Le vie, i luoghi, i mezzi di scambio e di contatto. Iran e Asia Centrale
Il commercio del lapislazuli, pietra altamente stimata nei mercati vicino-orientali a partire dal IV millennio a.C., offre spunti di notevole interesse allo studio dei primi itinerari di lungo raggio che abbiano attraversato il territorio iranico e centroasiatico. In Mesopotamia, Iran e Asia Centrale la presenza del lapislazuli, sia in forma grezza sia in quella di manufatti, assume consistenza a partire dal 3500 a.C. e diviene sempre più cospicua, dopo un'interruzione nel Protodinastico I (intorno al 2600 a.C.), nella seconda metà del III millennio a.C.; il suo declino ha inizio a cavallo tra il III e il II millennio a.C. Il lapislazuli era disponibile in quantità piuttosto limitate e in aree circoscritte, tutte molto distanti dalle destinazioni finali del suo commercio, in un primo momento il Nord della Mesopotamia (come dimostra l'abbondanza di reperti a Tepe Gawra, nei periodi XIII-X), successivamente il Sud del Paese (Uruk IV). Tra le fonti di approvvigionamento di questa pietra, la più importante viene tradizionalmente indicata nei depositi presenti nella provincia afghana del Badakhshan (con principale centro di estrazione a Sar-i Sang), situati a una notevole altitudine (tra i 2700 e i 3400 m s.l.m.); altri depositi sono presenti nelle Chagai Hills (Pakistan occidentale), nel Pamir tagiko e ancora nei pressi del Lago Bajkal (Siberia), dove tuttavia si ricava una pietra di bassa qualità. È probabile che parte dei traffici legati al commercio del lapislazuli dal Badakhshan si siano svolti lungo un itinerario settentrionale che, attraverso la valle del Panjshir e il valico di Kuh-i Baba, raggiungeva la piana di Kunduz, da dove proseguiva alla volta della regione del Kopet Dagh (Turkmenistan) seguendo un percorso settentrionale (l'Amu Darya) o meridionale (l'Hari Rud-Tejen). Dal Kopet Dagh la via piegava a sud-ovest, toccava Tepe Hissar e procedeva lungo il versante meridionale dell'Elburz; attraversata la regione di Kashan (Tepe Siyalk), raggiungeva il Luristan e, valicati i passi più agevoli dello Zagros, si immetteva nella piana mesopotamica. Le indagini archeologiche effettuate negli ultimi decenni in siti protostorici dell'Iran rendono tuttavia assai verosimile l'ipotesi che il commercio del lapislazuli privilegiasse un itinerario meridionale. Prendendo ancora una volta come punto di partenza il Badakhshan, il percorso poteva sfruttare le vie fluviali offerte dal Kabul e dallo Hilmand, che termina il suo corso, in un delta ramificato, nel Sistan. Come è stato evidenziato dagli scavi della città di Shahr-i Sokhta, questa regione sviluppa nel III millennio a.C. un'autonoma cultura del Bronzo, caratterizzata da un urbanesimo avanzato e da una spiccata vocazione artigianale e commerciale. Oltre a un gran numero di sigilli, a Shahr-i Sokhta è stata riportata alla luce una considerevole quantità di pietre dure (lapislazuli, cornalina e turchese), in associazione con gli strumenti utilizzati per la loro lavorazione. La grande maggioranza dei reperti (oltre il 90%) è costituita da scarti e ciò dimostra che i laboratori della città erano specializzati nella lavorazione preliminare delle pietre, che, successivamente, raggiungevano la Mesopotamia nella forma di materiali semigrezzi e solo per una minima parte come prodotti finiti. Sembra si possa affermare, pertanto, che per lo meno tra il 2800 e il 2600 a.C. la città controllava il trasporto del lapislazuli dalle sue fonti di approvvigionamento, situate più a est, alla Mesopotamia, svolgendo, inoltre, un ruolo di intermediario nelle fasi di lavorazione della pietra, il cui valore veniva così accresciuto. Questa ricostruzione non perde validità anche alla luce di una recente ipotesi (basata su analisi petrografiche e chimiche) secondo cui i depositi di lapislazuli ai quali si attingeva per soddisfare la domanda dei mercati del Vicino Oriente non erano quelli del Badakhshan, bensì le Chagai Hills, o che comunque questa fonte non doveva avere importanza minore rispetto a quella afghana (Delmas - Casanova 1990); la posizione geografica di Shahr-i Sokhta in rapporto alle Chagai Hills renderebbe, anzi, ancora più logica la sua funzione di tappa obbligata. Sembra, in effetti, che un'attiva frequentazione della via settentrionale, ossia quella che abbiamo tratteggiato in precedenza, abbia avuto inizio dopo la metà del III millennio. È in quest'epoca che, come dimostrano i materiali di Tepe Hissar (II B e III A-B), la piana del Gurgan e la valle di Damghan si aprono ai traffici commerciali (metalli e diversi tipi di pietre, incluso il lapislazuli); l'analisi dei reperti, in particolare della ceramica, rivela significativi elementi di affinità con i siti del Turkmenistan (periodi Namazga IV e V). Nella seconda metà del III millennio, invece, a Shahr-i Sokhta il lapislazuli scompare quasi del tutto e con esso anche gli strumenti utilizzati per la sua lavorazione; la città, pur attraversando un periodo florido, sembra quindi tagliata fuori dal circuito commerciale di questa pietra, che, evidentemente, privilegia ora l'itinerario settentrionale da una parte e la via di mare dall'altra, ossia l'itinerario che collega il Golfo Persico con i porti della civiltà dell'Indo.
