzioni del 1140 per proseguire la sua vita tra Italia e Provenza. La sua opera più importante è Havy ben Meqits (Il figlio vivente dello sveglio). Di particolare interesse è la sua originale concezione della esegesi biblica. Oltre a inserirvi elementi fortemente neoplatonici, Ibn Ezra sostiene che la lettura della pagina sacra non sia da intendersi nel suo senso letterale. Riguardo alla creazione del mondo, ad esempio, egli sostiene che non debba intendersi che sia avvenuta dal nulla, ma piuttosto da una materia preesistente. Attribuisce inoltre un carattere emanatista al cosmo, che sarebbe costituito da una sfera sublunare, una intermedia (sfere celesti) e una superiore, costituita dagli intelletti separati.
Altra figura di grande rilievo, soprattutto per la contrapposizione al legame tra tradizione giudaica e volontaristica al razionalismo greco-arabo, è quella di Judah Ah-Levi (1075-1141). La sua opera maggiore è il Sefer ha Kuzari. Seguendo una linea dialogica che non sarà estranea agli autori più aperti della tradizione latina (come Abelardo e il Dialogo tra un Ebreo, un Cristiano e un Filosofo o il Libro del Gentile e dei tre saggi di Raimondo Lullo) il Kuzari narra come il re dei Cazari si converta al giudaismo al termine di una discussione con un filosofo, un cristiano, un musulmano e un rabbino.
Argomento principale della discussione è l’atto religioso. Diversamente dall’onnipotenza volontaristica del Dio biblico, il Dio del filosofo – da identificare con Avempace, soprattutto per il tema della congiunzione degli intelletti umani nell’Intelletto separato – è un Dio che conosce solo se stesso. Conoscere qualcosa di diverso da se stesso, infatti, sarebbe segno di una sua imperfezione; ne deriva che Dio non conosce l’uomo né può imporgli degli atti. Questo Dio, dunque, non esprime una volontà, e solo un processo di emanazione esprime il suo rapporto con il mondo da lui prodotto. Giunto il momento del discorso del rabbino si procede alla critica del filosofo. Un primo oggetto di critica riguarda la dottrina dell’eternità del mondo, che viene respinta a favore della tesi della creazione. Per il rabbino, il modo in cui l’uomo può giungere al divino è tramite il divino stesso, cioè attraverso gli atti che Dio ingiunge all’uomo di compiere. I filosofi tuttavia sono da scusare in quanto non hanno potuto conoscere l’oggetto della rivelazione.
Partendo dall’assunto che il Dio ebraico non è il Dio universale dei filosofi, perché si rivela nella storia tramite un solo popolo e una sola lingua, Judah Ah Levi conclude infine che solo la religione ebraica, comparsa all’improvviso e rivelata da Dio, ha un ’origine propriamente divina.
Con il Kuzari Judah Ah Levi si propone di attaccare e confutare la filosofia, intesa come quel peripatetismo alfarabo-avicenniano, per sostenere il primato della rivelazione sulla ragione; questa confutazione avviene per mezzo di metodi dimostrativi (come fa in ambito islamico anche al-Ghazali).
L’affermarsi di un vero e proprio aristotelismo in ambito giudaico si ha nel XII secolo. Le caratteristiche specifiche di questa lettura del filosofo greco sono la mediazione della filosofia attraverso il pensiero tardoantico e islamico; lo sviluppo di tesi in contrapposizione al neoplatonismo; la ricerca di una conciliazione con il testo biblico attraverso una lettura allegorica. Il filosofo più significativo di questa tradizione è senz’altro Moshè ben Maimon, o Maimonide. Maimonide nasce a Cordova, città dalla quale deve fuggire a seguito delle persecuzioni per rifugiarsi in Egitto, dove esercita la professione di medico e scrive opere giuridiche e religiose. Le sue due opere principali sono il Misnhe Torah e La guida dei perplessi.
Maimonide propone un’esegesi razionalistica della Bibbia (come già in Saadia e Ibn Ezra), della quale si cerca una lettura allegorica che oltrepassi il senso letterale. Alla sua opera tuttavia sono state date diverse interpretazioni, in particolare riguardo la misura in cui ragione e rivelazione emergono l’una in relazione all’altra. Maimonide opera una lettura della pagina sacra alla luce della Fisica e della Metafisica di Aristotele cercando, nel contempo, di demitizzare la tradizione e instaurare un dialogo tra esegesi della pagina sacra e filosofia. Maimonide conosce Aristotele, attraverso i commenti di Alessandro di Afrodisia, Al-Fahrabi e Ibn-Sina (Avicenna). Ciononostante, un certo esoterismo è sempre presente nell’esposizione maimonidea, nell’idea che le verità religiose debbano essere dissimulate ai più; anche la Bibbia, infatti, cela il vero senso dietro il senso letterale.
