Leadership
Il concetto di leadership viene oggi impiegato, anche in sede scientifica, per un tipo di relazione sociale che ha il più ampio riscontro non solo nel mondo umano, ma anche in quello animale. Anzi, lo studio di alcune specie animali e dei Primati particolarmente ha permesso di individuare somiglianze e analogie illuminanti con i comportamenti umani. Nel mondo degli uomini, poi, la formazione e la durata nel tempo delle società e, dentro di esse, dei vari gruppi sembrano strettamente associate al fenomeno della leadership: che, se presso alcuni popoli ancora in uno stato 'primitivo' appare intermittente e connesso specificamente con situazioni straordinarie, come la guerra, è invece onnipresente e persistente nelle nostre società 'complesse' e nei gruppi organizzati che le caratterizzano. Di conseguenza, lo studio sistematico della leadership ha dovuto fare i conti con realtà sociali e culturali molteplici, che sfidano ogni tentativo di teoria generale. È quindi dubbio che si possa andar oltre la definizione più generale della leadership come base comune - una sorta di minimo denominatore comune, se si vuole - per lo studio di tutti i disparati fatti del mondo umano e di quello animale cui si è fatto cenno. Anche nella società moderna il processo della leadership non può svilupparsi in modo uguale in ogni gruppo: per esempio trova condizionamenti e limitazioni particolari nei piccoli gruppi, che pure molti scienziati hanno assunto come unità di studio. La leadership si dispiega con tutt'altra pienezza di significato, anche etico, e con ben maggiori potenzialità e articolazioni, nello Stato nazionale o nella sovranazionale Chiesa di Roma, che d'altronde è concresciuta con l'Occidente moderno.
Leadership deriva dal verbo inglese to lead che è stato comunemente usato per tradurre il latino ducere, il che ha influito sullo sviluppo storico del suo significato. Nell'uso fattone e registrato dall'Oxford English dictionary indica fenomeni distinti, ma tutti in questa sede rilevanti: 1) "la dignità, l'ufficio o la posizione di leader"; 2) "la posizione di un gruppo di persone che guidano o influenzano altri entro un determinato contesto"; 3) il gruppo di cui al punto precedente; 4) "l'azione o influenza necessaria per dirigere o organizzare lo sforzo (comune) in un'intrapresa di carattere collettivo"; 5) la capacità stessa di guidare altri (to lead). Come è evidente i primi due significati si riferiscono a dei ruoli sociali, staticamente considerati, il terzo invece agli occupanti di quei ruoli come gruppo, il che rientra principalmente nello studio delle élites e della classe dirigente. Gli ultimi due significati introducono invece all'ambito di senso entro il quale si sono generalmente mossi gli studiosi della leadership e i tentativi stessi di definirla per fini scientifici. Tuttavia la rassegna di significati comuni di cui sopra ha il merito di richiamare l'attenzione anche sulla distinzione tra leadership collegiale e leadership individuale, che ha un'importanza molto rilevante per il nostro soggetto. Qui, anzi, è opportuno introdurre anche il concetto di leader, che ovviamente ha la stessa radice. Leader è one who leads in tutti i significati del verbo inglese, il più generale dei quali è to cause to go along with oneself, cioè 'farsi seguire', mentre uno dei più specifici è to govern, governare. In effetti la ricerca sulla leadership è in larga parte ricerca sul leader, come protagonista della relazione sociale ineguale, asimmetrica, chiamata leadership. Il concetto di leader esige come complemento quello di follower, 'colui che segue'; e ciò già impone una riflessione sull'essenza stessa della leadership come "azione o influenza" esercitata e sulla natura stessa del rapporto tra leader e follower. Già l'uso linguistico, non scientifico, caratterizzava la parte del leader in quella relazione come dovuta a un ascendente personale o di gruppo, sostanziato da una qualche superiorità reale o supposta di natura morale, intellettuale o di carattere, anziché a coercizione manifesta o latente, indipendente dunque da ogni posizione sociale formalmente stabilita e dai relativi poteri. Questa connotazione della parola è passata anche nell'uso fattone nelle scienze sociali.
Resta da spiegare l'adozione di questa parola in italiano come in altre lingue moderne, tanto nel linguaggio comune quanto, e più rigorosamente, in quello scientifico. Il fatto che la leadership sia stata oggetto di studio soprattutto in paesi di lingua inglese appare secondario. Più importante è che mancano termini che come leadership valgano per gli aspetti principali del complesso fenomeno in oggetto e che, d'altra parte, sia leader che leadership sono connotati nell'uso più dall'ascendente personale o di gruppo che dalla coercizione e, quindi, da poteri inerenti a un 'ufficio'. La connotazione in termini di ascendente e di informalità ha reso possibile l'impiego dei due termini inglesi in rapporti sociali molto fluidi, come si può vedere dal concetto di opinion leader (che, ovviamente, non potrebbe mai essere tradotto come 'capo' o 'dirigente' dell'opinione pubblica).
Va detto subito che, nel campo delle scienze sociali, le definizioni compiute di leadership si sono moltiplicate nel tempo e non ve n'è una su cui vi sia oggi generale accordo, perché gli autori che si sono occupati di questo fenomeno (sociologi, psicologi, antropologi, scienziati politici) hanno lavorato con prospettive disciplinari diverse e, nell'ambito della stessa disciplina, con premesse teoriche diverse. Tutte o quasi le definizioni, esplicite o implicite, raccolgono tuttavia il senso più generale sopra emerso. La leadership è considerata una relazione sociale che prende forma in una situazione che richiede scelte di principio e di comportamento. Il leader è colui che ha una volontà motivata di scelta e i mezzi per farla valere presso gli altri partecipi della relazione sociale, motivando un conforme comportamento di gruppo. Ciò non significa che il leader soltanto abbia un ruolo attivo, come suggerivano alcuni autori del passato, ma l'interazione è egemonizzata dal leader. Che poi la leadership possa essere esercitata sia da un individuo sia da alcuni individui, formanti eventualmente un coeso sottogruppo, sembra non dover infirmare questa concezione nei suoi lineamenti essenziali.
Da queste premesse largamente comuni si può muovere per precisare ulteriormente il carattere dinamico della leadership idealmente intesa. Essa si esplica propriamente oltre il confine dell'ordinario e del quotidiano, delle situazioni statiche e delle soluzioni tradizionali, per le quali può valere come riferimento il concetto non di leadership, ma di management. È 'provocata' da situazioni nuove che richiedono risposte nuove ed è esaltata dalla crisi. Può certamente avvalersi di strumenti istituzionali, cioè di poteri inerenti a un ufficio: ma si dimostra specificamente nell'uso creativo di quei poteri e di altre risorse personali e sociali, quali sono tipicamente l'ascendente personale da un lato e dall'altro le strutture e gli strumenti della comunicazione sociale. Come i più acuti studiosi dell'argomento hanno osservato, la leadership è dunque eminentemente caratterizzata anche dall'invenzione creativa che sorregge sia la volontà di determinare comportamenti collettivi sia la "azione o influenza" esercitata a questo fine.
Ma da tutto ciò deriva un'ulteriore conseguenza: il concetto della leadership e del leader che si va delineando esclude la dipendenza rigida e vincolante da ogni volontà e quindi, in linea di principio, anche da ogni mandato e da ogni deliberazione che possa contrastare con l'impegno ultimo che coincide con la stessa ragione di essere del gruppo. Usando in senso lato una diade concettuale che spesso, d'altronde, si impiega negli studi contemporanei in materia, responsiveness e responsibility, si può dire che il vero leader è primariamente fedele a un criterio di responsabilità ultima e, riprendendo una riflessione di Max Weber, si può anche dire che egli segue in tutto il proprio giudizio e si sente veramente responsabile soltanto davanti a se stesso. Ma questa raffigurazione ha appunto valore analogo ai tipi ideali costruiti da Weber, rappresenta un caso limite, e di rado un leader è effettivamente libero di comportarsi così, quand'anche ne sia personalmente capace, data la molteplicità dei condizionamenti che operano su di lui per far valere altri punti di vista e in primo luogo quelli dei molteplici interessi particolari e contingenti. D'altro canto è evidente che il perseguimento del fine costitutivo del gruppo come responsabilità ultima da parte del leader non può fondarsi indefinitamente su un credito di fiducia in base a qualsivoglia 'legittimazione' del ruolo, ma deve produrre successo, risultati positivi nei termini culturali propri del gruppo, e non va esente da verifiche nel tempo, come per esempio le periodiche elezioni dello Stato democratico.
Si è già accennato implicitamente alla relazione esistente tra il concetto di leadership e quello di 'potere'. È bene rilevare che, dei molti significati attribuiti a quest'ultimo, vale qui come riferimento quello che segue: capacità di un soggetto di imporre la propria volontà in un gruppo nonostante eventuali resistenze di altri soggetti, grazie alla (minaccia di) applicazione di sanzioni. Essa si manifesta nella forma del 'comando'. Nello Stato moderno questa capacità è attribuita in modo specifico e legale a chi ricopre determinati ruoli che, nella sfera politica, sono ruoli di sovraordinazione nelle sue istituzioni, e perciò si parla anche di 'poteri istituzionali', fra loro distinti. Il potere e gli specifici poteri cui si è fatto riferimento sono qui considerati alla stregua di strumenti della leadership. Una considerazione a parte meritano però quelli che alcuni designano come 'poteri personali'. Il più incisivo e specifico tra essi deriva dall'attribuzione di 'carisma', cioè di una 'qualità straordinaria', a un soggetto, il leader, da parte degli altri membri del gruppo, con il conseguente sviluppo di un tipico processo di strutturazione del gruppo stesso intorno al leader e di comportamenti da lui orientati.
Al concetto di potere altri se ne affiancano e devono essere ricordati. Il più importante, forse, è quello di 'autorità', la cui storia ha inizio con gli antichi Romani. Sembra di poter dire che, per lungo tempo, auctoritas sia valso a distinguere la facoltà di un individuo o gruppo, per qualità personali o per la posizione occupata, di dare un consiglio che, come scrive T. Eschenburg (v., 1965), "non è un comando ma agisce come se lo fosse". Tra le caratteristiche fondanti l'autorità rientravano specialmente le gesta compiute o, comunque, l'esperienza, la competenza, la fama, al limite producendo quell'altra elusiva ma anche suggestiva qualità detta 'prestigio', oppure anche 'ascendente'. Il riferimento implicito alla magia, nel primo caso, e agli astri nel secondo, ci dicono quanto quest'ultima qualità ci porti vicini all'area dei processi carismatici, che hanno però ben altra complessità. Qui si userà 'ascendente' per indicare quell'influenza che, per caratteristiche come quelle sopra ricordate e per effetto globale della personalità, il leader spesso esercita sui convincimenti e sui comportamenti dei suoi collaboratori e a volte anche di vaste masse. Correlativamente si accoglie il concetto or ora evocato di 'influenza', per designare genericamente la capacità di un soggetto di modificare i comportamenti altrui senza che vi sia né comando né sanzione.Da ultimo si deve ricordare che le posizioni istituzionali di potere comportano anche 'poteri simbolici', che esamineremo più avanti, e 'poteri di fatto' extraistituzionali e magari non costituzionali, come per esempio quelli esercitati nei decenni postbellici dai presidenti americani nel campo militare, grazie anche all''emergenza permanente'; e, inoltre, comportano dei privilegi nell'uso di risorse sociali che consentano di esercitare influenza, come i mass media.
L'Ellade è stata la madre del pensiero propriamente politico e, d'altra parte, ha sperimentato una ricca gamma di forme costituzionali, dalla monarchia all'oligarchia, dalla tirannide alla democrazia, che offrivano spazi diversi alla leadership e ne condizionavano la forma e il modo di esercizio. L'esperienza democratica della polis, in particolare, è ancor oggi istruttiva (sia detto in contraddizione con quanti sostengono in modo radicale l'incomparabilità con la democrazia dei moderni).
