Abstract
Dopo aver qualificato il contratto, se ne esaminano i principali elementi di disciplina, sia emergenti da fattispecie singolarmente normata, quale il cd. leasing al consumo, sia tratti da orientamenti giurisprudenziali consolidati relativi alle più frequenti problematiche costituenti oggetto di controversia. Viene, da ultimo, illustrata la disciplina introdotta dalla riforma fallimentare in relazione ai leasing pendenti all’apertura del fallimento.
Pur non essendo oggetto di tipizzazione legale, il contratto di leasing conosce una indiscussa tipicità sociale nella forma del leasing finanziario, tipologia strutturalmente distinta dal leasing operativo, in cui lo stesso produttore concede in godimento beni, in genere standardizzati e strumentali all’esercizio di un’impresa. Se il leasing operativo «ha – nessuno ne dubita – forma e sostanza locatizie» (Buonocore, V., La locazione finanziaria, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 2008, 29), diversa è la configurazione del leasing finanziario. Il contratto è da decenni oggetto di ripetute menzioni normative, normalmente inventariate dalle diverse trattazioni dottrinarie che se ne occupano (fra cui quelle citate in bibliografia, cui si rinvia), menzioni normative che generalmente fanno uso della locuzione ‘locazione finanziaria’, denominazione che non sembra riesca a soppiantare il corrente uso della denominazione inglese, alla quale peraltro fa riferimento, nell’ordinamento di origine, un preciso quadro disciplinare (come ricorda Cavazzuti, F., Leasing I) Diritto privato, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1990, 1) che non è evocato dall’uso nazionale del termine.
L’indiscussa constatazione dell’assenza di una generale definizione della fattispecie non ha «dissuaso il legislatore dal nominare l’istituto, quando esso interessasse una certa materia, come se si trattasse appunto di un tipo contrattuale legale» (Clarizia, R., I contratti per il finanziamento dell’impresa. Mutuo di scopo, leasing, factoring, in Tratt. Buonocore, Torino, 2002, 156 s.). Il contratto che ci occupa è peraltro disegnato nella prassi in maniera variegata e mobile, in ragione di una serie di variabili, in buona parte fiscali. Da ultimo, ad esempio, l’art. 4 bis, co. 1, d.l. 2.3.2012, n. 16 (conv. in l. 26.4.2012, n. 44), in materia di semplificazioni tributarie, ha modificato il t.u. imp. redd. nelle previsioni relative alla deducibilità dei canoni di leasing (artt. 54, co. 2 e 102, co. 7, d.P.R. 22.12.1986, n. 917), rimuovendone la correlazione con la durata del contratto e consentendo, quindi, di stipulare contratti più brevi – meglio rispondenti alle esigenze gestionali delle società concedenti in una prolungata fase di crisi economica e creditizia – senza perdere il vantaggio fiscale, sia pur goduto secondo diversi criteri.
In tale variegata realtà contrattuale resta comunque possibile riscontrare una causa tipica del contratto, consistente nella fruizione di una facilitazione creditizia finalizzata a consentire l’uso di un bene, che omogeneamente ne connota la struttura di base. Causa e struttura che paiono date per scontate dal legislatore in diversi settori, quale ad esempio quello degli appalti pubblici, nel cui ambito è stato regolato il leasing immobiliare pubblico, inizialmente divisato come strumento singolare (per la realizzazione di istituti penitenziari, nella finanziaria 2001), poi generalizzato con la legge finanziaria 2007 (su tale evoluzione v. Assilea, Vademecum del leasing pubblico, ottobre 2011, 14 s., in www.abieventi.it).
