LEGGE (lat. lex; fr. loi; sp. ley; ted. Gesetz; ingl. law)
Nel significato più ampio che la parola può assumere nelle scienze giuridiche, essa indica qualunque elemento che contribuisce alla formazione di un ordinamento giuridico, sia che esso si manifesti spontaneamente, attraverso il comportamento di qualunque organo e dei componenti stessi dell'istituzione, sia che si concreti in un formale atto di volontà di organi determinati, a ciò particolarmente competenti. Nel primo caso la legge assume il nome di consuetudine o legge non scritta; nel secondo quello di legge scritta o legge in senso stretto. La presente trattazione è limitata alla legge scritta; per la consuetudine si veda l'apposita voce.
Storia.
I popoli dell'Oriente antico fin da epoca abbastanza remota ebbero, accanto alle norme consuetudinarie, leggi scritte. Così a Babilonia se ne ebbero sin dal periodo sumerico: delle leggi semitiche, la prima e più vasta raccolta a noi pervenuta è il celebre codice di Hammurabi (XVIII sec. a. C.: v. hammurabi); quanto agli Assiri, si conosce finora una sola raccolta, piuttosto antica, trovata nelle rovine della capitale Assur (v. babilonia e assiria: Diritto). Così pure gli Ebrei ebbero la loro legge scritta nella legge mosaica (v. ebrei); mentre le tavolette di Boğazköy fecero conoscere leggi dei Hittiti, risalenti alla metà del secondo millennio a. C. (v. hittiti: Diritto); e infine leggi scritte, emanazione dell'autorità regia, dovettero esistere nell'Egitto faraonico.
Il diritto greco in origine era tutto consuetudinario (v. grecia: Diritto); i Greci stessi usarono contrapporre i νόμοι (leggi) agli ἕϑη, il νόμοςω ἕγγραϕος al νόμος ἅγραϕος: gli ἕϑη, però, indicano generalmente il costume anche non giuridico, mentre per νόμος ἅγραϕος s'intendeva, oltre il diritto consuetudinario, un diritto naturale superiore alla legge scritta, comune a tutti gli uomini e immutabile. A parte ciò, mentre in uno stato cittadino rigidamente conservatore come Sparta il diritto rimase sempre basato sulla consuetudine, generalmente le città greche, per lo più nel corso del sec. VI a. C. - e, secondo la tradizione, per opera di singoli legislatori spesso ispirati -, arrivarono alla formulazione scritta della loro costituzione e del loro diritto: scopo frequente di queste prime legislazioni era fissare o modificare la consuetudine esistente, per difendere le classi inferiori dagli abusi della nobiltà; si formarono così i varî diritti cittadini. Le definizioni della legge date dagli scrittori greci non la caratterizzano dal punto di vista costituzionale, ma spesso mettono in rilievo l'idea fondamentale che essa emana dal popolo: ne consegue che con la legge si intendeva non tanto vincolare i cittadini, quanto limitare il magistrato, cui era in primo luogo diretta. Nelle costituzioni cittadine, giunte a un maggior grado di sviluppo, come quella ateniese, si deve fare una distinzione fondamentale tra νόμος, la legge, e ϕήϕισμα, la deliberazione del senato o dell'assemblea popolare che non era legge e doveva esser contenuta nei limiti delle leggi vigenti: per modificar queste, ritenute in linea di principio come immutabili, o per emanarne di nuove, il voto dell'assemblea non era sufficiente e si ricorreva a un procedimento speciale davanti al collegio dei nomoteti; istituti simili erano anche altrove.
Nelle monarchie assolute dell'età ellenistica sola fonte di diritto era il re: non è il caso di soffermarsi sui nomi e sui tipi di ordinanze regie. Piuttosto è da rilevare come entro i regni le città libere continuassero a vivere secondo il proprio diritto, al quale però le ordinanze regie erano considerate superiori: e così il monarca, indirettamente o direttamente, come ad Alessandria, influiva sulla formazione di quello.
Dai Romani la legge, nel senso di fonte del diritto - lex significa in generale norma obbligatoria -, era chiamata lex publica, in quanto emanava dal popolo e obbligava il popolo: era il risultato dell'accordo tra il magistrato, cui spettava l'iniziativa e che interrogava il popolo, e il popolo che accettava, senza poterla alterare, la rogatio del magistrato. La lex publica, proposta dal magistrato e votata dal popolo nei comizî, si distingueva dal plebiscitum, proposto dal tribuno e votato dalla plebe nei concilî tributi: i plebisciti in origine vincolavano soltanto la plebe ma, dopo la legge Ortensia del 286 a. C., acquistarono valore di legge e vennero pertanto ricompresi tra le vere e proprie leggi; anzi le leggi romane a noi note sono in buona parte plebisciti. Ancora si distingueva dalla lex rogata o lata (quella votata nei comizî) la lex data, emanata direttamente dal magistrato, di solito per l'ordinamento di un municipio, di una colonia o di una provincia. Gli organi dell'attività legislativa erano i comizî: se di una vera e propria attività legislativa dei comizî curiati non sembra si possa parlare, i comizî centuriati e i tributi, come pure i concilî tributi della plebe, avevano sotto questo rispetto uguale competenza. Quanto alla formazione della legge, il progetto, di regola deliberato in senato, veniva pubblicato (promulgatio) dal magistrato, cui solo spettava l'iniziativa (console o pretore per i comizî, tribuno per i concilî tributi della plebe); nell'intervallo (trinundinum) tra la promulgatio e la votazione il progetto poteva esser discusso dal popolo nelle adunanze non formali (contiones) convocate dal magistrato, e infine la legge entrava in vigore non appena il magistrato avesse annunciato l'esito della votazione (renuntiatio), senza che fosse richiesta una vera e propria pubblicazione: invece in epoca antica era necessaria la ratifica del senato (auctoritas patrum), divenuta, in seguito, preventiva, e quindi semplice formalità. Nella legge si distinguevano la praescriptio, che conteneva indicazioni formali, la rogatio, il testo della legge, e infine la sanctio, che stabiliva le conseguenze - in antico talvolta di ordine religioso - della violazione: le leggi si distinguevano in perfectae, minus quam perfectae e imperfectae, a seconda che l'atto compiuto in violazione di esse era dichiarato nullo, colpito da pena ma non annullato, o non soggetto a sanzione.
Se la legge ebbe notevole influenza sullo svolgimento del diritto pubblico, ne ebbe pochissima quanto al diritto privato: le poche leggi (tutti plebisciti) di diritto privato che si conoscano, contengono norme particolari, presupponendo tutti gl'istituti fondamentali, né diversa è al riguardo la posizione delle stesse XII tavole. Il diritto romano fu sempre regolato da altre fonti: la consuetudine, l'interpretazione giurisprudenziale, prima pontificale e poi laica, gli editti dei pretori; di qui, e dal fatto che i comizî curiati non ebbero probabilmente mai potere legislativo, discende altresì l'impossibilità dell'esistenza delle pretese leggi regie.
Nell'età imperiale, teoricamente, il potere legislativo dei comizî permane e i giureconsulti annoverano la lex tra le fonti del diritto: in fatto però, dopo un cospicuo rifiorire sotto Augusto, questa fonte ben presto si esaurì, e la legge fu sostituita da altre fonti, aventi valore di legge pur non essendo tali in senso tecnico: il senatoconsulto e le costituzioni imperiali. Il senatoconsulto acquista valore di legge nella prima età imperiale: il senato, nella repubblica, non aveva potere legislativo ancorché influisse largamente sulla legislazione, e, anche durante l'età imperiale, dapprima il senatoconsulto non vincolava se non in quanto il pretore l'inserisse nel suo editto. Anche l'imperatore in origine non aveva potere legislativo e l'acquistò soltanto gradualmente: all'epoca dei Severi il riconoscimento ne è pieno - si forrnula la massima quod principi placuit legis habet vigorem - ma se ne cerca il fondamento nella lex de imperio, con la quah il popolo avrebbe conferito al principe questo potere. Le emanazioni dell'autorità imperiale prendono il nome generale di constitutiones e i diversi tipi quelli di edicta, decreta, rescripta, epistulae, mandata: e anche il senatoconsulto finisce col diventare una fonte indiretta della legislazione imperiale.
Nella monarchia dioclezianeo-costantiniana sola fonte di diritto è la volontà imperiale, e allora le constitutiones assumono il titolo di leges, mentre al diritto anteriore, la cui conoscenza si desumeva dalle opere dei giureconsulti, si dà il nome di iura. Dalle costituzioni imperiali aventi valore di legge per tutti i sudditi (generales leges, edicta) si devono distinguere le pragmaticae sanctiones, non vere e proprie leggi, ma piuttosto ordinanze amministrative: mentre come vere leggi si devono considerare le compilazioni ufficiali ordinate dagl'imperatori, cioè il codice teodosiano del 438, raccolta di sole leges, e le compilazioni di Giustiniano, del 528-534, raccolte di leges e iura. La legislazione imperiale rimase formalmente unica anche quando Occidente e Oriente si separarono, poiché le leggi emanate in una delle due partes imperii erano pubblicate anche nell'altra e recavano il nome dei due Augusti.
