Le vie di pellegrinaggio
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La pratica del pellegrinaggio si lega fin dai primi secoli dell’era cristiana alla venerazione per i luoghi santificati dalla predicazione e dalla passione di Cristo e a quella per le sepolture degli apostoli e dei martiri. Lo sviluppo del culto dei santi fa sì che in tutta Europa le tombe divengano meta di grandi percorsi di pellegrinaggio devozionale e penitenziale. Fin dal II secolo i luoghi più frequentati dai flussi di pellegrini provenienti da tutto il bacino del Mediterraneo sono le catacombe e le basiliche martiriali romane, ma soprattutto le memorie neotestamentarie di Gerusalemme, in particolare il sepolcro di Cristo nel complesso dell’Anastasis. Il momento di maggiore intensità del pellegrinaggio verso Terrasanta coincide con la fase storica più drammatica, al tempo delle distruzioni di al-Hakim, e costituisce la premessa alla crociata. Centri di prima grandezza sono anche i santuari del culto micaelico del Gargano, di Mont Saint-Michel in Normandia e della Sacra di San Michele in Val di Susa, ma soprattutto la tomba dell’apostolo Giacomo, a Santiago de Compostela, divenuta simbolo della Reconquista cristiana antiaraba.
Il fenomeno del pellegrinaggio è legato, fin dai primi tempi dell’era cristiana, al bisogno dei fedeli di venerare luoghi santi attraverso una presenza diretta, un contatto fisico o visivo. Le mete del pellegrinaggio sono da subito di diversi tipi: luoghi identificati, sulla base di una tradizione condivisa, come teatro degli eventi narrati nelle Scritture, luoghi santificati dalla manifestazione del divino, magari attraverso entità angeliche, santuari contenenti le sepolture dei martiri. Le mete più ambite sono i siti di Terrasanta teatro della predicazione, passione e resurrezione di Cristo, e le tombe apostoliche romane. Eusebio attesta pellegrinaggi a Gerusalemme dalle regioni occidentali fin dal II secolo. A Roma è archeologicamente dimostrata la presenza dalla stessa epoca di pellegrini ai trofei eretti sulla tomba vaticana di Pietro, e sulla sepoltura di Paolo sulla Ostiense, ma anche al luogo detto memoria apostolorum al III miglio della via Appia, ove sorge la basilica di San Sebastiano.
Per ragioni non ancora chiare, ma che sono forse legate a un temporaneo deposito dei corpi degli apostoli, si costruisce qui alla metà del III secolo, nel sito di un cimitero più antico ricavato all’interno di una cava, una corte con un portico per i refrigeria (“banchetti funerari”) in onore di Pietro e Paolo. Il culto dei due apostoli è già universale, come dimostrano i molti graffiti di pellegrini giunti persino dall’Africa settentrionale. Un impulso enorme al pellegrinaggio fu dato dall’editto di Costantino, e dalla sua opera di monumentalizzazione, in Terrasanta, a Roma, a Costantinopoli e altrove, dei siti più venerati dalle chiese locali. Dopo il 313 sorsero nelle necropoli di tutte le grandi città dell’impero chiese cimiteriali legate a martyria. Il culto pubblico e festivo dei martiri qui sepolti, guidato dal vescovo secondo un’organizzazione liturgica stazionale, può considerarsi di fatto una sorta di “piccolo pellegrinaggio” che interessa l’intera comunità urbana. Nel dies natalis del martire, ovvero nel giorno della sua morte, l’assemblea viene convocata nella chiesa che ne conserva le spoglie per la celebrazione liturgica episcopale. Anche sulla base di tale prassi si radica l’uso di visitare nei giorni festivi, a prezzo di spostamenti lunghi e faticosi, santuari importanti lontani dalla propria città.
All’emergere di simili forme devozionali è evidentemente sotteso lo sviluppo del culto dei santi. Dagli onori funebri tributati al defunto, legati ancora a modelli pagani e al culto atavico degli antenati, si passa già in età precostantiniana a una particolare venerazione dei martiri, il cui sacrificio estremo viene presto associato concettualmente a quello di Cristo. Il nesso materiale tra altare e corpo del martire, comune se non addirittura obbligatorio a partire dalla fine del IV secolo, fondato sul passo di Ap. 6, 9 “vidi subtus altare animas interfectorum propter verbum Dei” (“vidi al di sotto dell’altare le anime di coloro che erano stati uccisi per testimoniare la parola di Dio”) aumenta a dismisura, nel sentire popolare, la venerazione verso il corpo santo, che diviene quasi res sacra.