Tale omogenea connotazione della funzione economico-sociale del contratto, sul cui riconoscimento ormai converge la generalità degli studiosi che si sono occupati della materia, è con nettezza indicata da tempo. Già alcuni decenni fa, indagando l’operazione allora nuova per il mercato nazionale, la si qualificava come tecnica di finanziamento delle imprese, e precisamente come «contratto con funzione di finanziamento attuato a mezzo dell’acquisto e dell’alienazione di beni» (Mirabelli, G., Il leasing e il diritto italiano, in Banca borsa, 1974, I, 253). La collocazione unitaria della fattispecie all’interno delle coordinate della concessione di credito trova il suo crisma nella sottoposizione dell’esercizio della relativa attività ad un tipico regime di riserva, posto dal t.u.b. in favore delle banche e degli intermediari finanziari disciplinati al titolo V: per le prime, il ‘leasing finanziario’ ricade fra le operazioni che costituiscono il ‘cuore’ dell’attività bancaria, inclusa nell’elenco delle attività ammesse a mutuo riconoscimento (art. 1, co. 2, lett. f, n. 3); per i secondi, la ‘locazione finanziaria’ è menzionata dalla normazione secondaria quale tipica forma dell’attività di concessione di finanziamenti di cui all’art. 106 (ad oggi, art. 3, d.m. Economia 17.2.2009, n. 29, in continuità col previgente art. 2, d.m. Tesoro 6.7.1994). Com’è noto, la norma da ultimo citata è stata novellata dal d.lgs. 13.8.2010, n. 141 (sulla nuova disciplina v. Antonucci, A., Diritto delle banche, V ed., Milano, 2012, 105 ss.), con innovazione che ancor più focalizza l’attenzione sull’attività di concessione di credito in tutte le sue forme, non presentandosi alcun elemento ostativo alla continuità di normativa secondaria sul punto qui considerato.
Funzione di finanziamento caratterizza anche la variante contrattuale del sale and lease back, nella quale il contratto di leasing ha ad oggetto un bene del finanziato ceduto al finanziatore. Simile meccanismo contrattuale è tradizionalmente lambito dal sospetto di dissimulazione di un patto commissorio (art. 2744 c.c.) – e, conseguentemente, soggetto al rischio di essere risucchiato nel cono d'ombra della nullità ex art. 1344 c.c. – sospetto riguardo al quale costante giurisprudenza ha da tempo elaborato coordinate di valutazione della legittimità dell'operazione, della quale riconosce la tipicità sociale.
La giurisprudenza (da ultima Cass., 3.2.2012, n. 1675) ritiene pertanto legittimo il sale and lease back, a meno che dall'indagine in fatto della singola fattispecie non emergano congiuntamente i seguenti indici di anomalia: l'esistenza di una situazione di credito e debito tra la società finanziaria e l'impresa venditrice utilizzatrice, le difficoltà economiche di quest'ultima, la sproporzione tra il valore del bene trasferito ed il corrispettivo versato dall'acquirente.
Si tratta, all'evidenza, di elementi che tendono a configurare un'obiettiva elusività dell'operazione rispetto al divieto di patto commissorio, divieto che assume – nella lata interpretazione funzionalistica consolidata in giurisprudenza – una marcata pervasività, di modo che ormai «l'art. 2744 c.c. è il convitato di pietra che bussa alla porta ... ovunque le parti abbiano attuato o programmato una disposizione patrimoniale connessa, anche indirettamente, alla restituzione di un esborso» (Martino, M., Le Sezioni Unite sui rapporti tra divieto del patto commissorio e ordine pubblico internazionale, in Giur. comm., 2012, II, 683).
Diffusa convergenza si registra sulla qualificazione della locazione finanziaria come contratto d’impresa (per diversi riferimenti v. Imbrenda, M., Il leasing, in Imbrenda, M.-Carimini F., Leasing e lease back, in Tratt. Perlingieri, Napoli, 2011, 32 ss.). Ciò peraltro non esclude che, nella prassi non solo nazionale, vengano strutturate come contratti di leasing anche concessioni di credito in favore di consumatori. Riguardo a tale declinazione dello strumento contrattuale, sulla quale si registra un risalente divario giurisprudenziale (su cui v. Clarizia, R., I contratti per il finanziamento dell’impresa. Mutuo di scopo, leasing, factoring, cit., 360 ss.), non mi pare possano sorgere dubbi di cittadinanza nell’ordinamento, che espressamente divisa il leasing nell’ambito della disciplina del credito ai consumatori. Sia nell’originaria versione del t.u.b., che in quella novellata dal d.lgs. 13.8.2010, n. 141, infatti, «la nozione di credito al consumo fornita dall’art. 121, generale e onnicomprensiva, soddisfa l’esigenza di assoggettare alla disciplina del T.U. tutti i modelli negoziali ai quali si ricorre nella prassi ... Vendita a credito, prestito personale, scoperto di conto corrente, prestito finalizzato, carta di credito, leasing traslativo al consumo sono solo, esemplificativamente, alcune delle più ricorrenti formule contrattuali» (Carriero, G., Autonomia privata e disciplina del mercato. Il credito al consumo, in Tratt. Bessone, II ed., Torino, 2007, 55).
