Le vie, i luoghi, i mezzi di scambio e di contatto. Oceania
Il popolamento dell'Oceania e i contatti tra i gruppi che si stabilirono in questo continente hanno comportato da sempre il superamento di tratti di mare. Le distanze tra le isole, la direzione e l'intensità dei venti e delle correnti marine furono solo alcuni dei fattori cruciali nella scelta delle rotte percorse dalle antiche popolazioni del Pacifico. Lo studio di tali elementi, combinato con quello dei dati archeologici, consente oggi di ricostruire in linee generali questi itinerari. In nessuna fase del Pleistocene il Sahul fu collegato via terra all'Asia sud-orientale. Gli arcipelaghi distribuiti tra le propaggini continentali asiatiche e le Salomone formavano una catena praticamente ininterrotta di isole, la maggior parte delle quali poteva essere avvistata prima di prendere il largo. I gruppi pleistocenici sbarcati sulle coste del Sahul attraversarono l'area insulare di Wallacea seguendo probabilmente, come suggerisce J.B. Birdsell (1977), due principali direttrici. La prima permetteva di giungere in Nuova Guinea dall'isola di Sulawesi, con possibili tappe a Seram o ad Halmahira; la seconda puntava a sud, in direzione delle coste nord-occidentali dell'Australia, toccando Sumbawa, Flores, Timor e forse, più a nord, Tanimbar. L'Arcipelago di Bismarck e le Salomone potevano essere raggiunti costeggiando i litorali settentrionali della Nuova Guinea, dove si apriva un "corridoio" naturale protetto dalle perturbazioni dei cicloni tropicali. La via più diretta per le Salomone vedeva come punto di partenza la Nuova Irlanda, passando forse attraverso le isole Feni e Green. La navigazione in questi bracci di mare sarebbe stata particolarmente agevole durante i mesi estivi, quando i venti e le correnti marine subiscono l'influenza dei monsoni che spirano da ovest verso est. La distanza che separa le Salomone e le Isole di Santa Cruz dagli arcipelaghi melanesiani orientali e meridionali, o le Filippine dalle isole micronesiane di Palau, Guam e Yap, costituì una barriera invalicabile per molti millenni. La colonizzazione antropica di queste terre fu resa possibile dall'adozione di nuove tecnologie (solide imbarcazioni, nuove strategie di navigazione, miglioramenti nella tipologia e nell'uso delle vele), nonché dall'abilità di trasferire piante e animali dai quali dipendeva la sopravvivenza degli equipaggi. Nella seconda metà del II millennio a.C. tali progressi consentirono alle genti austronesiane Lapita di raggiungere, navigando contro la direzione prevalente dei venti, le Vanuatu, la Nuova Caledonia e le Figi, in Melanesia, e di spingersi fino alla Polinesia occidentale (Tonga, Samoa, Futuna, Uvea). La fitta rete di contatti che collegava le popolazioni Lapita durante l'espansione nel sud Pacifico garantì il successo dell'esplorazione e dell'adattamento in ambienti insulari mai visitati dall'uomo prima di allora. L'esperienza acquisita nella navigazione oceanica permise ai Polinesiani occidentali di scoprire, agli inizi del I millennio d.C. e forse anche prima della nostra era, i remoti arcipelaghi del continente, approdando nelle Marchesi, dopo aver presumibilmente avvistato, e forse colonizzato, le Cook, le Isole della Società e gli atolli delle Tuamotu. Da questi nuclei insulari salparono infine le comunità giunte secoli dopo nelle Hawaii, a nord, nell'Isola di Pasqua, ad est, e in Nuova Zelanda, a sud. I contatti interinsulari tra le antiche popolazioni della Polinesia centro-orientale sono testimoniati dalle affinità osservate nella cultura materiale, in cui compaiono nuove tipologie di strumenti (teste d'arpone, asce con il tallone lavorato). I collegamenti tendono a diradarsi nella prima metà del II millennio d.C., fino a cessare quasi del tutto intorno al 1500 d.C., quando si registrano significativi cambiamenti nei repertori archeologici delle Cook, delle Marchesi e degli arcipelaghi della Polinesia sud-orientale. Le tradizioni raccolte nel XVIII e nel XIX secolo accennano a contatti tra le Hawaii e Tahiti, tra le Isole della Società e le Tuamotu, tra Rarotonga, nelle Cook, e le Marchesi e nel triangolo insulare formato da Tonga, Samoa e Figi. Tupaia, il sacerdote di Raiatea amico di J. Cook, dimostrò di conoscere l'ubicazione di numerosi arcipelaghi (Australi, Tuamotu, Isole della Società, Cook, Figi). Dalle fonti si apprende inoltre che flottiglie di Polinesiani salpati da Tonga e Samoa nel II millennio d.C. percorsero a ritroso le rotte originarie e si stabilirono nelle isole sopravvento