Si passa dalla preghiera di compianto “per” il martire, alla preghiera “al” martire, a cui è riconosciuto un potere di intercessione tra uomo e Dio. Per la devozione popolare, imbevuta di elementi folclorici precristiani, i segni della santità finiscono per coincidere con l’incorruttibilità del corpo, ma soprattutto con la potenza miracolistica e taumaturgica. In questa banalizzazione della santità, che privilegia esigenze elementari a discapito degli aspetti teologici più sottili del culto dei martiri, si rintraccia uno dei principali stimoli al pellegrinaggio medievale. Fino al X secolo, quando la Chiesa di Roma inizia a impossessarsi della prassi della canonizzazione, il “riconoscimento” di un santo avviene in ambito locale attraverso uno spontaneo moto popolare, che il potere ecclesiastico tenta, non sempre con successo, di incanalare in forme ortodosse. Alla base della fortuna di un santuario, ossia della sua capacità di divenire meta di un grande pellegrinaggio sovraregionale, vi è la trasmissione orale e la fama del santo taumaturgo, ma allo stesso tempo anche un preciso investimento dei poteri locali laico ed ecclesiastico. Le dinastie dei regni d’Occidente legano le proprie sorti al culto di un particolare santo, la cui tomba diventa ambita meta di pellegrinaggio “nazionale”: così ad esempio tra i Franchi san Martino di Tours e san Remigio di Reims durante i Merovingi. D’altronde alla sostituzione di una dinastia con un’altra poteva seguire la parallela sostituzione tra centri di culto: il destino di un santo era spesso legato al destino del regno.
Il culto del santo ha la sua manifestazione più evidente nel culto delle reliquie: è infatti una certezza comune che la virtus del santo e il suo potere di protezione si leghi nel Medioevo alla materialità della reliquia, e addirittura si possa trasmettere a oggetti venuti in contatto con essa.
Le reliquie sono dunque di due tipi: primarie, ossia corporali; e secondarie, come terra dei martyria di Palestina, frammenti della roccia del Sepolcro, oggetti personali di un santo, olio delle lampade che illuminano i loca sancta, o piccoli elementi di stoffa (brandea, palliola) che i pellegrini mettono a contatto delle tombe venerate. Dalla richiesta di reliquie per la consacrazione degli altari, e dal desiderio di possedere personalmente oggetti santi, “ad quotidianam tutelam atque medicinam”, come scrive Paolino di Nola, sorgono presto gravi abusi, come i furti sacri, la pratica di frazionare i corpi santi, l’invenzione fantasiosa di tombe miracolose, la moltiplicazione delle reliquie, in particolare cristologiche, e il loro commercio. Sono spesso le reliquie secondarie i segni più tangibili di un pellegrinaggio altomedievale, a volte a santuari di cui non si è serbata quasi altra memoria, come quello egiziano di San Mena, meta nel V-VII secolo di un enorme flusso di pellegrini, documentata da piccole ampolle in terracotta (eulogiae), prodotte e vendute in loco, che i devoti appendono al collo come protezioni personali (phylacteria). Questa particolare tipologia di reliquie è soprattutto nota per le eulogiae in peltro di produzione palestinese (fine VI secolo) con la raffigurazione degli edifici costruiti da Costantino in Terrasanta, le cui maggiori raccolte sono nel Museo del Duomo di Monza e nel Museo dell’Abbazia di San Colombano di Bobbio.
A partire dal VI secolo l’adozione nel continente della prassi penitenziale sviluppata dal monachesimo irlandese produce un nuovo tipo di pellegrinaggio. Con il successo dei libri penitenziali, compilazioni di peccati e di penitenze corrispondenti secondo una “struttura tariffaria”, l’espiazione viene ricondotta a un sistema di regole ordinato e meno arbitrario. Il pellegrinaggio diviene una forma ideale di penitenza pubblica e soprattutto, data la pretesa di commisurare la gravità della colpa con l’importanza del santuario da raggiungere, si formalizza in modo sempre più rigoroso una distinzione di rango – peraltro condivisa dai fedeli fin dai primi secoli dell’era cristiana – fra peregrinationes maiores e peregrinationes minores. Ai martyria gerosolimitani e romani, che ovviamente costituiscono il primo gruppo, viene ad associarsi nell’XI secolo un centro di culto della Spagna settentrionale, Santiago di Compostela, di recente fondazione ma diventato presto meta privilegiata del pellegrinaggio europeo.