Dando, quindi, per presupposte le tipologie contrattuali presenti sul mercato, l’attuale disciplina del credito ai consumatori, conformandosi alla direttiva 2008/48/CE, continua ad escludere dal proprio ambito di applicazione i contratti di locazione (con l’opinabile formulazione, portata ora all’art. 122, co. 1, lett. m, t.u.b., sulla cui interpretazione v. Macario, F., Commento agli artt. 121-126, in Belli, F., a cura di, Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, Bologna, 2003, II, 2014), mentre vi include i contratti di locazione finanziaria, espressamente nominati per disegnare il perimetro della disciplina ad essi applicabile, sia con riferimento allo jus poenitendi, riconosciuto solo in ragione della ricorrenza dell’obbligo di acquisto in capo al consumatore (art. 122, co. 3, t.u.b.), sia nell’ambito della peculiare configurazione degli effetti del collegamento negoziale in caso di inadempimento del fornitore (art. 125 quinquies, co. 3, t.u.b.).
Nella ricerca di criteri ordinatori in base ai quali individuare la disciplina applicabile a specifici profili del rapporto governato da un contratto atipico che costituiva palestra per la prospettazione di variegate soluzioni dottrinarie – collocate fra i poli dell’approssimazione alla locazione da un canto, alla vendita con riserva di proprietà dall’altro – la Cassazione ha elaborato due criteri guida ai quali si attiene da oltre dieci anni, di cui si dirà in questo paragrafo e nel successivo.
A partire da un famoso gruppo di sentenze del 1989 (13.12.1989, nn. 5569-5574), la Suprema Corte conia la distinzione fra ‘leasing di godimento’ e ‘leasing traslativo’, su cui successivamente si attesta costantemente, sia per risolvere problemi di carattere fiscale che contrattuale. Per parte sua, «la dottrina, unita nella critica alla dicotomia imposta dalla giurisprudenza di legittimità, non risulta tuttavia parimenti allineata sulle soluzioni alternative da proporre» (Riva, I., Leasing di godimento v. leasing traslativo: debolezze di una dicotomia, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, I, 592, ove anche una rassegna dei diversi orientamenti). Tralaticiamente trascorsa in successive pronunce, la distinzione è stata da ultimo così ribadita: «si ha il primo caso quando esso ha ad oggetto beni non idonei a conservare un apprezzabile valore residuale alla scadenza del rapporto, per cui i canoni configurano esclusivamente il corrispettivo dell'uso di detti beni e la funzione del contratto è prevalentemente di finanziamento; mentre nel secondo caso la pattuizione ha riferimento a beni atti a conservare, alla scadenza del rapporto, un valore superiore all'importo convenuto per l'opzione, per cui i canoni hanno la funzione di scontare anche una quota del prezzo di previsione del successivo acquisto» (Cass., 9.11.2011, n. 23324).
La collocazione nell’una o nell’altra area, dedotta dal testo contrattuale in base agli ordinari canoni ermeneutici, rileva essenzialmente ai fini dell’individuazione della disciplina applicabile ai canoni versati (o maturati) in caso di risoluzione per inadempimento del contratto, secondo le seguenti coordinate: «La risoluzione della locazione finanziaria, per inadempimento dell'utilizzatore, non si estende alle prestazioni già eseguite, in base alle previsioni dell'art. 1458, comma 1, c.c. in tema di contratti ad esecuzione continuata e periodica, ove si tratti di leasing cosiddetto di godimento, pattuito con funzione di finanziamento, rispetto a beni non idonei a conservare un apprezzabile valore residuale alla scadenza del rapporto (con consequenziale marginalità dell'eventuale opzione), e dietro canoni che configurano esclusivamente il corrispettivo dell'uso dei beni stessi. La risoluzione medesima, invece, si sottrae a dette previsioni, e resta soggetta all'applicazione in via analogica delle disposizioni fissate dall'art. 1526 c.c. con riguardo alla vendita con riserva della proprietà, ove si tratti di leasing cosiddetto traslativo, pattuito con riferimento a beni atti a conservare a quella scadenza un valore residuo superiore all'importo convenuto per l'opzione, e dietro canoni che scontano anche una quota del prezzo in previsione del successivo acquisto (rispetto a cui la concessione in godimento assume funzione strumentale)» (Cass., S.U., 7.1.1993, n. 65).