La Guida dei perplessi non si presenta come un’opera sistematica, ma è, anzi, volutamente disordinata. Seguendo l’analisi di Colette Sirat, se ne possono estrarre alcune tematiche di particolare importanza, a partire dalla questione della creazione del mondo. Maimonide espone le diverse tesi e la contrapposizione tra la verità biblica, la creazione dal nulla, e la tesi aristotelica dell’eternità del mondo. Non si dà una soluzione al problema e, sebbene molti abbiano visto Maimonide propendere per la tesi aristotelica, questa in realtà non del tutto è chiara. Nell’esposizione del problema, infatti, la tesi dei religiosi non è dimostrabile e la tesi dell’eternità non è falsificabile ed è premessa valida per un discorso filosofico volto a dimostrare l’esistenza, l’unità e l’incorporeità di Dio. A fronte di questa lettura “filosofica”, tuttavia, è la creazione ex nihilo a essere oggetto di fede. L’esistenza e l’unità di Dio sono dunque oggetto di trattazione filosofica al fine di garantirne la verità e dimostrabilità. Anche la trattazione in merito agli attributi divini è sviluppata in sostegno a questo tema, ponendo il problema di quale tipo di attributi sia predicabile di Dio senza comprometterne l’unità interna e l’immutabilità.
Particolarmente interessante è l’analisi della relazione tra pensiero filosofico, ordine del mondo, e profezia. Maimonide la espone servendosi di una parabola: in un palazzo sta chiuso il sovrano, e i sudditi sono in parte fuori e in parte dentro la città; alcuni volgono le spalle al palazzo, altri vi si dirigono, altri ancora ne sono all’interno e vagano per le stanze. I filosofi raggiungono l’interno del palazzo, ma vi è un’élite, i profeti, che raggiunge la stanza dove risiede il sovrano in persona. Qual è dunque la relazione tra filosofia e profezia? La profezia è un’emanazione di Dio nell’intelletto dell’uomo tramite l’Intelletto agente, e investe la facoltà razionale, quella immaginativa o entrambe. Vi sono così diversi gradi di profezia (ben 11 gradi, distribuiti su tre livelli). Diversamente da quanto ritengono i filosofi, secondo Maimonide per arrivare a possedere il dono della profezia è sì necessario studio e preparazione, ma il volere divino può stabilire di non concedere il dono della profezia nonostante la predisposizione. Infatti, il solo a raggiungere il grado più elevato di profezia e non mediato dalla facoltà immaginativa è un profeta, Mosè.
Per quanto concerne la conoscenza umana, anche questo tema è oggetto di diverse interpretazioni; all’uomo viene riconosciuta da Maimonide piena conoscenza del mondo sublunare, mentre limitata è la conoscenza del mondo celeste e, naturalmente, preclusa è la conoscenza di Dio, del quale si ha solo una conoscenza negativa.
Intorno alla figura di Maimonide, e in particolare sulla relazione tra insegnamento della tradizione ebraica e pensiero filosofico, si sviluppa la discussione dei secoli successivi. Tra i temi più disputati vi è la discussione sui dogmi. La disputa verte sia sul problema se il giudaismo possa prevedere dei dogmi, sia sul numero di questi. La religione giudaica non ha dogmi o precetti; e se i caraiti avevano sentito l’esigenza di formulare dieci principi, sempre in connessione con la necessità di delineare un profilo teoretico per il giudaismo nei confronti delle altre religioni, in ambito rabbanitico, invece, il primo (dopo Saadia) a proporre la formulazione di principi a fondamento del giudaismo è proprio Maimonide (che ne elenca 13).
Se fino al XII secolo la produzione culturale di parte ebraica ha il suo maggiore sviluppo in ambiente arabo, nei secoli successivi è soprattutto tra Provenza e Italia che le comunità ebraiche trovano un clima culturale più favorevole; nella Spagna del XII secolo cominciano infatti le persecuzioni a opera degli Almohadi.
Tra i filosofi provenzali ricordiamo Gersonide (1288-1344). In Italia non si parla arabo e, alla conoscenza dei testi filosofici contribuisce il lavoro di traduzione soprattutto a opera della famiglia dei Tibbon. Oltre alle opere filosofiche giudaiche scritte in arabo, si traducono opere di filosofi islamici, testi della filosofia greca, e si redigono commenti. In Italia i filosofi ebrei entrano in contatto con la tradizione latina, integrandosi nell’ambiente culturale: si pensi alla corte di Federico II dove operavano diversi traduttori ebrei, e, seppure a più di un secolo di distanza, all’apertura dell’Università di Padova agli ebrei nel 1409.