delle Salomone, delle Vanuatu e della Nuova Caledonia. In una fase corrispondente alle migrazioni Lapita, gruppi dell'Asia sud-orientale (Indonesia, Filippine) si diressero verso la Micronesia occidentale, toccando probabilmente Palau e Yap. Le tradizioni orali ricordano che gli isolani delle Palau acquistavano trepang dai mercanti cinesi nelle Filippine, distanti sei giorni circa di navigazione. Riferiscono inoltre della presenza di colonie micronesiane in isole non distanti dalle Molucche e di visite effettuate alle popolazioni costiere della Nuova Guinea. Dalle Palau viaggi commerciali e spedizioni di guerra raggiungevano le Caroline (Puluwat e Kosrae) e quindi le Marshall (Jaluit) e le Kiribati (o Gilbert). Nelle maggiori isole continentali dell'Oceania e nei territori temperati dell'Australia i collegamenti sulla terraferma avvenivano prevalentemente nelle valli attraversate da fiumi. I corsi del Sepik e del Ramu e quelli dei loro affluenti, in Papua Nuova Guinea, costituivano le principali vie di comunicazione tra gli altopiani e i litorali settentrionali, lungo le quali erano scambiati ossidiana, accette e altri strumenti litici, conchiglie e vasellame. I Maori della Nuova Zelanda prediligevano in genere tragitti fluviali nell'entroterra, più diretti e sicuri rispetto alla navigazione costiera. I reticoli idrografici nei rilievi dell'Australia sud-orientale (Flinders e Darling Ranges) consentivano frequenti contatti tra le comunità aborigene e il trasferimento di beni e risorse da regioni lontane. La documentazione etnostorica del XIX secolo descrive in dettaglio gli spostamenti nelle vallate dei fiumi Diamantina, Cooper Creek, Georgina (Australia centro-meridionale), in occasione delle feste e delle cerimonie annuali nel corso delle quali avvenivano scambi di ornamenti, conchiglie, accette, macine, droghe vegetali ( pituri ) e ocra. I punti d'intersezione tra i fiumi e i loro tributari, gli acquitrini e le sorgenti costituivano aree privilegiate di convegno. Importanti raduni si tenevano in occasione della raccolta stagionale di alimenti particolarmente ricercati, come le noci di araucaria (Araucaria bidwillii ) sulle Bunya Mountains e sulle Blackall Ranges, nel Queensland sudorientale. La migrazione estiva delle larve di bogong (Agrotis infusa) nelle Snowy Mountains (Nuovo Galles del Sud) era un appuntamento annuale per migliaia di aborigeni provenienti da località distanti più di 100 km. Diverse centinaia di persone affluivano nelle valli di Jindabyne e Wollondibby per celebrare riti intertribali e rinsaldare legami sociali e politici. La valle di Thredbo era percorsa dai gruppi che si inoltravano in questa catena montuosa da Mount Crackenback, ai cui piedi si trova un'importante area cerimoniale. In questa vallata le ricognizioni archeologiche hanno identificato vari accampamenti e numerose tracce del passaggio delle bande aborigene. Altri spazi rituali sono stati individuati alla confluenza del fiume Snowy con il Wollondibby Creek. Nelle isole vulcaniche polinesiane le vie di comunicazione si snodavano intorno ai perimetri insulari a causa dell'inaccessibilità delle zone interne, richiedendo talora brevi traversate in acque costiere. Vie di terraferma vengono segnalate in alcuni dei maggiori arcipelaghi (Tonga, Samoa, Cook, Hawaii). Lo studio della loro articolazione ha permesso di raccogliere dati preziosi sui rapporti tra le comunità che risiedevano nella medesima isola. Ad Hawaii sono ancora visibili le tracce della fitta rete viaria che collegava i segmenti radiali in cui era suddivisa parte del territorio insulare. Sui terreni particolarmente accidentati era collocata una fila di massi levigati dall'acqua o di lastroni piatti di lava. Ciottoli di corallo bianco, che riflettevano il chiarore lunare, erano talvolta lasciati su questi cammini per guidare i viaggiatori nelle ore notturne. Nelle terre di Lapakahi (North Kohala, Hawaii), sentieri delimitati da due file parallele di pietre distanziate di un metro circa univano gli appezzamenti coltivati con gli abitati litoranei e delimitavano i confini delle aree sfruttate (ahupuaa, ili) da distinte unità sociali. Nelle Cook (Mauke) sono ancora in uso vie pavimentate che dall'interno si spingono fino alla costa. Queste stradine, lastricate con rocce coralline e lunghe in media un chilometro, facilitavano l'attraversamento di zone poco praticabili. A Rarotonga molti insediamenti erano collegati da una strada (Ara Metua), a tratti pavimentata, che correva lungo il perimetro dell'isola.