Il riferito orientamento giurisprudenziale si innestava su una prassi contrattuale di leasing ‘traslativo’ caratterizzata dalla presenza di clausole che prevedevano la ritenzione dei canoni, già versati e/o maturati e/o ancora a scadere, normalmente a titolo di penale, in caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore. Tali clausole conferiscono al concedente un indebito vantaggio derivante da un cumulo di utilità (somma dei canoni e residuo valore del bene), del quale la giurisprudenza individua il contrasto con una norma di carattere inderogabile: l’art. 1526 c.c., posto in tema di vendita con riserva di proprietà.
Applicando tale norma si ottiene l’effetto di un deciso riequilibrio contrattuale: l’utilizzatore «non è tenuto a corrispondere canoni non ancora scaduti e ha diritto alla restituzione di canoni già corrisposti, salvo l'obbligo di pagare al concedente, oltre all'eventuale risarcimento del danno, un equo compenso, in misura tale da remunerare il solo godimento senza ricomprendere la quota destinata al trasferimento finale della cosa» (Cass., 27.9.2011, n. 19732). L’opera di riequilibrio contrattuale si è articolata commisurando ai parametri dell’equo compenso le clausole contrattuali, facendo applicazione degli artt. 1526, co 2, e 1384 c.c., che sottopongono alla valutazione equitativa del giudice la misura di indennità e penali contrattualmente stabilite. Tale opera è stata imperniata sulla considerazione che le norme citate «non impongono una rigida correlazione all'entità del danno subito dal creditore, posto che in entrambi i casi non si tratta di risarcire un danno, ma, all'opposto, di diminuirne l'entità convenzionalmente stabilita. Pertanto la valutazione del giudice va condotta sul piano dell'equilibrio delle prestazioni con riferimento al margine di guadagno che il concedente si riprometteva di trarre dalla esecuzione del contratto» (Cass., 23.3.2001, n. 4208. Per una dettagliata analisi del profilo e dei numerosi interventi giurisprudenziali v. Nocera, I., Risoluzione per inadempimento e riduzione ex officio della clausola penale nel leasing, in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, 237 ss., nonché, a commento di Cass. 8.1.2010, n. 73, Macchiavello, E., Leasing di nave e le annose questioni in materia di risoluzione anticipata, in Dir. mar., 2011, 458).
Il ricorrente percorso interpretativo fin qui riferito mostra come la distinzione fra leasing traslativo e di godimento viene impiegata in giurisprudenza nei limiti della sua idoneità a risolvere adeguatamente le problematiche affrontate. Nella medesima prospettiva funzionale, la distinzione è ritenuta in taluni casi non discriminante ai fini dell’individuazione della disciplina applicabile, senza che pronunce di tal genere segnino un abbandono del criterio. È ciò che è accaduto, ad esempio, quando si è dovuta individuare la titolarità del diritto di proprietà su un bene concesso in leasing - ritenuta in ogni caso spettante al concedente «fino al pagamento dell’ultimo canone locatizio» – al fine di valutare la confiscabilità del bene (Cass. pen., 13.9.2010, n. 33521, con nota di Napolitano, G., Problemi in tema di confisca: la ‘disponibilità del bene in leasing e l’accertamento della ‘buona fede’ nella tutela del ‘terzo estraneo’, in Giur. it., 2011, 917); oppure quando si è valorizzato «l'interesse al godimento da parte dell'utilizzatore della cosa» quale causa trasversale per tutti i tipi di leasing ai fini di escludere la validità della ricorrente clausola contrattuale che impone che impone l’obbligo di corresponsione del pagamento dei canoni anche quando tale godimento non sia assicurato, nella specie in ragione dell’inadempimento dell’obbligo del concedente di fornire il bene delle certificazioni richieste dalla normativa sulla tutela della sicurezza dei luoghi di lavoro (Cass., 18.2.2008, n. 4235, con nota di Gasparro, T., In tema di leasing finanziario e di inversione del rischio contrattuale, in Giur. it., 2009, 1065).