Il viaggio a Gerusalemme, città percepita come centro ideale della Chiesa pellegrina, e immagine della Jerusalem coelestis, non si interrompe mai nel corso dell’alto Medioevo. Fin dal IV secolo sono molti i resoconti di viaggio che descrivono i vari itinerari per mare e per terra (Pellegrino di Bordeaux, Egeria), i santuari da visitare lungo la via, e che documentano il costruirsi di una “topografia leggendaria dei Vangeli” (Halbwachs). I momenti di maggiore intensità del pellegrinaggio coincidono con le fasi storiche più drammatiche dei santuari cristiani. Subito dopo il 1009, anno della devastazione del Santo Sepolcro da parte del califfo del Cairo al-Hakim, partono da ogni angolo d’Europa enormi pellegrinaggi di massa, come quello del 1026 guidato da Guglielmo conte di Angoulème. È in queste occasioni che il pellegrinaggio verso la Terrasanta si ricopre più che mai di valenze mistiche, facendosi perfetta metafora della condizione del cristiano nel suo travagliato viaggio verso il Regno dei Cieli. Ma è anche questa spinta collettiva, permeata di sentimenti escatologici, a fondersi con le sollecitazioni papali alla guerra santa, costanti nella seconda metà dell’XI secolo, e a portare da lì a poco a rinnovare il viaggio prima nella forma di un pellegrinaggio armato, come quello di Roberto I di Fiandra nel 1089, poi in quella della crociata per la liberazione del sepolcro di Cristo (1099).
Frattanto, con le reliquie giunte da Terrasanta, si dotano in Occidente santuari che vanno a loro volta a costituire nuove tappe del pellegrinaggio europeo. La dotazione di monasteri o la fondazione ex novo di santuari attraverso la traslazione di reliquie dai più venerati luoghi del culto è prassi abituale che riguarda anche le reliquie petrine e giacobine.
Il fatto che a disporre delle reliquie corporali o cristologiche più importanti sia l’aristocrazia ecclesiastica e laica fa capire quale possa essere l’uso politico di queste nuove fondazioni, poste a controllo di direttrici strategiche, o concepite per potenziare determinate aree geografiche attraverso il flusso del pellegrinaggio. Ma sviluppi originali, sul piano architettonico, si hanno in relazione alle memoriae di Terrasanta. L’importazione delle reliquie è a volte accompagnata dal tentativo di riprodurre nelle nuove fondazioni alcuni aspetti della liturgia stazionale di Gerusalemme, e magari di imitare la sua topografia sacra o la forma dell’edificio simbolicamente più rilevante, la rotonda dell’Anastasis. In taluni casi all’origine della copia vi è solo il desiderio di conformare la chiesa a figura della Gerusalemme celeste attraverso l’imitazione del più santo dei martyria palestinesi. È soprattutto dall’età carolingia, in corrispondenza con un significativo aumento del pellegrinaggio oltre mare, che prende piede il fenomeno delle “copie” architettoniche: i casi più noti sono la cappella funeraria di San Michele di Fulda (820), la Cappella Palatina di Aquisgrana, e il Westwerk dell’abbazia di Saint-Riquier a Centula (790-799), in Piccardia, ove anche la liturgia pasquale mira a rievocare quella che a Gerusalemme si svolge tra l’Anastasis e il Martyrium. Anche la cappella ducale dei Particiaci, la prima San Marco di Venezia, viene eretta a partire dall’829 “ad eam similitudinem, quam supra Domini tumulum Hierosolumis viderat” (“a somiglianza di quella sopra la tomba del Signore a Gerusalemme”). Una seconda intensa fase si colloca attorno al Mille e in particolare dopo il 1009. Si datano a questo periodo alcune delle più suggestive copie occidentali del Santo Sepolcro, come la chiesa di Neuvy-Saint-Sépulcre (1045 ca.), contenente in origine al suo interno un’imitazione dell’edicola del