La lex publica non vincolava in linea di principio (salvo estensioni operate da senatoconsulti) che i cittadini: invece la legislazione imperiale, nelle sue varie forme, poteva concernere anche i sudditi di Roma non cittadini; in ogni modo, con la concessione, nel 212, per opera di Caracalla, della cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell'impero, fu esteso a costoro anche l'uso del diritto romano, il quale in tal modo divenne diritto territoriale nel pieno senso della parola. Circa i rapporti con la consuetudine, l'ambito di questa, in antico assai vasto, fu ridotto dapprima, più che dalla legge, da altre fonti, quali il pretore e la giurisprudenza: soltanto la monarchia dioclezianeo-costantiniana proclamò, in linea di principio, l'assoluta superiorità della legge sulla consuetudine.
Mentre nell'impero d'Oriente sola fonte del diritto restò sempre la volontà dell'imperatore, il quale solo poteva emanare atti legislativi, in Occidente le invasioni barbariche produssero, in questo campo, innovazioni profonde. Infatti il diritto dei popoli germanici, quando si stabilirono sui territorî dell'impero, era consuetudinario; ma di questo, costituitisi i varî stati romano-barbarici, si arrivò presto o tardi alla redazione in iscritto; sorsero così le varie leggi popolari dei barbari, le quali, in linea di principio, derivavano la loro efficacia dal consenso del popolo, che le approvava nell'assemblea: il loro carattere contrattuale si rispecchia nel nome di pacta che ebbero talune delle più antiche. Leggi popolari ebbero i Visigoti, i Burgundî, i Franchi (Salî e Ripuarî), i Longobardi, più tardi gli Alamanni e i Baiuvari, nonché popoli rimasti fuori dell'influenza dell'impero, come i Sassoni, i Frisoni, gli Angli e Verini, i Turingi e infine gli Anglosassoni. I Romani continuarono a vivere secondo il diritto romano, anzi qua e là si ebbero compilazioni di leges e iura composte dai dominatori barbarici per i loro sudditi romani (lex romana Wisigothorum e lex romana Burgundionum; v. germanici popoli: Diritto). Tra le leggi barbariche menzionate va fatta una posizione speciale a quella dei Visigoti, non tanto perché, essendo la più antica, influenzò molto tutte le altre, quanto perché, probabilmente nel 654, il re Reccesvinto estese anche ai Romani la legge visigotica da lui riformata, proibendo l'uso di ogni altra legge: cosicché, unico esempio negli stati barbarici, la lex Wisigothorum o liber Iudiciorum fu legge terīitoriale fondata soltanto sull'autorità regia. Quanto ai Longobardi, alla redazione scritta del loro diritto si arrivò per opera del re Rotari: l'atto legislativo non fu chiamato lex ma editto, sebbene anche qui la forza obbligatoria derivasse dall'approvazione dell'assemblea popolare; a esso furono, dai successori di Rotari, in specie da Liutprando, fatte aggiunte, forse in parte con efficacia territoriale. Caratteristica degli stati romano-barbarici è la coesistenza del diritto romano e del diritto popolare barbarico, contenuto nella lex della nazione, accanto ai quali però si vien formando un diritto regio, basato meramente sulla volontà del sovrano. Soltanto nel breve regno degli Ostrogoti in Italia il diritto romano fu considerato legge generale e territoriale: Teodorico e i suoi successori non emanarono leggi ma editti, che dovevano restare nell'ambito delle leggi imperiali e avevano efficacia territoriale.
L'istituzione del Sacro Romano Impero, più che ricondurre in primo piano il diritto romano, considerato legge generale dell'impero, sviluppò completamente quel sistema della personalità della legge, i cui germi erano contenuti nel dualismo di diritti esistente in quasi tutti gli stati romano-barbarici. Infatti, data l'uguale soggezione nell'impero di tutti i popoli dai quali derivavano, le varie leggi nazionali (di cui sotto Carlomagno si fece una generale revisione) furono tutte ugualmente riconosciute: così ognuno era regolato dalla legge della propria nazione, determinata dall'origine e, salvo eccezioni, immutabile: la libera scelta della legge fu riconosciuta solo in seguito, ed è indice della crisi del sistema. Alle altre fonti legislative devono aggiungersi, in quest'epoca, gli atti legislativi emanati da re e imperatori franchi, cioè i capitolari, sempre distinti dalle vere leges, cioè le leggi popolari (v. capitolari).
Nell'età feudale il diritto ebbe base dovunque quasi esclusivamente in norme consuetudinarie; sennonché la consuetudine ha efficacia generale nei luoghi ove è sorta, è quindi territoriale e contribuisce potentemente al tramonto del sistema della personalità del diritto: tanto che dovunque nel sec. XIII si ritorna al diritto territoriale. E intanto si maturava un fenomeno grandioso, cui qui si accenna solo in quanto possa avere influito sul sistema delle fonti del diritto, cioè il risorgimento del diritto romano giustinianeo, considerato vera e propria legge generale dell'impero.
La diretta legislazione imperiale continuò a svolgersi, non mai molto intensa, nell'età feudale e anche in seguito, dapprima nella forma di capitolari da unirsi alle varie leggi nazionali: poi gl'imperatori si riattaccarono al diritto romano, e le constitutiones da essi emanate - sempre necessariamente con il concorso della dieta dell'impero - si possono considerare come continuazione e modificazione delle leggi imperiali raccolte nel Corpus iuris, tanto che in un primo tempo si usò ordinarne l'inserzione nel Corpus iuris. Una particolare posizione spetta alle paci territoriali imposte dall'imperatore, la cui obbligatorietà era fondata sul giuramento di osservarle prestato dai sudditi: maggiore importanza ebbero in Germania dove, svincolate dal giuramento e divenute perpetue, costituirono una legislazione penale imperiale. Ancora debbono distinguersi dalle costituzioni le convenzioni concluse dagl'imperatori con papi, principi, comuni, ecc., nonché i mandati, i precetti e i privilegi, in teoria più atti amministrativi che leggi. Tale il sistema della legislazione imperiale.
Ma la costituzione politica della società medievale, di cui è caratteristica una serie di organismi autonomi, uno sovrapposto all'altro, portò alla creazione di nuove fonti legislative, in pratica assai più importanti di quelle imperiali. Infatti ogni organismo autonomo poteva, nel proprio ambito, creare il proprio diritto, il quale in teoria era limitato dal diritto dell'organismo superiore: e così sorse la legislazione dei comuni e quella delle monarchie che si vennero costituendo, sia nell'ambito dell'impero, sia fuori di esso (Francia). Inoltre, sulla base principalmente del diritto giustinianeo, si veniva formando il diritto comune, considerato come legge generale valida dovunque non provvedessero altre fonti, il quale, sorto in Italia e ricevuto in Germania nel sec. XV, si diffuse, più o meno, per quasi tutta l'Europa. Qui diremo qualcosa soltanto delle vere fonti legislative, seguendone lo sviluppo nei varî paesi.
In Italia tengono il primo posto gli statuti (v.), cioè le manifestazioni di volontà di ogni ente autonomo - sia di un ente pienamente sovrano come il comune dell'Italia superiore e media, sia di un'associazione lecita nel regolamento giuridico della propria vita interna ed esterna: di essi si hanno due categorie fondamentali, gli statuti dei comuni e quelli delle classi: dagli statuti delle città più o meno autonome si distinguono quelli dei minori centri, pure organizzati a comune (statuti rurali). Lo statuto comunale, inteso come corpo unitario delle leggi municipali, risulta dalla fusione, avvenuta in diversi modi e in tempi diversi, di varî elementi: anzitutto la consuetudine municipale redatta in iscritto, poi il breve, cioè il complesso di disposizioni giurate dai membri della società comunale, e infine la vera e propria legge (di cui si hanno varî tipi e nomi), sviluppata specialmente nelle città pienamente autonome; spesso, accanto al grande statuto comunale, lo statuto del podestà, compare lo statuto del popolo, quando questo, nella seconda metà del sec. XIII, si organizza in forma indipendente entro il comune. La validità degli statuti si fa dipendere dapprima dalla concessione espressa o tacita dell'imperatore, poi dal diritto di ogni associazione di dettare le norme della propria vita interiore, e infine dalla sovranità del comune: così il diritto statutario forma la legge propria della città, da applicarsi prima di ogni altra. Quanto agli statuti rurali, potevano essere autonomi, se la comunità era soggetta a un signore, ma senza vincoli feudali di dipendenza diretta; concordati, se derivavano da un accordo tra il signore feudale e la comunità, e infine signorili, se elargiti unilateralmente dal signore. D'altro canto, nell'interno del comune, ogni classe e ogni associazione assunse forma corporativa, e quindi ebbe il diritto di regolare la propria vita interiore di qui glí statuti delle classi, che di regola contengono solo norme regolamentari; ma negli statuti delle maggiori classi, come i mercanti e gli uomini di mare, anche norme generali di carattere legislativo.
