Vedi Legge elettorale dell'anno: 2014 - 2015 - 2016 - 2017
Legge elettorale
Premesse alcune considerazioni generali in ordine alla natura delle leggi elettorali, si indicano le norme di rango costituzionale che fanno riferimento a questa materia e si fa cenno a cinque problemi attuali che tale normativa solleva, come quello sulla prospettata costituzionalizzazione del sistema proporzionale o quello della sussistenza di una riserva di legge o, infine, quello della cd. incandidabilità. Dopo un breve excursus sull’evoluzione nel nostro ordinamento del sistema di trasformazione di voti in seggi, si affronta il problema della prospettata incostituzionalità della vigente legge elettorale e quello, più specifico, delle ipotesi per la sua riforma.
L’attribuzione della sovranità al popolo (art. 1 Cost.) e la necessità che essa sia esercitata attraverso “rappresentanti” (art. 2 del Tit. III della Cost. francese del 1791) implica che la scelta di questi ultimi sia regolata da specifiche norme giuridiche, che nel loro complesso designano quella che può definirsi la legge elettorale in senso ampio. Di qui la tendenza a parlare di legge elettorale solo quando ci si trovi di fronte ad una comunità che deve scegliere organi che ne rappresentino (in qualche modo riproducendoli) interessi, opinioni, aspirazioni di tipo generale, cioè “politico”; ma, a sua volta, il concreto modo di atteggiarsi della “rappresentanza politica” molto dipende dalle specifiche norme, che disciplinano, sotto i più diversi profili, come e secondo quali condizioni il popolo sceglie i propri governanti (o rappresentanti, che dir si voglia).
È evidente che quanto più queste norme rendono stretta la dipendenza degli eletti dalla volontà degli elettori, la “rappresentanza politica” si atteggerà a rapporto rappresentativo, mentre, quanto più quella relazione si fa evanescente, tanto più emerge la cd. situazione rappresentativa, cioè la rappresentatività come mera apparenza.
Un’idea della rappresentanza politica come mera riproduzione nell’organo cd. rappresentativo degli interessi, opinioni, aspirazioni, che si agitano nella società civile, indurrà ad adottare norme che privilegeranno un sistema elettorale proporzionale (il sistema proporzionale fotografa una già esistente frammentazione politica e sociale, ma non la crea) e la possibilità che le varie minoranze facciano sentire la propria voce; mentre una normazione nella quale sia favorita la revoca dell’incarico o la frequenza delle elezioni esalterà il rapporto tra elettori ed eletti, con conseguente accentuazione della responsabilità dei secondi verso i primi. Salvo che risolutive a riguardo non sono soltanto le norme riguardanti il cd. sistema elettorale in senso stretto, quelle attinenti cioè al meccanismo di traduzione dei voti in seggi. Un importante rilievo assumono anche la disciplina dell’elettorato attivo e passivo, quella sulle modalità di espressione del voto, quella sulle campagne elettorali, sugli stessi partiti politici e sul modo del loro organizzarsi (si pensi alla disciplina delle cd. primarie), sui controlli relativi alla regolarità dello svolgimento delle elezioni e della proclamazione degli eletti e così via.
Analogamente, un’indubbia relazione si pone tra normazione in materia elettorale (intesa ovviamente in senso ampio) e forma di governo, visto che spesso le regole costituzionali sui rapporti tra gli organi supremi funzionano diversamente in presenza di norme in materia elettorale atteggiantisi in modo diverso (l’interesse dei giuristi per i sistemi elettorali nasce in coincidenza con l’esigenza di tenerne conto ai fini della classificazione delle forme di governo). Quell’influenza, però, neppure può indurre, per un verso, a trascurare, in nome di una non meglio identificata Costituzione materiale, le regole della Costituzione formale, e per altro verso, a trascurare che altri fattori concorrono a qualificare un regime politico, come la concreta attuazione delle norme, le convenzioni costituzionali tra le forze politiche, i regolamenti parlamentari, le concrete condizioni e le fratture della società civile, la strutturazione del sistema partitico, ecc.