Nei classici ellenici sono già sollevate questioni e avanzate risposte che ancora meritano attenzione. Come esempio valga la critica, in Platone e in Aristotele (tra il V e il IV secolo a.C.), del demagogo, che Weber, muovendo dal significato originario, considererà poi come il capostipite, nel bene e nel male, dei moderni capipartito e leaders della democrazia; e, con riferimento al demagogo in senso deteriore, le riserve di Aristotele sull'elezione popolare diretta dei capi politici, che invece una linea di pensiero contemporanea nelle scienze sociali, da Weber a oggi, giudica soluzione vincente e appropriata nella democrazia moderna. Nella Politica di Aristotele si trova anche la più netta argomentazione contro la decisione di un solo uomo e a favore della deliberazione collettiva come dialetticamente più ricca e affinata - offrendo con ciò un importante riferimento a un dibattito di centrale importanza e tuttora molto aperto, nonostante la diffusa preferenza dei contemporanei per la leadeship collegiale.
Se poi ci eleviamo al piano di un discorso più generale è Platone che per primo ha affermato in modo radicale, per dirla con K. Popper (v., 1950), il "principio della leadership", sostenendo (nelle Leggi) che vi è chi, essendo nato e formato per ciò, deve "comandare, governare e guidare" gli altri seguendo un criterio di utile collettivo, comunitario, verso il quale è personalmente responsabile: una visione che, per l'essenziale, può valere come riferimento ultimo anche per la concezione della leadership derivata da Weber proposta nel capitolo precedente. E, in base alla sua scelta, Platone ha potuto porre in luce la complementarità di forza e persuasione nell'arte-scienza del governo, esplorando le dimensioni che oggi chiameremmo della politica simbolica, largamente manipolativa, e specialmente il ruolo del mito in essa: così anticipando, anche per questo aspetto, la ricerca moderna.Il tramonto della civiltà della polis coincide con l'irruzione in Occidente, per opera di Alessandro e dei suoi successori, del modello della monarchia orientale assoluta e collegata al divino mediante la divinizzazione del regnante, che trova i suoi efficaci teorici e apologeti in autori noti attraverso frammenti raccolti da Stobeo (V secolo d.C.). La religione, dunque, appare come riferimento di legittimazione del potere personale, proposto con particolare efficacia per mezzo del parallelismo tra ordine cosmico e ordine politico, fra Dio e sovrano, che si ritrova nel trattato sulla monarchia attribuito a Diotogene.
Roma è ovviamente il centro di altre grandi esperienze politiche della civiltà occidentale. Roma repubblicana, innanzitutto, le cui istituzioni (senato, consolato, tribunato, dittatura), con le forme relative di leadership, hanno costituito non solo sviluppi peculiari oggetto di lungo studio, ma un riferimento, un'ispirazione, per i secoli a venire. E a chiudere la vicenda repubblicana è stato il fenomeno che ha dato luogo a una categoria politica e a un modello: il 'cesarismo', sostanziato di potere personale sostenuto dall'esercito e dal popolo, che rappresenta un riferimento importante anche per lo studioso della leadership.
Nella cultura greca e latina l'interesse per i grandi leaders politici e militari della polis e della Repubblica romana era certamente grande, anche se le sue espressioni principali appartengono all'inizio dell'età imperiale. Esso emerge soprattutto nell'opera storica forse più celebre, appartenente all'età augustea, cioè La storia di Roma di Tito Livio, anche se l'attenzione è concentrata sui caratteri peculiari del leader e della sua leadership piuttosto che su temi più generali. Ma il più importante tentativo di impostare un discorso comparativo è naturalmente quello compiuto da Plutarco (I-II secolo d.C.) con le Vite parallele delle maggiori figure greche e romane, opera nutrita di perspicace attenzione per i caratteri posti a confronto, per le situazioni e per i comportamenti rilevanti sotto il profilo della leadership.
Lo sviluppo dell'Impero romano deve essere qui ricordato principalmente per due aspetti. Primo: l'estensione in forma originale all'intero Occidente dell'esperienza orientale introdotta da Alessandro, con la costituzione a Roma di un potere personale assoluto e totalizzante, che si configura appieno nella lex de imperio Vespasiani del 69 d.C. Secondo: il culto dell'imperatore si confonde con il culto della personalità grazie all'istituto della divinizzazione, con il concorso degli intellettuali del tempo, come si può vedere dal Panegirico dedicato da Plinio a Traiano davanti al senato nel 100 d.C. Se il cesarismo è divenuto una categoria storica, un modello ancor oggi valido, questi sviluppi dell'Impero rappresentano quantomeno dei riferimenti culturali sui quali meditare anche nel nostro secolo; e così, d'altronde, il simbolismo dell'Impero che a questi sviluppi si conforma.
Nell'ambito di una religione monoteistica come quella giudaico-cristiana non vi era spazio, senza eresia, per la divinizzazione del re o dell'imperatore, ma soltanto per l'idea di una ispirazione o di un mandato divino. E in effetti la Bibbia aveva sviluppato questo concetto, applicandolo sia ai profeti sia ai re: Mosè appariva nel sacro libro come il prototipo dell'eletto per una missione divina nella storia, e da Dio direttamente ispirato. Con la diffusione onnipervasiva del cristianesimo e con la grande potenza acquisita dalla Chiesa di Roma, il principio della grazia divina (spesso associato al criterio selettivo del sangue) ha poi costituito, in Occidente, l'alta legittimazione del potere imperiale e monarchico, dando perfino luogo all'attribuzione di qualità straordinarie, taumaturgiche, ai re di Francia e d'Inghilterra: il loro studio, sviluppato soprattutto da un celebre libro di M. Bloch (v., 1924), rappresenta un contributo anche per il nostro tema. L'idea del mandato divino ha perfino contribuito alla formazione di credenze e pratiche pericolosamente reminiscenti dell'antica divinizzazione, come E. Kantorowicz (v., 1957) e poi altri hanno documentato in acuti studi, anch'essi rilevanti in questa sede, sui "due corpi del re". D'altronde il principio della grazia divina ha dato l'impronta a ogni momento significativo della vita pubblica e a ogni comportamento di pubblico rilievo del re e dell'imperatore, e più in generale all'universo simbolico del potere.
È da notare che il modello biblico letto e interpretato al di fuori della Chiesa e magari in polemica con essa ha ispirato una tradizione carismatica indipendente: più volte nella storia occidentale, specialmente nei primi cinque secoli di questo millennio, uomini e donne si sono fatti leaders di movimenti politico-religiosi e a volte hanno raggiunto ed esercitato il potere, come a Münster nel XVI secolo, proclamandosi 'messia' e 'salvatori' e perfino, con grave eresia, 'Cristo reincarnato'.
Considerando tutte queste esperienze storiche di imperatori, re e messia e di peculiari figure come Giovanna d'Arco (XV secolo), vien fatto di pensare che la religione giudaico-cristiana ha costituito per la leadership carismatica (nel senso di Weber) la fonte di ispirazione, determinando al contempo la forma in cui si è manifestata nei secoli, ivi comprese - secondo il suggerimento di N. Cohn (v., 1957) nel suo fondamentale libro sui movimenti medievali sopra rammentati - anche le grandi dittature totalitarie sorte in connessione con le religioni secolari che nel XX secolo hanno sostituito quella tradizionale, mutuandone però essenziali schemi messianici e millenaristici.L'altra grande creazione del Medioevo è certamente rappresentata dal fiorire della civiltà comunale e in ispecie della democrazia comunale, al di là dell'eventuale ripristino, pur significativo, di istituzioni e magistrature della Roma repubblicana. Ricongiungendosi alla vicenda dell'antichità e insieme all'esperienza degli ordini religiosi, la democrazia comunale riprende e applica in molte varianti il principio di maggioranza nella scelta elettiva dei governanti e nelle deliberazioni degli organi del Comune, e dei parlamenti, come E. Ruffini (v., 1977) ha potuto chiarire in termini particolarmente utili qui. E la leadership collegiale si impone contro ogni forma di monocrazia.
Proprio nel tramonto di questa civiltà in Italia, e mentre si afferma la Signoria, la cultura occidentale produce, con Machiavelli e Guicciardini, riflessioni moderne sul potere. Dagli studiosi nostri contemporanei Machiavelli è generalmente considerato il primo importante autore che dia alla leadership un grande e definito rilievo nella storia, specialmente nel Principe (1513), trattando dunque dell'arte-scienza del governo come insegnamento diretto al principe: più esattamente, a colui che si sarebbe assunto il grande impegno di fare l'Italia. Il Segretario fiorentino non ha però l'intento di andare al di là di questo, e il disegno di un discorso più generale sulla leadership deve semmai essere costruito, a partire da sparsi elementi, per opera dei vari interpreti mossi da questo specifico interesse.
Gli imperatori e i re rappresentano le figure di leaders più rilevanti nel Medioevo, a cui oggi gli studiosi rivolgono a volte le loro cure con strumenti moderni; ma anche alcuni sovrani della storia moderna e contemporanea, come Guglielmo II, hanno richiamato giustamente l'attenzione. Non si deve dimenticare, tuttavia, che anche ai tempi della monarchia assoluta era emersa con evidenza l'importanza dei ministri e dei consiglieri, dei consigli, dei parlamenti degli ordini, che partecipavano alla gestione dello Stato o su essa influivano: le grandi individualità che hanno ricoperto quei ruoli, come il ministro cardinale Richelieu, sono diventate anch'esse oggetto di ricerca con approcci che vanno al di là delle innumerevoli biografie convenzionali.
La Rivoluzione inglese del Seicento rappresenta l'inizio di un'epoca nuova anche nella prospettiva di questi studi. La Great Rebellion e il regicidio aprono la via al primo episodio cesaristico moderno, cioè la dittatura personale di Cromwell, che nutre un forte 'senso di missione' ispirato dalla Bibbia e dalla cultura della Riforma, e, d'altro canto, si appoggia al favore dell'esercito e di una parte della popolazione. Con la Glorious Revolution di fine secolo comincia invece la storia della monarchia costituzionale, ed è qui da rilevare come, parallelamente, gli studiosi che vanno elaborando la concezione del nuovo Stato distolgano l'attenzione dalla leadership: tipicamente Locke (Due trattati sul governo, 1690) consegna al 'potere legislativo' la posizione centrale, preminente, nello Stato, mettendo nettamente in subordine quello che egli sceglie di chiamare emblematicamente il 'potere esecutivo'. Anzi, lo sviluppo del governo costituzionale in contrapposizione alla monarchia assoluta e le resistenze e velleità dei re hanno prodotto una sorta di duratura diffidenza verso ogni sembianza di potere personale, tale da ostacolare perfino la istituzionalizzazione di qualsiasi leadership non collegiale.Tuttavia proprio nel paese in cui si avvia la costruzione dello Stato moderno, l'Inghilterra, il nuovo ruolo del parlamento è accompagnato dalla formazione di due partiti e delle rispettive leaderships, e dal rapporto fra monarca e parlamento si sviluppa il 'gabinetto' in senso moderno e alla sua testa, con R. Walpole nella prima metà del Settecento, la figura del premier - per molto tempo tale soltanto di fatto (il riconoscimento formale è del primo Novecento).
