Le vie, i luoghi, i mezzi di scambio e di contatto. Mondo fenicio
di Massimo Botto
I commerci hanno sempre rappresentato l'asse portante dell'economia fenicia, dapprima in Vicino Oriente e nell'Egeo, successivamente nel Mediterraneo centro-occidentale e sulle coste atlantiche del Marocco e della Penisola Iberica, oggetto, a partire dagli inizi dell'VIII sec. a.C., dell'ampio e articolato fenomeno della colonizzazione. La vocazione commerciale e marinara del popolo fenicio è fenomeno conosciuto sin dall'antichità, documentato sia dalle fonti orientali, come la Bibbia o il racconto egiziano delle avventure di Wenamun (prima metà dell'XI sec. a.C.), sia dalle fonti classiche. Nei poemi omerici, ad esempio, i Fenici sono descritti come abili navigatori e mercanti, anche se la concorrenzialità con l'elemento greco porterà ben presto a formulare giudizi di tutt'altra natura, trasformando le virtù di un popolo in atteggiamenti univocamente negativi, come traspare per la prima volta nel racconto di Ulisse il quale afferma: "Allora arrivò un uomo fenicio esperto di inganni, un ladrone che molti mali aveva compiuto fra gli uomini. Questi mi portò via prendendosi gioco di me con le sue astuzie, finché non giungemmo in Fenicia, dov'erano le sue case e i suoi beni" (Od., XIV, 287-300). Tale duplicità di valutazioni si riscontra anche fra gli autori latini: infatti, se Plinio afferma con enfasi che "i Fenici inventarono i commerci" (Nat. hist., VII, 57, 199), numerose sono le fonti che mettono in guardia dalle astuzie del mercante levantino. L'attitudine commerciale del popolo fenicio, al di là di qualsiasi topos letterario, ha comunque precise motivazioni di ordine climatico, storico-economico e culturale. Recenti studi di paleoclimatologia hanno infatti dimostrato che con il passaggio all'età del Ferro (1200 a.C. ca.) si verificarono nel Vicino Oriente importanti alterazioni nel clima che portarono ad un costante aumento delle temperature con fenomeni di siccità e di desertificazione, principale motivo di spostamenti di masse di popolazione in zone più favorevoli come le aree costiere. Le città-stato della Fenicia, che a causa dei sommovimenti successivi alle invasioni dei Popoli del Mare non controllavano più le fertili pianure di Galilea, si trovarono quindi a fronteggiare un improvviso aumento demografico con conseguente deficit alimentare. Tale situazione, come vedremo, condizionò la politica economica e commerciale dei centri fenici indirizzata sin dalle fasi iniziali verso l'acquisizione dei prodotti agricoli. Un secondo elemento di spinta verso il commercio internazionale è rappresentato dalla fioritura in Fenicia di ateliers specializzati nella lavorazione di prodotti di lusso. Gli artigiani fenici, eredi del patrimonio culturale cananaico del II millennio a.C., erano infatti celebri per l'intaglio dell'avorio, per la lavorazione di recipienti d'oro, d'argento e di bronzo e per la decorazione di gioielli, tramite le tecniche della filigrana e della granulazione. Questi raffinati prodotti, insieme alle vesti di lino e di lana riccamente adornate e colorate, erano particolarmente apprezzati dalle corti del Vicino Oriente e soprattutto da quella assira. La pressante richiesta di beni di prestigio fenici in tutta la Mezzaluna Fertile, oltre ad incentivare la produzione e la qualità delle botteghe locali, portò una notevole disponibilità finanziaria, sia all'interno del Palazzo sia fra le corporazioni di mercanti, strategicamente indirizzata al potenziamento e all'espansione della rete commerciale. Non v'è dubbio che la grande importanza assunta agli inizi del I millennio a.C. dal commercio fenicio nell'area vicino-orientale derivi dall'ampiezza geografica dei contatti. In questa fase assistiamo ad una dilatazione dei commerci motivata dalle diverse caratteristiche dei Paesi raggiunti. La fitta rete dei collegamenti permise infatti ai Fenici di dislocare su questi mercati quei prodotti che per fattori geoclimatici ed economico-culturali vi risultavano carenti. Le merci riguardavano, come abbiamo visto, gli oggetti lavorati, ma anche e soprattutto i generi alimentari e le materie prime. Fra queste ultime un ruolo importante era rappresentato dai metalli, indispensabili per l'economia antica dato il loro ampio utilizzo nell'agricoltura, nell'industria militare e nell'artigianato. Individuati i caratteri fondamentali del commercio fenicio, andrà comunque osservato che proprio per l'ampiezza geografica degli scambi, dall'Arabia meridionale alle regioni atlantiche, e per la diacronia degli avvenimenti che si dipanano per oltre un millennio, dal 1200 a.C. circa, momento in cui si colloca il sorgere della civiltà fenicia, al 146 a.C., anno della violenta distruzione di Cartagine da parte degli eserciti di Roma, si ritiene opportuna un'articolazione cronologica e spaziale della trattazione.