Anche negli stati monarchici si svolse una legislazione territoriale, da osservarsi prima d'ogni altra, senza però escludere la validità degli statuti (dei quali anzi nel sec. XVI si fece una generale revisione d'iniziativa dei principi) e del diritto comune. L'autorità legislativa risiede nel principe, ma in un primo tempo bisogna distinguere la legge dall'ordinanza, poiché la legge viene regolarmente formata col concorso delle assemblee territoriali (parlamenti), in cui viene anche pubblicata, mentre l'ordinanza emana direttamente dal principe: in pratica la distinzione non è così netta, poiché l'ordinanza, allargando il suo campo d'azione e di durata, tende a confondersi con la legge, e infine qualunque manifestazione della volontà del principe è legge, non valendo più a distinguerla le svariate denominazioni che si trovano in uso. Leggi territoriali d'iniziativa del principe si ebbero in tutti gli stati monarchici: così nell'Italia meridionale, fin dalla costituzione del regno da parte dei Normanni, e poi specialmente per opera di Federico II, così nello Stato della Chiesa, per opera dei legati e rettori pontifici inviati nelle provincie, così in Piemonte, così in Sardegna, ecc.: e dovunque ebbe luogo l'accennata evoluzione. Scomparsi o diminuiti d'importanza i parlamenti, in qualche luogo (Piemonte) le leggi non entravano in vigore se i senati non facevano luogo all'interinazione, che potevano anche rifiutare, e dappertutto il principe poteva deliberare la legge col consiglio del senato, senza però, di regola, essere obbligato a seguirlo. E anche nelle signorie e principati la legislazione rappresenta la volontà del principe, che tende a farsi assoluta. Si debbono, infine, tener distinte le leggi emanate dai principi da quelle emanate dai vicarî, viceré o governatori (specie nei paesi soggetti al dominio straniero), gride, dispacci e simili, che propriamente sarebbero solo ordinanze revocabili, ma che, attraverso l'uso del successore di confermare quelle del predecessore, tendono a farsi perpetue.
Anche in Francia dapprima si ebbero leggi municipali, connesse alla giurisdizione che le città avevano ottenuto, e leggi (établissements) dei signori feudali, poiché secondo il diritto feudale ogni signore poteva emanare norme giuridiche nei limiti della sua signoria: cosicché il re poteva far ciò solo nei dominî diretti della Corona. Di qui sorge il potere legislativo del re che, sotto l'influenza di principî romanistici, tende a farsi assoluto, anche perché, data l'indipendenza della Francia dall'impero, il diritto regio non era limitato dal diritto imperiale. Già nel secolo XII il re comincia a legiferare fuori del dominio della Corona, facendo approvare i proprî établissements dai signori territoriali, in seguito basterà che le ordinanze reali siano deliberate nel consiglio del re, e poi anche quest'intervento diverrà puramente consultivo. Però il potere legislativo del re trovò un limite non tanto negli Stati Generali, che, del resto, solo in linea di fatto potevano cooperare alla legislazione, quanto nel diritto dei parlamenti di registrare le ordinanze reali, e la registrazione poteva anche essere rifiutata. Ai varî nomi (ordinanze, editti, ecc.) in uso per le manifestazioni dell'attività legislativa del re, non corrisponde una diversità di natura dei singoli atti: talune ordinanze, come le grandi ordinanze di Luigi XIV e di Luigi XV, furono vere e proprie codificazioni di intere materie. Infine divennero vere e proprie leggi scritte, per quanto di natura un po' diversa da tutte le altre, le consuetudini territoriali - che nella Francia settentrionale e centrale costituivano il diritto comune - quando, prima per opera dei signori feudali poi (nella prima metà del sec. XVI) dell'autorità regia, si addivenne alla loro redazione ufficiale.
Per la Germania si è già accennato al sistema e alle vicende della legislazione imperiale: la legislazione particolare del regno germanico non rivestì forme diverse. Dato, peraltro, l'estremo frazionamento della costituzione politica della Germania nel Medioevo e nell'età moderna le leggi particolari o provinciali erano numerosissime, né si svolsero in modo sostanzialmente diverso da quello fin qui esaminato: cosicché anche qui si hanno, da un lato, i numerosissimi diritti municipali (Stadtrechte), e dall'altro le non meno numerose leggi particolari dei diversi principati, le quali, del resto, si erano collocate accanto alle consuetudini particolari (Landrechte) dei diversi paesi. E, a partire dal sec. XV, il diritto romano comune si collocò accanto a tutte queste diverse fonti come legge generale, da applicarsi ovunque mancassero leggi territoriali precise.
Né in Spagna l'evoluzione seguì vie diverse: anche qui per la legislazione regia la cooperazione dei parlamenti (cortes), dapprima necessaria, perdette di importanza fin quasi ad annullarsi col progredire dell'assolutismo. In particolare si noterà che base del diritto rimase sempre la lex Wisigothorum reccesvintiana, tradotta in volgare (Fuero Juzgo) per opera del re di Castiglia Ferdinando III (1217-1252), mentre il diritto romano, la cui recezione risale alle Siete partidas del re Alfonso el Sabio (1252-1284) ebbe soltanto un valore sussidiario; d'altro canto grande importanza ebbero, almeno fino all'affermazione dell'assolutismo regio, i Fueros, cioè le immunità e i privilegi concessi dai sovrani a città, feudi ed enti ecclesiastici, nonché le leggi emanate da tutti questi enti.
Lo svolgimento descritto non ebbe luogo in Inghilterra, dove l'assolutismo monarchico non riuscì mai ad affermarsi, e dove, d'altra parte, il sistema feudale riuscì a mantenersi più a lungo e in ogni modo la fonte principale del diritto restò - e resta tuttora - la consuetudine.
A parte ciò, nell'età moderna, come si è visto, le fonti di diritto scritto - senza parlare delle consuetudini - erano, nei diversi paesi, molteplici; di qui il bisogno di unificazione che portò prima alle consolidazioni del diritto esistente (v. consolidazioni), poi alla codificazione (v. codice: Storia della codificazione moderna). Quanto alla legge dal punto di vista formale, si è visto come si passi dalla pluralità di leggi e dal carattere contrattuale della norma alla legge intesa come atto unilaterale di volontà del capo dello stato. Il porsi dello stato moderno come stato di diritto muta ancora una volta il concetto: ma ciò forma piuttosto oggetto del diritto pubblico moderno.
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Dottrina.
1. L'antica concezione imperativistica, che identificherebbe la legge con un comando rivolto dallo stato ai sudditi, ha subito numerose critiche ed è ormai, se non respinta, accolta con molte restrizioni. Secondo alcuni, la legge non sarebbe un comando rivolto ai sudditi, ma un comando rivolto agli organi dello stato, in quanto soltanto questi sarebbero tenuti a eseguirla ed applicarla, mentre i sudditi dovrebbero limitarsi a subire tale applicazione. Viceversa, sembra che la legge si rivolga contemporaneamente ai sudditi e agli organi, sebbene alcune volte riguardi in via principale questi ed altre direttamente e principalmente quelli. La critica più grave concerne, però, lo stesso carattere imperativo delle leggi. Secondo alcuni, meglio che imperative, esse devono dirsi obbligatorie: d'altra parte, non tutte le leggi determinano direttamente un obbligo o un dovere. Alcune sono obbligatorie in modo assoluto, come le leggi penali, di polizia, di finanza e tutte quelle che impongono prestazioni o comportamenti dei cittadini verso lo stato; altre sono relativamente obbligatorie, cioè obbligatorie in quanto i singoli vogliano raggiungere determinati fini (acquistare un diritto, porre in essere un atto giuridico valido): rispetto a queste ultime, si è parlato di norme tecniche e di regole finali. La legge, poi, può non essere in alcun modo obbligatoria, perché, accanto alle leggi che creano doveri e limitazioni, si hanno quelle che costituiscono capacità, potestà giuridiche, diritti e facoltà: e che possono dirsi permissive in lato senso. Che queste, il più delle volte, facciano sorgere dei doveri per soggetti diversi da quelli cui direttamente si riferiscono, non conta: nella definizione della legge si deve avere riguardo ai suoi effetti prossimi e diretti. Si possono, infine, ricordare le leggi che si limitano a dare direttive, a esprimere programmi o principî generali ed astratti, i quali non sono per sé obbligatorî, ma devono essere tenuti presenti nell'attuazione di altre leggi più concrete. Sembra, quindi, che le leggi non abbiano un contenuto unico, ma assumano via via quello che è necessario per la funzione che esplicano nell'ordinamento, di cui sono elementi costitutivi.