Sepolcro, e come la chiesa di Saint-Sauveur di Charroux (oggi distrutta, 1047 ca.), immane santuario consacrato al culto della Santa Virtù di Cristo e di altre reliquie palestinesi, dotato di un presbiterio circolare con doppio deambulatorio. Anche a sud delle Alpi vi è una diffusione di santuari cristologici che diventano meta ambita di pellegrinaggio. A Milano nella chiesa della Santa Trinità, fondata nel 1030 su un inedito impianto a due livelli, è presente un sepolcro simbolico e il sistema degli altari ripercorre la passione, morte e resurrezione di Cristo. Dopo la prima crociata la chiesa diviene, per volontà dell’arcivescovo milanese, meta di un pellegrinaggio suppletivo a quello in Terrasanta, con un’indulgenza che viene concessa nell’anniversario della liberazione di Gerusalemme, e inizia a essere ricordata con il nome di Santo Sepolcro. Non si conosce purtroppo la forma della grande chiesa – sostituita dal Sant’Andrea dell’Alberti – che a Mantova viene eretta, con ogni probabilità secondo modelli costruttivi nord-europei, attorno alla metà dell’XI secolo per conservare una delle reliquie cristologiche più preziose dell’Occidente, il Santo Sangue, la cui inventio è del 1048. La vittoriosa prima crociata induce in tutta Europa un’ennesima ondata di edifici-copie, in alcuni casi legati a stanziamenti di ordini militari.
Benché le fonti parlino spesso di chiese costruite a precisa imitazione dell’Anastasis, addirittura con la ripresa delle misure esatte del santuario ierosolimitano, la copia medievale non risponde alla nostra moderna concezione di “riproduzione formale”, e si limita a una selezione di alcuni elementi architettonici considerati più significativi, sulla base di categorie concettuali e simboliche che spesso ci sfuggono. E così, ad esempio e senza esaurire tutte le varianti documentate, la pianta delle “copie” può essere circolare (Fulda, Lanleff, Cambridge), ottogonale (Paderborn, San Sepolcro di Pisa) o a sedici facce esterne (Aquisgrana); il deambulatorio è opzionale, anche se frequente, così come, al di sopra di esso, il matroneo (Neuvy-Saint-Sépulcre, Santo Stefano di Bologna); i sostegni che delimitano lo spazio centrale possono essere solo quattro (Quimperlé in Bretagna, Saint-Sépulcre di Villeneuve d’Aveyron), sei (Vigolo Marchese), otto (Fulda), o anche dodici (Caen), oppure può esserci, con maggiore somiglianza rispetto al modello dell’Anastasis, un’alternanza di pilastri e colonne (battistero di Pisa).
Una flessione del pellegrinaggio ierosolimitano si ha solo dopo il 1244, anno della definitiva perdita della città per mano dei Khwarismiani, e con la successiva (1300) istituzione del Giubileo da parte di papa Bonifacio VIII.
Il pellegrinaggio ad limina sancti Petri è il più importante del cristianesimo occidentale, sia per l’importanza e il numero dei corpi santi lì venerati sia per il primato universale della sua chiesa, e Roma è tappa quasi obbligatoria per chi dal nord Europa si muove anche alla volta di Gerusalemme. Tale è l’entità numerica del fenomeno che la città si riempie già nel VII-VIII secolo di una moltitudine di strutture ospedaliere e ricettive, come i quattro antichi xenodochia che papa Stefano II fa restaurare (752-757) affiancandoli con altri tre di nuova fondazione. Sono di quest’epoca le prime guide di Roma – modello di una letteratura periegetica che avrà enorme fortuna nei secoli a venire – con le indicazioni sulla topografia sacra della città a uso dei pellegrini, che si organizzano in scholae“nazionali”: quella dei Longobardi, forse istituita dalla regina Ansa moglie di Desiderio, quella dei Franchi creata da Carlo Magno nel 781 circa, quella più antica degli Anglosassoni (727).