La Rivoluzione americana e la Convenzione (1787) che ne coronò l'esito vittorioso, d'altro lato, diedero agli Stati Uniti la trama costituzionale su cui ha potuto svilupparsi in modo originale una repubblica presidenziale, con un presidente eletto dal popolo e sempre più potente. Così le due democrazie anglosassoni, con il premier e il presidente rispettivamente, si sono assicurate una leadership personale forte nella sua progressiva istituzionalizzazione, al contrario dei maggiori Stati continentali europei che nel XIX secolo hanno sviluppato il modello della democrazia parlamentare privilegiando il parlamento, da cui dipendevano il gabinetto e il 'presidente del Consiglio' - tendenzialmente un primus inter pares - come è tipicamente accaduto nella Terza Repubblica francese, anche per reazione al 'bonapartismo'. E, naturalmente, questo differente sviluppo spiega anche il concentrarsi sul premier inglese e sul presidente americano di una parte specialmente cospicua e fruttuosa della ricerca sulla leadership politica dei nostri giorni.
Nella prospettiva sopra adottata la storia moderna d'Europa, particolarmente degli ultimi secoli, sembra essere la storia dello Stato di diritto e della democrazia rappresentativa fondata su libere elezioni, in continuità ideale con la democrazia antica e la democrazia comunale. Ma non si può dimenticare che questo giudizio è drasticamente influenzato dall'esito del secondo conflitto mondiale e dalla conseguente diffusione incontrastata degli ordinamenti e degli ideali democratici e delle forme di organizzazione economica e sociale proprie dei vincitori. In realtà, dopo la Rivoluzione francese del 1789 che viene convenzionalmente indicata come l'evento che segna la fine del vecchio ordine e l'inizio del nuovo, l'Europa ha conosciuto anche vasti sviluppi di opposto segno, illiberali e antidemocratici, almeno secondo la concezione corrente di democrazia. La Francia stessa ha vissuto con i due Bonaparte esperienze di 'dittatura imperiale', che hanno anche dato ispirazione a una nuova categoria della politica, il 'bonapartismo', in verità coincidente con il cesarismo per l'essenziale: il potere personale appoggiato dall'esercito e dal popolo tramite l'istituto del plebiscito.
In pieno XX secolo, poi, Italia, Germania e Russia sono state soggette a dittature totalitarie caratterizzate dalla concentrazione nel capo di un potere praticamente assoluto, esteso a ogni aspetto della vita nazionale, ispirato e legittimato dalle religioni secolari cui si è accennato; e quel modello si è propagato e imposto, anche per forza di armi, nei paesi vicini. Lo sviluppo più rilevante in questa sede è stato il Führerprinzip nella declinazione che lo stesso Hitler ne ha dato in Mein Kampf (1925-1927). Il leader espresso dalla lotta rivoluzionaria, e in questo senso 'selezionato dalla Natura', 'riconosciuto' dal popolo, nomina i capi per tutte le istanze dello Stato e del partito unico a lui immediatamente sottostanti, e costoro, a loro volta, nominano i preposti al livello inferiore, e così via, costruendo a partire dal vertice la piramide del potere. Il Führerprinzip ha rappresentato, nel XX secolo, la riaffermazione più consequenziaria e articolata del potere personale e della leadership illimitata, in termini carismatici, e il rovesciamento speculare, esatto, della concezione democratica radicale del potere come piramide costruita dal basso per successive deleghe che la 'base' costituita dal popolo sovrano può in ogni momento ritirare.
Queste grandi oscillazioni pendolari del destino storico europeo dopo la Rivoluzione francese si riflettono ovviamente in una vasta letteratura filosofica, storica, giuridica e sociologica che, per quasi tutto il XIX secolo, non ha peraltro grande rilevanza per il nostro tema, fatta eccezione per un punto specifico: il ruolo storico della leadership che, come meglio vedremo, viene tendenzialmente marginalizzato dal 'determinismo sociale' prevalente, a prescindere da scrittori isolati come T. Carlyle. Fra le analisi storiche di tale ispirazione la più rilevante qui è forse quella sviluppata da Marx (v., 1852) sul bonapartismo, almeno in quanto prospetta un regime (cesaristico) moderno sociologicamente determinato, che a sua volta condiziona e caratterizza l'esercizio della leadership. Questa analisi è stata spesso ripresa ma soprattutto in chiave ideologica, e quindi con pochi frutti.
Si può dire che la riflessione sistematica delle scienze sociali sulla leadership assuma consistenza e rilievo solo verso la fine del XIX secolo e all'inizio del XX, specialmente nella sociologia e nella scienza politica, con i contributi tuttora influenti di G. Mosca (v., 1896 e 1923²) sulla classe politica e di V. Pareto (v., 1902 e 1916) sulle classi 'elette', di J. Bryce (v., 1888 e 1910) e di M. Ostrogorski (v., 1903) sulla democrazia nei paesi anglosassoni, di R. Michels sui partiti e i sindacati operai (v., 1911 e 1925²) e poi sul fascismo (fra il 1925 e il 1936), di G. Simmel (v., 1908) sul rapporto fra sovraordinato e subordinato concepito in termini di reciproca influenza, e soprattutto di Weber (v., 1919 e 1922), che con il concetto di carisma e l'elaborazione relativa ha lasciato l'impronta più profonda.
La psicologia ha a sua volta dato contributi fecondi con lo studio del rapporto fra leader e folla e fra leader e massa da parte di G. Le Bon (v., 1895) e di S. Freud (v., 1921) - la cui opera ha però offerto anche idee e proposte più generali su cui gli studiosi della leadership hanno costruito nei decenni successivi. Ma anche l'antropologia dava in quel periodo iniziale apporti rilevanti dimostrando l'ubiquità del fenomeno leadership, presente anche nelle cosiddette 'società senza Stato' almeno di fronte a situazioni straordinarie, e ponendo in evidenza l'attribuzione al leader di poteri straordinari, ovunque, in siffatte situazioni: un insegnamento, quest'ultimo, che, elaborato da G. Frazer in The golden bough (1890 e 1911-1915), anticipò per certi aspetti la teoria di Weber.
Più tardi, d'altronde, l'antropologia culturale ha consegnato alla sociologia e alla psicologia sociale americana concetti e, soprattutto, approcci di studio destinati a produrre interessanti tentativi nella ricerca behavioristica su realtà sociali date (come la cittadina di R. e H. Lynd o la banda di ragazzi di W. Whyte, particolarmente interessante per la leadership), o sui gruppi sperimentali costituiti ad hoc: in questi studi l'osservazione diretta si alternava o accompagnava con l'uso dell'intervista.
Sorretta da vaste ambizioni si sviluppava intanto la sociometria di J.L. Moreno (v., 1934), consistente nello studio delle scelte reciproche in un gruppo e quindi, si riteneva, utile fra l'altro per individuare chi avesse il ruolo di leader. La costruzione e la manipolazione dei gruppi sono state spesso finalizzate al vaglio di specifiche ipotesi circa la leadership già nelle ricerche di H.H. Jennings (v., 1943), incentrate sull'importanza della 'situazione', e in quelle di K. Lewin e dei suoi collaboratori R. Lippitt e R.K. White (v., 1943), che, animate da spirito ideologico e pratico insieme, erano volte a confrontare, in termini d'efficacia, gli effetti di una leadership autoritaria con quelli di una leadership democratica. Il behaviorismo ha rimesso radicalmente in discussione le impostazioni tradizionali, all'inizio riducendo tendenzialmente la leadership a una funzione del gruppo e in particolare della 'situazione' di gruppo, in opposizione a ogni spiegazione in termini di 'tratti', o caratteri, della personalità del leader, e poi - con una impostazione più equilibrata - cercando (soprattutto con tecniche sociometriche) di individuare anche i caratteri più influenti o, comunque, più apprezzati dai membri del gruppo. Inoltre nel suo ambito si sono proposti successivi, sofisticati e ambiziosi sviluppi teorici come la contingency theory di F. Fiedler (v., 1967) e altri, che si incentrava sul rapporto fra gradimento sociometrico del leader e rendimento del gruppo, offrendo in questa chiave una risposta alla questione della prevedibilità dell'efficacia di una leadership, questione specialmente stimolante per i pragmatici studiosi americani e per il loro pubblico.
Come si può intuire dai temi di studio ricordati, il confronto fra totalitarismo e democrazia ha ispirato molte fra le ricerche degli anni trenta e quaranta sulla leadership. In relazione al dittatore nazista, T. Adorno e M. Horkheimer hanno in quegli anni sviluppato in modo originale la lezione di Freud sul rapporto fra capo e massa, prima di compiere, sempre movendo da Freud, la famosa e contestata ricerca sulla "personalità autoritaria" (v. Adorno e altri, 1950). Da Freud deriva principalmente anche l'approccio alla storia di vita adottato da H. Lasswell (v., 1930) per leggere i comportamenti politici - costruendo anche i tipi dell'homo politicus e, perfino, la "formula generale" della sua formazione. Dopo la guerra il metodo della biografia psicanaliticamente orientata è stato liberamente applicato a leaders di grande spicco, specialmente nel celebre libro di A.L. e J.L. George (v., 1956) sul presidente Wilson e nelle ancor più celebri e influenti ricerche di E. Erikson sul giovane Lutero (1958) e su Gandhi (1969), che hanno sapientemente considerato il processo formativo lungo tutta la vita, attraverso momenti critici decisivi e con riferimento puntuale agli avvenimenti storici nel loro svolgimento. Questo incontro di psicanalisi e storia ha fatto veramente scuola, ispirando una serie lunga e nutrita di 'psicobiografie' di leaders di ogni campo e di ogni tempo - per esempio i presidenti americani - nonché scritti teorici e metodologici e perfino una rivista, "The psychohistory review", che tiene viva e aggiorna questa tradizione di studi.
È opportuno però ricordare che anche altre idee di Freud hanno ispirato la ricerca sulla leadership; e sono da rammentare le scuole sviluppatesi essenzialmente dai semi del pensiero freudiano, come la 'psicologia del narcisismo', che ha dato luogo sia a riflessioni teoriche di ampio raggio sia a studi penetranti su singoli leaders. D'altronde hanno influito, nella vicenda di questi studi, anche linee di pensiero per così dire alternative come quella rappresentata da A. Adler e dal suo discepolo A. Maslow (v., 1954), la cui 'teoria dei bisogni' è stata accolta con interesse da importanti studiosi della leadership come J. Burns (v., 1978) particolarmente nello studio delle motivazioni. Come elaborazione dei suggerimenti della psicologia merita poi rilievo il tentativo di J. Barber (v., 1972) di costruire strumenti di misurazione che consentano di cogliere le caratteristiche psicologiche alla base del comportamento dei leaders (o più esattamente dei presidenti americani) e quindi delle loro difficoltà eventuali e del loro successo (o insuccesso), con ciò offrendo la risposta più alta, sebbene certamente criticabile anch'essa, alla richiesta di prevedibilità dell'esito di una leadership che tormenta particolarmente la cultura americana.
Accanto a questi approcci che ricevono un'impronta dominante dalla psicanalisi o dalla psicologia di varia scuola se ne sono sviluppati altri più propriamente politologici e sociologici. Ispirandosi al contributo di Weber sul carisma, ed elaborandolo, vari studiosi hanno assunto come oggetto di ricerca specialmente tre tipi di fenomeni: le dittature totalitarie tra le due guerre (v. Cavalli, 1982; v. Bach, 1990); le dittature intorno alle quali si è costituito e consolidato lo Stato nei paesi ex coloniali, e più in generale la formazione di 'nuove nazioni' (v. Lipset, 1963); gli sviluppi della democrazia moderna verso un modello di 'democrazia con il leader', riprendendo anche la riflessione di Weber sulla democrazia contemporanea (v. Cavalli, 1992). Ma la ricerca sulla leadership ha tratto grande vantaggio anche da indagini empiriche specifiche (con dati prevalentemente di intervista e di osservazione) sulle varie istituzioni democratiche e sul loro personale dirigente, nonché dallo studio approfondito di singoli casi e dagli studi comparativi su larga base quantitativa. Ripartendo in generale dal classico lavoro di Michels (v., 1911 e 1925²), ma poi sempre più liberamente, si sono quindi studiati nella loro peculiarità la leadership e i leaders di partito sotto vari profili. Altrettanto si è fatto per leadership e leaders parlamentari, particolarmente per il Congresso americano. E in questo quadro è da ricordare anche la riflessione sui comitati parlamentari e le loro regole operative (la 'compensazione differita', soprattutto), portata avanti da G. Sartori (v., 1987) e da altri, che fa luce sul complesso sistema decisionale nella democrazia contemporanea e sugli equilibri compromissori che ne derivano.