Poche e scarne sono, per lo più, le disposizioni che le moderne Carte costituzionali dedicano alla disciplina (ovviamente, in senso largo) delle elezioni: esse si limitano a disegnare un perimetro, oltre il quale − in presenza di Costituzioni rigide e garantite − il legislatore futuro non può andare, pur godendo di un certo margine di discrezionalità. Non vi è dubbio, perciò, che senza la specifica normazione in materia elettorale, l’intero sistema disegnato dalla Costituzione formale non può entrare in funzione, né può continuare a funzionare, visto che la previsione di una procedura per rinnovare le assemblee legislative condiziona la stessa democraticità del sistema.
Ciò dovrebbe indurre a distinguere la prima legge elettorale, quella successiva, cioè, all’entrata in vigore della Costituzione e che ha consentito allo Stato di funzionare come Stato costituzionale, da quelle che ad essa dovessero aver introdotto modificazioni. Con la prima la democrazia di quello Stato − in una parola, il suo frame of government − ha preso avvio e non può – se non a pena di un vero e proprio evento rivoluzionario o di un colpo di Stato – essere messa in condizione di non funzionare. Donde l’impossibilità di un’abrogazione sic et simpliciter della prima legge elettorale, nella sua parte essenziale, senza la sua sostituzione con altra normativa conforme a Costituzione. Le altre, invece, si pongono in una sorta d’ideale continuità con la prima, al punto che dovrebbe dirsi che le leggi elettorali, che si susseguono nel tempo, si pongono, l’una in relazione all’altra, non come abrogazione, ma come mera deroga.
Come è noto, la Costituzione italiana del 1948 contiene una serie di norme che si riferiscono più o meno direttamente alla regolamentazione delle elezioni, a cominciare dallo stesso art. 1, che definisce «democratica» la Repubblica ed attribuisce omisso medio la sovranità al popolo. Riferimento più o meno diretto alla legislazione elettorale contengono, poi, gli artt. 48 e 49, l’art. 51, co. 1, gli artt. 56, 57 e 58, l’art. 65 ed il successivo art. 66, cui devono aggiungersi l’art. 84, co. 2, l’art. 104, ult. co., l’art. 122, co. 2, e l’art. 135, co. 6. L’art. 117, co. 2, lett. f) e p), attribuisce allo Stato la competenza legislativa esclusiva in materia di elezione degli organi dello Stato centrale, dei Comuni, delle Province e delle Città metropolitane; mentre l’art. 122, co. 1, Cost. detta norme in materia di elezione dei Consigli Regionali delle Regioni ad autonomia ordinaria (per le Regioni ad autonomia speciale le norme specifiche sono contenute nei rispettivi statuti).
Dall’insieme delle disposizioni costituzionali emergono taluni temi di riflessione, che hanno influenzato l’odierno dibattito sulla legislazione elettorale e ai quali ci si limiterà solo a fare qualche breve cenno.
Gli artt. 54, 57, 122 e 117 Cost. prevedono diverse leggi elettorali (e, quindi, la possibile sussistenza di vari sistemi elettorali a seconda dell’organo che il popolo è chiamato ad eleggere): una per la Camera dei deputati ed un’altra per il Senato della Repubblica; una legge elettorale di principio per l’elezione dei Consigli delle Regioni ad autonomia ordinaria (l. 2.7.2004, n. 165) e conseguentemente, tante leggi elettorali di dettaglio quante sono queste ultime; le leggi elettorali dettate dalle singole Regioni ad autonomia speciale; una legge per l’elezione dei Consigli provinciale (ancora vigente finchè non si sarà proceduto all’abolizione delle Province) e dei Consigli comunali, che a sua volta contempla un sistema per i Comuni con più di 25.000 abitanti e un altro con un numero di abitanti inferiore; ve ne è, infine, una per il Parlamento europeo.