L’operazione di leasing vede l’instaurazione di relazioni fra l’utilizzatore, il fornitore e il finanziatore/concedente, che si articolano in due distinti contratti (di finanziamento e di acquisizione del bene in capo al finanziatore/concedente). Tali contratti – secondo opinione ormai largamente maggioritaria (diffusa rassegna delle diverse opinioni è in Albano, M., Leasing, in Maimeri, F.-Visentini, G., a cura di, I nuovi contratti nella prassi civile e commerciale. XX Banca, borsa e titoli di credito, Torino, 2004, 146 ss.) - sono fra loro collegati.
Controverso è però in dottrina se al collegamento genetico si accompagni il collegamento funzionale, e se tale collegamento sia idoneo a coinvolgere i due contratti nell’operatività del principio simul stabunt simul cadent, ovvero se l’operatività di tale principio resti rimessa alla volontà (successiva) delle parti (secondo il percorso interpretativo seguito da Munari, A., Leasing, in Enc. dir., Agg. VI, Milano, 2002, 657 ss.). Anche qui, come nel caso considerato al precedente paragrafo, la Cassazione ha da alcuni anni confezionato una bussola interpretativa in funzione di riequilibrio della posizione dell’utilizzatore nelle varie controversie relative alle interferenze fra inadempimenti del fornitore e clausole del contratto di leasing tese a spostare il punto d’incidenza del relativo rischio sull’utilizzatore.
Dopo aver sfiorato la tesi del rapporto trilaterale, del contratto plurilaterale e del collegamento volontario, la Corte ha consolidato l’orientamento che ravvisa un collegamento negoziale in senso tecnico, inaugurato da un’articolatissima pronuncia del 1998 (2.11.1998, n. 10926) e perfezionata in una messe di successive sentenze (dalle quali si disallinea Cass., 26.1.2000, n. 854, che sposa la tesi del contratto plurilaterale), attraverso le quali si snoda la seguente ricostruzione: «è l'interesse al godimento da parte dell'utilizzatore della cosa (che il finanziatore al medesimo procura presso il fornitore) a venire in tale ipotesi essenzialmente in rilievo, e che l'operazione negoziale in questione è sostanzialmente volta a realizzare, costituendone pertanto la causa concreta, con specifica ed autonoma rilevanza rispetto a quella – parziale – dei singoli contratti, di questi ultimi connotando la reciproca interdipendenza (sì che le vicende dell'uno si ripercuotono sull'altro, condizionandone la validità e l'efficacia) nella pur persistente individualità propria di ciascun tipo negoziale» (Cass., 27.7.2006, n. 17145). In base al riferito percorso interpretativo, si è più volte riconosciuto che l'utilizzatore è legittimato a far valere la pretesa all'adempimento del contratto di fornitura, oltre che al risarcimento del danno conseguentemente sofferto, in applicazione dell’art. 1705, co. 2, c.c., «atteso che con la conclusione del contratto di fornitura viene a realizzarsi nei confronti del terzo contraente quella stessa scissione di posizioni che si ha per i contratti conclusi dal mandatario senza rappresentanza» (ex multis, Cass., 1.10.2004 n. 19657, con nota di Prosperetti, L., Note di in tema di tutela dell’utilizzatore rispetto ai vizi originari del bene nel leasing finanziario, in Banca, borsa, 2005, II, 611).
Del pari consolidata è la giurisprudenza di legittimità che riconosce in capo all'utilizzatore la legittimazione ad agire per il risarcimento dei danni subiti dal bene concesso in leasing, legittimazione fondata sul risalente rilievo che tale legittimazione sta in capo a «colui che per circostanze contingenti si trovi ad esercitare un potere soltanto materiale sulla cosa può dal danneggiamento di questa risentire un danno al suo patrimonio, indipendentemente dal diritto, reale o personale, che egli abbia all'esercizio di quel potere e cioè senza che sia tenuto a dimostrare il titolo di proprietà» (Cass., 28.4.2000, n. 5421).