Nessun potentato dell'Asia occidentale aveva esercitato il suo dominio su un territorio di vastità paragonabile a quella dell'impero achemenide. L'amministrazione di uno Stato così esteso richiedeva naturalmente un sistema di comunicazioni che rendesse agevole ed effettivo il controllo di tutte le sue regioni. Si deve presumere che, per lo meno in area vicino-orientale, la rete viaria persiana fosse in larga parte erede di quella precedentemente messa a punto dai sovrani assiri, ossia delle "vie regali" di cui sono state individuate tracce nell'Alta Mesopotamia, a est dello Zab inferiore fino al Kurdistan iraniano, attraverso gli Zagros, e in Siria e Palestina. Tratti di strade lastricate sono stati messi in luce lungo le vie più importanti, ossia quelle che i sovrani achemenidi utilizzavano per i loro periodici trasferimenti tra le capitali dell'impero, e in prossimità degli accessi a queste città. Si tratta tuttavia di casi molto limitati, poiché, come tramandano le fonti greche, sembra che di regola le vie achemenidi non fossero pavimentate. Come in epoca assira, una delle funzioni principali di queste arterie era quella di agevolare i movimenti delle truppe, sia di quelle destinate a spedizioni militari sia di quelle preposte alla sicurezza dei traffici carovanieri. La rete viaria era inoltre infrastruttura fondamentale per il funzionamento del sistema postale achemenide, della cui efficacia troviamo ammirate testimonianze nelle fonti occidentali. Esso era affidato a messaggeri a cavallo, che, come indicato dalla descrizione erodotea della strada che collegava Sardi a Susa (Hdt., V, 52-53), potevano contare su stazioni di rifornimento distribuite a distanze regolari lungo il tragitto; lo storico fa inoltre riferimento a stazioni di guardia, locande e caravanserragli. Non è tuttavia semplice ricostruire i tracciati della rete viaria achemenide in tutte le sue ramificazioni. L'estensione dell'impero e l'incompletezza della documentazione archeologica lasciano per molti versi il campo aperto a congetture. Le capitali satrapali e i presidi militari provinciali (individuati dagli archeologi o noti dalle fonti scritte), che, come sappiamo da Senofonte e da Arriano, erano visitati annualmente dal principe della corona, forniscono una credibile intelaiatura della rete viaria. Di grande utilità sono le informazioni fornite dalle tavolette della fortificazione di Persepoli, in special modo da quella parte del corpus costituita dai testi che registrano le provvigioni giornaliere percepite, nelle diverse stazioni ubicate lungo le vie dell'impero, dai funzionari in viaggio. Tali documenti, che spesso menzionano i luoghi di destinazione e le località intermedie, concernono principalmente il cuore dell'impero, ossia il Fars e le regioni limitrofe, tuttavia si deve supporre (anche in base alla testimonianza di papiri e ostraka aramaici) che questo sistema di registrazione fosse esteso all'intero territorio achemenide. Un'ulteriore fonte di dati utili per l'approfondimento di questa materia sono gli itinerari di conquista di Alessandro Magno, le cui truppe spesso percorrevano o incrociavano le vie regali achemenidi. È noto che il Macedone era accompagnato da un corpo speciale preposto alla ricognizione topografica del territorio, i bematistae, i quali annotavano le distanze coperte nel corso della spedizione. Si terrà inoltre conto del fatto che anche itinerari di età più tarda, quale quello indicato nelle "stazioni partiche" (Stathmòi Parthikòi) di Isidoro Characeno oppure la rete viaria vicinoorientale di epoca romana, potrebbero ricalcare in larga parte il sistema stradale achemenide. Come si è detto, il Re dei Re si trasferiva annualmente tra le capitali dell'impero (Babilonia, Ecbatana, Susa, Persepoli, Pasargade), accompagnato da uno stuolo di ufficiali, soldati e cortigiani. La regolarità di questi spostamenti, atti di grande significato simbolico in quanto dimostrazioni della forza militare di cui il re disponeva e della ricchezza della sua corte, implicava necessariamente l'esistenza di una rete di guarnigioni, di punti di rifornimento adeguati, nonché di un efficiente servizio di polizia. Tra le numerose stazioni menzionate nei testi rinvenuti a Persepoli, una ventina viene localizzata lungo i due possibili itinerari che collegavano questa città con Susa. Il primo procedeva verso nord-ovest lungo il corso del Kur, toccando Kuh-i Qala e Kuh-i Istakhr, attraversava il fiume e si immetteva nella piana di Ardekan per poi proseguire alla volta di Susa; alcuni tratti di strada pavimentata con ciottoli e pietrisco sono stati individuati presso Kuh-i Qala e Kuh-i Shahrak. Il secondo itinerario si dirigeva verso ovest e, superata Tall-i Malyan (l'antica Anshan), virava a nord-ovest in direzione di Fahlian (nelle cui vicinanze si trova un presunto padiglione achemenide con colonne di arenaria nera), Da u Dukhtar (ponte achemenide) e Behbehan (tratto di strada pavimentata). Una delle più importanti arterie imperiali (che in realtà ricalcava un tracciato già frequentato in età protostorica) era quella che, partendo da Babilonia, attraversava lo Zagros e raggiungeva Ecbatana, proseguiva per la regione a sud del Caspio e da qui volgeva a est verso la Battriana e l'Hindukush. Benché di età augustea, la descrizione di questo itinerario fornita da Isidoro Characeno incorpora con ogni probabilità parte delle informazioni contenute in un'opera perduta di Ctesia concernenti le distanze tra le stazioni lungo il tracciato viario da Efeso alla Battriana e all'India. Tuttavia l'itinerario di Isidoro, superate le porte del Caspio, non prosegue verso la Battriana, bensì piega verso Herat e, quindi, Kandahar, in Arachosia, già satrapia achemenide. È plausibile che la via descritta dalla fonte in questione corrisponda a una delle vie militari che attraversavano l'impero persiano. Da fonti greche (Strab., II, 1, 25-27, che cita Eratostene) e persiane (registri delle provvigioni da Persepoli) sappiamo dell'esistenza di una via che collegava in maniera più diretta Persepoli all'India attraverso la Carmania e la Gedrosia. Una sua ramificazione conduceva in Drangiana (l'attuale Sistan), probabilmente alla città di Dahan-i Ghulaman e da qui a Kandahar, per poi proseguire in direzione dell'Indo. La via della Carmania e della Gedrosia è testimoniata anche nella Tabula Peutingeriana, che ne indica i collegamenti con altri importanti itinerari della regione, tra cui l'arteria che dalle Porte del Caspio conduceva in Battriana.