Nulla si dice in Costituzione in ordine al cd. sistema di trasformazione dei voti in seggi: e del resto elementi contraddittori a riguardo possono ricavarsi dai lavori preparatori. Questa lacuna, per così dire, della nostra Costituzione ha dato luogo per il passato ad un vivace dibattito dottrinario, che si riflette sulla odierna questione delle riforme istituzionali. Per un verso, taluni pongono l’accento sul fatto che la Costituente era stata eletta con il sistema proporzionale e che il clima culturale, nel quale si sono svolti i suoi lavori, era favorevole a sistemi elettorali di tipo proporzionale, altri, per il verso opposto, fanno presente come il silenzio del testo costituzionale debba essere interpretato come volontà di non compiere una scelta, che avrebbe potuto irrigidire il sistema, legando le mani al futuro legislatore. Né appaiono decisivi gli argomenti testuali, con i quali si è tentato e si tenta di ancorare alla Costituzione il sistema elettorale proporzionale. Chi sostiene l’inscindibilità del nesso tra sistema elettorale proporzionale e Costituzione vigente tende a ritenere, per un verso, l’incostituzionalità di sistemi elettorali, che, come quello vigente (e prescindendo per ora dalle sue pecche), comportino l’abbandono del criterio proporzionalistico in nome della governabilità e della semplificazione del sistema partitico, e, per altro verso ed in certo qual senso contraddittoriamente, ad invocare la necessità di una riforma costituzionale complessiva della forma di governo, una volta introdotto nel 1993 un sistema elettorale maggioritario, anche se i venti anni trascorsi dall’introduzione del maggioritario hanno dimostrato che quest’ultimo sistema può convivere con la forma parlamentare di governo.
Vi è poi il problema se dalle disposizioni della Costituzione vigente possa ricavarsi la sussistenza in materia elettorale di una “riserva di legge”, dovendosi, poi, determinare quali ne siano il fondamento, la natura e l’estensione e quale sia lo spazio eventualmente lasciato alle fonti secondarie nella medesima materia.
Se è vero che le disposizioni costituzionali debbono interpretarsi alla luce del Codice di buona condotta elettorale, parte II, punto 2, lett. a), approvato dal Consiglio d’Europa nel 2003, ove si prescrive che «rules of electoral law have at least the rank of a statute», non sembra tuttavia che per ogni aspetto della legislazione elettorale la Costituzione preveda una riserva assoluta di legge. E se non vi è dubbio che essa ci appaia come riserva assoluta, addirittura rinforzata (secondo la disposizione dell’art. 72, co. 4, Cost. e degli artt. 120, co. 3, Reg. Senato e 49 Reg. Camera), per tutti quegli aspetti per cui fa specifico richiamo alla legge (exempli gratia: art. 48, co. 2 e 3; art. 65, co. 1, Cost.), e per i princìpi fondamentali del sistema di trasformazione dei voti in seggi (come si può indirettamente argomentare dall’art. 122, co. 1, Cost.), man mano che ci si allontana da quelle materie o ci si riferisce a norme di dettaglio oppure alla legislazione di contorno non coperta da esplicito riferimento alla legge, la riserva tende a relativizzarsi.
Il problema ha un evidente rilievo pratico, come dimostra il caso, poi risolto dalla l. 4.4.2005, n. 47, relativo all’applicabilità alle elezioni della Camera della norma regolamentare dell’art. 11 d.P.R. 5.1.1994, n. 14 (relativo alle elezioni per il Senato), per il quale si poneva anche la questione dell’invasione della riserva di legge in materia elettorale (v. Camera, XIV legisl., Doc. III, n. 1).