Tornando di recente sul tema, la Suprema Corte ha continuato a riconoscere il fondamentale ruolo di discrimine assunto dall'incidenza dei rischi relativi al bene, ribadendo il seguente principio di diritto: «qualora sia stata danneggiata una cosa (mobile o immobile) concessa in leasing la legittimazione ad agire per il risarcimento dei danni patiti compete all'utilizzatore, qualora lo stesso sia tenuto alla manutenzione ordinaria e straordinaria della cosa stessa nonché allo stesso, al momento della conclusione del contratto e del trasferimento del possesso della res, siano stati trasferiti tutti i rischi di questa» (da ultima, Cass., 12.1.2011, n. 534).
Il collegamento logico esistente fra imputazione dei rischi e legittimazione, sancito per la legittimazione attiva all'azione, gioca anche nell'ipotesi di legittimazione passiva. In particolare, con riferimento alla diffusa fattispecie di danni derivanti dalla circolazione di veicoli o natanti goduti in leasing, la giurisprudenza individua come corresponsabile con il conducente ai sensi dell'art. 2054, co. 3, c.c. esclusivamente l'utilizzatore del veicolo (cfr. da ultime con riferimento ad autoveicolo, Cass., 8.5.2007, n. 10424, con nota di Chindemi, D., Esclusione di responsabilità della società di leasing per i danni da circolazione stradale, in Resp. civ. prev., 2007, 2068 e, con riferimento a natante, Trib. Piacenza, 18.10.2011, n. 779).
Tale posizione si è consolidata in sede di interpretazione dell'art. 91 del nuovo codice della strada (d.lgs. 30.04.1992, n. 285), che espressamente riconduce la responsabilità solidale col conducente in capo al locatario, posizione cui agevolmente si riconduce quella dell'utilizzatore, considerandone la situazione giuridica sostanziale. La previsione del c.d.s., argomenta infatti la giurisprudenza, trova la sua ratio nella relazione qualificata tra il soggetto e la cosa; «relazione che, in caso di usufrutto, di vendita con patto di riservato dominio e di locazione finanziaria si atteggia nel senso che solo l'usufruttuario, l'acquirente o l'utilizzatore hanno il possesso del veicolo e sono in grado di controllarne la circolazione» (Cass., 25.4.2004, n. 10034).
Il rinnovato testo normativo ha reso superflue le clausole contrattuali limitative della responsabilità della società di leasing, che peraltro la giurisprudenza (su cui v. Grisenti, B., L'utilizzatore di veicoli in "leasing" nel rapporto assicurativo obbligatorio tra vecchio e nuovo regime (l'interpretazione della Cassazione dell'art. 2054, comma 3, c.c. e la modifica legislativa), in Resp. civ. prev., 1993, 953) riteneva inefficaci nei confronti dei terzi danneggiati.
La riforma fallimentare ha disegnato (art. 72 quater, l. fall., introdotto dall’art. 59 d.lgs. 9.1.2006, n. 5 e modificato dall’art. 4, co. 8, d.lgs. 12.9.2007, n. 169) un articolato quadro di riferimento normativo che regola l’incidenza del fallimento sui rapporti pendenti di ‘locazione finanziaria’, fattispecie unitariamente considerata – rectius: presupposta, anche qui senza alcuna tipizzazione (v. supra, par. 1) – in maniera da elidere distinguo (v. supra, par. 3) in ordine alla disciplina applicabile. La nuova norma è dettata sulla base di puntuale indicazione di delega (art. 1, co. 6, lett. a, n. 7, l. 14.5.2005, n. 80), resa opportuna dall’esistenza di un’intricata situazione determinata da ruvide interlocuzioni fra sentenze e leggi, purtroppo non insolite nel settore finanziario, che ingenerava incertezza sul mercato di riferimento (diffusamente sul punto Antonucci, A., Il leasing nel fallimento, in Dir. fall., 2010, I, 153 ss.). Si elabora quindi una norma valutata «di aperto favore per le società di leasing», sia in caso di fallimento dell’utilizzatore, con riferimento alla disciplina dei canoni e del valore residuo del bene, sia in caso di fallimento del concedente, ove la normativa «si risolve in un recupero di affidabilità per le società di leasing» (Apice, U.-Mancinelli, S., Manuale breve di diritto fallimentare, II ed., Milano, 2007, 135).