La ricerca sui membri del governo, i ministri, ha dato luogo a studi quantitativi che, soprattutto sotto la guida di J. Blondel (v., 1980; v. Blondel e Thiebault, 1991) e di M. Dogan (v., 1989), hanno consentito di raccogliere ed elaborare sistematicamente informazioni sulle caratteristiche 'demografiche' (in larga parte 'sociali') dei ministri stessi e in ispecie dei leaders di governo, da un lato, e sulle loro carriere politiche e di governo, dall'altro. Ma per i nostri fini meritano rilievo gli studi su singoli leaders di governo e singoli governi che gli sviluppi degli studi politologici e il clima democratico di trasparenza consentono di fare usufruendo di documenti, testimonianze, interviste ad hoc, e in taluni casi perfino di dati di osservazione diretta. Così, per rammentare solo due esempi significativi, F. Greenstein ha potuto offrirci contributi di conoscenza suggestivi sui presidenti Eisenhower (v. Greenstein, 1982) e Reagan, e A. King sul premier Thatcher (v. King, 1985²), nei loro ruoli di capi dell'esecutivo. Studi di questo genere associati a ricerche biografiche più avvertite possono fra l'altro aiutarci a conoscere meglio la concezione che della leadership e del proprio ruolo storico hanno i leaders stessi: un dato in molti casi di centrale importanza e che tuttavia riceve una insufficiente attenzione.
La capacità di comunicare convincentemente con gli altri (nel senso più ampio del verbo) è stata percepita da sempre come fondamentale per il leader, ed è stata in particolare curata la comunicazione verbale sia con i diretti interlocutori sia nelle riunioni consiliari e nelle assemblee di popolo. A ciò si ricollega l'importanza che la retorica e l'insegnamento della retorica avevano già presso i Greci e i Romani, e in relazione a ciò si deve valutare, per esempio, la notizia che Cesare va a studiare quella disciplina a Rodi. Da sempre, inoltre, è stata colta dai leaders e dai più attenti osservatori l'importanza dei simboli, dei riti e dei miti per il governo, e l'opportunità, anzi la necessità, di usarne largamente e sapientemente; anche in relazione a ciò è stata apprezzata l'organizzazione di comportamenti pubblici intorno al leader con criteri scenici e, ove possibile, con riferimenti 'religiosi', per mobilitare le credenze e i sentimenti comuni ultimi della società. Anche il comportamento dei leaders tende perciò a stilizzarsi secondo un modello, e a svolgersi secondo un copione conforme alle attese culturali dominanti, siano esse date dalla tradizione o dalla rivoluzione.
In questo senso profondo si è detto che la vita pubblica è teatro, in ispecie al vertice, e il leader è l'attore protagonista: verità espressa potentemente dai grandi tragedi, e in modo straordinario da Shakespeare nel primo atto del Julius Caesar e in alcune scene del Richard III e di altri drammi.Verso la fine del XIX secolo la riflessione di Le Bon (v., 1895) e di altri psicologi sociali sul rapporto tra il leader, le assemblee e le folle, molto penetrante anche se condotta con strumenti scientifici poveri, ha gettato luce sulla psicologia di massa e sui modi più efficaci per agire su di essa da parte di un leader, mentre altri autori hanno contribuito con differenti elementi di conoscenza, per esempio G. Sorel con lo studio del mito (1906). Questi intellettuali e soprattutto Le Bon hanno anche contribuito grandemente a formare la concezione della leadership di alcuni fra i leaders più significativi del secolo, a cominciare dai grandi dittatori fra le due guerre, Mussolini, Hitler e forse anche Lenin. Il dittatore tedesco ha teorizzato in Mein Kampf, e poi applicato con una certa genialità, i principî di una leadership conforme all'insegnamento dello studioso francese e, in particolare, ha usato con consapevolezza ed efficacia 'scientifica' tutte le risorse della retorica e di un universo di simboli, riti e miti da lui creati o adattati alla grande e continua rappresentazione teatrale di cui era l'assoluto e quasi divinizzato protagonista. Lo sviluppo delle comunicazioni e dei mass media, ossia del cinema e della radio, gli consentiva una sorta di ubiquità e di presenza diretta, personale, nei ritrovi e nelle case, che dilatava enormemente il suo influsso sulla popolazione. Se i dittatori totalitari avevano ovviamente modo di trarne vantaggio pieno e di anticipare in qualche modo gli scenari del futuro, tuttavia le opportunità offerte dalla comunicazione via etere (dopo l'era della parola parlata, diretta, e quella susseguente della parola scritta come mezzo prevalente di influenza) non sfuggivano certamente nemmeno ai leaders democratici: come dimostra l'uso sapiente ed efficace della radio da parte di Roosevelt in quegli stessi anni.
Nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, però, le condizioni sociali, culturali e tecnologiche si sono fatte sempre più propizie per una leadership scientifica capace di usare tutte le risorse cui si è accennato, anzi ne hanno creato l'esigenza. Basti qui ricordare lo sviluppo delle comunicazioni aeree e dei mass media che ha dato realtà crescente a quelle immagini di ubiquità e di presenza pervasiva in ogni luogo. Di conseguenza si sono avuti altri sviluppi rilevanti. Per un verso il campo di studio si è allargato per comprendere la leadership moderna nei suoi tipici modi di esprimersi e comunicare, condizionati dalle nuove tecnologie e dai nuovi pubblici, che al limite privilegiano, fra i leaders, non solo qualità e comportamenti, ma anche personalità psicofisiche diverse dal passato. Per un altro verso questi studi influiscono in modo sistematico e incisivo sui comportamenti politici e sull'organizzazione della politica determinati dai generali mutamenti di cui si è detto e dal progresso tecnologico in particolare: scienziati ed esperti intervengono direttamente in questo processo come consiglieri a volte molto ascoltati. La politica, che si svolge sempre più sotto gli occhi della popolazione, diventa quindi una rappresentazione pubblica, teatrale, in cui però la scienza accompagna o soverchia l'arte imponendosi anche agli attori protagonisti. Emblematici possono essere considerati i confronti precipuamente televisivi tra i due candidati alla presidenza americana, al culmine della campagna elettorale e davanti a decine di milioni di spettatori, in base a una scenografia e a regole contrattate da esperti che già hanno curato la lunga preparazione con autentiche 'prove' (teatrali) secondo strategie e tattiche ispirate a principî di psicologia sociale posti al servizio di finalità politiche.
Ma la continua rappresentazione, sempre più complessa, di cui è al centro impone al leader contemporaneo una molteplicità di ruoli carichi di valenze simboliche e oggetto di studio specifico, per cui la sua 'retorica' ha dovuto arricchirsi anche per questo riguardo: sotto la guida, sempre, della scienza. Qui cade opportunamente il richiamo alle ricerche sul simbolo e sui suoi usi in politica, da tempo iniziate dall'antropologia, dalla psicanalisi e anche da altre discipline, ma sviluppate in modo continuo e attuale da due scienziati politici contemporanei: H. Lasswell, fin dagli anni trenta, e M. Edelman, autore negli anni sessanta di un famoso libro sugli "usi simbolici della politica" e poi di altri scritti influenti. Entrambi, e il secondo più del primo, hanno però privilegiato l'uso manipolativo del simbolo presso le masse, con particolare attenzione al mito e al rito. Altri scienziati, di formazione principalmente antropologica, hanno pure studiato comparativamente i riti presso vari popoli e in epoche diverse, distinguendone le varie funzioni di legittimazione, definizione della realtà, investitura e così via, con uno speciale interesse per i riti di massa. Questi studi illuminano una dimensione essenziale della politica e quindi le vie della leadership consapevolmente, scientificamente esercitata.
L'estrema complessità del fenomeno leadership e la pluralità degli approcci delle varie discipline hanno ostacolato i tentativi ambiziosi di giungere a una teoria generale e perfino a una sintesi organica dei contributi prodotti finora. In effetti per qualche tempo si sono avute, nel migliore dei casi, ricche rassegne monodisciplinari in opere collettive modestamente titolate handbook, come quelle di psicologia sociale a cura di C.A. Gibb (v., 1954) e di D. Katz (v., 1953). L'International encyclopedia of the social sciences (1968) ha offerto invece un'ampia prospettiva psicologica, sociologica e politologica del problema. Il primo ampio e approfondito tentativo di sintesi personale si è avuto con Leadership di J. Burns (v., 1978), opera molto nota e per certi aspetti insuperata. Pochi altri tentativi del genere hanno fatto seguito; meritano di essere ricordati i lavori di studiosi come R.C. Tucker (v., 1981) e J. Blondel (v., 1987), attenti anch'essi al quadro d'insieme. Ma lo sforzo di offrire questo quadro e di far conoscere nuovi schemi teorici e nuovi approcci è stato affidato in buona parte, lungo i decenni, alle raccolte variamente organiche di saggi scritti da studiosi del settore, come quelle curate da L. Edinger (v., 1967), G. Paige (v., 1972), B. Kellermann (v., 1984), C.F. Graumann e S. Moscovici (v., 1986), B.D. Jones (v., 1989).
I risultati più interessanti sono forse stati due. Primo: aiutare considerevolmente a discernere le questioni principali del settore, con le loro interrelazioni, e a porre a confronto i vari contributi in argomento. Così la formazione e la selezione dei leaders emergono come questioni centrali che possono essere affrontate con qualche utilità solo concentrando il fuoco dell'indagine sugli elementi di continuità (come la motivazione di fondo) fra questi due momenti della carriera di un leader e mobilitando criticamente la vasta conoscenza interdisciplinare acquisita. Secondo: produrre distinzioni concettuali e tipologie spesso utili, non fosse che per i problemi che sollevano, e più di rado ricerche basate su esse. Così la distinzione fra leadership rivoluzionaria e leadership riformatrice proposta da più di uno sembra corrispondere a tipi diversi di leaders e di rapporti fra leader e seguito, e inoltre apre la via a una comprensione più adeguata delle rispettive strategie: come fa Burns distinguendo tra le strategie di riforma. Ma utile, nello stesso senso, è l'invito di Tucker a distinguere fra leadership istituzionalizzata e non istituzionalizzata, cioè fondata o no su una posizione o carica con poteri definiti nello Stato o in altra istituzione, perché la dicotomia proposta richiama l'attenzione su differenze importanti e in particolare sul ruolo essenziale che il leader ha personalmente, per autorità e ascendente, nella nascita e nello sviluppo dei movimenti sia riformatori che rivoluzionari.