2. Base di ogni conoscenza delle leggi scritte è, nel diritto moderno, la distinzione fra legge formale e legge materiale.
a) In ogni ordinamento la fonte di produzione delle leggi è fondamentalmente uníca e precisamente la più alta autorità che l'ordinamento presenti: il sovrano, il popolo, il parlamento, secondo le varie costituzioni. Gli atti di volontà di questi supremi poteri sono leggi in senso antonomastico e, perciò, in senso formale. Nell'ordinamento italiano, sono leggi in questo senso gli atti di volontà formati collettivamente dal re e dalle due camere, secondo l'articolo 3 dello statuto del regno. La legge formale ha una particolare efficacia, che la pone al disopra di qualunque altra manifestazione della volontà e della sovranità dello stato. Non tutte le leggi formali contengono, tuttavia, atti costitutivi dell'ordinamento giuridico, perché talora rappresentano semplici provvedimenti governativi o amministrativi. Ciò è di per sé stesso evidente nello stato assoluto, dove tutte le funzioni della sovranità sono esercitate dal principe; anche gli ordinamenti moderni, però, nonostante il principio costituzionale della divisione dei poteri, offrono esempî di attività non legislativa esercitata dagli organi del potere legislativo, ciò in conseguenza dell'incompleta attuazione che quel principio ha ricevuto in tutti gli ordinamenti positivi. Così al potere legislativo è attribuita la fissazione della lista civile del re e degli appannaggi dei principi reali, la concessione della cittadinanza e l'approvazione annuale dei bilanci. In altri ordinamenti, e anche in quello italiano fino alla legge 31 gennaio 1926, n. 100, allo stesso potere è attribuita anche l'approvazione di alcuni contratti dello stato. Ad ogni modo, vi sono atti del potere legislativo che non contribuiscono alla formazione del diritto e che perciò sono leggi in senso solo formale.
b) In ogni ordinamento, accanto al potere legislativo, esistono altre fonti egualmente produttive di leggi scritte. Ciò è conseguenza del carattere complesso dell'istituzione dello stato, il quale risulta, oltreché d'individui, di un gran numero d'istituzioni minori, sia facenti parte della sua organizzazione (istituzioni di stato, come le singole camere, il potere esecutivo, i singoli ministeri), sia distinte da tale organizzazione (istituzioni pubbliche, quali i comuni, le associazioni professionali e altri organismi ausiliari dello stato). Tutte queste istituzioni hanno un proprio ordinamento, talora dallo stato soltanto riconosciuto (come regolamenti interni delle camere, le istruzioni dei ministeri), talora rivestito di efficacia normativa anche nella maggiore istituzione, di cui queste organizzazioni fanno parte. In quest'ultimo caso, le minori istituzioni si trovano investite di potestà legislativa nello stato: potestà, che assume il nome di autonomia: autonomia del potere esecutivo, che dà luogo ai comuni regolamenti governativi; autonomia di alcune sfere particolari di questo potere, che dà luogo ad altre norme giuridiche, come quelle attribuite alla competenza del Consiglio Nazionale delle corporazioni; autonomia di persone giuridiche pubbliche, come i comuni, i consorzî, le associazioni professionali, gl'istituti di assistenza e beneficenza, che dà origine ai rispettivi statuti e regolamenti. Secondo un'opinione molto contrastata, sono pure norme giuridiche e rientrano in questa autonomia i contratti collettivi di lavoro e le norme ad essi assimilate. Comunque sia di questo punto particolare, tutti gli atti che contribuiscono alla formazione dell'ordinamento giuridico, pur non essendo formalmente leggi, perché non emanati dall'organo legislativo dello stato considerato nella sua complessa unità, sono pur sempre, per i loro effetti, leggi: leggi in senso materiale. Viceversa, le norme delle stesse istituzioni, che il diritto si limita a riconoscere (e tanto più quelle che il diritto non prende in considerazione), sono leggi soltanto nell'interno di tali istituzioni, si basano sui poteri che queste hanno sui proprî appartenenti e vincolano soltanto questi, non in quanto cittadini, ma in quanto parti di tali istituzioni; perciò, non sono leggi per l'ordinamento di cui l'istituzione fa parte, cioè dello stato.
3. L'esistenza di leggi formali, che sono sostanzialmente provvedimenti amministrativi, e di leggi sostanziali, che vengono emanate da organi e da enti la cui normale competenza è la formazione di atti amministrativi, ha fatto sorgere nella dottrina moderna il problema del carattere distintivo della legge, da qualunque potere emanata. Numerose teorie sono state formulate a questo proposito. Il criterio più antico, già implicito nelle opere dei giureconsulti romani e degli scrittori politici del Medioevo, ripreso di proposito dagli scrittori del diritto naturale e dai primi trattatisti del costituzionalismo moderno, è quello della generalità. La legge è un comando generale e astratto, una norma comune di vita, applicabile a tutti i consociati e per un numero indeterminato e indefinito di casi consimili. Presso alcuni scrittori il concetto presenta particolari deviazioni, dovute ai loro principî politici: la legge sarebbe, anziché un comando alla generalità, un comando della generalità, ossia l'espressione della volontà generale. Se si considera che tale volontà generale è quella del parlamento, perché questo è formato dai rappresentanti del popolo, tale opinione porterebbe a identificare la legge sostanziale con la legge formale. Il criterio della generalità, quindi, può avere valore ai fini della questione proposta solo se si riferisca al contenuto e all'efficacia della legge.
Sulla fine del secolo passato, il criterio della generalità, pure espresso nei suoi giusti termini, fu oggetto di ampî studî e discussioni, specialmente nella dottrina tedesca e in quella italiana. Si notò, fra l'altro, che esistono leggi non generali, che tuttavia fanno parte degli atti creativi di diritto: le leggi singolari e quelle derogative a leggi generali vigenti; e che, d'altra parte, si hanno comandi generali che non sono leggi, neppure in senso sostanziale: così le norme di servizio, le istruzioni e le circolari, con cui le autorità superiori dirigono l'azione degli organi dipendenti. Da alcuni si giunse anche a disconoscere ogni differenza fra il comando generale e il comando particolare, in quanto il primo potrebbe sempre risolversi in una somma di comandi particolari. Una dottrina, formatasi in seguito a tali obiezioni e rappresentata soprattutto da P. Laband, propose la sostituzione del criterio della generalità con quello della novità: legge sarebbe qualunque comando precedentemente non compreso nell'ordinamento giuridico, ogni comando diretto a stabilire nuove limitazioni alla volontà e alla libertà di tutti o di alcuni soggetti o anche di un solo soggetto. Contro questa dottrina è stato, peraltro, osservato che anche il comando amministrativo può rappresentare una nuova limitazione alla libertà del soggetto a cui è rivolto, per lo meno nella stessa misura in cui può essere tale il comando contenuto in un regolamento emanato per l'esecuzione di una legge. D'altra parte, è stato aggiunto, la dottrina in parola riesce a cogliere non l'essenza dell'atto legislativo, ma soltanto alcuni effetti di esso. Per questo, un'altra corrente dottrinale, constatata l'insufficienza delle teorie accennate, propone l'identificazione dei concetti di legge materiale e formale: ogni legge formale sarebbe legge anche in senso sostanziale, perché contribuirebbe sempre alla formazione o al completamento dell'ordinamento giuridico. Questa corrente, iniziata da autori non recenti (Martitz, Zorn, Haenel), trova ora seguaci anche nella dottrina francese (Carré de Malberg).
Partendo dal concetto che la legge è un atto di sovranità costitutivo dell'ordinamento giuridico e tenuto conto che questo ordinamento, sebbene mutevole nei suoi particolari elementi, rappresenta ordine, stabilità e costanza di azione, si deve riconoscere che il concetto della generalità e dell'astrattezza costituisce il fondamento di ogni definizione della legge in senso materiale. La legge esprime quale deve essere, date certe circostanze, la condotta dello stato, dei suoi organi, degli enti morali e dei cittadini: è generale, non perché rivolta a tutti questi soggetti, ma perché intesa a determinare il comportamento di tutti, di molti o di pochi, purché sempre di una categoria astrattamente determinata, in tutti i casi simili che nell'avvenire si produrranno. L'obiezione, che contro la teoria della generalità si vuole trarre dall'esistenza di leggi individuali, non ha consistenza logica: anche la legge individuale è generale, perché giustificata dall'anormalità dell'unico caso, il quale nella propria specialità esaurisce una categoria. Quanto alle norme generali, che non sono leggi, come le circolari e altre norme interne, ciò deve spiegarsi non col negare che la generalità valga a caratterizzare la norma, ma col riconoscere che tali leggi fanno parte solo di queste istituzioni e non sono fonti dell'ordinamento generale.
Delle leggi materiali è detto sotto le voci: regolamento; statuto. Limitando l'esame alle leggi formali, si deve fra queste distinguere la particolare categoria delle leggi costituzionali. Sono tali quelle che rappresentano la parte fondamentale, o costituzionale, dell'ordinamento giuridico dello stato: v. costituzione, XI, pagina 656; carta, IX, p. 206. (Per le leggi costituzionali italiane v. italia, XIX, p. 774 segg.).