Più di recente si è posta la questione se il sistema costituzionale delle fonti del diritto tolleri che sulla riforma del sistema elettorale possa intervenire un decreto-legge (così come dichiarato dal Pres. del Consiglio Monti il 6.11.2012). Dal punto di vista formale, stante l’equiparazione quanto a forza e valore con la legge ordinaria, non sembra possano esservi ostacoli e tantomeno essi potrebbero nascere dall’art. 15, co. 2, lett. b), l. 23.8.1988, n. 400, visto che quest’ultimo potrebbe essere derogato da disposizioni poste dallo stesso gradino della scala gerarchica delle fonti (a meno di non aderire alla tesi per cui leggi ordinarie potrebbero porre vincoli a leggi ordinarie successive). Problemi si pongono invece da un punto di vista più sostanziale, visto che il decreto-legge altera – lo si voglia o no – la corretta dialettica tra maggioranza e opposizione e si presta ad applicazioni nei due mesi, che precedono la sua conversione. Sicché una normativa, che modifichi funditus il sistema elettorale previgente, emanata senza l’accordo espresso o tacito dell’opposizione (in passato non sono mancati decreti-legge che rispondessero a tale requisito) ed in un periodo assai vicino alla tornata elettorale (su questo v. quanto deciso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Ekoglasnost vs. Bulgarie, con riferimento al Codice di buona condotta elettorale approvato dal Consiglio d’Europa il 23.5.2003, II, 2.b), viola le regole del fair play istituzionale e mette a rischio le stesse basi della comunità ordinata a Stato (così, in certo qual senso, C. cost., sent. 10.5.1995, n. 161).
Prescindendo in questa sede dalle modificazioni, intervenute e che si profilano all’orizzonte, nel sistema di rimborso delle spese elettorali legate al numero dei voti conseguiti nelle elezioni politiche generali, introdotto con la l. 10.12.1993, n. 515, anche perché esse si pongono in rapporto solo indiretto con la legge elettorale, vale la pena di accennare alla recente normativa contenuta nel d.lgs. 31.12.2012, n. 235 sulla cd. incandidabilità alle elezioni per Camera, Senato e Parlamento europeo.
Essa affonda le sue radici nella l. 18.1.1992, n. 16, attinente all’incandidabilità per gli organi rappresentativi delle autonomie territoriali, e riguarda l’incapacità ad essere candidati alla carica di deputato, senatore o parlamentare europeo (e la conseguente impossibilità di ricoprire le stesse cariche) per chi sia stato definitivamente condannato a pene superiori a due anni di reclusione per delitti, consumati o tentati, commessi da pubblici ufficiali in danno della pubblica amministrazione (art. 1, lett. b) e per delitti, consumati o tentati, di particolare allarme o danno o riprovazione sociale, così come elencati nei commi 3-bis e 3-quater dell’art. 51 c.p.p. (art. 1, lett. a), nonché per chiunque sia stato condannato in via definitiva a pene superiori ai due anni di reclusione per delitti, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena edittale non inferiore a quattro anni (art. 1, lett. c).
Questa norma, anche per il rilevante recente impatto sulla vita politica del Paese, è stata sospettata d’incostituzionalità, essendosene contestata l’applicazione a fattispecie di reato verificatesi prima della sua entrata in vigore, e la ragionevolezza. Il primo motivo di contestazione suscita vari dubbi, visto che l’incandidabilità si risolve, lo si voglia o no, in un’ipotesi d’ineleggibilità, in quanto stabilisce un impedimento giuridico a divenire soggetto passivo del rapporto elettorale, cioè ad essere eletto. Ne deriverebbe che la norma contestata esulerebbe dal campo propriamente penale e non prevederebbe una pena accessoria, ma prenderebbe atto di una sorta di indegnità morale dei condannati (quella che addirittura ne legittimerebbe la privazione dall’elettorato attivo ex art. 48, ult. co., Cost.), rilevante al fine di determinarne l’ineleggibilità. Non si porrebbe, perciò, un problema circa la retroattività, anche perché il fatto che ne legittima l’applicazione è la sentenza definitiva di condanna e non il reato a suo tempo commesso. Tuttavia, se un caso di indegnità morale può postularsi per le ipotesi di cui alle lett. a) e b) dell’art. 1 d.lgs. n. 235/2012, l’ipotesi di cui alla lett. c) appare disomogenea rispetto alle altre due, visto che è il fatto oggettivo della condanna (quale che sia il reato commesso) a determinare l’ineleggibilità, sicché dovrebbe procedersi ad un più attento scrutinio di ragionevolezza.