Tra le distinzioni classificatorie spesso adottate ve n'è una che merita forse un momento di speciale riflessione: quella concernente i 'leaders intellettuali', che vari autori significativi accolgono e discutono ampiamente, riferendosi sia a singoli pensatori come Locke e Madison, sia a gruppi relativamente omogenei di intellettuali come i philosophes illuministi. Sembra di poter dire che essi siano leaders soltanto quando si accetti una definizione di leadership estremamente generica in cui rientra ogni influenza esercitata da un uomo su altri, o magari una sua specificazione di carattere valoriale, come quella in cui Burns fa rientrare la leadership degli intellettuali ("leadership trasformatrice", che innalza leader e seguito "a più alti livelli di motivazione e moralità": quest'ultima intesa, sembrerebbe, in termini non culturali e quindi relativi, ma assoluti). Ma - a prescindere dalla dubbia utilità scientifica di ogni strumento concettuale intrinsecamente valoriale - con siffatte definizioni la leadership viene separata, scorporata da ogni struttura sociologica, e con ciò diviene essa stessa qualcosa di incerto e di evanescente. Sembra essenziale, sulla linea del discorso scientifico del secolo, considerare la leadership come diretta a uno scopo entro una struttura di interazione sociale formalmente definita o meno, in ogni caso caratterizzata da un sistema di ruoli tipici incentrato nel ruolo del leader e con una dinamica tipica condizionata principalmente da chi ricopre quel ruolo.
Più che l'intellettuale inteso come filosofo, scienziato sociale o artista che elabora pensiero e lo consegna alla carta stampata per un pubblico disperso e in gran parte sconosciuto, merita perciò di rientrare nel computo l'opinion leader: non più inteso nel senso della celebre ricerca di E. Katz e P. Lazarsfeld (v., 1955), cioè come tramite e filtro dei messaggi dei media, ma come uomo dei media egli stesso, che ha un punto di vista e la libertà di leggere il mondo in conformità a esso, raggiungendo sistematicamente un pubblico di utenti. Anche in questo caso si ha in effetti una struttura sociologica come sopra precisato. Ma è bene ricordare che l'opinion leader non dispone di 'potere' nel senso inteso qui, bensì soltanto di 'influenza': e l'esercizio di influenza, d'altronde, dipende in linea di principio dalla proprietà dei media, con tutte le conseguenze alternative di condizionamento o impotenza (o ininfluenza) che ne possono derivare per lui.
In questo settore di studi hanno giustamente richiamato molta attenzione, in prospettive diverse, i momenti contigui della carriera del leader rappresentati dalla formazione e dalla selezione. Tuttavia entrambi i momenti, e il primo specialmente, riescono spesso sfuggenti, e alcuni autori, propensi a una sociologia modellata sulle scienze naturali, osservano che le attribuzioni del rapporto causa-effetto sono in questo campo particolarmente incerte. L'approccio più semplice e diretto assume come riferimento le istituzioni che hanno la parte più importante nella socializzazione di un nuovo membro della società: la famiglia, la scuola di ogni grado, le libere associazioni e, naturalmente, quelle di carattere politico in primo luogo. Le biografie di ogni tempo attestano che quelle istituzioni hanno sempre influito anche sullo sviluppo di motivazioni e capacità attinenti alla leadership e al successo dei leaders: molto in condizioni sociali normali e meno, invece, nel corso delle rivoluzioni, quando più occasioni si presentano agli uomini nuovi. L'importanza delle istituzioni ricordate è stata rilevante soprattutto nelle società in cui la classe dirigente era relativamente chiusa e l'appartenenza era 'ascrittiva' in base, per esempio, al principio ereditario. Famiglia, scuola e associazioni esclusive contribuiscono potentemente, si direbbe, alla costruzione di una personalità atta alla leadership, preparano per questo compito in senso generale e tecnico, e infine introducono in un ambiente sociale e in sistemi di relazioni sociali che, oltre a perfezionare la formazione del leader, gli forniscono le occasioni e il supporto per la carriera nella sfera politica o in altra di pubblica rilevanza.
Anche gli esercizi militari e sportivi tendenzialmente esclusivi, riservati, contribuiscono comunemente a un'appropriata educazione. Questa classe dirigente (relativamente) chiusa ha spesso un ethos suo proprio che comporta la scelta della vita pubblica come la più appropriata e forse come un dovere morale, e può anche essere portatrice di una filosofia, o almeno di una visione del mondo e del proprio ruolo in esso, e di metodi e tecniche ad hoc. Si rileverà con ragione che nella storia siffatti privilegiati percorsi formativi (e selettivi) trovano riscontri sistematici in connessione con l'esistenza di autentiche aristocrazie, come nell'antica Roma o nella Gran Bretagna imperiale, e sono infatti illustrati tipicamente da leaders celebri espressi da siffatte aristocrazie come per esempio Cesare o Churchill, oppure, mutatis mutandis, dai regimi a partito unico del nostro secolo; e trovano riscontri interessanti anche nelle chiese fondate sul carisma di ufficio come, per eccellenza, la Chiesa cattolica. Tuttavia in molti paesi sono presenti residui, a volte socialmente rilevanti, di classi dirigenti chiuse e riaffiora frequentemente la tendenza a costituire una classe dirigente relativamente separata e con elementi di ereditarietà, tendenza non di rado rafforzata da istituzioni pubbliche o private per la formazione della classe dirigente.
Alcune delle istituzioni citate meritano una ulteriore e più particolare attenzione. La famiglia innanzitutto. Lo studio scientifico o, almeno, sistematico delle biografie ha messo in evidenza altri aspetti del suo contributo formativo. Studiosi di orientamento psicanalitico hanno chiarito come il rapporto con il padre possa in più modi riuscire rilevante per la scelta della vita pubblica e per il perseguimento di posizioni di potere e di leadership, per l'adozione di ideali e di obiettivi, per il modo stesso di esercitare la leadership, con i relativi successi e insuccessi; né ciò può apparire sorprendente, una volta che si sia in generale ammessa l'importanza di quel rapporto parentale nella costruzione della personalità. Questa idea ha ispirato in parte le già citate ricerche di Erikson su Lutero e su Gandhi ed è dominante nel famoso studio dei George su Wilson, che fa del difficile, frustrante rapporto con il padre la chiave della condotta del presidente americano nella sua complessa articolazione: il recupero della stima di sé compromessa da quel rapporto è il vero propellente del suo impegno politico e della sua leadership e, infine, anche la causa del suo tragico fallimento.
Sviluppo meno approfondito e originale hanno avuto in complesso gli studi relativi alla madre. Centrale resta il suggerimento di Freud che il 'beniamino' della madre sia spesso, da adulto, contrassegnato da spirito di conquista e fiducia nel successo: cioè dalle caratteristiche della personalità che molti considerano fondamentali in un leader. D'altro lato alcuni studiosi della psicologia del narcisismo e della sua incidenza politica ritengono che la distorta formazione della personalità nell'infanzia (o, più precisamente, del 'sé'), eventualmente originata da insufficiente amore materno, possa spiegare la mentalità e la condotta di tipici capi carismatici (e anche del nucleo più autentico del loro seguito): l'una e l'altra fondate su una drastica, manichea contrapposizione del Bene e del Male, e sulla presunzione di rappresentare il Bene.
Ma troppo spesso non si dà sufficiente importanza al fatto che gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza sono anche quelli della socializzazione politica primaria, in cui progressivamente si apprende a conoscere la struttura sociale e politica del proprio paese e si sviluppa anche un attaccamento affettivo (o, viceversa, alienazione e rigetto) verso gli ordinamenti dati e i valori fondanti, come quello di patria; in un paese 'diviso', però, può accadere che sia invece la classe sociale, o la minoranza etnica, o la subcultura di appartenenza, e il partito che le organizza, a costituire il riferimento dell'identificazione e dell'attaccamento.
Naturalmente sono di fatto possibili varie combinazioni. Si costituiscono così anche gli ideali e il relativo impegno dei futuri leaders, a prescindere da quei conflitti con la famiglia che sono stati privilegiati da gran parte della ricerca sotto l'influenza della psicanalisi. I genitori, e più in generale i parenti, possono avere in questa formazione un ruolo notevole, ma semplicemente come esempi e maestri, e le vicende dolorose e magari drammatiche vissute per quegli ideali dai parenti stretti, ed eventualmente anche dal futuro leader, rafforzano il suo impegno per la 'causa'. In questa chiave è soprattutto da leggere, probabilmente, il rapporto fra Churchill e il padre, lo statista sconfitto, deluso e prematuramente scomparso, o fra Clemenceau e il padre, il repubblicano perseguitato da quel regime imperiale che, d'altronde, angariava anche il futuro presidente del Consiglio allora giovanissimo; e, per quanto consta, anche il rapporto tra il giovane Lenin e il fratello rivoluzionario impiccato dal regime zarista.Si deve tuttavia ricordare qui che molti leaders storicamente importanti, anche nel nostro secolo, hanno nutrito un 'senso di missione' che li ha sostenuti e guidati nella loro carriera e che sembra essersi costituito nell'adolescenza, in connessione con eventi traumatici o comunque di grande impatto emotivo. E giustamente si è rilevato che ciò è accaduto con uomini molto diversi per personalità, convinzioni e comportamenti. Un senso di missione si è manifestato nei dittatori totalitari e nei leaders democratici, nei capi di guerra e in quelli del tempo di pace, con diverse formulazioni ed enfasi tutt'affatto diverse. Lo ritroviamo in Hitler, conclamato, insieme alla convinzione di rappresentare il Bene contro il Male, ma d'altra parte affiora nitidamente anche in vari passaggi delle memorie di de Gaulle e di altri leaders occidentali, espresso nei termini più congrui per società democratiche e secolarizzate.Il senso di missione può svilupparsi più compiutamente in una cultura permeata da una religione incentrata in un Dio creatore e signore del mondo, che può quindi affidare a singoli uomini precisi compiti nella storia, 'missioni', come testimonia la lunga vicenda giudaico-cristiana. Oppure nell'ambito di una delle religioni secolari del nostro tempo, come accadde con Hitler, eletto, secondo lui, dalla Dea Natura.
Da notare poi che un atteggiamento analogo può costituirsi anche con l'identificazione in una figura storico-leggendaria, come, per restare nel nostro tempo e nel quadro totalitario, l'identificazione di Stalin in Koba, figura romanzesca di bandito giustiziere (v. Tucker, 1973). Ed è da ricordare ancora il concetto freudiano di 'romanzo familiare', abilmente sviluppato da Moscovici (v., 1981) per spiegare come un bambino possa inventarsi una seconda famiglia (reagendo, anche in questo caso, ai conflitti con i veri genitori) e identificarsi con un grande modello umano che orienta poi la sua vita. Ma, naturalmente, il senso di missione o più semplicemente la dedizione assoluta a una causa da parte di eminenti leaders non devono essere ascritti esclusivamente alle esperienze dell'infanzia e dell'adolescenza, normali o patologiche che siano. Esperienze traumatiche successive possono aver avuto una parte forse decisiva. Così, per esempio, Erikson argomenta validamente che l'esperienza di essere cacciato dalla prima classe del treno perché indiano, a Pretoria, e il proprio comportamento indomito di fronte a quella violenza, e ad altre che seguirono, diedero al giovane barrister Gandhi la certezza di essere il solo uomo predisposto dal fato per condurre con successo la lotta contro la discriminazione e l'oppressione della sua gente.