In questo lungo periodo la storia della Fenicia si identifica con l'ascesa politico-economica di Tiro, la cui espansione commerciale e territoriale inizia nella prima metà del X sec. a.C., dopo che David di Israele (975 a.C.) pose fine all'aggressività filistea nell'area palestinese. La documentazione biblica sull'alleanza politico-commerciale fra Hiram I di Tiro (976-930 a.C.) e il successore di David, Salomone (960-920 a.C.), è estremamente indicativa al riguardo. Innanzitutto con tale accordo il re fenicio si assicurava le riserve alimentari necessarie al sostentamento della popolazione del suo regno in cambio di manodopera specializzata (architetti, artigiani), legno pregiato e oro necessari a Salomone per la costruzione del tempio di Gerusalemme (I Re, 5, 24). Una clausola del trattato prevedeva inoltre, come garanzia dell'accordo, la cessione a Tiro di 20 città in terra di Galilea (I Re, 9, 11-14). Tale dato, confermato dalle moderne indagini archeologiche, risulta di grande importanza perché indica un'espansione territoriale di Tiro, verso sud, in direzione della ricca e fertile piana di Asdralon. I due sovrani infine organizzarono un'impresa congiunta di grande importanza commerciale che prevedeva l'allestimento di una flotta a Ezion Geber, nel Golfo di Aqaba sul Mar Rosso, al fine di intrattenere diretti rapporti con il Paese di Ophir, da identificarsi verosimilmente con la Nubia, ricco di miniere d'oro (I Re, 9, 26-28; 10, 11 e 22). Sino a quel momento il commercio del prezioso metallo era stato monopolio dell'Egitto, che controllava i percorsi di approvvigionamento lungo il Nilo; l'apertura di un itinerario marittimo rappresentava una via alternativa che permetteva a Tiro e ad Israele di eludere il controllo dei faraoni e di sviluppare diretti e proficui contatti con la regione mineraria più ricca dell'Africa orientale. Consapevole dell'importanza di tale circuito commerciale, la diplomazia fenicia operò lungo il corso dei secoli affinché l'accesso al Mar Rosso fosse sempre mantenuto, stipulando di volta in volta alleanze con i regni di Giuda, Israele ed Edom. Il momento di massima espansione del commercio tirio si colloca, comunque, nella prima metà dell'VIII sec. a.C. Per comprendere l'ampiezza e la complessità degli scambi raggiunti dai mercanti fenici in questa fase risulta fondamentale l'analisi dei vv. 12-24 del capitolo XXVII di Ezechiele. Nel passo in questione, infatti, non solo sono citati tutti i principali regni che commerciavano con Tiro, ma è anche chiarita la natura delle merci trattate. Il testo biblico riferisce che Tarshish, da identificarsi con Tarso in Cilicia, forniva argento, ferro, stagno e piombo. La presenza fenicia nel settore sud-occidentale dell'Anatolia è confermata sia dalla documentazione archeologica sia dagli annali assiri. Partendo dalla Cilicia e dagli scali mercantili nel Golfo di Alessandretta, l'attività commerciale dovette estendersi nelle vicine regioni di Tubal, Meshekh e Yawan, dalle quali i Fenici importavano schiavi e pregiati manufatti di bronzo. Tubal è uno dei regni neohittiti a nord della Cilicia, conosciuto nelle fonti assire come Tabal. Interessanti al riguardo risultano i testi di Sargon II relativi alla campagna del 714 a.C. che confermano quanto affermato nel testo biblico, dal momento che la regione è segnalata per l'importanza della sua industria metallurgica. Meshekh, che corrisponde al Paese di Muski dei testi assiri, deve essere identificato con la Frigia, un'area particolarmente sviluppata nell'estrazione e lavorazione dei metalli, come appare dai raffinati prodotti provenienti dagli scavi di Gordion e dai recenti ritrovamenti effettuati nei tumuli individuati nelle vicinanze di Ankara. Yawan infine corrisponde alla Ionia, cioè alla regione dell'Asia Minore controllata dall'elemento greco, la cui importanza nel commercio dei metalli ed in particolare del ferro nel Vicino Oriente è sottolineata anche da altri documenti storici. Un ulteriore riferimento all'area anatolica è presente in Ezechiele, quando si afferma che i mercanti di Tiro importavano da Togarma, cioè dall'Armenia, cavalli e muli. La prima parte di questo lungo elenco, quindi, sottolinea l'importanza commerciale dell'area anatolica e nord-siriana, controllata dai mercanti di Tiro dagli inizi del IX fino alla seconda metà dell'VIII sec. a.C., quando gli eserciti di Sargon II imposero nella regione un rigido controllo politico-economico. Dopo aver sottolineato i rapporti con l'area egea, in particolare con Rodi, per l'acquisizione di avorio e di ebano, il testo di Ezechiele si sofferma sugli Stati limitrofi alla Fenicia: Giuda, Israele e Damasco sono menzionati per le loro ricchezze agropastorali complementari, come abbiamo visto, all'economia delle città-stato fenicie. Si fa quindi riferimento al regno edomita che deteneva il controllo dei traffici sul Mar Rosso e delle carovaniere provenienti dall'Arabia meridionale. Con Edom i mercanti fenici trattavano l'acquisto di stoffe, pietre preziose, coralli e malachite. Quest'ultima annotazione appare particolarmente interessante dal momento che le moderne prospezioni geologiche hanno individuato nell'area del Wadi el-Arab i più ricchi giacimenti di rame dell'area palestinese, sfruttati, in alcuni casi, sin dalle fasi più antiche della storia del Vicino Oriente. I traffici con la Penisola Arabica sono confermati dai riferimenti ad Arab e Qedar, che approvvigionavano la città di Tiro di capre e pecore, e a Dedan, che forniva selle di cuoio. Le regioni più meridionali della penisola, cioè Sheba (probabilmente il regno di Saba) e Rama rifornivano invece la metropoli fenicia di aromi, pietre preziose e