4. Oltre alle distinzioni fondamentali già indicate, le leggi si prestano ad essere classificate da altri varî punti di vista.
a) Secondo la funzione che esercitano nell'ordinamento giuridico, si hanno leggi cogenti e leggi dispositive: le prime devono essere osservate necessariamente e non possono venir derogate da alcun atto di autonomia di enti pubblici o di privati; le seconde non solo sono derogabili, ma la loro efficacia è subordinata alla mancanza di un diverso regolamento giuridico dovuto all'autonomia pubblica o privata. Queste ultime, quindi, suppliscono al silenzio dei soggetti nei riguardi di interi rapporti o di alcune parti di essi: perciò sono dette anche leggi supplettive. Distinguere quando la norma è cogente o dispositiva è funzione di interpretazione talora molto difficile: a ogni modo, non è esatto, ciò che talora è stato affermato, che dispositive sono sempre le leggi di diritto privato e cogenti quelle di diritto pubblico, perché le une e le altre possono trovarsi, sia pure in diversa proporzione, in qualunque campo del diritto.
b) Secondo i soggetti ai quali si riferiscono, le leggi possono essere generali a tutti i sudditi dell'ordinamento o speciali ad alcune categorie di persone e anche singolari, relative cioè a una sola persona o istituzione; sotto altm aspetto, alle leggi generali si contrappongono quelle territoriali o locali, destinate ad avere effetto in una parte limitata del territorio dello stato.
c) Avuto riguardo al tempo entro il quale devono avere vigore, le leggi si distinguono in normali ed eccezionali: sono fra queste le leggi che vengono emanate per far fronte a uno stato di guerra e quelle per provvedere a necessità straordinarie causate da calamità pubbliche o da gravi disordini.
d) Fra le leggi formali ve ne sono alcune che mancano di un contenuto legislativo immediato per i singoli o mancano affatto di tale contenuto: rispondono alla prima ipotesi quelle che hanno il fine di attribuire efficacia legislativa ad atti emanati o da emanarsi dal potere esecutivo; rientrano nella seconda quelle che hanno lo scopo di controllare l'emanazione di atti amministrativi rientranti nella competenza di questo potere. Le prime comprendono le leggi formate per la conversione in legge di decreti di urgenza, e le leggi di delegazione; le seconde sono le leggi di autorizzazione, che rimuovono limiti stabiliti dal diritto all'esercizio di alcune funzioni amministrative del governo, e le leggi di approvazione, che rendono esecutivi, previo esame di merito, atti amministrativi già formati dagli organi competenti. Queste due ultime categorie rientrano, evidentemente, fra le leggi soltanto formali.
5. La procedura di formazione della legge consta dei seguenti momenti: l'iniziativa, l'approvazione, la sanzione, la promulgazione. Per l'efficacia delle leggi è inoltre necessaria la pubblicazione.
a) L'iniziativa o proposizione delle leggi spetta, di regola, così al re come a ciascuna delle due camere (statuto, art. 10). L'iniziativa regia, o governativa, è esercitata, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, per mezzo di un decreto reale, col quale un ministro determinato viene autorizzato a presentare il progetto a una delle due camere e a sostenerne la discussione. Nel caso d'iniziativa parlamentare, uno o più membri di una camera presentano il progetto all'assemblea di cui fanno parte, perché venga preso in considerazione. Una limitazione a questa ultima forma d'iniziativa deriva dall'art. 6 della legge 24 dicembre 1925, n. 2263, per il quale nessuno oggetto può essere messo all'ordine del giorno di una delle due camere senza l'adesione del capo del governo. L'iniziativa parlamentare si ritiene, poi, del tutto esclusa: 1. per le leggi di contenuto finanziario (imposizione di tributi, contrattazione di prestiti, approvazione di bilanci), le quali devono dal governo essere presentate alla Camera dei deputati e successivamente al Senato (art. 10 cit.); 2. per le leggi di conversione di decreti di urgenza, per le quali la presentazione del progetto viene autorizzata nello stesso decreto d'urgenza; 3. per le leggi di carattere costituzionale, in quanto queste devono essere sottoposte, prima che alla discussione delle camere, al parere del Gran consiglio, che è organo costituzionale del potere esecutivo, ordinato in modo che solo il capo del governo può provocarne le deliberazioni.
Se un progetto è respinto da una delle due camere, non può essere ripresentato nella stessa sessione parlamentare (statuto, art. 56). Però, il capo del governo ha facoltà di richiedere che tale progetto sia rimesso in votazione, e anche in discussione se vi furono emendamenti, trascorsi tre mesi dalla prima votazione. Inoltre, il capo del governo ha pure facoltà di richiedere che la proposta di legge respinta da una camera sia egualmente trasmessa all'altra e da questa esaminata e messa ai voti (art. 6 della cit. legge 24 dicembre 1925).
b) La discussione e l'approvazione da parte delle due camere devono svolgersi secondo la procedura stabilita dai rispettivi regolamenti interni, come è detto sotto la voce parlamento. La facoltà d'iniziativa implica l'altra di apportare emendamenti al progetto di legge durante la discussione: solo se si tratta di leggi di approvazione, tali emendamenti sono esclusi, perché l'atto da approvare non appartiene alla competenza delle camere. Il Senato inoltre, per un principio di correttezza costituzionale implicito anche nel cit. art. 10 dello statuto, deve astenersi dal proporre emendamenti nei progetti di contenuto finanziario. Se un progetto, approvato da una delle due camere, è in seguito approvato dall'altra con emendamenti, deve essere nuovamente presentato alla prima, che dovrà limitarsi a discutere gli emendamenti. Il progetto è approvato, solo quando ambedue le camere hanno consentito sul medesimo testo.
c) La sanzione è l'approvazione della legge da parte della Corona, quale terzo organo che deve concorrere alla sua formazione. Come gli altri due atti di approvazione, la sanziome è pienamente libera, né la pratica costante della sua concessione può avere indotta una consuetudine atta a trasformare la sanzione in una formalità obbligatoria. La sanzione non può essere se non concessa o rifiutata: è esclusa cioè ogni facoltà di emendamento, deve essere posteriore all'approvazione delle camere e anteriore all'inizio della sessione parlamentare successiva a quella in cui l'approvazione ebbe luogo.
d) La dichiarazione della volontà legislativa si concreta in un atto speRiale, detto promulgazione. Solo quest'atto rende la legge formalmente perfetta: l'opinione che la promulgazione sia atto compiuto dal re non come organo del potere legislativo, ma come capo del potere esecutivo, implicherebbe che la legge fosse perfetta con la sanzione, il che non è ammissibile, perché la sanzione manca di una forma propria di dichiarazione, e, inoltre, tale opinione prescinderebbe dalla necessità di un atto unico, nel quale la volontà dei tre organi legislativi si riunisce e si manifesta. Ciò risulta anche dall'art. 3 della legge 23 giugno 1854, n. 1731, secondo il quale la promulgazione è destinata a rendere la legge esecutoria: il che esclude che essa stessa sia un atto di esecuzione, cioè un atto del potere esecutivo, come tuttavia sostiene la dottrina dominante. La formula della promulgazione fu fissata dalla citata legge 23 giugno 1854, ed è oggi confermata dal vigente testo unico 24 settembre 1931, n. 1256. Essa consta di due parti: 1. l'attestazione solenne che la legge è stata approvata, espressa con le parole: "il Senato e la Camera dei deputati hanno approvato; Noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue", se si tratta di una legge costituzionale, la formula stessa deve contenere in principio l'attestazione che "il Gran Consiglio del fascismo ha espresso il suo parere"; 2. riportato il testo della legge, segue la seconda parte della formula, contenente l'ordine di esecuzione ed espressa con le parole: "ordiniamo che la presente legge, munita del sigillo dello stato, sia inserta nella Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del regno d'Italia, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello stato". La legge deve recare la firma del re e la controfirma del capo del governo, oltre a quella del ministro o dei ministri competenti secondo la materia. L'atto deve essere quindi trasmesso al ministro della Giustizia, che ne accerta l'esteriore regolarità e vi appone il visto e il gran sigillo dello stato (testo unico cit., articoli 1, 2, 4, 6).
e) La pubblicazione è l'atto con cui è resa ufficialmente possibile a tutti la conoscenza della legge: a tale atto, fatto nelle forme prescritte, è attribuito l'effetto di rendere la legge obbligatoria (art. 1 delle disposizioni preliminari al cod. civ.). La pubblicazione consta di due operazioni: 1. l'inserzione della legge nella Raccolta uńficiale delle leggi e dei decreti del regno d'Italia; 2. e l'annunzio di tale inserzione nella Gazzetta ufficiale del regno: la Gazzetta provvede in pari tempo alla pubblicazione integrale dell'atto (v. Gazzetta ufficiale, XVI, p. 471). Se si tratta di leggi che devono avere efficacia nelle colonie, si deve aggiungere a tali forme di pubblicazione quella nel rispettivo bollettino ufficiale. La legge così pubblicata entra in vigore dopo un periodo di tempo, detto di vacatio legis, che decorre dalla data del numero della Gazzetta ufficiale nel quale fu annunziata, e termina di regola col quindicesimo giorno successivo. Tale termine può essere diversamente determinato nelle singole leggi e può essere anche ridotto a un sol giorno o portato a coincidere col giorno stesso della pubblicazione. In seguito all'entrata in vigore, la legge è obbligatoria per tutti coloro a cui si riferisce sia che si trovino nel territorio dello stato, sia anche che si trovino fuori di esso.