Quanto alle vie di comunicazione tra Roma e il Nord Europa, già nel V secolo, in un quadro di generale decadenza del sistema viario consolare, è divenuto impraticabile il tracciato costiero dell’Aurelia ed è necessario percorrere vie interne che, valicando gli Appennini, si innestano verso nord sull’Emilia, e dalla pianura padana si collegano con le strade dirette ai maggiori passi alpini. In età longobarda si viene a selezionare un particolare percorso appenninico, che privilegia, rispetto alla Flaminia, alcune direttrici più settentrionali, come quella che tocca il valico del monte Bardone, già citato da Paolo Diacono, via di collegamento tra le valli del Taro a nord e del Magra a sud.
È questa la variante più nota di un fascio di sentieri paralleli, innervati lungo le valli fluviali appenniniche, che dal IX secolo le fonti iniziano a indicare con i nomi di Via Francesca o Francigena (per l’origine etnica di chi la transita o per il fatto che, percorsa al contrario, essa conduce in Francia), o Romea (dal nome della meta finale del viaggio per i pellegrini d’Oltralpe). Sono diversi i diari di viaggio che documentano le tappe più battute di questa direttrice di pellegrinaggio che unisce Roma e l’Italia meridionale all’Europa. Famoso è quello di Sigerico, arcivescovo di Canterbury dal 989, che, sceso a Roma per ricevere il pallium dal papa, sulla strada del ritorno stila un elenco di 79 submansiones (“soste”) fino al porto di Calais. Il tracciato a sud delle Alpi di Sigerico è grosso modo quello che un secolo e mezzo dopo percorrerà e racconterà nel suo Itinerarium il monaco islandese Nikulas di Munkathvera. Valicato il Gran San Bernardo, la strada si snoda verso la pianura padana attraverso Aosta, Ivrea e Vercelli. Qui si collega un secondo tracciato proveniente dalla Francia meridionale, che dai valichi del Moncenisio e del Monginevro passa per la Val Susa e Torino. Da Vercelli la via francesca prosegue a sud verso Pavia. Oltrepassato il Po, da Piacenza ci si immette sulla Emilia fino a Borgo San Donnino (l’attuale Fidenza), e si imbocca la strada appenninica che, attraverso il monte Bardone e Berceto, raggiunge sul versante tirrenico Aulla, Luni e quindi Lucca, dove è proprio la presenza della via romea a diffondere su scala europea un culto locale come quello del Volto Santo.
Lungo questa strada di valico sono molti gli edifici romanici, con raffigurazioni scolpite che recano una preziosa testimonianza iconografica del pellegrinaggio romeo: il duomo di San Donnino di Fidenza, San Prospero di Collecchio, Santa Maria Assunta di Fornovo, San Moderanno di Berceto, San Caprasio di Aulla. L’ospitalità per i pellegrini è gestita da ospedali urbani, e da una fitta trama di conventi e xenodochia posti lungo tutta la via, in prossimità di ponti, di passi, di tratti boschivi pericolosi. A Berceto un convento per il ricovero dei viandanti viene fondato già da Liutprando. Famoso è poi l’ospedale di San Giacomo di Altopascio (seconda metà XI secolo), a capo di una congregazione che ha nel basso Medioevo sedi su vie di pellegrinaggio anche a nord delle Alpi.
Da Lucca il monaco Nikulas raggiunge Poggibonsi, Siena, Bolsena, Viterbo ed entra infine in Roma sulla Cassia. Si deve ribadire però che la ricostruzione di un tragitto-tipo della strada francigena è più che altro una semplificazione moderna, e poco ha a che vedere con la realtà storica, dal momento che le varianti sono infinite. Diversi sono i percorsi appennici alternativi a quello di monte Bardone, come la strada da Modena per San Pellegrino in Alpe, o i tracciati del Trebbia e dell’Arda, su cui la sede arcivescovile di Milano ha dall’XI secolo esteso il suo potere attraverso il controllo di Bobbio, e del monastero di San Salvatore di Tolla. Non si vuole così negare l’esistenza di vie privilegiate, piuttosto sottolineare come non sia corretto leggere i resoconti del pellegrinaggio romeo alla stregua di normali “guide”, dal momento che essi non si pongono il problema di indicare un itinerario preciso, ma riflettono un modello culturale, un sistema simbolico (Quintavalle), un’esperienza spirituale individuale che si manifesta anche attraverso particolari scelte di tragitto.
I pellegrini che attraversano la penisola per recarsi ai porti dell’Italia meridionale e da qui muovere alla volta della Terrasanta proseguono dopo Roma su un importante sistema di strade che ha i suoi perni nelle antiche vie consolari Appia e Traiana.