Se poi si considera che l’incandidabilità si differenzia dalle ipotesi di ineleggibilità, che non si risolvono in un materiale confronto della documentazione agli atti, ma richiede, come tutte le altre ipotesi, un accertamento da parte di chi la deve dichiarare (in questo caso la Camera), il fatto che essa possa essere accertata dagli uffici elettorali indicati al co. 2 dell’art. 2 d.lgs. n. 235/2012 suscita un qualche dubbio in ordine alla conformità di tale meccanismo all’art. 66 Cost., che riserva alle Camere l’accertamento circa la sussistenza di cause d’ineleggibilità.
Quanto al meccanismo di trasformazione dei voti in seggi, il nostro ordinamento ha subito nel tempo trasformazioni legate sostanzialmente a due importanti decisioni popolari, che possono definirsi come “costituenti” (in senso ovviamente materiale).
La prima va fatta risalire al tentativo di introdurre con la l. 31.3.1953, n. 148 (cd. legge truffa) per le elezioni della sola Camera un sistema maggioritario, che prevedeva un premio, consistente in 380 seggi, per quelle liste collegate che avessero ottenuto almeno il 50% più uno dei voti a scala nazionale. Il responso delle urne, nelle successive elezioni (quelle del 1953) non consentì alla coalizione centrista di conseguire il risultato sperato ed il premio di maggioranza non scattò. Questo risultato fu interpretato come un’indicazione della volontà popolare, sicché con l. 31.7.1954, n. 615 si ritornò al vecchio sistema e l’intero ordinamento, da quel momento in poi, si conformò al principio proporzionalistico, che, dal successivo t.u. 30.3.1957, n. 361, non venne più messo in discussione fino a che non si fece strada, agli inizi degli anni ’80, il dibattito sulle riforme istituzionali e sui meccanismi per assicurare la governabilità del Paese. Fu così che, il 18.4.1993, intervenne una scelta popolare di segno opposto, preceduta dall’approvazione, il 9.6.1991, del referendum per l’introduzione alla Camera della preferenza unica.
Il referendum abrogativo del 1993 investì parti della legge elettorale del Senato, ritagliate in modo tale che ne sarebbe risultato un sistema elettorale maggioritario ad un turno per i singoli collegi elettorali costituiti all’interno delle Regioni (cioè 238 seggi), con 77 seggi attribuiti proporzionalmente con il metodo d’Hondt; esso fu confortato a larga maggioranza dal voto popolare e fu interpretato come un indirizzo popolare costituente in ordine ai diversi sistemi elettorali per gli organi rappresentativi, nel senso che per questi ultimi dovesse aversi come punto di riferimento sempre un sistema elettorale funzionante in senso maggioritario: ormai solo i rappresentati italiani al Parlamento europeo sono eletti secondo un sistema proporzionale (l. 24.1.1979, n. 18).
Successivamente la l. 4.8.1993, n. 276, concernente l’elezione dei senatori, e la l. 4.8.1993, n. 277 per la Camera, furono imperniate prevalentemente sul sistema dei collegi uninominali, nei quali si applicava la regola first past the post, e su una ridotta quota di seggi assegnati con il sistema proporzionale (cd. mattarellum).