oro. Il testo si conclude facendo riferimento all'area mesopotamica: Ezechiele, sottolineando il fatto che gli scambi fra Tiro e i centri di Harran, Kannèh, Eden, Assur e Kilmad riguardavano vesti preziose, ammanti purpurei, tappeti, tessuti a vari colori e funi robuste, conferma l'esistenza di una fiorente industria tessile specializza nella lavorazione e colorazione dei tessuti. L'analisi del testo biblico permette di tracciare un quadro ricco ed articolato del commercio fenicio, anche se nel lungo elenco redatto da Ezechiele non compaiono Cipro e l'Egitto, per i quali invece esistono numerosi dati archeologici che attestano l'esistenza di intensi e continuati rapporti con la Fenicia. Questi due Paesi comunque sono citati in Ezechiele nel brano poetico che precede quello in prosa appena commentato e nella profezia di Isaia contro Tiro (XXIII, 1-17), che si riferisce anch'essa, verosimilmente, alla situazione storica della metropoli fenicia nel corso dell'VIII sec. a.C. Il Delta del Nilo fu sicuramente una delle mete preferite del commercio fenicio, come testimoniato dalle fonti classiche (Hdt., II, 112-13) e dalle moderne ricerche archeologiche ed epigrafiche. Cipro rappresenta invece una tappa fondamentale dell'espansione commerciale e coloniale fenicia nel Mediterraneo. Infatti, se grazie agli scavi condotti a Kition si può affermare che l'inizio del processo di colonizzazione avvenne intorno alla metà del IX sec. a.C., le successive indagini condotte ad Amatunte hanno evidenziato una frequentazione a scopo commerciale dell'isola già nel corso del X sec. a.C. Proprio in questa città, inoltre, si stabilirono i primi contatti fra Fenici e Greci provenienti dall'Eubea. Tali rapporti, destinati a rafforzarsi nei secoli successivi, rappresentarono la base delle comuni imprese commerciali nell'area tirrenica, come risulta chiaramente dalla documentazione proveniente dallo scalo di Pithecusa, ad Ischia, dove nella seconda metà dell'VIII sec. a.C. un piccolo gruppo di genti orientali viveva a contatto con la comunità greca. La scoperta delle rotte che portavano in Occidente da parte dei Fenici, comunque, deve essere avvenuta alcuni decenni prima, nel corso del IX sec. a.C. Le fonti orientali non fanno riferimento a queste imprese transmarine, ma la loro importanza è stata evidenziata dalle moderne ricerche archeologiche. Di recente, infatti, sono state effettuate fondamentali scoperte che permettono, seppur parzialmente, di ricostruire le tappe dell'espansionismo fenicio nel Mediterraneo. La prima di queste recenti acquisizioni riguarda Kommos, nel settore centro- meridionale dell'isola di Creta, dove è stato scoperto un luogo di culto fenicio, connotato da un piedistallo con triade betilica, costruito intorno al 925 a.C. e in funzione sino alla fine del VII sec. a.C. Malgrado non siano state trovate tracce di abitazioni da connettere al santuario, Kommos sembra caratterizzarsi come un comptoir regolarmente utilizzato dai mercanti fenici, interessati sia a commerciare con le popolazioni dell'isola sia a veleggiare verso occidente. Di poco successiva infatti risulta la presenza fenicia nel villaggio nuragico di Sant'Imbenia, in Sardegna, dove è stato individuato un consistente gruppo di ceramiche fenicie, di matrice sia orientale che occidentale, assieme ad alcuni frammenti di skyphoi euboici e di kotylai protocorinzie. Gli studi condotti hanno permesso di stabilire la presenza di un nucleo di artigiani e commercianti fenici attivi presso la comunità nuragica in un periodo compreso fra la fine del IX e gli inizi del VII sec. a.C. Sant'Imbenia può considerarsi al momento il più antico scalo fenicio in Occidente, sviluppatosi sia in funzione dei commerci con l'entroterra, ricco di risorse agropastorali e minerarie (argento, ferro), sia come tappa per raggiungere il Golfo di Cadice, dove agli inizi dell'VIII sec. a.C. Tiro fonderà la colonia di Gadir, da identificarsi, secondo nuovi studi, con il Castillo de Doña Blanca, la cui precoce fioritura fu motivata dalle ingenti ricchezze minerarie del vicino comprensorio di Huelva, che corrisponde alla mitica Tartessos delle fonti storiche. A questo livello cronologico, e comunque sicuramente nella prima metà dell'VIII sec. a.C., si situa la fondazione di altre colonie fenicie: Morro de Mezquitilla, sulle coste dell'Andalusia occidentale, Sulcis, nella Sardegna meridionale e Cartagine. Questi dati, frutto di recenti acquisizioni, sono di grande interesse perché, collocando l'inizio della colonizzazione fenicia in Occidente nel secondo quarto dell'VIII sec. a.C., permettono una nuova chiave di lettura di tale processo storico. Com'è noto, le cause della colonizzazione fenicia hanno portato ad un ampio dibattito scientifico fra gli specialisti della materia: a fronte di una linea di tendenza che metteva in relazione tale fenomeno con fattori di crisi esterni al mondo fenicio, dovuti alla pressione esercitata dagli eserciti assiri nell'area siro-palestinese, si è andata sviluppando la teoria secondo la quale la colonizzazione risponde a precise esigenze interne alla realtà fenicia. Infatti, come già notato, studi paleoclimatici ed ambientali hanno permesso di individuare le vere cause della diaspora fenicia in Occidente, motivata da una forte pressione demografica, dalla riduzione delle aree coltivabili e dal conseguente deficit alimentare. L'impresa coloniale se da un lato riflette la pressante necessità di trovare terre coltivabili ad ingenti masse rurali, dall'altra si coniuga perfettamente con la struttura economico-commerciale delle città-stato fenicie, in particolare di Tiro, che in questa fase risulta all'apice della sua efficienza.