Se nell’Hodoeporicon, narrazione del lungo pellegrinaggio (722-729) di san Willibaldo, si legge che una volta attraversata la penisola il santo si imbarca a Reggio per la Terrasanta, sono però sicuramente i porti pugliesi a essere privilegiati nel corso del Medioevo, anche per la possibilità, una volta attraversato l’Adriatico, di seguire un’altra direttrice romana, la via Egnatia, fino a Costantinopoli e da lì proseguire attraverso l’Anatolia verso la Palestina. È Otranto ad esempio il porto di imbarco nell’Iter de Londinio in Terram Sanctam attribuita a Matthew Paris (XIII sec.). E se questo sistema stradale tocca insediamenti religiosi di straordinaria importanza, come l’abbazia di Montecassino, e santuari del grande pellegrinaggio meridionale come San Nicola di Bari, i pellegrini che percorrono la Traiana quasi sempre fanno una deviazione per il Gargano, alla volta del più importante santuario occidentale consacrato all’arcangelo Michele.
La nascita del culto micaelico nella grotta di Monte Sant’Angelo si lega al racconto, trasmesso dall’Apparitio sancti Michaelis in monte Gargano e dalla Vita sancti Laurenti, delle tre apparizioni dell’arcangelo al vescovo sipontino Lorenzo, alla fine del V secolo. Dell’originario culto bizantino si impossessano in seguito i Longobardi. I duchi beneventani Grimoaldo I e Romualdo I intraprendono attorno alla metà del VII secolo opere di sistemazione della scalinata che scende all’antro sacro, sostituite poi da una campagna architettonica della seconda metà dell’XI secolo, di cui rimane traccia nelle splendide porte bronze forgiate a Costantinopoli (1076), e da quella voluta da Carlo I d’Angiò negli ultimi decenni del Duecento, che trasformano la grotta in una vera e propria chiesa gotica. Dall’VIII secolo il culto garganico non è più solo fatto nazionale longobardo ma inizia ad avere rinomanza europea. Nell’870 circa il monaco franco Bernardo, pellegrino a Gerusalemme, ricorda la grotta micaelica tra i maggiori centri di culto della cristianità insieme a Roma e a Gerusalemme. Si muove verso il Gargano anche Oddone abate di Cluny nel 940; l’imperatore Ottone III nel 999, in un pellegrinaggio penitenziale impostogli da san Romualdo; Enrico II nel 1022 e poi a più riprese papa Leone IX alla metà del secolo, in pellegrinaggi connotati da una forte valenza politica antinormanna, quando ormai il santuario micaelico è diventato “il luogo più adatto per ricevervi l’investitura del supremo potere sull’intera Italia meridionale continentale” (Petrucci). Intanto sono sorti gli altri due fulcri della devozione micaelica in Europa, terminali assieme al Gargano di una grande rete del pellegrinaggio transnazionale.
Nel 708 in Normandia, sulla cima di un isolotto roccioso, il futuro Mont-Saint-Michel, è stato fondato un oratorio in onore di San Michele dopo che questi è apparso a Oberto, vescovo di Avranches. Il legame anche architettonico della nuova fondazione con il santuario garganico, dichiarato dal testo dell’Apparitio del IX secolo, ci sfugge per il fatto che la chiesa abbaziale si mostra oggi nelle forme conferitegli dai lavori intrapresi a partire dal 1023, con coro a deambulatorio, impianto a tre navate su pilastri polistili e falso matroneo che si apre con una coppia di bifore per campata. È un rifacimento del XII-XIII secolo, su un impianto che mischia romanico lombardo con elementi transalpini (coro a cappelle radiali), anche il terzo grande centro micaelico, la Sacra di San Michele, fondato più di un secolo prima, ancora una volta a seguito di una apparizione dell’arcangelo. E il luogo, all’imboccatura della Valle di Susa, è dei più strategici nella storia del pellegrinaggio medievale, non solo perché a metà strada tra i due poli, quello normanno e quello pugliese, del grande pellegrinaggio micaelico, ma anche e soprattutto perché da qui si snoda verso est il ramo occidentale della via romea, e si raggiunge in direzione opposta il Moncenisio e le strade che dal sud della Francia conducono a Santiago de Compostela.