Alla vigilia della tornata elettorale del 2006 fu approvata la l. 21.12.2005, n. 270, che vige tuttora ed ha profondamente modificato il sistema in senso impropriamente definibile proporzionale. Infatti, è ammesso che i partiti e i gruppi politici organizzati, che sono tenuti a presentare, unitamente al contrassegno, il programma elettorale ed il nome del candidato a guidare il Governo, possano collegarsi in una coalizione, depositando il programma elettorale ed indicando la persona dell’unico capo della coalizione. Dopo lo spoglio delle schede, se una lista o una coalizione non abbia conseguito almeno 340 seggi alla Camera dei deputati, ma abbia conseguito la maggiore cifra elettorale nazionale, ad essa vengono attribuiti 340 deputati (eventualmente divisi in proporzione dei suffragi elettorali ricavati dalle singole liste della coalizione). A tutte le altre liste o coalizioni vanno i restanti 277 seggi, distribuiti proporzionalmente alle rispettive cifre elettorali nazionali.
La nuova legge prevede, poi, un articolato sistema di clausole di sbarramento e si caratterizza per l’impossibilità per l’elettore d’influenzare la scelta degli eletti, essendo le liste dei candidati bloccate.
Anche il sistema di elezione dei senatori funziona in modo analogo e presenta le medesime caratteristiche, con la variante che esso viene applicato Regione per Regione, ove il 55 per cento dei seggi attribuiti alla Regione viene assegnato alla lista o coalizione di liste che abbia raccolto la più alta cifra elettorale regionale.
Già per le circostanze stesse, che portarono alla sua approvazione, la l. n. 270/2005 ha suscitato polemiche, essendosi ritenuto che la sua approvazione alla vigilia della competizione elettorale e con la decisa contrarietà dell’opposizione abbia violato le regole di buona condotta elettorale elaborate dalla Commissione di Venezia, al solo scopo di ridurre l’entità della prevedibile sconfitta elettorale della maggioranza che l’aveva voluta.
Tuttavia, il sistema elettorale, introdotto con la l. n. 270/2005, non ha determinato l’invocata semplificazione del sistema partitico né ha realizzato un’adeguata stabilità delle coalizioni e dei governi, presentando, altresì, gravi indizi di incostituzionalità (a questi dubbi fanno cenno le sentenze della C. cost., 24.1.2012, n. 13 e 30.1.2008, n. 15 e 16).
Sotto il primo profilo si sono perpetuati gli stessi difetti insiti nel sistema elettorale precedente (il numero dei gruppi parlamentari è venuto aumentando rispetto a quelli esistenti allorché vigeva il sistema elettorale proporzionale) e si è accentuata la tendenza delle diverse coalizioni ad inglobare forze estreme dello schieramento politico-partitico pur di vincere la competizione, con conseguenze negative sulla tenuta delle coalizioni e sulla stabilità governativa (le coalizioni vincitrici nella XV e nella XVI legislatura si sono dissolte per l’emergere di dissensi interni; al che deve aggiungersi che nella XV e nella XVII legislatura i risultati alla Camera sono stati diversi rispetto a quelli del Senato, dove il premio di maggioranza scatta su base regionale).
Quanto ai motivi d’incostituzionalità, quelli individuati dalla dottrina possono riassumersi nella violazione: dell’art. 92, co. 2, Cost., sotto il profilo del condizionamento delle prerogative del Capo dello Stato di nomina del Presidente del Consiglio, e dell’art. 67 Cost., in connessione con gli artt. 49, 56 e 57 Cost., in quanto con il sistema della lista bloccata si contravverrebbe al divieto di mandato imperativo, vincolando l’eletto solo al partito che lo ha designato; si individua, poi, un contrasto con gli artt. 56 e 57 Cost. della possibilità di candidature in più circoscrizioni e la mancata attuazione dell’art. 51 Cost., per non aver previsto meccanismi atti ad assicurare la presenza di candidature paritarie tra uomo e donna, nonché la violazione degli artt. 3 e 48, co. 2, Cost, per il fatto che è prevista una soglia troppo bassa per attingere al premio di maggioranza, e dell’art. 46, co. 2, Cost. per il fatto che i voti espressi in Valle d’Aosta non vengono computati ai fini dell’attribuzione del premio di maggioranza alla Camera (v. Cass. civ., S.U., ord. 17.5.2013, n. 12056).