I primi tre commi della norma articolano la disciplina per l’ipotesi di fallimento dell’utilizzatore, aprendosi con un integrale rinvio all’art. 72 l. fall., cioè alla disposizione che detta ormai un principio di portata generale, relativo ai contratti con prestazioni corrispettive perfezionati ma non eseguiti in tutto o in parte al tempo della dichiarazione di fallimento, ponendo nelle mani del curatore – accompagnato dal comitato dei creditori – la valutazione di convenienza fra le alternative della prosecuzione e dello scioglimento del contratto. In particolare, il rinvio all’art. 72 è integrale ed include, quindi, la previsione del co. 6, che dichiara inefficaci le clausole contrattuali che fanno dipendere la risoluzione del contratto dal fallimento, clausole diffuse nei contratti di leasing in relazione all’ipotesi di fallimento dell’utilizzatore (già in dottrina si erano considerate invalide tali clausole per contrasto con i principi di indisponibilità del patrimonio del fallito, tenuto alla restituzione del bene, e della par condicio. Purcaro, D., La locazione finanziaria-leasing, Padova, 1998, 254 s.).
L’art. 72 quater, co. 1, prosegue occupandosi dell’ipotesi di esercizio provvisorio dell’impresa, per la quale si esclude la generale possibilità di sospensione del contratto (di cui all’art. 104, co. 7), riducendo la scelta del curatore all’alternativa fra esecuzione o scioglimento, sottraendo così le società di leasing al rischio di sospensione del contratto (sui cui potenziali effetti v. Vattermoli, D., Commento all’art. 72 quater, in Nigro, A.-Sandulli, M, a cura di, La riforma della legge fallimentare, Torino, 2006, I, 453), gravante sulla generalità delle controparti contrattuali del fallito. L’ulteriore disciplina del fallimento dell’utilizzatore è dedicata a regolare gli effetti patrimoniali dello scioglimento del contratto. Posto il diritto alla restituzione del bene che dallo scioglimento discende, vengono distintamente regolate (rispettivamente, ai co. 2 e 3) le ipotesi di disallineamento positivo o negativo fra credito residuo in linea capitale e valore del bene: nel primo caso, il concedente è «tenuto a versare alla curatela l’eventuale differenza fra la maggiore somma ricavata dalla vendita o da altra collocazione del bene stesso rispetto al credito residuo in linea capitale»; nel secondo caso, è circoscritto il diritto all’insinuazione nello stato passivo «per la differenza fra il credito vantato alla data del fallimento e quanto ricavato dalla nuova allocazione del bene».
La configurazione che la norma così fornisce al diritto all’insinuazione è stata rigidamente applicata dalla Cassazione, secondo cui «subentrando al regolamento contrattuale un diverso assetto degli interessi delle parti regolato direttamente dalla legge», va escluso il diritto del concedente ad insinuarsi immediatamente nel passivo fallimentare (ex art. 93 l. fall.) per i canoni residui, in quanto il concedente vanta «un diritto eventuale (per il quale vi è incertezza sul se verrà ad esistenza e su quale eventualmente ne sarà il preciso ammontare) di insinuarsi nello stato passivo per la differenza fra il credito vantato alla data del fallimento e quanto ricavato, o meglio la minore somma ricavata rispetto a detto credito dalla nuova allocazione del bene» (Cass. 1.3.2010, n. 4862, cnf. Cass., 15.7.2011, n. 15701, annotata da Zanichelli, V., Collocazione del bene dato in leasing, retrocesso dal curatore e insinuazione al passivo, in Fall., 2012, 69 ss. Qualche scostamento si registra, invece, nella giurisprudenza di merito, da ultimo Trib. Udine, 24.2.2012, in DeJure).