Con questa espressione si designa il sistema di vie carovaniere che, estesissimo e ramificato, collegava i due poli del mondo antico, l'Estremo Oriente e l'Occidente mediterraneo. I traffici commerciali che si svolgevano lungo i suoi tracciati, specie in determinati periodi storici, ebbero proprio la seta come principale protagonista; di questa la Cina rimase, fino al V sec. d.C. circa, l'unico paese fornitore e Roma, soprattutto in età imperiale, la più importante acquirente. Naturalmente, la Via della Seta rappresentava un'importante rete di collegamenti ‒ estremamente vitale anche sotto il profilo culturale e religioso ‒ tra le diverse regioni asiatiche che furono a vario titolo e con diverse modalità coinvolte in questi scambi; tra queste, l'Asia Centrale e l'Iran, che del vasto territorio attraversato dalla "via" occupano il settore centrale. Sui fattori che determinarono la nascita della Via della Seta ‒ e non ci riferiamo tanto alla definizione e alla realizzazione dei suoi itinerari (che di certo ricalcavano in buona parte tracciati viari di remota antichità), quanto alla volontà da parte dei Paesi più direttamente interessati di dar vita a un sistema di scambi commerciali organizzato su base internazionale ‒ le interpretazioni degli studiosi non sempre collimano. È controversa, ad esempio, la valutazione del ruolo svolto dalla Cina; uno dei principali interrogativi è, a questo proposito, se vi sia stata da parte cinese, e in quale congiuntura storica, una intenzionale apertura agli scambi commerciali con l'Occidente. Secondo una tesi che trova favore presso gran parte degli storici e archeologi, nella spedizione di Zhang Qian (seconda metà del II sec. a.C.), inviato dall'imperatore Han in Asia Centrale ‒ e precisamente presso i Da Yuezhi, in Battriana ‒ dovremmo infatti riconoscere, oltre che le dichiarate finalità politiche e diplomatiche, uno dei primi concreti segni di interesse da parte della Cina nei confronti dei mercati occidentali. Da questa visione si dissocia M.G. Raschke (1978), secondo il quale non vi sarebbero prove che la Cina abbia fatto della seta un utilizzo diverso da quello meramente strategico, ossia come strumento per pacificare le insidiose e potenti unioni tribali nomadiche che orbitavano ai suoi confini, in primo luogo i Xiongnu, dando loro una "collocazione" nell'ordine universale (quindi, imperiale). Le cospicue quantità di seta rinvenute nei sepolcreti attribuiti a questo popolo (il più noto è quello di Noin Ula in Mongolia, II sec. a.C.) non deriverebbero da scambi commerciali con il Celeste Impero, bensì da doni generosamente elargiti, e a scadenze regolari, dai sovrani Han (dei quali, del resto, si ha esplicita testimonianza nelle cronache dinastiche). L'inizio di un'esportazione a pieno regime della seta verso i Paesi d'Occidente, posta sotto rigido controllo statale, è verosimilmente da fissare all'indomani del completamento della conquista del bacino del Tarim (Xinjiang), ossia intorno alla metà del I sec. a.C.; tra il I e il III sec. d.C. i commerci tra Oriente e Occidente poterono inoltre trarre vantaggio dalle condizioni di stabilità politica che l'impero Kushana garantiva nelle regioni meridionali dell'Asia Centrale e nell'India del Nord-Ovest. La ricostruzione degli itinerari carovanieri si giova delle informazioni tramandate dalle fonti cinesi (soprattutto per il settore orientale dell'Asia Centrale) e dagli autori classici (meglio informati sul settore occidentale della regione). La via aveva come punto di partenza la capitale cinese, Chang'an; attraversato il corridoio del Gansu, a Dunhuang si biforcava in due itinerari che aggiravano, a nord e a sud, il deserto del Taklamakan, il bei dao (la via settentrionale) e il nan dao (la meridionale). Quest'ultima attraversava la regione di Shanshan (Loulan), costeggiava la catena del Kunlun, toccando le oasi di Miran, Cherchen e Khotan, e terminava a Yarkand. La via settentrionale congiungeva le oasi di Turfan, Kucha, Aksu e Kashgar. I fiorenti traffici che si svolgevano lungo questi due itinerari favorirono lo sviluppo, a partire dai primi secoli dell'era cristiana, e la fioritura, tra il V e l'VIII sec. d.C. circa, delle oasi collegate dai loro tracciati. L'importanza che esse rivestirono nella diffusione della religione e dell'arte buddhista è stata messa in piena luce dalle esplorazioni e dagli scavi condotti, agli inizi del XX secolo, da M.A. Stein, nei siti della via meridionale (Khotan, Niya, Miran), e dalle spedizioni tedesche guidate da A. von Le Coq e A. Grünwedel, sulla via settentrionale (Kucha e Turfan); le attività archeologiche proseguono attualmente a cura delle istituzioni culturali cinesi. Entrambi gli itinerari erano collegati all'Asia Centrale occidentale. Da Yarkand la via settentrionale proseguiva alla volta dei passi più agevoli del Pamir, superati i quali raggiungeva Balkh, in Battriana; le carovane potevano quindi dirigersi verso i valichi dell'Hindukush e incamminarsi verso i porti dell'India. Da Kashgar la via procedeva, attraverso i valichi del Tianshan, in direzione di Samarcanda e Bukhara, in Sogdiana, e quindi di Merv, da dove le carovane proseguivano il loro viaggio verso l'Iran settentrionale. Esistevano inoltre ‒ e la cosa era nota ai cronisti cinesi ‒ segmenti viari che collegavano tra loro, in senso trasversale (ossia su un asse nord-sud), le regioni attraversate dalle arterie sopra descritte e che completavano l'ossatura della grande carovaniera. Un esempio è la via che da Samarcanda, in Sogdiana, si dirigeva verso sud e, superata la catena dello Hissar attraverso la gola delle Porte di Ferro (dove scavi recenti hanno