Per tutte le ragioni sopraelencate e di fronte all’incapacità delle forze politiche di trovare un punto d’accordo sulla modifica della l. n. 270/2005, si è posto il problema di come procedere alla sua abrogazione o provocarne un giudizio di costituzionalità.
Quanto alla prima questione, si sono posti in essere due tentativi di abrogazione referendaria della suddetta l. n. 270 o di parte di essa. Il primo tentativo tendeva ad ottenere, attraverso una complessa operazione di ritaglio, l’abrogazione di quelle parti della legge, che consentono ai partiti di coalizzarsi al fine di lucrare il premio per la coalizione vincente in sede nazionale alla Camera ed in sede regionale al Senato, nonché di quelle parti, da cui si poteva ricavare la possibilità di candidarsi in più circoscrizioni.
La Corte, conformemente alla propria consolidata giurisprudenza – per la quale la natura di legge di attuazione necessaria della Costituzione rivestita dalla legge elettorale induceva ad escludere quei referendum abrogativi, il cui risultato non fosse quello di mantenere in vita una normativa suscettibile di immediata applicazione – dichiarò ammissibile i tre referendum richiesti, ma la consultazione, che ha avuto luogo il 21.6.2009, non ha raggiunto il quorum di partecipazione del 50 per cento degli elettori. Si evitò così che il sistema venisse congelato in un innaturale bipartitismo, dietro il quale si sarebbero pur sempre celate due coalizioni, e che si perpetuassero alcuni difetti del sistema elettorale, molti dei quali implicanti una vera e propria violazione della Costituzione.
Nel 2011 vi fu un’ulteriore iniziativa referendaria tesa all’abrogazione integrale della l. n. 270/2005, con l’intento esplicito di superare le obiezioni d’inammissibilità sulla base dell’ipotizzata reviviscenza del sistema previgente a questa legge (quello cioè nato dalle leggi del 1993). In questo caso la Corte costituzionale, con sent. n. 13/2012 (peraltro molto criticata dalla dottrina) dichiarò inammissibile il referendum, ritenendo che l’abrogazione della l. n. 270/2005 non avrebbe potuto far rivivere le leggi elettorali per il Senato e per la Camera dei deputati del 1993 (cd. mattarellum) e che l’abrogazione referendaria avrebbe determinato un inconcepibile vuoto normativo con rischi per lo stesso funzionamento del sistema di governo.
Ma i dubbi d’incostituzionalità della legge esigono di essere sciolti, anche se notevoli difficoltà sussistono in ordine alla possibilità d’investirne la Corte costituzionale ed in ordine alla forma che dovrebbe assumere la sua pronuncia. Si ritiene, infatti, che la legislazione elettorale rientri fra la “zona d’ombra” del sindacato di costituzionalità delle leggi, in quanto le leggi elettorali per i due rami del Parlamento sono difficilmente applicabili di fronte agli organi della giurisdizione ordinaria, amministrativa e contabile in ragione del disposto dell’art. 66 Cost. ed in quanto è vivamente controverso se l’attività posta in essere dalle Camere e dalle rispettive Giunte per le elezioni in sede di verifica dei poteri possa essere assimilata a quella di un’autorità giurisdizionale e ad un giudizio (v. C. cost., sent. 19.10.2009, n. 259), con conseguente possibilità per l’organo politico – che dovrebbe, però, porre in discussione la legge elettorale che ne costituisce la fonte di legittimazione – di sollevare una questione di legittimità in via incidentale.
Di recente, però, la Corte di Cassazione con la succitata ordinanza n. 12056/2013 ha ritenuto che sussista nel singolo elettore «l’interesse ad agire per ottenere il riconoscimento della pienezza del diritto di voto», eventualmente violato dal concreto funzionamento del sistema elettorale, e di poter sollevare, quindi, questione di costituzionalità in ordine alla l. n. 270/2005. Si vedrà se la Corte riterrà ammissibile la questione così sollevata!