In entrambe le contrapposte ipotesi regolate dai co. 2-3, ruolo centrale assume la determinazione del valore del bene oggetto del contratto di leasing, che la norma costruisce con processo indefinito nelle modalità tecniche e temporali, disancorato da effettivi elementi di oggettivo riscontro e così rimesso nella sostanziale discrezionalità del concedente (su tale valutazione, generalmente condivisa in dottrina, vedi la rassegna di opinioni in Antonucci, A., Il leasing, cit., 160 ss.). Per sanare il conclamato squilibrio normativo, il ‘correttivo’ della riforma fallimentare (d.lgs. 12.9.2007, n. 169) introduce al co. 2, una ‘precisazione’ – secondo il lessico prescelto dalla relazione d’accompagnamento – che connette la valutazione del bene a ‘valori di mercato’. Alla singolare qualificazione di un inciso che modifica l’equilibrio normativo precedente, pur con ricorso a formula aperta a diversi criteri di determinazione, la relazione d’accompagnamento affianca un’affermazione forte, che oltrepassa la lettera della modifica apportata: «l’impresa di leasing può far valere i suoi diritti nel fallimento purché abbia disposto del bene recuperato secondo valori di mercato».
Pur nella residua ambiguità normativa, la giurisprudenza inizia ad orientarsi verso un’interpretazione omogenea con quella suggerita dal passo della relazione riferito, decidendo: «L’ammissione al passivo del credito della società di leasing, quando non sia stata ancora effettuata la riallocazione del bene sul mercato, deve essere condizionata a tale evento» (Trib. Milano, 24.4.2012, in www.ilcaso.it).
L’art. 72 quater, co. 2, si occupa anche della situazione dei pagamenti effettuati fino allo scioglimento del contratto da parte del curatore, che sono salvaguardati con l’esenzione da revocatoria, disposta mediante il rinvio all’art. 67, co. 3., lett. a), relativo ai pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa «nei termini d’uso», di tutte le «somme già riscosse», senza distinzione fra quota imputabile a capitale o ad interessi. Tale distinzione assume invece rilievo, in consonanza con i principi dell’art. 55 l. fall., per i canoni non ancora scaduti e per quelli insoluti scaduti successivamente alla dichiarazione di fallimento, rispetto ai quali il diritto del concedente è limitato al credito in linea capitale; limitazione espressamente posta dall’art. 72 quater, co. 2, ma certamente riferibile anche alla fattispecie del co. 3, vista l’unitaria ratio della disciplina, articolata nei due commi in ragione dei contrapposti esiti dei rapporti di debito-credito fra fallimento e concedente.
Per il caso di «fallimento delle società autorizzate» alla concessione del leasing, l’art. 72 quater, co. 4, mantiene la regola (posta dal d.l. 24.12.2003, n. 354, su cui v. Sanzo, S., Leasing traslativo e fallimento del concedente: ovvero, dell’incertezza del diritto, nell’alternanza tra funzione (troppo) creativa della giurisprudenza ed interventi (solo) particolaristici del legislatore, in Giur. it., 2004, 562), secondo cui esso non riversa effetti sul contratto, che prosegue con lo stesso disciplinare economico in capo al fallimento, tenuto al pagamento dei canoni pattuiti e, in caso d’esercizio dell’opzione, del relativo prezzo, con conseguente acquisizione della proprietà del bene.
Le regola della continuazione del contratto – specie se apprezzata come fondamento di un vero e proprio diritto alla continuazione in capo all’utilizzatore (Vattermoli, D., Commento all’art. 72 quater, cit., 455) – collide col regime delle società concedenti, di norma soggette a liquidazione coatta amministrativa (procedura cui la norma del pari si applica, giusta il rinvio dell’art. 201 l. fall.), cui si connette la revoca dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività. In assenza di apposita disciplina, sia in ambito fallimentare che bancario, è fondato ipotizzare che la soluzione dei problemi connessi resti rimessa alle metodiche ‘classiche’ adoperate dall’autorità di vigilanza di settore per limitare gli impatti traumatici delle situazioni di crisi degli intermediari, in particolare individuando i modi di continuazione con altri soggetti abilitati all’esercizio dell’attività di leasing.
L. 26.4.2012, n. 44; artt. 54, co. 2 e 102, co. 7, d.P.R. 22.12.1986, n. 917; artt. 122, 125 quinquies; artt. 1526, 1384 c.c.; artt. 55, 72, 72 quarter, 93, 201 l. fall.
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