Nella formazione di un leader e, d'altronde, nel suo successo ha una parte, in vari modi, anche la scelta professionale. In particolare la professione di avvocato è stata fortemente collegata alla carriera politica nelle democrazie rappresentative, perché garantiva competenza nell'amministrazione della cosa pubblica, da un lato, e nella protezione degli interessi particolari dell'elettorato, dall'altro, e inoltre lo studio professionale era una base organizzativa valida anche per gestire le campagne elettorali e il rapporto continuo con le clientele. Con l'evoluzione sociale e politica generale, tuttavia, altre condizioni professionali sono emerse come utili nella carriera pubblica democratica: per cominciare, quella dell'uomo di spettacolo, che ha grandemente contribuito a fare di uomini nuovi, come Ronald Reagan, i protagonisti della grande politica, essendo la capacità di comunicare via media con la popolazione ormai richiesta tanto nelle competizioni elettorali quanto nell'esercizio del potere di governo (v. Cavalli, 1987 e 1992).Una particolare riflessione merita infine un antico quesito: se si possa insegnare sistematicamente la leadership, oppure no. Platone è generalmente considerato colui che per primo e più vigorosamente, proponendo l'ideale del re filosofo, ha sostenuto che ciò può, anzi, deve essere fatto. Ma l'antico filosofo credeva, come direbbe Popper, nel 'principio della leadership' come fondamento dello Stato. E appunto Popper, rigettando in modo radicale quel principio, ha negato anche l'opportunità di affidare alle istituzioni scolastiche il compito di formare una classe dirigente politica, perché si risolverebbe in un danno per le capacità critiche e creative e avrebbe, perfino, potenzialità totalitarie. Probabilmente sarebbe più ragionevole considerare la leadership politica senza pessimismo preconcetto e il suo esercizio come in parte almeno arte e in parte scienza. Come scienza, è tutta da imparare; come arte, richiede qualità e caratteristiche native affatto insostituibili ma tuttavia passibili di sviluppo e affinamento per effetto di appropriati insegnamenti e di una pratica guidata in modo competente. È ragionevole credere, per esempio, che la public school, principalmente diretta alla formazione del carattere, abbia contribuito non poco a formare una classe dirigente politica fra le più apprezzate nella storia della democrazia, quella inglese, ai cui vertici, d'altronde, quel tipo di scuola è ancora sovrarappresentata. Ai nostri giorni, poi, l'École Nationale d'Administration, nonostante una caratterizzazione prevalentemente 'tecnocratica', ha dato alla Francia non soltanto alti quadri amministrativi ma anche leaders politici di governo molto qualificati, come V. Giscard d'Estaing, più volte ministro e poi presidente della Repubblica.
È anche da ricordare, in questo contesto, l'importanza che l'insegnamento della retorica ha avuto, segnatamente in Atene e nell'antica Roma, e che ha tuttora nei paesi democratici moderni. Negli Stati Uniti, dove grande è la tradizione del pubblico dibattito, il public speaking ha da tempo un posto anche nelle scuole non d'élite, con corsi e competizioni ad hoc; ed è probabilmente significativo che uomini politici che hanno raggiunto alte posizioni, come i presidenti Johnson e Nixon, siano stati cultori di questo genere (che il primo ha perfino insegnato). Anche le chiese cristiane e, forse più di altre, la Chiesa cattolica hanno tradizionalmente curato, nella formazione dei propri ministri, l'insegnamento retorico e anche la pratica di parlare in pubblico e, difatti, l'eloquenza ha sempre costituito un mezzo molto importante ai fini della guida spirituale del 'gregge' e della conversione religiosa.
Il processo di selezione dei leaders varia naturalmente a seconda del tipo di società e di Stato, e coincide in parte con il più generale processo di selezione della classe dirigente e in parte con quello di assegnazione delle cariche nelle varie strutture istituzionali, non soltanto politiche; sicché è con un continuo riferimento a più ampi quadri sociologici che debbono essere contemplati alcuni elementi qui di specifico interesse. Va ricordato, innanzitutto, che l'acquisizione delle cariche che consentono l'esercizio eventuale della leadership ha avuto luogo, nella storia, secondo criteri tipici come l'estrazione a sorte e l'elezione (che erano complementari nella democrazia ateniese), la nascita e la cooptazione (tipiche rispettivamente del regime aristocratico e di quello oligarchico, ma di fatto spesso complementari), la 'rotazione' (appropriata a una confederazione, come la Svizzera), la 'chiamata', che caratterizza i nuovi poteri fondati sul carisma; e la 'nomina' da parte del superiore, che concerne principalmente le cariche di potere subordinato (ma anche un segretario di Stato americano è nominato dal presidente).
Tutti questi criteri sono stati di fatto operanti anche nelle democrazie contemporanee, sebbene quello formalmente stabilito per le cariche pubbliche consista generalmente nell'elezione. La condizione fondamentale di questo polimorfismo della selezione democratica sta nel fatto che il partito ha assunto il ruolo di tramite fra il cittadino e le istituzioni, e di fatto ha avuto un tendenziale monopolio nella selezione della classe politica e nella distribuzione delle cariche, anche se l'assetto partitocratico è stato indebolito e modificato dall'emergenza in qualche paese e in altri ancora è entrato in crisi sotto la spinta di profondi mutamenti nella società e negli equilibri internazionali. È nel partito che in effetti prevale il criterio della cooptazione da parte di uomini o gruppi potenti, a volte associato in qualche modo con il criterio della nascita e quello della rotazione: sicché l'elezione pubblica viene a legittimare formalmente una scelta compiuta nel partito in base a quei criteri. Naturalmente la selezione affidata al partito presenta due pericoli principali: il primo è che l'eletto sia più ligio ai valori e agli interessi del partito che a quelli dello Stato e della nazione; il secondo è che le caratteristiche che portano alla scelta del candidato, per esempio la fedeltà al partito e la capacità di procurargli vantaggi, non siano quelle più qualificanti per il governo dello Stato. Questi pericoli divengono più seri quando viga una legge elettorale proporzionale, che assicuri tendenzialmente ai partiti un maggior potere di determinare e le candidature e gli esiti delle elezioni. Lo scrutinio con il metodo uninominale maggioritario indebolisce un poco questo potere, perché la personalità e il curriculum del candidato acquistano maggior peso. Ma questo metodo elettorale, di per sé, rende l'eletto più dipendente dagli interessi del suo collegio e da altri interessi particolari della cosiddetta società civile.
Sottoposto da un lato alle esigenze del partito e dall'altro a interessi localistici e di gruppi di pressione, il parlamentare, comunque eletto, non sembra in posizione tale da essere, come generalmente pretendono le costituzioni, il rappresentante della nazione, che ha l'interesse generale come criterio assoluto del suo mandato. Una qualche limitata garanzia in questo senso, e ancor più sotto il profilo della capacità e della competenza, è secondo certuni rappresentata dalla prassi adottata dai partiti in alcuni paesi di stabilire almeno dei cursus honorum di massima. Il primo scalino può consistere, come si è visto anche in Italia, in un periodo di servizio nel partito, seguito o accompagnato da cariche elettive in enti locali o nella regione. Un ulteriore scalino è ovviamente costituito dalla candidatura e dall'elezione al parlamento. Qui la carriera può continuare con altri passaggi successivi, come la presidenza di una commissione e un sottosegretariato, fino eventualmente alla titolarità di un ministero e, magari, alla carica di presidente del Consiglio. Ma non si tratta di un cursus obbligato, anzi sono numerose le eccezioni. Inoltre si obietta che lo stabilirsi di questi cursus di fatto accresce ancora il controllo del partito sulla selezione con lo sviluppo di un deteriore professionismo politico, consegnato in buona parte a funzionari di partito e a elementi marginali della società senza alternative consistenti di mobilità ascensionale. L'avversione per il professionismo politico è invero divenuta un tratto dominante dell'opinione pubblica democratica, e si invocano leggi elettorali e regole connesse che lo sconfiggano e assicurino un facile transito dalle carriere civili alla politica per tempi limitati, con un continuo e sempre rinnovato apporto di competenze, qualità personali e spirito di servizio.
Nelle democrazie della seconda metà del secolo, poi, hanno acquistato importanza crescente nel processo selettivo i mass media, stabilendo un rapporto diretto fra candidato ed elettore che, specialmente con il metodo uninominale maggioritario, dovrebbe consentire una scelta più meditata e anche un controllo maggiore sugli eletti. Tuttavia questa speranza non si è per ora realizzata in misura soddisfacente perché i media hanno consentito la manipolazione demagogica delle campagne elettorali e dei comportamenti parlamentari, anche per la difficoltà, in quest'ultimo caso, di addivenire a probanti riscontri, a causa degli intrecci di responsabilità collettiva e, più in generale, della 'distanza' del cittadino medio dalla politica nazionale, determinata anche dalla scarsa disponibilità e dalla non educazione caratterizzanti le popolazioni quasi ovunque.In conclusione si può dire che la selezione della classe politica, se è probabilmente il momento cruciale del processo democratico, è però anche il più problematico. Fin dall'inizio del secolo le ricerche di Bryce, Ostrogorski, Michels avevano messo in evidenza la modestia dei risultati raggiunti e molte delle relative cause, cui si è aggiunta la disfunzione dei media. Il giudizio complessivo non può essere neppur oggi positivo anche se, peraltro, vi sono differenze di qualità media come preparazione, efficacia ed etica, che corrispondono grosso modo alla maturità civile e politica dei diversi popoli. Ciò naturalmente si riflette anche sulla leadership nelle più alte cariche dello Stato, in proporzione alla facoltà di condizionare le carriere e le cariche stesse che è concessa ai partiti e, ora, anche a non regolati sistemi di media.
Logica ed esperienza suggeriscono ormai che un miglioramento nella selezione, per quanto riguarda la classe parlamentare, possa essere ottenuto perseguendo un modello di semplificazione e disciplinamento. I riformatori avanzano proposte schematiche: monocameralismo, riduzione del numero dei parlamentari, riduzione dei mandati; e, insieme, cursus honorum fondati su confronti a due, con riorganizzazione su base scientifica delle campagne e soprattutto dell'intervento dei media.
La riflessione teorica che ha preparato, fondato e accompagnato lo sviluppo dello Stato democratico nell'Occidente moderno ha coltivato gli ideali della separazione dei poteri e della direzione collegiale, e ha ovviamente condannato la personalizzazione della leadership. Ma quegli ideali potevano ispirare la realtà in un'epoca di democrazia borghese, quando i compiti dello Stato erano relativamente pochi e semplici e la dirigenza politica era espressa dalle ristrette classi superiori e in seguito prevalentemente dalle frazioni di esse inserite nello sviluppo economico capitalistico. Questo stesso sviluppo e in particolare la 'democratizzazione', intesa come partecipazione sempre più allargata della popolazione al processo politico con l'estensione progressiva del suffragio e la crescita dei partiti di massa, hanno via via modificato le condizioni di fondo, mentre i compiti dello Stato si sono fatti più numerosi e complessi, come conseguenza in primo luogo degli impegni di natura economica e sociale. Inoltre la necessità di una veduta d'insieme, di un coordinamento a essa conforme, di decisioni tempestive e dirette in base a un flusso coordinato di informazioni, oltre alle relazioni internazionali sempre più fitte e impegnative, hanno prodotto una concentrazione crescente di potere effettivo nel governo e in ispecie nel suo capo: una tendenza che, d'altronde, Bryce (v., 1921) aveva individuato già all'indomani della prima guerra mondiale. L'iniziativa legislativa del governo, la delega di poteri al governo, l'istituzione di servizi direttamente dipendenti dal governo, la delegificazione a vantaggio dei poteri regolamentari del governo sono fra i fenomeni che hanno più marcato la tendenza a favore dell'esecutivo che tutte le emergenze, di ogni genere, hanno accelerato. Si procede verosimilmente verso una sempre maggiore integrazione fra potere legislativo ed esecutivo a vantaggio del governo, realizzata in modo tipico dalla Gran Bretagna (il 'modello Westminster').