In Spagna invece la situazione è meno rosea a causa delle persecuzioni, che giungono fino all’espulsione degli ebrei dalla Spagna cristiana (1492). Tra i commentatori quattrocenteschi di Maimonide ricordiamo Yosef Alboe Hasdai Crescas.
La cabbala si sviluppa da una parte in Renania, con l’hassidismo ashkenazita, dall’altra in Spagna e in Provenza, a partire dal XII secolo. Il termine significa “tradizione ricevuta”, e infatti la corrente vuole ricollegarsi, nelle sue dottrine, alla tradizione ebraica e, in particolare, a un testo scritto tra il III e il VI secolo, il Sefer Yetsira (Libro della creazione). Si è soliti distinguere una cabbala speculativa, o teosofica, e una estatica.
I temi sviluppati dalla cabbala speculativa sono principalmente la dottrina dell’En Sof (l’“infinito”, l’aspetto nascosto del divino) e delle sefirot (“numero”, “sfera”), tramite le quali Dio si manifesta. Le sefirot sono dieci e non sono propriamente emanazioni di Dio ma costituiscono una sorta di sua topografia interna. Tutti i temi centrali nella speculazione cabbalistica sono ripresi e sistematizzati in un testo del XIII secolo, il Sefer Zohar (Libro dello splendore), opera attribuita a Mosheh ben Shem Tov de Leon.
La cabbala estatica si propone invece la ricerca di un senso nascosto e più profondo dietro al testo scritto tramite alcune tecniche di permutazione delle lettere dell’alfabeto ebraico; è sovente legata alla lettura della Torah, della quale si presenta come lettura esegetica. A titolo esemplificativo delle tecniche, il notariqon è un procedimento simile all’acrostico, nel quale si utilizzano le singole lettere di una parola come iniziali di altre parole; nella gematriah si attribuiscono valori numerici alle lettere e quindi alla parola o a parti di essa; nella temurah si scambia l’ordine delle lettere per trasformare la parola. Tramite questi procedimenti si stabilisce una corrispondenza tra parole volte a rivelare una vera e propria corrispondenza semantica tra loro, un nesso intrinseco alla loro stessa natura. Tali tecniche possono condurre a un’esperienza estatica. Notevole, a tal proposito, è la figura di Abraham Abulafia, il quale elabora, oltre a quelle citate, anche tecniche legate all’uso della respirazione e della musica; egli descrive esperienze visionarie, e nel testimoniare la propria esperienza estatica, ricorre all’uso di un linguaggio del campo semantico della sessualità.
Vi sono alcuni aspetti per i quali tra la mistica sefirotica e cosmologie neolpatoniche è possibile stabilire un accostamento, soprattutto riguardo al rapporto tra uno e molteplice. Vi è tuttavia un’importante differenza. Come fa notare Colette Sirat, la tematica delle sefirot rappresenta un aspetto dinamico di Dio, qualcosa che avviene al suo interno, diversamente quindi dal processo di emanazione dell’Uno neoplatonico, dal quale si produce la molteplicità. Inoltre, “per un filosofo [...] la preghiera e gli atti umani hanno un certo potere sullo stesso individuo, sulla sua psicologia, la sua perfezione, il suo destino, ma - contrariamente a quanto affermano i cabbalisti - non ne hanno alcuno sullo sviluppo del dramma divino”.
L’interesse per le tematiche mistiche della cabbala estatica di Abulafia, come anche del pensiero di Leone Ebreo – o Yehudah Abrabanel – e dei suoi Dialoghi d’amore (per il quale Moshe Idel parla di vero e proprio best-seller dell’epoca), influenza anche filosofi appartenenti alla tradizione cristiana, attivi soprattutto a Modena, Reggio Emilia, Mantova e Firenze, mentre a Ferrara ci si interessa di sviluppare una base, comune a più tradizioni, di studi astrologici. Ne sono esempio le figure di Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494), allievo dell’averroista ebreo Elia Delmedigo (1460-1493), e di Yohanan Alemanno e quella di Marsilio Ficino. Sia in Pico che in Ficino si riscontra un vivo interesse per il misticismo e la cabbala, nella ricerca di una concordanza di queste tematiche con il pensiero cristiano e neoplatonico.