Ampio spazio è stato dedicato dalle fonti etnostoriche e negli studi etnografici alla vasta tipologia di imbarcazioni presenti in Oceania. Solo in casi eccezionali i depositi archeologici hanno restituito elementi lignei di tali mezzi di trasporto. Prore e parti di scafi, bilancieri, pagaie, pale e gottazze provengono da alcuni siti in grotta o sommersi dall'acqua, ubicati soprattutto nella regione polinesiana (Vaitootia-Faahia, Kalahuipuaa, Monck's Cave, Mangakaware, Kohika, Waitore). Si ipotizza che i primi tragitti in acqua compiuti nelle fasi pleistoceniche fossero effettuati con canoe di scorza o, più probabilmente, con zattere costruite con fusti di mangrovie o bambù. Il popolamento delle isole ad est delle Salomone (Remote Oceania) richiese l'impiego di imbarcazioni più robuste dotate di vele e la sperimentazione di nuove rotte e strategie di navigazione. È lecito presumere che fin dalle fasi Lapita fossero utilizzati vari tipi di canoa (con bilanciere, con uno o due scafi). Per le traversate lunghe erano adoperate piroghe doppie, formate dall'unione di due scafi monossili, su cui poggiavano un ponte di piccoli tronchi e assi e un albero con una o due vele probabilmente di forma triangolare, ricavate da stuoie di pandano. Ricerche e viaggi sperimentali in Polinesia hanno dimostrato l'affidabilità di tali imbarcazioni, in grado di trasportare diverse decine di persone insieme a prodotti e risorse. Alcuni esemplari furono osservati dai primi Europei, giunti in questa regione tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo. Gran parte delle imbarcazioni descritte o riprodotte dagli artisti era tuttavia idonea solo per brevi tragitti o per la pesca in acque costiere, come ad esempio le canoe hawaiane, ricavate dal tronco di un albero endemico (Acacia koa) cui erano fissati un capo di banda e un outrigger. J. Cook e J. Banks furono impressionati dalle spettacolari piroghe da guerra Maori, costruite con il duro legno di totara (Podocarpus totara) e abbellite da sculture e da elaborati disegni lavorati a traforo. A. Tasman descrisse nel 1642 l'uso di piroghe doppie, segnalato fino alla metà del XIX secolo circa. Per gli spostamenti fluviali i Maori adoperavano soprattutto piccoli scafi monossili e canoe realizzate con fasci di giunchi. Per i viaggi oceanici le popolazioni micronesiane si servivano prevalentemente di piroghe con un bilanciere, provviste di vela, che raggiungevano la massima velocità e stabilità navigando con il vento sul lato dell'imbarcazione. Le acque costiere dell'Australia settentrionale erano solcate da imbarcazioni che variavano per complessità da semplici tronchi galleggianti a sofisticati velieri. Comuni erano le zattere di forma rettangolare o triangolare, costruite con tronchi legati con rattan o altro cordame di materiale vegetale. Nel Queensland, canoe di scorza lunghe 3 m circa potevano portare fino a 5-6 persone con le loro provviste. Canotti scavati in un tronco unico furono introdotti sulle coste della Terra di Arnhem dai pescatori macassani di trepang. Gli isolani dello Stretto di Torres possedevano scafi monossili con un bilanciere e, per le lunghe traversate, piroghe con doppio outrigger, due alberi con vele e una piattaforma. Si ipotizza che questo veliero, forse di origine indonesiana, sia stato adottato sulle coste occidentali di West Irian e successivamente introdotto nello Stretto di Torres. Il disegno delle vele ricorda quello osservato sulle coste settentrionali di Papua Nuova Guinea e negli arcipelaghi