Con la seconda metà dell'VIII sec. a.C. lo scenario dell'area siro-palestinese cambia drasticamente, a causa della politica espansionistica dei sovrani assiri. Il nuovo corso degli avvenimenti è segnato dalla salita al trono di Tiglatpileser III (745- 727 a.C.), il cui principale obiettivo sarà quello di eliminare ogni potenza nemica in grado di ostacolare l'Assiria nel programma di acquisire direttamente i prodotti della regione sudanatolica e, attraverso le carovaniere arabe e i porti fenici e filistei, quelli dell'Arabia meridionale, dell'Egitto e dell'area somalo-etiopica. Tale politica, se da un lato limitò l'azione commerciale fenicia nelle ricche aree metallifere del Tauro e dell'Amano, dall'altra rafforzò la posizione dei porti fenici nei traffici con il Mar Rosso e con il Mediterraneo. La pressante richiesta da parte assira di grandi quantità di oro, argento e ferro necessarie per alimentare l'esercito e l'apparato burocratico statale, nonché di beni di lusso essenziali per gli sfarzosi cerimoniali di corte, rappresentò un grande incentivo economico per la Fenicia. Tale stato di cose si riflette nella politica fenicia in Occidente caratterizzata da un'accresciuta mobilità che porterà a fondare, nell'arco di pochi decenni, numerose colonie in Sicilia, Sardegna, Nord Africa e nella Penisola Iberica. Il quadro così delineato non sembra sostanzialmente mutare durante il regno di Sargon II (721-705 a.C.). Infatti, se la rigida politica monopolistica di tale sovrano nell'area sudanatolica esclude di fatto il commercio tirio nella regione, numerosi sono i documenti che attestano diretti rapporti economici con l'Assiria, che prevedono anche l'utilizzazione in loco di manodopera specializzata fenicia. La politica assira nei confronti delle città-stato fenicie muta radicalmente solo a partire dal regno di Sennacherib (704-681 a.C.), che inaugura una nuova strategia di controllo militare e di monopolio commerciale del settore costiero siro-palestinese. Il culmine di questo progetto politico si colloca fra il 677 a.C., anno della distruzione di Sidone da parte degli eserciti di Asarhaddon (680-669 a.C.) e della trasformazione dei suoi territori in provincia assira, e il 644/3, fase in cui possiamo riportare l'ultima sollevazione di centri fenici contro l'Assiria documentata dalle fonti. In questa occasione le città ribelli di Ushu e Acco vennero, per ordine di Assurbanipal (668-631 a.C.), perentoriamente conquistate e distrutte, mentre le loro popolazioni furono in parte trucidate, in parte deportate. La ricostruzione storica basata sullo studio delle fonti assire coincide perfettamente con i dati emersi dalle moderne ricerche archeologiche: il repentino crollo a partire dalla metà del VII sec. a.C. delle esportazioni di ceramica red-slip nei centri del litorale nord-siriano testimonia in modo inequivocabile la profonda crisi degli insediamenti fenici di madrepatria, che non appaiono più in grado di intrattenere rapporti con quel settore strategico del Mediterraneo da dove veniva anche organizzato il commercio verso l'area egea e l'Occidente. Questo "vuoto" lasciato dalla marineria fenicia continentale fu colmato solo in parte dalla componente fenicia di Cipro e di Rodi, mentre il grosso dei commerci con l'impero assiro finì con l'essere gestito dai mercanti greci. Nell'Occidente fenicio l'immediato riflesso di tale situazione è dato dall'esaurirsi del fenomeno coloniale e dalla contemporanea cesura nel repertorio ceramico di forme provenienti dalla madrepatria.
Con la fine del IX e gli inizi dell'VIII sec. a.C. si aprirono alla marineria fenicia nuove e interessanti aree di mercato nel bacino centro-occidentale del Mediterraneo. La principale di queste regioni fu, sin dalle fasi più antiche, quella tartessica, nel Sud-Ovest della Penisola Iberica. Le ricchezze minerarie e agropastorali del Paese indussero ben presto Tiro a fondarvi numerose colonie, la più importante delle quali fu Gadir- Castillo de Doña Blanca, su cui confluivano ingenti quantità di metalli, soprattutto di argento, necessarie a soddisfare le richieste dello Stato assiro. Per questo motivo la rotta Tiro-Cadice deve essere considerata il più lungo, ma anche il più importante itinerario del commercio fenicio in Occidente. Il percorso di andata seguiva la cosiddetta "rotta settentrionale" o "rotta delle isole", per cui le imbarcazioni una volta lasciata Tiro raggiungevano prima Cipro, poi l'antistante costa anatolica sino a toccare Rodi; la rotta che collegava quest'importante isola del Dodecaneso con la Fenicia è chiaramente individuabile grazie ad una serie di toponimi che iniziarono con l'elemento Phoinik- documentati in Caria, Licia e in prossimità della stessa Rodi. Quest'isola rappresenta sia un importante scalo verso occidente sia il punto fondamentale di collegamento con la rotta verso le Cicladi e l'Eubea ampiamente sfruttata dai navigli fenici; approfonditi studi, infine, hanno permesso di individuare a Ialysos, una comunità di ceramisti fenici attivi già nella seconda metà dell'VIII sec. a.C. Da Rodi il percorso si dirigeva a Creta, dove nel settore centro- meridionale dell'isola, a Kommos, è stato individuato uno scalo in funzione sin dalla fine del X sec. a.C. Da qui l'itinerario si biforcava: quello settentrionale risaliva verso il Peloponneso attraverso Citera per poi raggiungere la Puglia e, proseguendo lungo le coste ioniche della Basilicata e della Calabria, lo Stretto di Messina, che costituiva la porta d'ingresso ai ricchi mercati dell'area tirrenica. L'itinerario meridionale invece conduceva direttamente all'arcipelago maltese e da qui alla Sicilia. Quest'ultimo percorso risulta utilizzato