A Santiago de Compostela, angolo della Galizia, si data all’820-830 il rinvenimento da parte del vescovo Teodemiro, che aveva seguito le indicazioni di un eremita di nome Pelayo, della tomba riconosciuta come quella dell’apostolo Giacomo figlio di Zebedeo, evangelizzatore della penisola iberica e martire, secondo un’antica leggenda agiografica bizantina.
La prima chiesa a navata unica addossata all’edicola del sepolcro viene sostituita, con l’appoggio di Alfonso II sovrano delle Asturie, da una grande basilica a tre navate (899), con presbiterio quadrato che ingloba la tomba santa, su schemi architettonici di tipo asturiano, e quindi dalla grande cattedrale romanica avviata nel 1075. La fama del santuario cresce a dismisura tra IX e X secolo, con il diffondersi di notizie sui prodigiosi miracoli del corpo santo, e di leggende legate a apparizioni dell’apostolo alla testa delle schiere cristiane contro l’islam, come nella battaglia di Clavijo dell’840, rappresentando una sorta di avanposto geografico e simbolico della Reconquista. Il costante incremento del pellegrinaggio si spiega anche con il favore della Chiesa di Roma, e del monachesimo cluniacense, che nel corso dell’XI secolo riconoscono nel pellegrinaggio compostelano un fondamentale vettore per la diffusione delle idee di riforma, e dunque non si oppongono alle pretese di “apostolicità” della chiesa locale, e ne favoriscono le ambizioni: come nel 1120, quando Callisto II concede al vescovo Diego Gelmirez la dignità archiepiscopale.
È in questi decenni che il pellegrinaggio a Santiago assume un’impressionante dimensione europea: la fonte più preziosa per il suo studio è costituita dal Liber Sancti Jacobi, o Codex Calixtinus, e in particolare dal suo libro V, una vera e propria guida del pellegrino, redatta attorno al 1130 e attribuita a Aimery Picaud de Parthenay-le-Vieux. La guida descrive con estrema precisione i quattro assi viari che dalla Francia meridionale confluiscono in Navarra nel percorso unico del nord della Spagna, che giunge alla tomba dell’apostolo passando da Burgos e da León. È la descrizione di un immenso e unitario spazio sacro, ove ogni via sembra esistere in funzione di grandi centri di culto: la via settentrionale (turonense) tocca i santuari di San Martino di Tours e di Sant’Ilario di Poitiers, un secondo itinerario (lemovicense) attraversa Vézelay e Limoges, una terza via (podense) raggiunge il santuario di Sainte-Foy di Conques e Moissac, e infine il tracciato più meridionale (tolosano), quello frequentato da chi giunge dalla via romea, si snoda tra centri di culto di grande prestigio come Saint-Gilles-du-Gard presso Arles e Saint-Sernin di Tolosa.
È su queste vie che si assiste, attorno al 1100, a un grande slancio artistico e architettonico, e le arterie viarie stesse favoriscono la dislocazione di artisti e di botteghe, come evidente dalle tangenze stilistiche nella scultura di cantieri come quelli di Tolosa, Conques, Leon e Santiago, e nella diffusione di modelli planivolumetrici funzionali alle esigenze tanto del clero officiante quanto dei pellegrini che desiderano apprestarsi alle reliquie. Colpisce ad esempio la parentela tra alcuni dei santuari più importanti citati dal Liber Sancti Jacobi. Le chiese di Sainte-Foy di Conques, Saint-Martin di Tours, Santiago di Compostela, Saint-Martial di Limoges, Saint-Sernin di Tolosa, tutte avviate negli ultimi decenni dell’XI secolo, ma le cui cronologie relative sono ancora incerte, sono accumunate da una combinazione di elementi costruttivi – peraltro comuni allo sviluppo del linguaggio romanico nella Francia centro-meridionale, e dunque da non considerare solo nella prospettiva delle “vie di pellegrinaggio”, secondo il mito romantico di un’arte nata in relazione al transito dei pellegrini e a una precisa meta di culto come Santiago – come lunghi corpi longitudinali a tre o cinque navate con tribune, navata maggiore voltata a botte, contraffortata dalle semibotti dei matronei, transetto molto sporgente, anch’esso diviso in navate, e presbiterio circondato da un deambulatorio, con cappelle radiali per altari e reliquie.