6. Eguale valore ed efficacia delle leggi formali hanno alcuni atti emanati dal governo con la competenza propria del potere legislativo.
a) Hanno, in primo luogo, questo carattere le leggi delegate, cioè quei decreti, detti legislativi, che sono emanati dal re in seguito a delega del potere legislativo. Se distingue una delega generale, con la quale sono conferiti al governo i pieni poteri necessarî per far fronte a un'intera situazione straordinaria della vita dello stato, e una delega particolare, con la quale il governo stesso viene incaricato dell'emanazione di un codice, di una legge o di un gruppo di leggi sopra materia determinata. Per le questioni relative alla delega legislativa e per maggiori particolari, v. delegazione legislativa (XII, p. 520).
b) In alcune materie spetta al governo un potere legislativo, anche al di fuori di ogni delegazione, e perciò un potere legislativo permanente. Il campo più importante è quello della legislazione nelle colonie, attribuita al re dalle leggi relative ai singoli possedimenti coloniali: legge 24 maggio 1903, n. 205, per la Colonia Eritrea; legge 5 aprile 1908, n. 161, per la Somalia; legge 26 giugno 1927, n. 1013, per la Libia. Si tratta, del resto, di un principio generale applicato da tutti gli stati nei riguardi dei territorî coloniali. I decreti legislativi che ne conseguono non possono, tuttavia, derogare alle leggi formali eventualmente vigenti nelle colonie. Hanno lo stesso carattere giuridico i decreti emanati dal re in materia di stato nobiliare, in forza della prerogativa attribuita dall'art.79 dello statuto e confermata nell'art. 1 del decr. 31 gennaio 1929, n. 61.
c) Il governo può, inoltre, emettere decreti aventi forza di legge (decreti legge) in caso di assoluta necessità (art. 3 della legge 31 gennaio 1926). I decreti così emanati devono essere presentati, per la conversione in legge, a una delle due camere non oltre la terza seduta dopo la loro pubblicazione; se una delle camere rifiuta la conversione in legge, il decreto cessa di avere vigore dal giorno della pubblicazione di tale rifiuto nella Gazzetta ufficiale. Se il decreto non sia stato convertito in legge entro due anni dalla sua pubblicazione, esso cessa di avere vigore con la scadenza di questo termine. Per ogni altro particolare, v. decreto, XII, p. 471.
d) In tempo di guerra e nei territorî dichiarati zona di guerra, il comandante in capo, ovvero il comandante di un corpo di esercito che non sia in comunicazione col comandante in capo, possono pubblicare bandi militari, che hanno forza di legge nell'ambito territoriale del rispettivo comando (art. 251 del cod. pen. mil.). A questa stessa disposizione si faceva in passato richiamo per giustificare i decreti governativi di dichiarazione di stato di assedio civile. Attualmente, gli art. 214-219 della legge di pubblica sicurezza (testo unico 18 giugno 1931, n. 773) autorizzano il ministro dell'Interno (il quale può delegare tale facoltà ai prefetti) a proclamare, d'accordo col capo del governo, lo stato di pericolo pubblico e, nei casi più gravi, lo stato di guerra (v. guerra, Stato di guerra).
7. Parlando delle manifestazioni dell'efficacia della legge formale, dobbiamo distinguere quelle che sono specifiche di essa da altre, che sono comuni, sia pure con qualche particolarità, alle altre fonti del diritto. Sono specifici della legge i principî seguenti:
a) La legge, essendo la più alta manifestazione della sovranità dello stato, può far cessare l'efficacia di qualunque legge precedente, di qualunque norma emanata sotto altra forma e di qualunque atto amministrativo o giurisdizionale. Questo principio deve essere, tuttavia, messo in relazione con quello dell'efficacia non retroattiva, di cui appresso.
b) La legge formale non può essere interpretata in modo per tutti obbligatorio, se non da un'altra legge formale (art. 73 dello statuto) ed egualmente non può essere modificata o sostituita se non da un'altra legge (art. 5 delle disp. prel. al cod. civ.).
c) La legge formale è insindacabile da parte di qualunque organo esecutivo o giurisdizionale.
Sono principî comuni alle altre norme giuridiche i seguenti:
a) La legge, una volta pubblicata e decorso il termine della vacatio legis, è obbligatoria per tutti, indipendentemente dall'elemento subiettivo della sua conoscenza. Questo principio non ha per fondamento, come talora è stato ritenuto, né una presunzione di generale conoscenza della legge, né una finzione di conoscenza, né, infine, un obbligo generale per tutti di conoscere la legge: si tratta, invece, di un principio positivo comune a tutti gli ordinamenti e rispondente alla necessità che l'efficacia del diritto e l'attuazione dell'ordine giuridico non siano subordinati a particolari contingenti subiettivi.
b) L'efficacia della legge si estende, come regola, a tutto il territorio dello stato e a tutte le persone che in esso si trovano.
c) L'efficacia della legge riguarda solo i fatti e i rapporti formatisi dopo la sua entrata in vigore: secondo l'art. 2 delle disp. prel. al cod. civ. la legge non dispone che per l'avvenire, essa non ha effetto retroattivo".
I due ultimi principî enunciati, non essendo assoluti, sono completati da una serie di regole particolari, di cui occorre far cenno. L'argomento comprende i due problemi dell'efficacia della legge nello spazio e dell'efficacia di essa nel tempo.
Il principio, per il quale l'efficacia della legge si estende a tutto il territorio dello stato, alle persone e alle cose che in esso si trovano, ai fatti giuridici che in esso si svolgono, incontra le seguenti limitazioni.
In primo luogo, l'efficacia di una legge può non estendersi a tutto il territorio dello stato. Ciò può avvenire per due distinte ragioni: o perché alcune provincie, al momento in cui la legge fu emanata, non facevano parte dello stato e furono a questo annesse successivamente: tali provincie conservano la loro legislazione, finché lo stato non creda opportuno sostituirla; oppure perché il legislatore abbia espressamente limitata l'efficacia della legge a una sola parte del territorio: a una o più regioni, a una provincia, o anche a una sola città (provvedimenti per l'Italia meridionale, per la Sardegna, per la città di Roma, ecc.). Una caratteristica che, in quest'ultimo caso possono presentare le leggi territorialmente limitate, è la possibilità, ammessa talora dal legislatore, della loro estensione ad altre regioni, provincie o città, in base alla domanda espressa dagli enti che hanno la rappresentanza della popolazione di tali circoscrizioni: onde, il nome, in tal caso, di legislazione opzionale. La differenza di legislazione, che per l'una o per l'altra causa si produce nelle varie parti del territorio, dà luogo a complicati problemi per gli eventuali conflitti, che in pratica possono verificarsi: tali problemi sono appena allo studio nella scienza pubblicistica.
In secondo luogo, indipendentemente da una limitazione territoriale, la legge si può non applicare a una serie più o meno vasta di persone, di cose e di rapporti, a causa dell'efficacia che l'ordinamento attribuisce a leggi di altri ordinamenti originali. Questi ultimi sono principalmente quelli degli altri stati, in base a quel complesso di principî che costituiscono il diritto internazionale privato (v. diritto, XII, p. 1005). Il diritto italiano attribuisce efficacia nel territorio del regno alle leggi straniere in ciò che riguarda: a) lo stato, la capacità e i rapporti di famiglia degli stianieri; b) il regime delle successioni, per il quale vige la legge della persona della cui successione si tratta; c) la condizione giuridica dei beni mobili appartenenti a stranieri; d) la forma e le condizioni di efficacia degli atti giuridici compiuti nel territorio di altro stato, da qualunque persona, nonché i loro effetti (salvo per questi la diversa volontà dei contraenti) e, in ogni caso, i mezzi per la loro prova in giudizio (art. 6-10 delle cit. disp. prel.). Tuttavia, è principio generale che le leggi straniere non hanno per il diritto italiano alcuna efficacia, se contrarie a leggi proibitive o riguardanti in qualsiasi modo l'ordine pubblico o il buon costume (art. 12). Il rinvio alle leggi straniere non si ha mai nel campo del diritto pubblico: con questa avvertenza, però, che le leggi penali, di polizia, di finanza e altre obbligatorie si applicano agli stranieri come ai cittadini, mentre altre leggi di diritto pubblico agli stranieri non si applicano, senza che perciò valgano per essi le loro leggi nazionali: v. capacità giuridica.
Giuridicamente analogo, sehbene molto diverso per il fondamento politico, è il rinvio che talora l'ordinamento italiano fa ad alcune parti del diritto della Chiesa. Sono fra tali parti quelle relative ai doveri e alla disciplina del clero, all'amministrazione dei beni ecclesiastici, al conferimento dei benefici, al diritto di patronato, alle condizioni di forma e di sostanza del matrimonio religioso (trattato lateranense, art. 23; concordato, art. 5, 30, 34). Il rinvio non ha in tutti i campi le stesse conseguenze, perché l'efficacia della legge canonica non sempre esclude quella della legge civile: talora possono essere applicate cumulativamente (come nel campo della disciplina e della responsabilità), o alternativamente (come nella materia matrimoniale, data la facoltà di contrarre matrimonio secondo la legge civile, anziché secondo il diritto canonico).