Gli equilibri costituzionali e politici sono stati specificamente modificati a favore del capo effettivo dell'esecutivo, vuoi soprattutto di fatto, come negli Stati Uniti, vuoi con nuove costituzioni e nuove leggi elettorali, come nella Quinta Repubblica francese: si ha così un vero e proprio 'capo del governo' con crescenti poteri monocratici. La resistenza dei partiti a siffatti sviluppi, in Italia particolarmente, è stata causa precipua di ingovernabilità.Né a questa tendenza hanno fatto realmente contrasto da un lato la crescente partecipazione alle attività governative di gruppi di consiglieri e di corpi burocratici e dall'altro il condizionamento sul governo esercitato dagli interessi organizzati in varie forme, di cui le lobbies non rappresentano che l'esempio più citato. Anzi si può dire che questi fenomeni propongono anch'essi l'esigenza di un governo gerarchizzato e omogeneo nel quale, quindi, un leader (premier o che altro esso sia) è capo effettivo, per autorevolezza e poteri, ed è circondato da uomini leali e con lui in sintonia: perciò, nel caso ideale, da lui scelti ed eventualmente rimossi. Come infatti avviene nei paesi cui sopra si faceva riferimento.
A questo sviluppo di carattere essenzialmente strutturale, con valenze monocratiche sempre più nette, viene d'altronde a corrispondere una 'personalizzazione' progressiva della politica moderna e della leadership di governo in particolare, manifestatasi con evidenza dapprima negli Stati Uniti e poi anche in Europa, specialmente con l'avvento al potere di de Gaulle, in relazione al quale Mabileau (v., 1964) e altri hanno portato il fenomeno in questione, soprattutto come 'personalizzazione del potere', all'attenzione della ricerca. Qui, però, è necessaria una premessa di carattere generale. La 'personalizzazione del potere' sembra avere radici antropologiche profonde come dimostra - secondo la ricerca delle scienze sociali - la tendenza riscontrabile in civiltà e tempi diversi a riconoscere il potere solo attraverso la persona e a identificarlo con essa. Ma lo sviluppo della società moderna, quasi paradossalmente, ha esteso il fenomeno della personalizzazione a tutta la sfera politica, liberando l'individuo dai condizionamenti di gruppi e comunità tradizionali e potenziando in lui (con l'istruzione, l'informazione, ecc.) capacità e volontà di avere un ruolo più indipendente e attivo nei processi politici.
Questo fenomeno si rivela, dalla parte del cittadino elettore, nelle scelte di voto più indipendenti e determinate dalla fiducia nella persona del candidato, soprattutto quando sia da eleggere direttamente (almeno de facto) chi governerà lo Stato: come ormai avviene in numerosi paesi conformemente alle esigenze oggettive (di governabilità) e soggettive di massa sopra illustrate. Non soltanto, ma anche dopo le elezioni il cittadino privilegia con la sua attenzione chi è a capo del governo, sopra la testa degli 'intermediari' - per dirla con Ostrogorski che forse per primo aveva osservato questo processo nello stato iniziale, a cavallo fra i due secoli - e quindi prescindendo anche dal partito, già protagonista collettivo della politica.
Questo atteggiamento diffuso si incontra con la preminenza oggettiva che il capo del governo ha assunto o sta assumendo negli Stati moderni e con l'esigenza del leader di comunicare direttamente con la popolazione per fini di ordinario consenso, di indirizzamento politico ed eventualmente di mobilitazione, che sono spesso imprescindibili in una società di massa e che i partiti non sono più in grado di perseguire efficacemente. E tale incontro ha luogo primariamente nei mass media, che già per propria natura personalizzano fortemente la politica e d'altra parte, per la logica stessa dell'informazione, devono privilegiare la figura del capo del governo come centro dinamico della vita politica. In questo senso si può parlare, riprendendo la terminologia di Weber, di una tendenza complessiva verso una democrazia con un leader. Ciò non significa ovviamente che tale tendenza si sia potuta affermare vittoriosamente ovunque, o che non possano determinarsi altre crisi di leadership, data la molteplicità delle variabili che influenzano le relazioni internazionali e la vita sociale dei vari paesi.
La questione delle caratteristiche che costituiscono il leader come tale è stata posta fin dall'antico, ma è stata generalmente affrontata per singole figure storiche, senza pretese di generalizzazione, o nella costruzione di modelli ideali nei quali, più che delle qualità di leadership, si tratta in realtà delle virtù morali e, magari, dell'aspetto e del portamento più congrui. Il Principe di Machiavelli consente certamente deduzioni più utili, ma non un discorso sistematico.
Nel nostro tempo la questione è stata presa in esame negli studi sui gruppi, nonostante il pregiudizio che ha privilegiato a lungo la 'situazione'. Ne sono venuti risultati spesso non proprio concordanti e ancor più spesso piuttosto ovvi, ad esempio che il leader è comunemente abbastanza intelligente ed estroverso e ha un certo gusto del potere, mentre non è, forse mai, un timido introverso; né molto aggiunge sapere quali siano le caratteristiche più apprezzate dal gruppo. È bene anzi, a questo punto, contestare la convinzione, diffusa soprattutto oltreoceano, che gli studi sui gruppi possano dare risultati illimitatamente generalizzabili e, addirittura, segnino punti fermi nella costruzione di una teoria generale. La critica di queste pretese è stata riassunta da L. Seligman (v., 1968) in una domanda: si può estrapolare liberamente dal 'micro' al 'macro'? Trasferire sullo Stato nazionale, per esempio, conclusioni suggerite dallo studio di gruppi ristretti, spesso artificiali, che hanno un fine definito e relativamente semplice e una durata nel tempo anch'essa limitata? Un leader di governo ha un compito estremamente complesso, che in realtà comprende molti compiti relativamente distinti, e quindi deve giocare molti ruoli che richiedono capacità e cognizioni diverse, affrontare contrasti e conflitti di alto impegno e portare grandi responsabilità.
È vero che alcune democrazie consentono a uomini sotto ogni rispetto insufficienti di raggiungere la posizione di vertice, e inoltre il meccanismo della politica democratica può sottrarre troppo tempo e troppe energie al leader impedendogli, come suggerisce J. Schumpeter (v., 1942), di profondere nel governo tutto l'impegno necessario. Ma i parametri di una leadership adeguata restano quelli indicati, per cui sembra più logico cercare di individuare i 'tratti' che fanno un leader per mezzo dello studio di esperienze 'macro' di leadership in grandi e complesse istituzioni, come gli Stati nazionali o, magari, la Chiesa cattolica, avvalendosi di ogni genere di documento e testimonianza e cercando semmai negli studi sui gruppi spunti, chiarimenti e conferme, per quel tanto che possono offrirne.L'approccio centrato sulle esperienze 'macro' è stato di fatto adottato da Burns e altri, pur tuttavia attenti alla ricerca sui gruppi. La sua applicazione più meditata suggerisce che certe distinzioni tradizionali, come quella fra leaders grandi e minori, hanno senso, e che certi casi, opportunamente selezionati, insegnano molto circa le qualità che fanno un leader nella più pura significazione del termine. Qualità che hanno un fondo naturale, anche se sono poi sviluppate con l'educazione e l'esercizio: capacità di analisi e sintesi, immaginazione, creatività, memoria, velocità del pensiero ed efficacia della parola.
Al centro di questa ricca sindrome, d'altronde, alcuni fra i leaders più riconosciuti del secolo, statisti democratici come de Gaulle e dittatori come Mussolini, rifacendosi magari a Bergson, hanno voluto porre una qualità specialmente elusiva e prestigiosa: l'intuizione. E non si può negare che taluni abbiano dimostrato una capacità spiccata di cogliere d'acchito l'essenza di un problema, di leggere le intenzioni altrui e prevedere le mosse degli avversari, di scegliere la via e il tempo giusti dell'azione nel labirinto delle possibilità; ma d'altra parte è anche vero che la fiducia nella propria intuizione e nella propria fortuna ha tradito più di un leader - quando non era assistita, come osservava de Gaulle, da una uguale capacità di verifica razionale. Tuttavia si direbbe che tutte queste preziose qualità intellettuali siano di per sé insufficienti. La leadership che si impone veramente, e lascia un segno, sembra avere le sue radici nella 'convinzione': la quale, come osservava J.S. Mill, fa prevalere l'uomo che la possiede su quanti hanno solo 'interessi', generando un incisivo potere sociale e politico. Si può anche dire, con Weber, che essa ispira la 'volontà di potenza' propria di ogni leader politico, e sorregge la sua lotta per il potere e l'uso stesso del potere come strumento di leadership nel senso qui definito con riferimento a una causa pubblica. Tuttavia la convinzione non si riferisce solo a una causa, ma anche alla propria persona; implica insomma fiducia in se stessi. È questa duplice convinzione che costituisce, direbbe de Gaulle, quell'homme de caractère che è, in ultima essenza, il vero leader. Dell'importanza di questa duplice convinzione, d'altronde, sembra dare conferma una parte almeno della ricerca sul gruppo, e d'altro canto già alcuni esponenti delle scienze sociali a cavallo fra i due secoli, come G. Le Bon o W. Hellpach, avevano fatto comprendere che la convinzione del leader è alla base della sua forza di suggestione sul gruppo. E la riflessione sul carisma, da Weber in poi, ha suggerito che l'attribuzione al leader di una 'qualità straordinaria' da parte del gruppo sia dettata in larga parte dalla forza della duplice convinzione e dalla sua naturale contagiosità.
A quest'ultimo proposito è opportuno riprendere qui, liberamente, l'idea di Weber che dove vi è leadership vi è carisma. In realtà il leader di una grande e complessa istituzione, come lo Stato moderno o la Chiesa cattolica, non può esercitare effettivamente il suo ruolo soltanto per mezzo dei poteri, materiali e simbolici, inerenti al ruolo stesso.
Nei rapporti con i collaboratori, nelle riunioni di governo, nelle assemblee legislative, nel rapporto stesso con la popolazione, diretto o attraverso i media, il leader, per essere tale ed essere come tale riconosciuto, deve attingere alle risorse più personali. In tutte le sedi delle decisioni pubbliche egli deve essere in grado di controllare il dibattito e far prevalere le sue soluzioni in coerenza con il progetto generale e, per questo e di là da questo, deve essere 'sentito' dagli altri partecipanti come investito di una superiorità complessiva fatta di qualità dell'intelletto e del carattere e magari di storia personale ('autorità'), ma anche di qualcosa d'altro ancora che è una funzione della personalità come un tutto ('ascendente'): cosicché ci si rivolge naturalmente a lui come guida. Questo ovviamente è uno stato di cose ideale, che tuttavia sembra trovare soddisfacente riscontro nei rapporti intrattenuti ai vari livelli politici e istituzionali da alcuni leaders democratici del nostro secolo (come Franklin D. Roosevelt) per buona parte del loro mandato; e del resto abbiamo testimonianza di uomini giunti al vertice del potere nello Stato, o in altre importanti istituzioni, e tormentati dall'incapacità di occupare effettivamente il centro della scena e di far valere la propria leadership, per una sorta di deficit interiore di cui essi erano oscuramente, dolorosamente consci. Ma, beninteso, anche gli ordinamenti e le circostanze hanno avuto il loro peso in questi successi e in questi insuccessi.
L'importanza da attribuire alla personalità diviene anche più evidente quando si considerino alcune 'funzioni sociali' che il leader può svolgere, almeno là dove gli ordinamenti e la cultura data consentano il dispiegarsi della leadership come avviene, a livello 'macro', nella 'democrazia con un leader'. Tutta la ricerca, 'micro' e 'macro', sembra innanzitutto attribuire al leader una parte rilevante nella formazione e nella conservazione del gruppo, grande o piccolo, anche come riferimento di identificazione collettiva al di là delle differenze e dei conflitti eventuali. I cultori delle varie scienze sociali riconoscono d'altronde al leader anche la facoltà di contribuire, spesso potentemente, a 'definire la realtà' per il proprio gruppo (che può anche essere la nazione intera) come premessa necessaria di coesione e di comportamenti comuni nelle circostanze di fatto sempre elusive, cangianti e cariche di incognite, ovvero, secondo alcuni studiosi, nella pura e semplice non esistenza d'una realtà di per sé comune. Inoltre il leader è non di rado sentito come 'protettore' contro pericoli e difficoltà collettive (la figura paterna o del 'fratello maggiore' di tanti studi), con poteri di intervento contro le leggi dell'economia o le leggi medesime dello Stato (la 'giustizia sostanziale').