messo in luce strutture murarie di epoca Kushana), entrava in Battriana; percorsa la valle del Surkhan Darya, attraversava l'Oxus (l'Amu Darya) a Termez e raggiungeva Balkh. Da qui proseguiva per l'India. Invertendo il punto di osservazione, spostandoci cioè al polo asiatico-occidentale della "via", possiamo ricostruirne il tracciato grazie alla descrizione di Maes Titianus (apud Ptol., I, 12, 5-8). Da Ierapoli, sulla riva destra dell'Eufrate, la carovaniera attraversava la Mesopotamia fino al Tigri, toccava Ecbatana (l'odierna Hamadan), in Media, e raggiungeva le Porte Caspie; da qui entrava in Parthia, passando per Hekatompylos (identificata con il sito di Shahr-i Qumis), piegava verso l'Aria (Herat) e risaliva in direzione di Merv; indi raggiungeva Bactra (Balkh), attraversava i monti Komedai (Karateghin) e terminava alla Torre di Pietra (Lithinos Pyrgos, probabilmente l'attuale Tashkurgan), sul versante orientale del Pamir, ricongiungendosi con il bei dao e con il nan dao. Da questa località la via si inoltrava nella Serikè, ossia la terra dei Seres, raggiungendone la capitale, Sera. Fatta eccezione per Throana, che si ritiene corrisponda a Dunhuang, le tappe intermedie toccate da questo tratto della carovaniera, e la stessa Sera, sono di difficile identificazione; d'altronde l'intera descrizione di questa landa sembra troppo fantasiosa per incoraggiare la ricerca di riscontri topografici e archeologici attendibili. Altrettanto dubbia è l'identità dei Seres, che Plinio caratterizza come alti, dai capelli biondi e dagli occhi azzurri (Nat. hist., VI, 85). È certo difficile dar credito all'ipotesi ‒ caldeggiata, soprattutto in passato, da alcuni studiosi ‒ che il termine designasse i Cinesi. All'epoca della loro prima menzione da parte di Apollodoro di Artemita (in Strab., XI, 11, 1), risalente al II sec. a.C., i Seres erano con ogni probabilità gli intermediari del commercio dell'oro (cfr. iranico zaray, "oro"); solo in epoca romana sarebbero divenuti, nelle fonti occidentali, il "popolo della seta". È inoltre arduo stabilire se il nome (da cui sarebbe derivato l'aggettivo sericus) indicasse realmente un popolo o piuttosto qualcosa di simile a una corporazione mercantile; sembra tuttavia ragionevole situare i Seres in una regione non meglio precisabile dell'Asia Centrale orientale. Il ruolo svolto dai mercanti cinesi sembra sia stato, almeno in epoca Han, del tutto insignificante. Erano infatti i Seres che, secondo gli autori classici, trasportavano la seta dai confini della Cina alla Battriana. Sembra che in alcuni periodi, e su determinati itinerari, la funzione di intermediari fosse svolta anche da mercanti indiani, che dovettero essere particolarmente attivi sulla via meridionale (nan dao) del Xinjiang e nel trasporto delle mercanzie verso il Nord-Ovest del Subcontinente e, da lì, ai porti di Barbaricum e Barygaza, nell'odierno Gujarat. La presenza di una folta comunità indiana nelle oasi del Xinjiang meridionale (al quale, secondo alcuni studiosi, l'impero dei Kushana avrebbe esteso temporaneamente il suo dominio) è ampiamente testimoniata dagli archivi rinvenuti in diverse località della regione; la documentazione più ricca, relativa ai primi secoli della nostra era, è quella messa in luce da M.A. Stein a Loulan, l'antica Kroraiṃna. Oltre al consolidamento della religione buddhista nella regione, agli Indiani stanziati nel Xinjiang si deve la diffusione di lingue indiane (in particolare, del pracrito originario del Nord-Ovest del Subcontinente). Può essere utile ricordare, considerato il tema cui ci interessiamo, che al sanscrito sārthavāha, "conduttore di carovane", o meglio alla forma pracrita corrispondente, si fa risalire l'espressione sart, attestata in diverse lingue dell'Asia Centrale, e che ancora agli inizi del XX secolo designava gli abitanti (uzbechi e tagichi) delle città del Turkestan occidentale (Samarcanda, Bukhara, Kokand), ossia i sedentari prevalentemente dediti ai commerci, onde distinguerli dai nomadi che gravitavano intorno alle oasi. Dell'esistenza di tracciati viari che consentivano un più diretto collegamento tra il Xinjiang meridionale e il Nord-Ovest indiano (Kashmir e area gandharica) sono emerse, negli ultimi decenni, copiose testimonianze nell'alta valle dell'Indo. I lavori condotti negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo per la costruzione della Karakorum Highway, destinata ad agevolare le comunicazione tra il Pakistan e la Cina, hanno portato alla scoperta degli itinerari che nell'antichità sfruttavano i difficili percorsi montani della regione. Seguendo le sponde dell'Indo, del Gilgit e dello Hunza, questi varcavano i passi del Karakorum e si congiungevano con la carovaniera meridionale del Xinjiang. Grazie alle esplorazioni effettuate a partire dal 1979 da archeologi e altri specialisti tedeschi e pakistani, sono stati individuati oltre 10.000 petroglifi risalenti a epoche differenti e circa 1500 iscrizioni redatte in 17 lingue diverse. Il repertorio figurativo include numerose rappresentazioni di soggetto buddhista (frequenti le raffigurazioni di stūpa), ma anche motivi iconografici riconducibili al Bronzo delle steppe e alle prime culture nomadiche, a testimoniare dell'antichità della frequentazione di questi tracciati. Naturalmente molte delle iscrizioni sono in lingue indiane (in scrittura kharoṣṭhī e brāhmī); è altresì sorprendente constatare non soltanto l'elevato numero di quelle redatte in lingue medioiraniche, ma anche il fatto che delle 610 iscrizioni medioiraniche, analizzate da N. Sims-Williams (1996), dieci sono in battriano, due in mediopersiano, le rimanenti in sogdiano.