Certo è, però, che essa ha escluso (nelle sent. nn. 15 e 16/2008 e successivamente in quella n. 13/2012) di poter sollevare innanzi a se stessa questione di legittimità costituzionale della legge elettorale nel corso del giudizio di ammissibilità di un referendum abrogativo.
Altre vie sono ancora più difficilmente percorribili, come quella dell’instaurazione di un conflitto tra poteri dello Stato, che abbia ad oggetto la legge, conflitto difficilmente configurabile per la sussistenza in astratto di rimedi alternativi per l’eliminazione dei vizi della legge stessa e per la difficoltà di individuare un soggetto legittimato a proporlo (C. cost., ord. 24.2.2006, n. 79).
Quanto, poi, all’eventuale sentenza di accoglimento della Corte, essa – per non incorrere negli stessi difetti che la Corte attribuisce al referendum abrogativo – dovrebbe operare o un ritaglio della l. n. 270/2005 per evitare il verificarsi di un vuoto normativo nella delicata materia del sistema elettorale in senso stretto, o muoversi nella logica di una sentenza additiva, con tutte le difficoltà che ciò comporta.
Per le critiche che l’hanno investita si è posto all’attenzione delle forze politiche ormai da tempo il problema delle modifiche alla l. n. 270/2005. Nella legislatura in corso (XVII) solo al Senato risultano depositati nove disegni di legge e quattro petizioni, quasi tutti partendo dall’idea di realizzare un bilanciamento tra meccanismi maggioritari e contrappesi proporzionalistici, con il rischio, però, di assommare, come avvenuto per la l. n. 270/2005, i difetti dell’uno e dell’altro sistema.
Qualche dubbio potrebbe porsi in ordine alla costituzionalità di quei meccanismi che volessero più o meno surrettiziamente (per es. riducendo fortemente le dimensioni dei singoli collegi elettorali) introdurre un sistema elettorale basato su collegi uninominali o plurinominali a turno unico, nei quali la lista che ottiene il maggior numero di voti prende anche la maggioranza dei seggi in palio nel collegio. Si rischierebbe così di violare il pluralismo partitico previsto dall’art. 49 Cost. e di impedire la formazione di nuovi partiti politici.
Analogamente, sembrano in contrasto con la forma parlamentare di governo prevista dalla Costituzione quei sistemi che dovessero puntare su un’eccessiva personalizzazione del potere e che non riservino al Capo dello Stato le funzioni di garante dell’equilibrio tra le forze politiche, riducendolo invece a leader di una di esse.
Del resto il principio di rappresentatività, implicitamente accolto dalla nostra Costituzione, si risolve in quello dell’eguaglianza del voto, da realizzarsi, non solo al momento in cui esso viene espresso, ma anche nella fase successiva della partecipazione alla gestione della cosa pubblica affidata sia alla maggioranza che all’opposizione. Ciò non esclude la realizzazione del principio di governabilità o di maggioranza attraverso regole dirette a semplificare il sistema partitico − pur mantenendo a favore dell’elettore la possibilità di una pluralità di scelte − e a favorire la stabilità e l’efficienza dei governi. A tale scopo sarà sufficiente richiamare le cd. clausole di sbarramento, le regole sull’utilizzazione dei resti, i regolamenti parlamentari, la sfiducia costruttiva e così via discorrendo.
Certo è che sia il principio maggioritario che quello proporzionalistico sono suscettibili di correzione in un numero infinito di direzioni. Né si può dire che sia dato un sistema elettorale in senso stretto che presenti la caratteristica di essere perfetto. Sarà demandato alla saggezza del legislatore individuare un sistema che sia adatto alle condizioni sociali, economiche e culturali della società che dovrà esprimere i propri rappresentanti nell’organizzazione dello Stato.