Fin dai tempi antichi, poi, si è proposto il leader politico, il re, come modello per le masse. Questa concezione viene oggi riformulata, nel senso che la gente cerca spesso nel leader politico le qualità e le virtù apprezzate dalla propria cultura, così come, secondo varie ricerche, fanno molti cittadini americani nei confronti del loro presidente. E il leader che le impersona efficacemente rafferma la popolazione in certi valori e convincimenti morali e nei comportamenti conformi, o viceversa può contribuire a modificarli in modo graduale, proponendosi con efficacia come il campione di una superiore realizzazione del significato più intimo, quintessenziale, della cultura comune nella novità dei tempi e delle circostanze. Al tema del mutamento si ricollega un altro importante aspetto dell'esercizio della leadership: dare, con la direzione di movimento e le indicazioni degli obiettivi, anche la motivazione, anzi l"entusiasmo', producendo così quella mobilitazione morale di massa che è spesso la condizione necessaria per la realizzazione di rilevanti imprese collettive anche nel campo del progresso civile e sociale, per tacere delle grandi emergenze.
Ovviamente alcuni di questi effetti sono stati ricercati e anche prodotti con particolare e temibile efficacia negli Stati totalitari, che per questo verso hanno costituito una sorta d'esperimento di gruppo, con il controllo quasi assoluto delle variabili rilevanti. Bisogna inoltre ricordare qui i tipici sviluppi negativi - anch'essi manipolati - del rapporto tra leader e popolazione, posti in luce dagli studiosi di quei regimi: la fuga di massa dall'insicurezza e dalla solitudine del mondo moderno che diventa, secondo l'analisi di E. Fromm (v., 1941), "fuga dalla libertà" per ritrovare la perduta appartenenza in un regime totalitario incentrato nel capo assoluto; la "proiezione dilatata a dismisura dell'io impotente di ogni singolo" nel capo, che è, secondo Horkheimer e Adorno, alla base della sommissione di massa e del suo sfruttamento politico - con la scientifica fanatizzazione della massa teorizzata e praticata da Hitler, e la violenza collettiva diretta su chi viene definito come il nemico.Con la citata riflessione di Fromm relativa all'origine di quei regimi si è giunti allo snodo centrale del rapporto leader-massa nelle grandi crisi che minacciano l'esistenza stessa di una società statualmente organizzata. La grande crisi può aprire un'alternativa fra progressiva anarchia e tendenziale disgregazione, spesso conflittuale, da un lato, e, dall'altro, l'insorgere di una leadership in grado di ricomporre la sintesi unitaria. Ma la qualità del leader e del suo seguito, la predisposizione diffusa ad abbandonarsi a chi impersona la speranza, e il favore, anzi la forza, delle circostanze, possono invece dar luogo a una tirannia con gli sviluppi tipici dei regimi cui anche qui si è fatto riferimento e, in particolare, con quel 'culto della personalità' che ha assunto nel nostro secolo forme e dimensioni peculiari, a volte approssimandosi agli antichi modelli della divinizzazione.
Gli studiosi contemporanei della leadership ritengono di doversi porre prioritariamente una domanda più generale, che sovrasta i molti difficili problemi particolari di cui si è finora trattato. Essa può esser formulata così: è possibile determinare anche la funzione storica della leadership? cioè dare innanzitutto delle ragioni per credere che essa conti veramente, incida, indirizzi lo sviluppo storico, e possibilmente specificare in qualche modo questo influsso con dati dell'esperienza?
Questa domanda è stata drasticamente proposta dal dibattito sul ruolo delle grandi personalità nella storia che negli ultimi due secoli ha coinvolto la filosofia, la storia e le scienze sociali. Nonostante la grande impressione fatta da Napoleone sui contemporanei, da Goethe a Hegel, si sono affermate teorie dello sviluppo storico regolato da leggi che sono forme alternative di "determinismo sociale", per dirla con S. Hook, in quanto riducono la grande personalità, il leader, "a un simbolo, un indice, un'espressione, uno strumento o una conseguenza delle leggi storiche" (v. Hook, 1945). In questo gruppo rientrano la filosofia idealistica della storia di Hegel, la sociologia evoluzionista di Spencer e il materialismo storico di Marx e di Engels, per ricordare soltanto tre filoni di pensiero che hanno esercitato grande influenza nel secolo scorso e, per quanto riguarda il marxismo, fino ai nostri giorni. Ma forme isolate di determinismo sociale sono emerse anche nel XX secolo. Nel progressivo sviluppo delle nuove scienze sociali e della sociologia in particolare, d'altronde, ha prevalso la tendenza a concentrare l'attenzione sulla struttura della società e dei gruppi, sulle uniformità statistiche di comportamento e sui processi collettivi, che già nell'opera così influente di Durkheim sono i veri protagonisti del mutamento storico.
Pochi filosofi e sociologi hanno invece conferito un ruolo storico centrale alla 'grande personalità', come T. Carlyle, W. James, Nietzsche (nell'ambito di un discorso più generale), e, in questo secolo, Weber, soprattutto con la teoria del carisma che per la prima volta colloca il leader in un contesto sociologico propriamente ricostruito, aprendo la via a ricerche scientifiche su una parte almeno della materia. Anche la comparsa dei grandi dittatori totalitari non ha mutato in maniera rilevante gli equilibri fra gli esponenti delle opposte posizioni. Durante la seconda guerra mondiale Hook ha, invero, compiuto un riesame della questione sul terreno della logica e della documentazione storica, che ha operato qualche chiarimento in materia e ha recuperato il ruolo storico della grande personalità sotto il concetto di eventmaking-man, con un influsso riconosciuto, o comunque evidente, su alcuni importanti studiosi dei successivi decenni, come Burns. Ma l'orientamento prevalente nelle scienze sociali resta tuttora tendenzialmente 'sociologistico'.
Riconsiderando questo lungo dibattito, sembra oggi possibile stabilire alcuni punti fermi ai fini dello studio della leadership. Innanzitutto il dibattito è stato esasperato da impostazioni poco precise e partigiane, anzi estremiste, del rapporto tra leader e società (o, se si vuole, cultura), che è stato forzato riduttivamente da alcuni a vantaggio del primo e da altri, molto più numerosi, a favore del secondo elemento; mentre, secondo gli studiosi contemporanei più avvertiti, si tratta di un rapporto di interazione che va esaminato nel suo concreto equilibrio in ciascun caso storico. È vero che le condizioni date del momento (ivi comprendendo gli interessi e le passioni) costituiscono la problematica realtà su cui il leader deve intervenire e restringono le sue alternative d'azione; ma queste sussistono e il leader deve operare scelte sui fini, i mezzi, i modi, i tempi, in continua successione, tentando di signoreggiare una complessa trama storica in sviluppo. Quando Trockij suggerisce che la Rivoluzione sovietica avrebbe avuto luogo anche senza Lenin, per la forza delle circostanze storiche e la determinazione delle masse, può essere nel vero; ma i critici hanno buon gioco rilevando che, nella sua stessa ricostruzione, Lenin è il leader che, con la sua personalità e le sue scelte, largamente determina in concreto lo svolgimento della rivoluzione e il suo successo. La rilevanza del fattore leadership resta innegabile, anche se il suo peso specifico è ovviamente oggetto di valutazioni che differiscono fra loro. Né, d'altra parte, si può accogliere senza scetticismo la tesi di Engels e Plechanov secondo cui la situazione storica suscita quasi meccanicamente potenziali leaders atti ad affrontarla efficacemente rispondendo a un bisogno collettivo ormai maturo; per cui, come suggerisce il secondo, se non ci fosse stato Napoleone, qualche altro generale della Rivoluzione francese avrebbe assolto alla medesima necessità storica, negli sviluppi interni e anche nelle molteplici guerre, perché aveva a disposizione l'esercito 'incomparabilmente' migliore del tempo.
È stato da più parti argomentato che i due autori considerano riduttivamente il ruolo storico di Napoleone come statista e soprattutto come generale, con ciò stesso dimostrando la debolezza del loro schema. Questa, d'altronde, appare ancora più evidente se si applica lo schema ad altri sviluppi storici in qualche modo comparabili, come quelli ricordati da Machiavelli nell'ultimo capitolo del Principe. L'esempio più ovvio, però, è forse costituito dalla conquista di un immenso impero da parte di Alessandro: operazione per la quale certo esistevano alcune condizioni propizie, ma la condizione principale sembra essere stata il sogno e la volontà - sia pure maturata in quella cultura - di Alessandro stesso, e non già le esigenze oggettive e un corrispondente bisogno maturato nel popolo e nell'esercito. Sicché è ben poco credibile che senza Alessandro si sarebbe mai compiuta un'impresa così carica di storiche conseguenze.
Anche la tesi che il leader - sia egli Lenin, Napoleone o Alessandro - è il prodotto della cultura e della situazione, dunque in un certo senso strumento della società nel suo sviluppo storico, appare insieme vera e non vera: perché certamente ciascuno subisce nella sua formazione l'influsso dell'ambiente in senso lato, ma le potenzialità genetiche vanno al di là dell'ambiente, le esperienze di vita sono uniche, e d'altronde il leader, come personalità pienamente adulta, ha spazi di libertà e alternative di scelta che trascendono i tendenziali determinismi ambientali. In conclusione non sembra che questo lungo dibattito abbia potuto dimostrare che l'importanza storica della leadership, e di quella personale in ispecie, è ridotta, anzi marginale, anche se, contro le affermazioni eccessive di Carlyle e pochi altri, esso ha contribuito a porre in evidenza i condizionamenti di varia natura cui il leader è soggetto - e che costituiscono però anche un banco di prova, una sfida, che può fornire la misura di quel leader. Cogliendo questo aspetto della questione Machiavelli scriveva, nelle pagine sopra ricordate, che per conoscere la "virtù" di Mosè, la "grandezza d'animo" di Ciro e la "eccellenzia" di Teseo erano necessarie le condizioni rispettivamente di schiavitù, oppressione e dispersione dei loro popoli, quando ne avevano assunto la guida, e che quelle tre condizioni si trovavano unitamente presenti in Italia, esasperate, per far sì che si potesse alla prova "conoscere la virtù d'uno spirito italico".
Quale che sia la rilevanza storica riconosciuta alla leadership, gli studiosi concordano però nel giudizio che essa conti soprattutto nelle situazioni straordinarie, ossia di fondazione, trasformazione, o pericolo di uno Stato, anzi di ogni gruppo, e che un leader (sia esso da considerare un uomo eccezionale o fungibile, alla Engels) può, in siffatte situazioni, raggiungere il massimo consentito di incidenza. Si è appena detto di Machiavelli, studioso pragmatico della storia e della politica. Ma nella filosofia della storia di Hegel l'individuo "cosmico storico" è pur sempre il protagonista delle grandi crisi di transizione, colui che squarcia l'involucro soffocante del vecchio ordine per far nascere il nuovo, e il leader delle forze sociali ascendenti, come Lenin, svolge il medesimo compito, mutatis mutandis, in quella singolare mistura di filosofia e di scienza sociale che è il marxismo. Salvo che, naturalmente, per Machiavelli il leader opera in una situazione di storia aperta, senza telos, mentre per Hegel e Marx le crisi si collocano nello sviluppo dialettico della storia verso il suo fine.
(V. anche Autoritarismo; Carisma; Cesarismo; Dittatura; Élites, teoria delle; Legittimità; Simboli politici; Totalitarismo).
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