I Sogdiani - Non v'è dubbio che ai Sogdiani toccò un ruolo da protagonisti nelle transazioni commerciali nel settore orientale della Via della Seta. La proverbiale vocazione mercantile di questo popolo ‒ cui è in gran parte legata l'opulenza delle città sogdiane messe in luce dagli archeologi (Penjikent, Afrasiab, Varakhsha) ‒ ci è testimoniata sia dagli annali cinesi, sia da documenti originali relativi alle attività dei Sogdiani stanziati alla periferia e nel cuore della Cina. I più antichi sono le lettere scoperte da M.A. Stein in una torre di guardia presso Dunhuang, scritte da membri delle colonie di mercanti sogdiani della Cina occidentale e databili al primo decennio del IV sec. d.C. Nonostante lo stato lacunoso dei documenti e le difficoltà che pone la loro interpretazione, questi testi rivelano particolari interessanti. Sappiamo, ad esempio, che il valore delle merci era calcolato in rapporto agli stateri argentei allora in uso in Asia Centrale occidentale o alle monete di rame cinesi, venute alla luce in gran quantità nelle città della Sogdiana e che fornirono un modello alla monetazione locale. Si fa inoltre riferimento ad alcune delle categorie di beni oggetto di scambio: oro, muschio, pepe, canfora, tessuti di canapa o lino e frumento, nonché alla presenza di Sogdiani a Dunhuang, Jiuquan, Guzang e Luoyang. A questo riguardo sembra opportuno citare, quale emblematica testimonianza archeologica, le lastre a decorazione figurata incisa rinvenute nei pressi di An'yang e appartenenti, come sembra evidente dai soggetti e dallo stile delle rappresentazioni, alla tomba di un ricco sogdiano del VI sec. d.C. Dalle lettere si evince l'esistenza di relazioni tra mercanti sogdiani e indiani (con ogni probabilità quelli stanziati a Loulan), testimoniata anche da una serie di prestiti indiani nel lessico sogdiano, soprattutto quello legato alla sfera del commercio. Le iscrizioni sogdiane rinvenute nell'alta valle dell'Indo, cui si è fatto cenno, dimostrano d'altra parte come le attività dei Sogdiani si orientassero anche verso il Subcontinente. Le iscrizioni in questione (databili tra il IV e il VI sec. d.C.) sono distribuite su entrambe le rive del fiume tra la città di Chilas e il villaggio di Shatial, 50 km a valle, ma è significativo che il 90% di esse si concentri proprio a Shatial. Era questa località, secondo K. Jettmar (1991), la destinazione ultima dei mercanti sogdiani, ossia il luogo di scambio delle loro merci con i mercanti indiani. Sembra che Shatial fosse il terminale di carovane provenienti soprattutto dalla Sogdiana centrale, come indicano le numerose iscrizioni che fanno riferimento a luoghi situati nei dintorni di Samarcanda (anche le fonti cinesi attribuiscono a questa città un ruolo egemone rispetto agli altri centri della regione nell'ambito dei commerci) e la presenza in esse di segni identici ai marchi (tamgha) attestati su monete sogdiane; l'ipotesi trova ulteriore conferma nel fatto che presso Shatial si versano nell'Indo il Tangir e il Darel, le cui valli fornivano alle carovane vie praticabili in direzione nord-occidentale, cioè verso la Sogdiana. Sappiamo, tuttavia, che la via dell'Indo era frequentata anche da Sogdiani provenienti dal Xinjiang: l'autore di una delle iscrizioni di Shatial si augura di arrivare rapidamente a xrßntn, località identificata con Tashkurgan, ossia la Torre di Pietra di Maes Titianus, a est del Pamir. Dai Sogdiani, le cui fiorenti attività sarebbero cessate solo con l'invasione islamica, la Cina importava beni suntuari come oggetti di toreutica di produzione sasanide e sogdiana (che avrebbero influenzato l'argenteria cinese), stoffe di lana, inclusa la porpora romana, vasellame e vaghi di vetro di provenienza siriaca, egizia e babilonese ed essenze aromatiche; ai Sogdiani la Cina deve inoltre l'introduzione della vite e dell'alfalfa, il foraggio di cui si alimentavano i tanto ricercati cavalli del Ferghana. Va inoltre ricordato che nel VI sec. d.C. la Sogdiana divenne un centro autonomo di produzione della seta. Oltre ai rinvenimenti effettuati in diversi siti della regione, resti di tessuti serici di probabile origine sogdiana sono stati ritrovati nella necropoli di Astana, nell'oasi di Turfan (Xinjiang, VII sec. d.C.), e nella necropoli alana di Moščevaja Balka, nel Caucaso settentrionale (VIII-IX sec. d.C.).