soprattutto a partire dalla chiusura ai navigli fenici dello Stretto di Messina, successiva alla fondazione delle colonie di Region e Zankle, nella seconda metà dell'VIII sec. a.C. Pressoché contemporanea a questi avvenimenti è infatti la fondazione di Mozia, nella cuspide nord-occidentale della Sicilia. La divisione di aree di influenza fra Greci e Fenici fece sì che questa colonia divenisse il principale scalo fenicio nel Mediterraneo centrale: da tale centro infatti dovevano necessariamente passare le navi tirie dirette a Gadir (Cadice). Anche in questo caso esistevano due percorsi: il primo passava per Cartagine e quindi, lungo le coste del Nord Africa, raggiungeva la Spagna; il secondo percorso invece prevedeva uno scalo nel settore sudoccidentale della Sardegna, verosimilmente a Sulcis, per poi proseguire lungo le coste occidentali dell'isola che venivano lasciate all'altezza di Alghero (Sant'Imbenia) in direzione delle Baleari, vero ponte di collegamento con le coste sud-orientali della Penisola Iberica. Il percorso di ritorno era più lineare e, sfruttando le correnti generali del Mediterraneo, conduceva alla Fenicia lungo le coste del Nord Africa, del Sinai e della Palestina. A fronte di questo "itinerario di lungo corso", che metteva in contatto diretto la Fenicia e Cipro con le colonie del Mediterraneo centro-occidentale, si andarono via via intensificando alcuni "circuiti regionali" più brevi, utilizzati per sviluppare i rapporti fra le colonie e le aree di mercato occidentali senza necessariamente passare per l'Oriente. Nel Mediterraneo centrale, ad esempio, due percorsi risultano particolarmente interessanti: il primo metteva in collegamento Cartagine con Mozia e con il fondaco euboico di Pithecusa, nel Golfo di Napoli; da qui i prodotti fenici raggiungevano la costa campana, come documentato dai materiali rinvenuti nei centri indigeni di Pontecagnano e Arenosola, per poi risalire verso il Latium Vetus e l'Etruria. Un secondo itinerario aveva invece la Sardegna come punto focale di snodo dei contatti fra l'asse Cartagine-Mozia e le popolazioni medio-tirreniche della penisola italiana. I centri fenici di Sardegna si connotano infatti sin dalla fine dell'VIII sec. a.C. come importanti produttori di vino, che veniva esportato insieme a preziosi servizi da banchetto e altri beni di lusso importati dall'Oriente presso le aristocrazie dei villaggi agricoli della bassa valle tiberina. Dai centri di Castel di Decima, Laurentina e Ficana, grazie alla naturale via di penetrazione costituita dal Tevere, i prodotti fenici raggiunsero agli inizi del VII sec. a.C. Roma e quindi le ricche comunità agropastorali dell'interno, come Preneste e Rocca di Papa, dove sono state rinvenute tombe monumentali di principi locali, con ricchi corredi nei quali spiccano servizi da banchetto, ornamenti e insegne del potere di produzione e di imitazione vicino-orientale. Sempre dalle colonie fenicie di Sardegna si attivarono nello stesso arco di tempo i primi contatti con i centri etruschi: nell'Etruria meridionale le più antiche importazioni orientali sono documentate a Veio e Tarquinia, ma nel corso del VII sec. a.C. è Cerveteri la città che detiene il primato dei contatti con l'elemento fenicio, presente nell'importante centro etrusco con una ristretta comunità di mercanti e artigiani abili nella lavorazione dell'avorio, dei gioielli e dei metalli. Anche l'Etruria settentrionale fu frequentata precocemente dai mercanti fenici in virtù delle ricchezze minerarie della regione, come appare testimoniato dalla documentazione proveniente da Vetulonia e Populonia. Nel Mediterraneo occidentale, oltre ad una fitta rete di relazioni con le comunità tartessiche dell'interno, le colonie fenicie di Andalusia, ed in particolare Gadir, svilupparono nel corso del VII sec. a.C. un intenso commercio in direzione atlantica. Recenti scavi condotti in Portogallo hanno dimostrato una presenza fenicia presso i centri costieri indigeni in relazione ai principali fiumi del Paese: Castro Marim, alla foce del Guadiana, Alcácer do Sal e Setúbal, lungo il corso terminale del Sado, Santa Olaia e Conimbriga, rispettivamente sull'estuario e lungo il corso del Mondego, sono tutti insediamenti che presentano una fase orientalizzante di VII-VI secolo fortemente caratterizzata da contatti con il mondo fenicio, come risulta testimoniato dall'introduzione di importanti innovazioni tecnologiche: dalla produzione ceramica al tornio, alla metallurgia del ferro, alle tecniche costruttive delle abitazioni. Le importazioni fenicie riguardavano invece prevalentemente i metalli come il piombo, il rame, l'oro e soprattutto lo stagno di difficile reperimento nel Mediterraneo. Per incentivare tali commerci gli abitanti di Gadir fondarono intorno alla metà del VII sec. a.C. l'insediamento di Abul, in prossimità della foce del Sado. Allo stesso modo sulle coste atlantiche del Marocco vennero fondate le colonie di Lixus e Mogador, centri per la pesca e la salagione del pesce e importanti collettori dei prodotti dell'interno, in particolare dell'avorio e dell'oro. Il secondo circuito commerciale occidentale era orientato verso il Mediterraneo, da una parte in direzione delle Baleari e del Levante spagnolo, dall'altra verso l'antistante costa africana. Nel primo caso andranno segnalate due nuove colonie: La Fonteta, alla foce del fiume Segura (prov. di Alicante) e Sa Caleta, nell'isola di Ibiza. Nel secondo caso importanti risultano i collegamenti con Rachgoun, insediamento fenicio in Algeria, e successivamente con Guraya, dalla quale è documentato un consistente commercio di uova di struzzo verso la colonia di Villaricos, in Spagna.