In contrapposto a tutte queste cause che limitano l'efficacia territoriale della legge, altre sono da considerare che importano, invece, l'estensione di tale efficacia al di là dei confini territoriali dello stato. Da un lato si hanno alcune leggi che si riferiscono ai cittadini come tali e ovunque si trovino (es. leggi sul dovere del servizio militare, su quello della fedeltà); inoltre, nella maggior parte degli ordinamenti degli stati civili si hanno norme analoghe a quelle con le quali nel diritto italiano è attribuita efficacia ad alcune leggi straniere: ciò ha per effetto l'applicazione di una parte della legislazione italiana nell'interno di altri ordinamenti.
Il problema dell'efficacia della legge nel tempo consiste nella determinazione dell'esatta portata del principio della irretroattivitd. Tale problema ha avuto un'ampia trattazione in ogni letteratura giuridica e moltissime sono le teorie proposte per la sua soluzione. Le numerose opinioni si possono ridurre, tuttavia, a due dottrine fondamentali: quella del diritto acquisito e quella del fatto compiuto. La prima, che risale ai giureconsulti del diritto comune, fu svolta e perfezionata da Lassalle e da C. F. Gabba: i diritti acquistati legittimamente sotto l'impero di una legge precedente non possono essere annullati o modificati da una legge successiva, perché ciò significherebbe negare alla prima l'efficacia che essa aveva quando era in vigore. Il concetto, indubbiamente esatto, non è di facile applicazione per la difficoltà di determinare quando un diritto può dirsi acquisito. Tali non sono quei diritti, che derivano direttamente dalla legge, perché, una volta revocata o sostituita questa, essi devono naturalmente cadere. Perciò, si dissero acquisiti solo i diritti derivanti da un atto giuridico, posto in essere sotto la legge precedente; il Gabba aggiunse a questa condizione quella del contenuto patrimoniale del diritto, e insisté sulla distinzione del diritto dalla semplice aspettativa, che non costituisce mai un diritto quesito.
La teoria del fatto compiuto, che è propria della dottrina contemporanea, ha come base comune l'inefficacia della legge nuova sopra i rapporti giuridici completamente esauriti prima della sua entrata in vigore. I varî sostenitori riconoscono l'insufficienza di un tale principio e cercano di completarlo attraverso regole particolari. Il principio dell'irretroattività importa che la legge nuova non può modificare non solo gli effetti già verificatisi di un fatto passato; ma neppure quelli tuttora in via di svolgimento e gli stessi effetti futuri: a meno che questi ultimi non vengano modificati per sé stessi, a causa di qualche loro inconveniente sociale, e non in relazione al fatto passato da cui ebbero origine. Altri autori muovono dalla formula: tempus regit factum e asseriscono che ogni fatto giuridico, sia per le condizioni di forma e di sostanza, sia per tutti gli effetti, deve essere regolato dalla legge vigente al tempo in cui fu compiuto, salvo che la legge nuova non intenda escludere in tutto o in parte gli effetti non ancora prodotti. In questo caso, però, la legge è retroattiva al pari di quella che intenda modificare gli effetti già esauriti. Normalmente, quindi, ogni legge investe completamente i fatti giuridici che si compiono sotto il suo impero e li accompagna anche sotto l'impero di una legge diversa, fino al completo esaurimento di tutti i loro effetti.
Nonostante le divergenze teoriche, le varie scuole concordano approssimativamente nelle applicazioni pratiche. Si può perciò affermare che il principio dell'irretroattività non trova applicazione: a) quando la nuova legge riguarda situazioni o diritti che non hanno origine da un atto o fatto giuridico; b) quando riguarda situazioni che avrebbero origine da un fatto, ma questo non si è ancora verificato completamente o non è ancora divenuto efficace per qualche condizione, che ne sospende gli effetti. Sono perciò non retroattive, ma immediatamente efficaci le leggi che riguardano la capacità delle persone, sia nel diritto pubblico sia nel diritto privato, la qualificazione deí beni (mobili o immobili, alienabili o inalienabili), la procedura giudiziaria e il sistema probatorio, l'ordinamento delle libertà civili, dei rapporti tributarî e in generale dei doveri dei cittadini verso l'amministrazione.
Il principio dell'irretroattività, mentre ha un valore assoluto per le leggi soltanto sostanziali, può essere sempre derogato dalle leggi formali. Tali leggi contengono di solito apposite norme transitorie, con le quali viene determinato, secondo principî in parte speciali, il passaggio dal vecchio al nuovo regime legislativo: talora nel senso di ritardare l'applicazione di leggi, che secondo i principî potrebbero avere immediata efficacia; talora nel senso di attribuire efficacia immediata a norme che, per l'irretroattività, non dovrebbero applicarsi se non a rapporti futuri. Tali deroghe non sempre sono esplicite, dovendo talora dedursi per via d'interpretazione; in alcuni campi, poi, sono stabilite in modo relativamente generale da alcuni principî. Uno di questi è espresso nell'art. 2 del cod. pen. e consiste nell'efficacia retroattiva della legge penale, tutte le volte che essa sia più benigna, cioè più mite, della legge precedentemente in vigore. Un altro è quello che attribuisce efficacia retroattiva a tutte le leggi interpretative di leggi precedenti: le disposizioni contenute nella legge interpretativa sono da ritenersi come proprie della legge interpretata.
L'efficacia retroattiva, comunque risulti, non può estendersi ai rapporti già completamente estinti né alle controversie già decise con sentenza passata in giudicato o fatte oggetto di transazione. Il legislatore può indubbiamente manifestare una volontà contraria: ma questa deve risultare in modo non equivoco e, nel caso di dubbio, deve ritenersi esclusa.
8. L'applicazione della legge comprende l'accertamento del testo e la sua interpretazione. Quanto all'accertamento, esso è retto dal principio iura novit cura: la legge non deve essere provata al giudice, perché gli è nota al di fuori di ogni attività delle parti. Il principio non si connette a una presunzione di generale conoscenza della legge, ma è conseguenza del possesso, da parte del giudice, del testo ufficiale della legge, cioè della raccolta in cui essa è pubblicata. Il principio cessa di avere applicazione quando si tratta di legge non scritta o straniera. Le dette pubblicazioni costituiscono testo legale della legge, il quale si presume conforme all'originale: è però ammessa la prova contraria, da fornirsi mediante atto autentico rilasciato dal ministro Guardasigilli o dall'Archivio di stato di Roma (testo unico 24 settembre 1931 cit., art. 11).
È discusso se l'accertamento della legge debba riguardare soltanto l'esistenza di essa o debba estendersi al sindacato della sua costituzionalità. Molti degli ordinamenti, che distinguono le leggi costituzionali da quelle ordinarie, ammettono espressamente questo sindacato, sia da parte dei giudici ordinarî, sia da parte di apposite giurisdizioni costituzionali. Il diritto italiano, mentre ammette il controllo di legittimità sui provvedimenti del potere esecutivo, non conosce, almeno in modo esplicito, un controllo sugli atti del potere legislativo. Il testo della legge è indubbiamente atto legislativo: anche se non si voglia ammettere che abbia carattere legislativo la promulgazione, ha certamente tale carattere la sanzione regia, che si trova espressa nell'atto stesso di promulgazione. Tale insindacabilità riguarda sia la regolarità procedurale della legge, sia il suo contenuto. Una legge, per la quale non sia stata osservata la procedura prescritta, o che sia in contrasto con una legge costituzionale senza recare la formula attestante il parere del Gran Consiglio, è certamente incostituzionale: ma di ciò, allo stato del nostro diritto, non possono giudicare che gli stessi organi costituzionali nei loro rapporti giuridici e politici. Come è escluso espressamente il sindacato giurisdizionale sugli atti emanati dal governo nell'esercizio del potere politico, egualmente esso è da ritenersi escluso sugli atti compiuti dal medesimo nell'esercizio del potere legislativo. Questo vale anche per i casi in cui il governo esercita funzioni legislative da solo, per delegazione o per altro titolo. In questa ultima ipotesi è soltanto ammissibile un'indagine diretta ad accertare l'esistenza del titolo su cui il potere si basa nel singolo caso. Anche questa indagine, però, è esclusa quando si tratta di decreti-legge, cioè quando il titolo è la presenza di un'assoluta necessità: questa è soggetta al solo controllo politico del parlamento (art. 3, n. 2, della legge 31 gennaio 1926).
L'interpretazione consiste in un processo logico diretto a determinare a quali soggetti la volontà legislativa si riferisca, quali ipotesi di fatto essa comprenda, che cosa per tali soggetti e per tali fatti disponga. La volontà di cui si tratta è quella della legge, cioè una volontà obiettivata, parte dell'obiettivo ordinamento giuridico. Ciò esclude che nell'interpretazione della legge si debba ricevere l'intenzione, ossia la volontà subiettiva, del legislatore.