Il ruolo dell'Iran - Governando un ampio territorio situato in posizione strategica nel sistema dei traffici commerciali tra Oriente e Occidente, i sovrani arsacidi (metà del III sec. a.C. - primo quarto del III sec. d.C.) erano ben consapevoli della necessità di garantire un'adeguata manutenzione delle vie che attraversavano i loro domini e condizioni di sicurezza alle carovane che le percorrevano. Sia il governo centrale sia le organizzazioni mercantili si adoperarono per assicurare alla Persia il monopolio sui traffici che attraversavano il suo territorio. Tuttavia il passaggio delle carovane provenienti dall'Estremo Oriente e dall'Asia Centrale doveva risultare sconveniente e rischioso. Oltre al pericolo delle calamità naturali e delle razzie, gravavano sui mercanti i pagamenti di tasse doganali imposti all'attraversamento delle frontiere e all'accesso in ogni città, nonché il monopolio di Stato sulla vendita di determinati beni, soprattutto la seta grezza. Erano inoltre soggetti a tariffe speciali i cammelli che ritornavano privi del loro carico, la lana tinta di porpora, il burro, le pelli, il vino e gli schiavi. I profitti derivanti dai commerci internazionali rappresentavano una voce importante nel bilancio del regno partico, ma è altrettanto vero che i rischi e gli oneri che la via di terra comportava facevano sì che una parte non irrilevante del commercio della seta (secondo Raschke quasi l'intero volume dei traffici) venisse deviata dall'Asia Centrale verso i porti dell'India nord-occidentale; da qui la merce proseguiva via mare verso il Golfo Persico o il Mar Rosso sfruttando la via marittima, che era fuori del controllo degli Arsacidi. Il più vitale centro commerciale della Mesopotamia partica era, nel II sec. d.C., Palmira. Una carovaniera collegava questa città all'Eufrate (Dura-Europos); da qui si poteva procedere verso sud, in direzione del porto di Charace, punto d'attracco delle navi provenienti dall'India, oppure verso Ctesifonte, Ecbatana, Hekatompylos e, da qui, in direzione dell'Asia Centrale. Non meno importante era la via che collegava Seleucia a Zeugma (dove, come tramanda Plinio, Nat. hist., VI, 112-26, si teneva una grande fiera annuale), proseguiva per Edessa e Nisibi, attraversava l'Armenia e raggiungeva il Caspio. Con i Sasanidi (III-VII sec. d.C.) la seta continuò a rappresentare uno dei più remunerativi articoli di commercio e anche con questa dinastia l'Iran non perse il suo ruolo di scomodo intermediario nei traffici internazionali, come è dimostrato dai tentativi dei Sogdiani di instaurare, nel VI sec. d.C., relazioni dirette con Bisanzio per lo smercio di tessuti di seta, aggirando l'Iran grazie all'utilizzo della via del Caspio e del Caucaso. Le bullae di argilla che sono state rinvenute in diversi siti del territorio governato dai Sasanidi (Takht-i Sulaiman, Qasr-i Abu Nasr, Aq Tepe, Dvin) gettano luce sull'organizzazione dei commerci. Di regola esse mostrano impronte di diversi sigilli individuali e di un solo sigillo ufficiale, consistente in un'iscrizione che menziona la città e la provincia sede dell'autorità di riferimento. Diversamente dai loro predecessori, i Sasanidi orientarono i loro interessi anche sulle vie marittime, dunque sul controllo del Golfo Persico, terminale di una parte delle navi mercantili che salpavano dai porti dell'India. Che i loro sforzi furono coronati da successo ci è testimoniato da autori islamici (al-Tabari, al-Thalibi e altri). Questi cronisti, che traevano le loro informazioni da fonti sasanidi, forniscono notizie piuttosto esigue e non scevre da contraddizioni, tuttavia concordano nell'attribuire ad Ardashir I (224-241 d.C.) il merito di aver assicurato alla Persia il controllo del Golfo. Il sovrano avrebbe fondato (o rifondato) diverse città lungo i fiumi del Khuzistan e della Mesopotamia e sulle coste del Golfo (Rev Ardašīr, Kujarān Ardašīr e Baṭn Ardašīr). Interessanti riscontri archeologici sono emersi dagli scavi di Siraf. Al di sotto dell'insediamento islamico sono stati individuati e parzialmente riportati alla luce strutture e materiali di epoca sasanide. I resti più notevoli sono quelli di una costruzione (obliterata dalla moschea congregazionale del IX sec.) della quale è stato possibile rilevare l'impianto: pianta quadrata, entrata monumentale sul lato sud protetta da bastioni semicircolari, torri di pianta ellittica agli angoli e due torri semicircolari su ciascun lato. La struttura sembra ispirarsi a prototipi romani ed è stata infatti confrontata con costruzioni militari in località di frontiera, quali Amida e Sinjar (l'antica Singara). Quest'ultima, come sappiamo delle fonti, fu conquistata nel 360 da Shapur II, il sovrano che attuò le misure più energiche per consolidare l'autorità sasanide nel Golfo Persico. La fortezza di Siraf potrebbe avere avuto la funzione di presidio militare per la difesa della costa contro gli attacchi degli Arabi. Significativi indizi di contatti commerciali con i porti indiani sono stati forniti dalle ricognizioni effettuate nella penisola di Bushihr, che ha rivelato la presenza di colline archeologiche su un'area di 450 ha (che secondo gli archeologi potrebbero celare le rovine di Rev Ardašīr) e un'ampia distribuzione di materiale ceramico in superficie. Tra i frammenti si segnalano quelli riconducibili alla red polished ware, classe ceramica attestata nei primi tre secoli dell'era cristiana nel Subcontinente indiano e che ha la sua massima concentrazione nel Gujarat e nel Maharashtra, ossia nelle regioni dove erano situati i più importanti centri portuali della costa occidentale dell'India. Come lamentano le fonti bizantine, anche sulla via di mare, per lo meno negli ultimi due secoli di governo sasanide, i Persiani si frapposero come inaggirabili intermediari dei commerci tra Oriente e Occidente, occupando ‒ come annota Procopio di Cesarea (Pers., I, 20, 12) ‒ posizioni strategiche nei porti dell'India dove veniva imbarcata la seta, di cui essi acquistavano interi carichi. È invece dibattuta, essendo basata su indizi controversi, l'ipotesi di attività mercantili persiane a est di Sri Lanka in un'epoca anteriore agli inizi del IX sec. d.C., quando invece contatti commerciali diretti tra Iran e Cina, e su larga scala, sono esplicitamente testimoniati nelle fonti arabe. La questione è in gran parte legata all'identificazione dei Bo si (o Possu), etnonimo che, tra il IV e il XII secolo, è utilizzato nelle fonti cinesi in riferimento a mercanti attivi sulle vie di mare (e alla loro terra d'origine) e che alcuni studiosi hanno ricondotto all'iranico Parsa.