La seconda metà del VI sec. a.C. segna in Occidente il passaggio dalla fase fenicia alla fase punica. Nel periodo in questione sono comunque documentate situazioni differenti nel Mediterraneo centrale e in quello occidentale. Infatti il Mediterraneo centrale risulta interessato dall'espansionismo di Cartagine che estende il proprio controllo politico e amministrativo non solo su un ampio territorio in Nord Africa, ma anche su regioni transmarine, quali la Sardegna, la cuspide nord-occidentale della Sicilia e l'isola di Ibiza, nelle Baleari. In Sardegna la politica cartaginese era indirizzata da un lato a piegare la resistenza di quelle città fenicie (Sulcis, Bithia, Nora, Cuccureddus), che in precedenza si erano dimostrate più attive nell'ambito dei commerci internazionali e che non accettavano il monopolio imposto dalla metropoli nordafricana, mentre dall'altro a rafforzare quei centri (Cagliari, Tharros) che per la propria posizione garantivano il controllo delle attività agricole. L'immissione di un numero considerevole di popolazioni provenienti dal Nord Africa si spiega infatti con la volontà di incentivare la coltivazione nelle fertili pianure del Campidano e del Sinis, come documentato dalla nascita in queste aree di alcuni importanti centri rurali. In Sicilia e nelle Baleari la posizione di Cartagine risulta invece più interessata a gestire e a rafforzare i commerci indirizzati da un lato verso il mondo greco, dall'altro verso il Mediterraneo occidentale. In questa fase, infatti, il controllo cartaginese non raggiunse le colonie fenicie della Penisola Iberica, le quali stavano attraversando comunque una profonda crisi motivata da molteplici fattori, quali la drastica diminuzione dei traffici con Tartessos, la cui economia subì una profonda involuzione causata dal crollo delle attività di estrazione e lavorazione dei metalli, dalla concorrenzialità del commercio foceo e dalla nuova organizzazione delle comunità indigene dell'interno. In tale situazione l'intera struttura economico- produttiva fenicia vide una profonda trasformazione, con l'abbandono di numerose colonie e una nuova politica di popolamento indirizzata verso i due grandi poli rappresentati dalle città di Gadir e Malaga. Con il V sec. a.C. si assiste ad una rinascita delle relazioni fra l'Oriente e l'Occidente fenicio dovuta alla favorevole politica economica inaugurata dai sovrani persiani nei confronti della Fenicia. Questa felice stagione dei commerci internazionali, bene documentata in campo artistico-artigianale, ebbe comunque una durata limitata nel tempo destinata ad esaurirsi intorno alla metà del IV sec. a.C. Da questo momento in poi i contatti fra le due sponde del Mediterraneo saranno sporadici; la frattura fra Fenici di Oriente e Fenici di Occidente riscontrata a partire dalle conquiste assire risulterà sempre più marcata, come noto, da differenti scenari storici.
S. Frankenstein, The Phoenicians in the Far West: a Function of Neo- Assyrian Imperialism, in M.T. Larsen (ed.), Power and Propaganda: a Symposium on Ancient Empires, Copenhagen 1979, pp. 263-94; G. Garbini, I Fenici. Storia e Religione, Napoli 1980, pp. 65-69; J.N. Coldstream, Greeks and Phoenicians in the Aegean, in H.G. Niemeyer (ed.), Die Phönizier im Westen, Mainz a. Rh. 1982, pp. 261-72; G. Kestemont, Les Phéniciens en Syrie du Nord, in Studia Phoenicia-III, Leuven 1985, pp. 135-61; M. Botto, L'attività economica dei Fenici in Oriente tra il IX e la prima metà dell'VIII sec. a.C., in EgVicOr, 9 (1988), pp. 117-54; M. Liverani, Antico Oriente. Storia Società Economia, Bari 1988, pp. 693-713; S.F. Bondì, Elementi di storia fenicia nell'età dell'espansione mediterranea, in CFP II, pp. 51-58; M. Botto, L'attività commerciale fenicia nella fase arcaica in relazione alla direttrice siro-anatolica, ibid., pp. 259-66; J.N. Coldstream, Early Greek Visitors to Cyprus and the Eastern Mediterranean, in V. Tatton-Brown (ed.), Cyprus and the East Mediterranean in the Iron Age, London 1989, pp. 90-96; M. Liverani, The Trade Network of Tyre according to Ezek. 27, in Scripta Hierosolymitana, 33 (1991), pp. 65-79; F. Briquel-Chatonnet, Les relations entre les cités de la côte phénicienne et les royaumes d'Israël et de Juda, Leuven 1992; S. Moscati, Chi furono i Fenici, Torino 1992, passim; H.G. Niemeyer, Trade before the Flag? On the Principles of Phoenician Expansion in the Mediterranean, in Proceedings of the II International Congress on Biblical Archaeology, Jerusalem 1993, pp. 335-44; M.E. Aubet, Tiro y las colonias fenicias de Occidente, Barcelona 1994², passim; Ead., El comercio fenicio en Occidente: balance y perspectivas, in I Fenici. Ieri Oggi Domani, Roma 1995, pp. 227-43; P. Bartoloni, Le linee commerciali all'alba del primo millennio, ibid., pp. 245-59; M. Botto, I commerci fenici nel Tirreno centrale: conoscenze, problemi e prospettive, ibid., pp. 43-53; S.F. Bondì, Le commerce, les échanges, l'économie, in V. Krings (ed.), La civilisation phénicienne et punique, Leiden 1995, pp. 268-81; Id., Aspetti delle relazioni tra la Fenicia e le colonie d'Occidente in età persiana, in Transeuphraténe, 12 (1996), pp. 73-83; Rutas, navíos y puertos fenicio-púnicos. XI Jornadas de arqueología fenicio-púnica, Eivissa 1998; J.W. Shaw, Kommos in Southern Crete: an Aegean Barometer for East-West Interconnections, in V. Karageorghis - N.Chr. Stampolidis (edd.), Eastern Mediterranean. Cyprus-Dodecanese- Crete 16th-6th cent. B.C., Athens 1998, pp. 13-24; D. Ruiz Mata, La fundación de Gadir y el Castillo de Doña Blanca: contrastación textual y arqueológica, in Complutum, 10 (1999), pp. 279-317; I. Oggiano, La ceramica fenicia di S. Imbenia (Alghero-SS), in ACIS 1, pp. 235-58; M. Botto, I contatti fra le colonie fenicie di Sardegna e l'Etruria Settentrionale attraverso lo studio della documentazione ceramica, in Atti del XXI Congresso di Studi Etruschi e Italici (Sassari,13-17 ottobre 1998) (c.s.).