adiacenti, sebbene non si escluda la possibilità di un'invenzione indipendente adattata ai bisogni e alle condizioni del luogo. Nell'Australia meridionale la tipologia e la complessità delle imbarcazioni erano sensibilmente più ridotte. Gli aborigeni della valle del fiume Murray costruivano ad esempio natanti con la corteccia di eucalipto (Eucalyptus camaldulensis), utilizzati per la pesca e per brevi spostamenti. In Tasmania si fabbricavano rudimentali canoe legando insieme rotoli di scorza e adoperando come propulsore una lunga asta.
Gran parte dei contenitori per la conservazione e il trasporto di alimenti e altri prodotti fu fabbricata con materiali deperibili di origine vegetale e animale, dei quali rimangono scarse tracce nei depositi archeologici. Al contrario, a partire dalla colonizzazione Lapita del Pacifico meridionale, le testimonianze sulla produzione di recipienti in terracotta sono consistenti. La circolazione del vasellame tra le comunità austronesiane Lapita, particolarmente intensa nelle fasi iniziali della loro espansione, è legata verosimilmente non solo al trasferimento di oggetti in zone dove scarseggiavano le materie prime per la loro fabbricazione, ma anche al trasporto di cibi, come tuberi e frutti, e di altri prodotti. Il 90% circa del repertorio vascolare comprende vasellame di uso domestico, prevalentemente inornato, e in larga maggioranza grandi vasi globulari che ben si sarebbero adattati a questo scopo. L'abbandono nel corso della nostra era della produzione di vasellame in diverse isole melanesiane e in Polinesia occidentale non pare correlato alle difficoltà di reperimento dell'argilla, quanto piuttosto a fattori di natura sociale e funzionale. Per la preparazione, la conservazione e il trasporto dei cibi si rivelarono infatti perfettamente idonei ciotole di legno, cesti e involucri realizzati con foglie di pandano. L'intrecciatura e l'avvolgimento erano le tecniche più comuni per la manifattura di cesti e sacche in materiali vegetali (fibre, foglie, scorze). Preziose testimonianze sulla lavorazione delle fibre sono state raccolte nel corso delle indagini effettuate in siti in grotta della Nuova Zelanda. La materia prima per la produzione di cesti proveniva da numerose piante, tra cui le principali erano Phormium tenax, Cordyline spp., Cortaderia toetoe, Rhopalostylis sapida, Astelia spp., Dracophyllum spp. Comune era inoltre l'uso di contenitori ricavati da grandi zucche sferoidali (Lagenaria siceraria), rivestite talvolta da un'imbracatura lavorata a intreccio. Eccezionale è stato il ritrovamento dei frammenti di uno zaino in un riparo della regione di Canterbury, nell'Isola del Sud, occupato circa 400 anni fa. A un telaio circolare di legno erano stati fissati un capiente sacco, realizzato intrecciando i filamenti del lino della Nuova Zelanda, e due cinghie che ne permettevano il trasporto a spalla. Nei territori desertici australiani si adoperavano frequentemente otri per l'acqua ricavati da pelli di marsupiali. Borse dello stesso materiale erano adoperate dalle donne aborigene per raccogliere e trasportare l'ocra estratta in una cava della Tasmania, vicino Mount Rowland. In particolari sacchetti di fibra vegetale si conservavano i gambi e le foglie triturate di pituri, pronti per essere esportati in località distanti centinaia di chilometri.
Sulle vie di comunicazione e i mezzi di trasporto:
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Sui contenitori da trasporto:
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