Esistono numerosi elementi, forniti sia dalle indagini archeologiche (ad. es., i rinvenimenti di Moščevaja Balka, nel Caucaso) sia dall'analisi testuale, che hanno indotto gli studiosi a chiedersi se anche le regioni settentrionali dell'Asia Centrale non fossero pienamente coinvolte nella rete dei commerci internazionali. Secondo un'ipotesi assai stimolante, sarebbe esistito un collegamento diretto tra la Cina e il litorale settentrionale del Mar Nero, ossia un tracciato che seguiva grosso modo il corso del Sir Darya, lambiva le coste del Lago d'Aral e del Mar Caspio, attraversava il Caucaso settentrionale e terminava il suo percorso nei porti del Ponto Eusino. L'ipotesi di una "via delle steppe", quale era sostanzialmente questo itinerario settentrionale, chiama in causa i nomadi e implica una loro attiva partecipazione ai traffici che si svolgevano su questo tracciato. Secondo un'ipotesi che il progredire della ricerca potrebbe convalidare, la definizione di una parte degli itinerari carovanieri dell'Asia centro-settentrionale potrebbe essere stata preparata proprio dai movimenti migratori dei gruppi di allevatori della cultura di Andronovo (età del Bronzo, II millennio a.C.) e successivamente dai trasferimenti stagionali dei nomadi, che seguivano traiettorie regolari (Gorbunova 1993- 94). Per quanto concerne l'epoca storica, vi sono motivi per ritenere che la mediazione mercantile fosse attività congeniale alle comunità nomadiche; essa si esplicava in diverse forme: trasporto di merci, noleggio di animali da soma, conduzione delle carovane, richiesta di pedaggio per l'attraversamento dei loro territori. Questo è, ad esempio, quanto Strabone (XI, 5, 8) tramanda sul conto degli Aorsi, un popolo nomade di stirpe sarmatica che dominava il territorio tra il Tanais (Don) e il Caucaso settentrionale. Si ipotizza che il controllo degli itinerari carovanieri fosse uno dei fattori determinanti nel delicato equilibrio dei rapporti tra nomadi e sedentari e fra le diverse unioni tribali nomadiche e forse non di rado causa di invasioni o migrazioni. In sede archeologica il problema non è, però, di facile soluzione. La questione dei rapporti commerciali tra nomadi e civiltà sedentarie è stata oggetto di studi particolarmente approfonditi nel bacino del Volga e del Don, dunque in area sarmatica. Tuttavia, come è stato messo in evidenza dall'analisi dei reperti di origine romana in tombe sarmatiche (ma il problema si estende all'intero areale delle steppe), la presenza nei corredi delle sepolture nomadiche di prodotti dell'artigianato romano (e, nelle steppe asiatiche, di manufatti di origine cinese, indiana o persiana) non trova negli scambi commerciali l'unica spiegazione plausibile. Difatti questi beni potevano essere acquisiti come doni, tributi, compensi per prestazioni militari o tramite razzie; il baratto intertribale, che di per sé non implica l'esistenza di traffici di lungo raggio o di vie carovaniere, potrebbe spiegare la dispersione di oggetti in aree molto distanti dal loro luogo di produzione, qual è il caso, ad esempio, degli specchi cinesi di bronzo rinvenuti in tombe sarmatiche. Con altrettanta cautela dovranno essere considerati i reperti monetali segnalati in diverse località dell'area in questione (Mielczarek 1997); è noto che le monete forniscono indizi significativi sugli scambi commerciali, tuttavia nell'economia delle steppe non se ne faceva uso. In Ucraina e in Georgia sono state rinvenute monete greco-battriane, mentre monete del Bosforo (Panticapeo e Phanagoria) sono venute alla luce al capo opposto delle steppe, in Zungaria. Monete romane sono state ritrovate in diversi siti dell'Asia Centrale (dove, tuttavia, potrebbero essere pervenute dall'India); il gruppo più cospicuo (comprendente esemplari scaglionati tra il regno di Vespasiano e quello di Commodo) proviene da Mujun, presso Ura Tyube (Tajikistan settentrionale). Alcuni passi della Geografia di Strabone (II, 1, 15; XI, 7, 3), che utilizzano fonti di età seleucide, ci informano dell'esistenza di un collegamento diretto tra il Caucaso e la Battriana tramite il Mar Caspio e l'Amu Darya. Seguendo questo itinerario, una grande quantità di merci indiane raggiungeva la foce del fiume Cyrus (l'attuale Kura, in Georgia) e da qui il litorale del Mar Nero. Un itinerario simile è riportato da Plinio (Nat. hist., VI, 52), in relazione alle esplorazioni che nel 65 a.C. Pompeo fece effettuare nel Caucaso, ma non ne troviamo menzione nell'itinerario persiano di Tolemeo (I, 11 e 12). Il problema dell'effettiva esistenza di questa via (che alcuni studiosi considerano con scetticismo) è naturalmente inscindibile da quello dell'esistenza di un collegamento tra l'Amu Darya e il Mar Caspio. L'Amu Darya, difatti, non si versa nel Caspio, bensì nel Lago d'Aral; tuttavia una sua ramificazione, l'Uzboy, virava a ovest e, attraversando il Sarikamish, raggiungeva, dopo un percorso di 550 km, la costa orientale del Caspio. Attualmente l'Uzboy non è che un profondo solco, ma, come è stato dimostrato dalle indagini di archeologi sovietici (in primo luogo S.P. Tolstov), dalla preistoria al Medio Evo, a fasi intermittenti e con una variabilità dettata dalle condizioni climatiche e dal grado di sfruttamento delle acque dell'Amu Darya ai fini dell'irrigazione, era un fiume a regime regolare, sebbene inadatto ad alimentare una rete di canali irrigui, dato il forte dislivello tra il suo letto e le sponde. Il territorio che esso attraversa ha rivelato, soprattutto per il periodo compreso tra il VI sec. a.C. e il IV sec. d.C., la presenza di comunità seminomadiche, testimoniata da modesti insediamenti su alture, necropoli e aree di culto (la più importante è Ichyanli Depe, annessa alla necropoli di Dordul, in Turkmenistan), ma anche una fortezza di epoca partica (Igdi Kala). Nelle sepolture della regione sono ampiamente attestati ceramica e ornamenti di importazione: tra questi gli amuleti egizi di faïence, di cui sono segnalati rinvenimenti anche lungo l'intero corso dell'Amu Darya. Non si deve dunque escludere l'ipotesi che, in determinate epoche, l'Uzboy possa essere stato utilizzato come via fluviale per scambi commerciali; il rinvenimento di strutture portuali sommerse di epoca sasanide a Derbent, in Georgia, sembra fornirne un'ulteriore prova.