di Piero Bartoloni
Si può immaginare che fin dai momenti iniziali delle civiltà preurbane del Vicino Oriente, quindi fin dall'VIII millennio a.C., nella Mezzaluna Fertile fosse costante l'utilizzo degli otri in pelle. L'avvento della prima civiltà urbana, fin dagli albori del IV millennio a.C., mostra la ormai matura elaborazione di un repertorio di forme ceramiche che, derivato dalle forme dei recipienti in pelle, risulta assai articolato e ben definito nelle singole funzioni. Purtroppo, a causa delle loro grandi dimensioni, le anfore da trasporto raramente sono state rinvenute intatte o in buono stato di conservazione; inoltre, questi recipienti, appunto nella loro qualità di contenitori commerciali, non erano né di fattura particolarmente curata né oggetto di decorazioni. Tutto ciò ha contribuito senza dubbio ad allontanare l'interesse dei primi studiosi, che era volto soprattutto agli aspetti decorativi e alle espressioni artistiche delle civiltà del Vicino Oriente. In realtà, sia nell'area vicino-orientale che in quella egiziana fino alla seconda parte del Bronzo Medio, tra i grandi recipienti non sono stati testimoniati vasi adibiti specificamente al trasporto. I recipienti fittili probabilmente non erano utilizzati se non per le derrate di tipo liquido. Si trattava prevalentemente di grandi pithoi destinati ad usi statici che, forniti di piano di appoggio, erano parzialmente o totalmente interrati nelle abitazioni. I trasporti venivano effettuati soprattutto per via terrestre con l'impiego di animali da soma. Come contenitori erano utilizzati in prevalenza otri di pelle, destinati ovviamente alla conservazione dei liquidi, e canestri in fibre vegetali, preferiti per il trasporto di materiali solidi. È noto che fin dalla più remota antichità questo tipo di contenitori fu privilegiato per lo spostamento della terra e quindi come strumento indispensabile nell'edilizia e negli sbancamenti per le opere idrauliche. I canestri venivano anche utilizzati come recipienti adatti alla conservazione, come risulta da alcuni archivi mesopotamici relativi al II millennio a.C., composti da tavolette fittili, rinvenute accatastate in ceste collocate probabilmente su scaffalature lignee. Canestri simili vennero utilizzati anche nel successivo trasporto navale, ma destinati quasi unicamente alla conservazione degli effetti personali dell'equipaggio.
È solo con l'inizio dei traffici marittimi e con la creazione di grandi navi onerarie, testimoniate appunto non prima del XVIII sec. a.C., che divenne possibile il trasporto simultaneo di grandi quantità di derrate anche per le distanze prima inimmaginabili. È dunque probabile che appunto a partire da questo periodo abbiano avuto origine le anfore propriamente dette, poiché era divenuto necessario e più funzionale l'uso di recipienti più piccoli e più maneggevoli dei pithoi. Infatti, mentre questi grandi recipienti avevano una capacità che spesso superava abbondantemente i 100 l, che unita al loro stesso peso li rendeva inamovibili, le anfore invece raramente contenevano più di 30 l e la loro maneggevolezza era garantita dalle due anse e dal piede tondeggiante o cuspidato. Infatti, questa particolare conformazione permetteva di spostare rapidamente il recipiente, che impugnato per le anse poteva essere ruotato sul suo asse oppure infisso nella zavorra sabbiosa della nave. Per quanto riguarda la Mesopotamia, in particolare l'ambiente sumerico, una delle più antiche figurazioni di anfore, relativa alla metà del III millennio a.C., è certamente quella che appare nel fregio del tempio della dea Ninkhursag a Tell al-Ubaid. Si tratta di un grande recipiente di forma biconica, con orlo gonfio e piede cuspidato, adibito probabilmente alla conservazione del latte. Comunque, sia nell'area anatolica che in quella mesopotamica le anfore da trasporto apparentemente non furono specificamente utilizzate, se si eccettuano alcuni grandi vasi apodi con breve collo e talvolta con fondo cuspidato. Questi recipienti sono del tutto privi di anse o di bugne di presa e dunque ricordano preferibilmente pithoi di medie dimensioni. Del resto, anche nel repertorio fittile dell'Egitto pre- e protodinastico sono abbastanza comuni recipienti simili, ancorché privi del collo e talvolta con applicazioni plastiche sulla spalla, la cui capacità non superava i 10 o i 15 l. È unicamente verso la metà del II millennio che in Egitto iniziano ad apparire i primi contenitori specificamente adibiti al trasporto. Le figurazioni parietali egiziane ci hanno tramandato un notevole numero di immagini relative alle anfore e alle loro funzioni: tali recipienti, riferiti soprattutto al Nuovo Regno, sono inseriti in raffigurazioni di carattere agricolo o commerciale. Molto nota è una scena, conservata in una tomba tebana ed eseguita durante la XVIII Dinastia, che rappresenta alcuni personaggi intenti alle differenti fasi della vendemmia. Al centro dell'immagine sono raffigurate quattro anfore di forma ogivale allungata, con due anse a orecchia, sormontate da un elemento troncoconico da interpretare probabilmente come tappo. Ciò che colpisce è la forma di questi recipienti, che senza dubbio somigliano a quelli coevi, ma di produzione siropalestinese. Del resto, sempre proveniente dalla necropoli tebana e altrettanto conosciuta, è la scena raffigurante alcune navi siro-palestinesi alla fonda mentre è in atto lo scarico di numerose derrate tra le quali alcune anfore. Nella regione costiera siro-palestinese i grandi recipienti fittili sono testimoniati fin dal IV millennio a.C. e in questo e per tutto il millennio successivo sono sostanzialmente simili sia a quelli mesopotamici che a quelli egiziani. Tra quelli adibiti forse anche al trasporto, in particolare si ricorda una