lebbra
Nella forma lebbre, in If XXVII 95 Costantin chiese Silvestro / d'entro Siratti a guerir de la lebbre, dove designa la nota malattia. La forma è una variante arcaica del più comune ‛ lebbra ' (che si trova nella forma trecentesca lebra come lectio facilior in qualche codice: cfr. Petrocchi, ad l.), la quale è da imputare, forse, più che a necessità di rima, al fatto che " sulla terminazione dei nomi della terza e quinta declinazione gli antichi tentarono di configurare anche quelli della prima per cui dissero ‛ ale ' per ‛ ala ', ‛ tempre ' per ‛ tempra ', ‛ fortune ' per ‛ fortuna ', ecc. " (Scartazzini). Il Pézard preferisce invece la lettura " delle lebbre " (lezione attestata in alcuni codici), intendendo il plurale riferibile alla " molteplicità delle lesioni ".
Interessante notare come D. ricordi nel passo una leggenda ben viva nella cultura medievale. Benché probabilmente registrata per tradizione orale, è possibile un ricordo di un passo di Brunetto Latini, vicino per taglio narrativo: " Coustentins li empereres, ki estoit malades d'une lepre, l'envoia querre Silvestres; car a ce ke l'en disoit de lui et de son ancestre, il voloit oir son conseil. Et tant ala la chose ke Silvestre le baptiza selonc la foi des crestiiens et le monda de sa lepre; lors maintenant devint il cretiiens o tous les siens " (Tresor I LXXXVII 2).
Bibl. - V. Nannucci, Intorno alle voci usate da D. secondo i Commentatori in grazia della rima, Corfù 1840, 59 ss.; ID., Teorica dei nomi della lingua italiana, Firenze 1858, 54 ss.; L.A. Blanc, Versuch einer blossphilologischen Erklärung meherer dunklen und steitigen Stellen der Göttliché Komödie, I, Halle 1860, 249; H. Gmelin, Die Göttliche Komödie. Kommentar, Stoccarda. 1954, ad l.; Parodi, Lingua 244.
I falsatori di metalli sono affetti (If XXIX 58 ss.) di un morbo che alcuni commentatori individuano nella l., altri nella scabbia, mentre i più restano incerti tra le due malattie. In verità, lo stesso D. sembra proporci un'alternativa, giacché al v. 82 scrive: si traevan giù l'unghie la scabbia, e al v. 124 qualifica Capocchio senz'altro come un lebbroso.
In realtà, le caratteristiche del morbo rilevate da D. sono, secondo i medici medievali, senz'altro quelle della l. (Avicenna Canon IV VII 1 5, III III 1; con questo peraltro, che secondo quei medici la scabbia è un male che talvolta si accompagna alla lebbra. Secondo Bartolomeo Anglico (De Proprietatibus rerum, Francoforte 1601, VII 64) la l. " nascitur... de quatuor humoribus putrefactis " e si suddivide in quattro tipi a seconda dell'umore predominante: " Secunda... dicitur tyria vel serpentina a tyrio serpente, quia sicut serpens talis de facili dimittit spolium, et est squamosus, sic patiens talem lepram de facili excoriatur ex cutis superficie et resolvitur in quandam squamam "; e ancora: " Tuberositates crescunt in corpore, multa ulcera minuta, et dura, et rotunda... ungues ingrossantur... et quasi scabiosi efficiuntur... corrumpitur eorum anhelitus, et eius faetore saepius sani corrumpuntur... pruritum, quandoque cum scabie, quandoque sine scabie patiuntur, maculis variis... in corpore resperguntur ". Del resto, già Isidoro aveva accostate le due malattie: " Scabies et lepra. Utraque passio asperitas cutis cum pruritu et squamatione, sed scabies tenuis asperitas et squamatio est " (Etym. IV VIII 10), e altrove: " Leprosus a pruritu ipsius scabiae dictus " (IV X 162). Questa sintomatologia tenne a lungo il campo: ancora nel Quattrocento, il lebbroso che il beato Colombini si porta caritatevolmente a casa " dal capo a' piedi era coperto di scabbia e di piaghe " (Feo Belcari, Vita del b. G. Colombini, ediz. Chiarini, Lanciano 1902, 26). Dalla sintomatologia medievale dipendono anche le caratteristiche del puzzo e delle marcite membra (vv. 50-51) che D. in verità attribuisce a tutti i falsari puniti nella bolgia; ma che egli pensasse ai falsari che descriverà per primi, quelli di metalli, è provato dal fatto che quelle erano tradizionalmente caratteristiche proprie dei lebbrosi. " Totus marcidus " è ancora il lebbroso degli Actus s. Francisci et sociorum eius (ediz. P. Sabatier, Perugia 1902, XXVIII 12); il passo è ripreso, dopo D., dai Fioretti, e integrato con la notazione della puzza, attinta alla tradizione medica o forse a D. stesso: " tutto fracido e puzzolente " (XXV). Sulle orme dei Fioretti, il Belcari (op. cit., per 26) parla anch'egli di " puzza e fradiciume ", e così altri anche nei secoli seguenti. Per il contrapasso, si può ricordare che per Bartolomeo nei lebbrosi " caro... notabiliter est corrupta, et species immutatur ". In questi passi di Bartolomeo, che del resto D. nel c. XXX segue anche per altre malattie, è possibile trovare l'origine di certe notazioni dantesche: i malati che sono dal capo al piè di schianze macolati (XXIX 75), che ‛ menavano ' il morso / de l'unghie sopra sé per la gran rabbia / del pizzicor... / e sì traevan giù l'unghie la scabbia, / come coltel di scardova le scaglie (vv. 79-83). Il dannato che con le dita ‛ si dismaglia ' e fa d'esse tal volta tanaglie (vv. 85-87) ricorda da vicino un altro passo di Bartolomeo: " contrahuntur digitorum articuli, et manus quasi aridae efficiuntur ". Il Nardi, peraltro, suggerisce (Nel mondo di D., Roma 1944, 64 n. 1) l'ipotesi che la pena inflitta al falsatori di metalli provenga dall'uso degli alchimisti di ritenere i metalli affetti da aegritudines da cui cercavano di purgarli, e cita la definizione " plumbum est aurum leprosum ". Da tali dottrine nascerebbe il contrapasso dantesco.