Il carro - Alcuni modelli di terracotta rinvenuti in siti protostorici del Turkmenistan (Anau, fine del IV millennio a.C., e Altin Depe, prima metà del III) costituiscono le più antiche testimonianze sulla diffusione del carro in Asia Centrale. Il veicolo è a quattro ruote a disco (le posteriori di diametro maggiore) e cassa rettangolare dotata di sponde laterali; l'esemplare da Altin Depe è tirato da un cammello. Una ciotola d'argento di presunta provenienza battriana (II millennio a.C.?) raffigura due carri, uno a due ruote, l'altro a quattro, entrambi trainati da una coppia di buoi. Le ruote sono a disco, realizzate con pezzi di legno uniti a commessura o incastrati; di tipo simile è un carro raffigurato su un sigillo da Tepe Hissar, in Iran. In tutti i casi citati l'origine ultima dei modelli rappresentati è vicino-orientale e di tipologia particolarmente arcaica. Nelle steppe euroasiatiche interessanti testimonianze sembrano indicare un'autonoma evoluzione locale di questo mezzo di trasporto, che ebbe una parte di rilievo nei destini storici della regione, in particolare nella diffusione delle tribù di allevatori. È infatti teoria piuttosto diffusa (ma non da tutti condivisa) che la domesticazione del cavallo, il conseguente utilizzo delle bardature equestri e la comparsa dei carri da trasporto e da guerra furono fattori decisivi nei movimenti migratori che avrebbero portato alla diffusione delle lingue indoeuropee. In diverse necropoli della cultura di Sintashta (a est degli Urali), appartenente al più ampio complesso culturale di Andronovo, sono state ritrovate inumazioni di guerrieri armati, accompagnati da un carro con ruote a disco o radiate e da due cavalli. Le datazioni ricavate in laboratorio su campioni ossei prelevati da una sepoltura di Krivoe Ozero situano nei decenni a cavallo fra il III e il II millennio a.C. i carri con ruote radiate ivi rinvenuti, facendone la più antica testimonianza in assoluto di questa tipologia. Il numero dei raggi (10 o 12), superiore a quello degli esemplari vicino-orientali, la lunghezza dell'asse, corrispondente a quella dei più antichi carri con ruote a disco utilizzati nelle steppe, nonché il tipo di legno utilizzato inducono a considerare i carri di Sintashta esito di un'innovazione locale. Si tratta di carri a struttura leggera, con cassa misurante 1,2 × 0,7 m e due ruote del diametro di circa 1 m, che si ritiene forniscano riscontro archeologico ai carri leggeri descritti nel Ṛgveda. Schematiche rappresentazioni di carri su ruote radiate ricorrono inoltre in petroglifi e su vasellame di età andronoviana (Kadyrbaev - Mar´jašev 1977; Šer 1980). Di epoca molto più tarda (metà del I millennio a.C. ca.), ma essenzialmente riconducibile alla medesima sfera ideologica, è la sepoltura con carro rinvenuta nella necropoli altaica di Pazyryk (Kurgan 5), oggi ricostruita nell'Ermitage a San Pietroburgo. Il veicolo, probabilmente costruito appositamente per il trasporto del defunto durante la processione funebre, si componeva di elementi assemblati senza l'ausilio di elementi metallici e aveva quattro ruote con numerosi raggi e timone; la cassa, bordata sui quattro lati da una fila di pilastrini torniti, era sormontata da un baldacchino con copertura piana, originariamente schermato sui lati dai teli di feltro rinvenuti nella medesima tomba. I carri da guerra raffigurati nell'arte dell'Asia Centrale meridionale e dell'Iran delle epoche successive sono riconducibili a un modello elaborato in Mesopotamia in età tardoassira, con cassa rettangolare e cerchioni delle ruote dentati. Ne troviamo testimonianza in un modellino aureo di carro tirato da quattro cavalli dal Tesoro dell'Oxus (V-III sec. a.C.), di probabile fattura achemenide, in un sigillo di Dario I, in un rilievo di Persepoli e nel mosaico che illustra la battaglia di Isso, dalla Casa del Fauno a Pompei.
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