forma ogivale alta e allungata con orlo appena marcato e con piede orizzontale indistinto, abbastanza simile ai vasi canopi egiziani. Ma è solo con i primi secoli del II millennio che le anfore conobbero una diffusione ampia in tutti i centri della costa. Si potrà notare come fin dalle prime attestazioni le anfore commerciali siro-palestinesi siano state realizzate con una sagoma fusiforme, la cui massima espansione occupa il terzo superiore. Inoltre, mentre gli esemplari più antichi, compresi fino agli ultimi decenni del II millennio, sono provvisti di collo, le anfore del I millennio ne sono del tutto prive. Anche la posizione delle anse lungo il corpo dell'anfora segue un itinerario cronologico e, se all'origine appaiono collocate quasi a metà del recipiente e in concomitanza con la massima espansione della pancia, con il corso dei secoli salgono progressivamente fino ad occupare la linea di sutura che contemporaneamente si è venuta a creare tra la spalla e la pancia. Le anfore fenicie e puniche prodotte dai centri coloniali del Mediterraneo centro-occidentale hanno probabilmente origine da due prototipi non contemporanei, che forse rispecchiano i tempi e i modi della diaspora delle popolazioni rivierasche siro-palestinesi verso Occidente. Si tratta del tipo di anfora con spalla carenata, simile ad alcuni esemplari siro-palestinesi, e di quello con corpo ogivale, che invece nella madrepatria non trova riscontri aderenti. La forma delle anfore da trasporto fenicie di Occidente cambia con il corso dei secoli e segue l'evoluzione che coinvolge tutto il repertorio vascolare coloniale. La trasformazione delle forme è dovuta soprattutto al tipo di derrate trasportato. Infatti, ad esempio, le anfore destinate a contenere cereali erano dotate di un'ampia bocca e di un collo a tromba, mentre le anfore deputate al trasporto del vino o dell'olio avevano una bocca stretta, atta a ricevere un tappo di sughero, che veniva fissato alle anse con una fune. Per quanto riguarda i tipi di derrate, oltre al vino e all'olio, si ha notizia di salsa di pesce ‒ il garum ‒ e, inoltre, di carne di bovino e di suino, che era conservata nel vino; infine è documentata la frutta secca. A partire dalla fine del VI sec. a.C. con l'epicrazia cartaginese i grandi contenitori fittili generalmente si allungano e mutano forma in relazione alle regioni di appartenenza. In Sardegna, ad esempio, la tipologia acquista una sagoma siluriforme, sempre più allungata, mentre l'orlo, assai rilevato e gonfio negli esemplari più antichi, si appiattisce nel corso dei secoli; le anfore relative al III e al II sec. a.C., presentano invece un orlo ingrossato. Anche le anse nel corso del tempo tendono a scendere dalla spalla alla parte alta della pancia. Nella Penisola Iberica, invece, prevale una tipologia biconica. Infatti, la forma delle anfore delle colonie iberiche presenta un aspetto allungato, con una carenatura sulla spalla e con la pancia di forma conica, sviluppando inoltre un orlo con sezione amigdaloide. A partire dal IV sec. a.C. le anfore prodotte nel territorio metropolitano di Cartagine, pur avendo anch'esse una forma allungata, sono del tutto prive di collo ed hanno l'orlo orizzontale rientrante e perpendicolare alle pareti. Con la tarda età ellenistica, dopo la conquista di Cartagine, sussistono alcuni tipi, tra i quali soprattutto la forma cosmopolita con collo a tromba e fondo con peduncolo, destinata al trasporto delle granaglie.
H. Frankfort, Studies in Early Pottery of the Near East, I.Mesopotamia, Syria, and Egypt and their Earliest Interrelations, London 1924; Id., ibid., II. Asia, Europe and the Aegean, and their Earliest Interrelations, London 1927; J. Garrow Duncan, Corpus of Palestinian Pottery, London 1930; F. Fischer, Die Hethithische Keramik von Bogazköy, Berlin 1963; R. Amiran, Ancient Pottery of the Holy Land, Jerusalem 1969; J. D. Frierman, Lime Burning as the Precursor of Fired Ceramics, in IsrExplJ, 21 (1971), pp. 212- 16; E. Stern, Material Culture of the Land of the Bible in the Persian Period 538-332 B.C., Jerusalem 1973, pp. 103-14; T. McClellan, Quantitative Studies in the Iron Age Pottery of Palestine, Ann Arbor 1975, pp. 1-3; M. Yon, Manuel de céramique chypriote, I. Problèmes historiques, vocabulaire, méthode, Lyon 1976; A. Zemer, Storage Jars in Ancient Sea Trade, Haifa 1977; P.M. Bikai, The Pottery of Tyre, Warminster 1978; W. Stucky, Unterlagen zur Keramik des Alten Vorderen Orients von ihren Anfängen bis zum Ende der Vordynastischen Zeit, 1-2, Zürich 1980-84; Studien zur Altägyptischen Keramik, Mainz a. Rh. 1981; P. Charvat, The Pottery of the Mastaba of Ptahshepses, Prague 1981, pp. 159-63; S. Ayoub, Die Keramik in Mesopotamien und in den Nachbargebieten von der Ur III - Zeit bis zum Ende der Kassitische Periode, München 1982; T. Dothan, The Philistines and their Material Culture, New Haven - London - Jerusalem 1982, pp. 94-218; J.-L. Huot, Les céramiques monochromes lissées en Anatolie à l'époque du Bronze Ancien, 1-2, Paris 1982; R.M. Boehmer - H.-W. Dämmer, Tell Imlihiye, Tell Zubeidi, Tell Abbas, Mainz a. Rh 1985; R.H. Dornemann, The Archaeology of the Transjordan in the Bronze and Iron Ages, Milwaukee 1985; U. Finkbeiner - W. Röllig (edd.), Gamdat Nasr. Period or Regional Style?, Wiesbaden 1986; P. Bartoloni, Le anfore fenicie e puniche di Sardegna, Roma 1988; T. Ökse, Mitteleisenzeitliche Keramik Zentral-ostanatoliens, Berlin 1988; F. Chelbi, À propos des amphores archaïques de Carthage, in CFP II, pp. 715-32; M.C. Guidotti, Vasi dall'epoca protodinastica al Nuovo Regno, Roma 1991; J. Ramon Torres, Las ánforas fenicio-púnicas del Mediterráneo central y occidental, Barcelona 1995; R.F. Docter, Archaische Amphoren aus Karthago und Toscanos, Amsterdam 1997.