Secondo il soggetto che all'interpretazione procede, essa si distingue in autentica, se fatta dallo stesso potere legislativo, giurisprudenziale, se oompiuta dai tribunali e dalle corti giudiziarie, e dottrinale, se opera dei giuristi. Solo la prima ha valore obbligatorio per tutti; la seconda ha valore vincolante per il caso a cui si riferisce e puramente morale per i casi simili; l'ultima ha solo valore morale. A queste fonti tradizionali si devono aggiungere le interpretazioni fatte dal governo nei regolamenti e nelle circolari amministrative: la prima ha valore obbligatorio per tutti, ma il giudice può dichiararla non conforme alla legge e negarle applicazione; la seconda vincola solo i funzionarî in forza del rapporto gerarchico.
L'interpretazione, qualunque sia la sua fonte, ma soprattutto quella giurisprudenziale e dottrinale, si deve ispirare ad alcuni canoni di tecnica giuridica, che si riassumono nell'uso cumulativo dei seguenti mezzi d'indagine: l'esame filologico, quello sistematico e quello storico della legge. a) L'esame filologico, detto anche grammaticale, tende a stabilire il significato della norma attraverso il valore lessicale delle parole adoperate: se queste hanno un significato ambiguo, si deve preferire quello più confacente alla materia regolata; se un significato volgare e uno tecnico-giuridico, è sempre da preferirsi quest'ultimo, a meno che il contrario non risulti in modo evidente. Il significato della norma deve desumersi tenuto conto di tutte le parole, esclusa ogni presunzione di pleonasmo, e dei nessi grammaticali da cui sono collegate. b) All'interpretazione sistematica è necessario procedere non solo quando il risultato della prima sia oscuro, ma anche in ogni altro caso al fine di controllare e integrare tale risultato. Elemento fondamentale dell'interpretazione sistematica è la ratio legis, cioè il fine che la disposizione deve raggiungere; elementi secondarî sono l'occasio legis, cioè la causa contingente che determinò l'emanazione della legge, i rapporti della norma con tutte le altre contenute nello stesso contesto legislativo e con i principî generali del gruppo di leggi, di cui questo per la materia fa parte. È discusso il valore che nell'interpretazione sistematica si deve attribuire ai lavori preparatorî della legge: tale valore è di solito molto limitato, a causa della varietà di opinioni e di motivi, che si manifestano nelle discussioni parlamentari; il valore può essere rnaggiore nel caso di relazioni alle quali i corpi legislativi abbiano concordemente aderito e ancor più in quello di relazioni che accompagnano leggi emanate dal governo in forza di delegazione o di altro titolo. c) L'indagine storica è complemento utilissimo per una comprensione delle norme e degl'istituti giuridici, in quanto la maggior parte di essi rappresentano lo svolgimento odierno di istituti preesistenti e antichi. Da ciò l'importante movimento in favore degli studî storici nel campo della giurisprudenza: movimento che nel secolo passato originò la scuola storica tedesca e italiana. L'importanza del metodo storico non è eguale, peraltro, in ogni campo del diritto: massima è nel diritto privato, dato il suo secolare svolgimento, per cui i suoi istituti si collegano al diritto romano e risentono delle più antiche correnti del diritto germanico e canonico. Lo stesso non può dirsi del diritto pubblico, i cui ordinamenti sono di origine moderna e in alcuni casi recentissima. È noto come in questo campo molte delle tradizioni nazionali siano state troncate per la recezione d'istituti stranieri; specialmente del diritto inglese, per gli ordinamenti costituzionali, e del francese, per gli amministrativi.
Questi mezzi d'interpretazione vengono talora diversamente raggruppati dalla dottrina, sia riunendo il metodo sistematico con quello storico, sia aggiungendo qualche maggiore specificazione del primo. Un mezzo completamente nuovo, aggiunto da una parte della dottrina più moderna, è quello detto sociologico o progressivo. Questo avrebbe lo scopo di adeguare la portata della legge ai nuovi bisogni e alle nuove tendenze, che via via si manifestano nella vita sociale. Questa aspirazione non è che l'applicazione di un più vasto programma, proprio di una scuola che attribuirebbe al giudice il potere di correggere, completare e sostituire la legge, secondo criterî dedotti dal suo apprezzamento subiettivo, dall'interesse, dai bisogni sociali, dalla sua coscienza e dal suo senso di giustizia. Tale scuola ebbe i suoi massimi rappresentanti nella dottrina tedesca (Ehrlich, Kantorovicz) e in quella francese (Saleilles, Geny) ed è largamente rappresentata dalla dottrina contemporanea, anche italiana. Qualunque sia il valore del movimento dal punto di vista sociale e politico, esso è completamente fuori del metodo giuridico. Quanto all'interpretazione progressiva della legge, questo solo è possibile ammettere: l'interpretazione di una singola disposizione può subire variazioni, non per il manifestarsi di nuovi bisogni sociali, ma per il formarsi nell'ordinamento, sia pure sotto la spinta dei bisogni, di nuovi principî generali del diritto. Quando nell'interpretazione sistematica si debba far ricorso a tali principî, il variare di questi può influire sulla portata della norma.
I risultati dell'interpretazione possono essere diversi, secondo che il significato, quale risulta dal valore letterale delle parole usate nella legge, è identico o diverso da quello che si ottiene applicando il metodo sistematico e quello storico. Nel primo caso, l'interpretazione dicesi dichiarativa; nel secondo dicesi estensiva, se la volontà reale della legge è risultata più comprensiva di quello che apparirebbe dal significato delle parole adoperate, o restrittiva, se tale volontà appare invece più limitata di quello che dalla lettera risulterebbe. Non è da confondere, evidentemente, l'interpretazione estensiva con quella analogica, di cui diremo a parte, né l'interpretazione restrittiva con quella dichiarativa. Così, riguarda l'interpretazione analogica, e non quella estensiva, il divieto di cui all'art. 4 delle disp. prel. al cod. civ.
Può darsi che il caso sottoposto al giudice o all'interprete non sia contemplato né esplicitamente né in modo implicito dalla legge: ciò non esonera il giudice dall'obbligo di giudicare (cod. pen., art. 328). A tal uopo la scienza e la legge stessa (disp. prel., art. 3) autorizzano l'uso dell'analogia. È questa un'operazione logica, con la quale dalle norme esistenti sopra una data materia si risale al principio che le governa, per rintracciare in esso una regola più ampia, la quale valga a comprendere anche i casi non espressamente previsti. Se il caso proposto non ha alcun elemento comune con casi già regolati, cioè non ha fra questi alcun caso simile, è necessario spingere oltre il procedimento e risalire ai principî generali del diritto: si tratta ancora di analogia, ma mentre la prima è detta analogia legis, quest'ultima è detta analogia iuris. Quanto alla definizione dei principî generali del diritto, grave e antica è la disputa, ravvisandoli alcuni nei principî del diritto comano, altri in quelli di un preteso diritto comune o universale, altri nel diritto naturale. Si deve ritenere, invece, che quando il legislatore parla di questi principî generali, siano da intendecsi quelli proprî dell'ordinamento positivo italiano, i quali si deducano per via di astrazione da tutto il complesso sistema legislativo. Alcuni di tali principî sono espressi in dati articoli di leggi fondamentali, quali lo statuto, le disposizioni preliminari dei codici, la carta del lavoro: anche, però, al di fuori di ogni formulazione legislativa, essi risultano sempre dal completo esame dell'ordinanento ed è compito dell'interprete, nella sua funzione più alta e delicata, ritrovarli e precisarli. L'uso dell'analogia, sia analogia legis o analogia iuris, è escluso rispetto alle leggi penali, a quelle che limitano l'esercizio dei diritti o formano eccezione a principî generali o ad altre leggi (disp. prel., art. 4).
È questione ancora aperta se un ordinamento giuridico possa presentare delle vere e proprie lacune, in quanto alcune zone della vita sociale non trovino in esso alcuna forma di disciplina giuridica. Senza entrare nei termini della discussione, ci limitiamo a ripetere la dottrina, secondo la quale ogni ordinamento giuridico è per natura limitato, in quanto non comprende della vita sociale se non quel tanto che ai suoi fini è necessario: non può parlarsi, quindi, in nessun caso, di incompletezza. Ciò che l'ordinamento non comprende è fuori del diritto, è cioè giuridicamente irrilevante. Ciò ha importanza specialmente in materia di libertà: libertà giuridiche sono soltanto quelle espressamente concesse e garantite dall'ordinamento; le altre, relative ad azioni dal diritto non vietate né permesse, sono libertà soltanto di fatto.
9. Varie sono le cause che possono far cessare l'efficacia di una legge. La più importante è l'abrogazione; accanto a questa, sono da ricordare la scadenza del termine o il verificarsi della condizione risolutiva, quando nella legge termine o condizione siano contemplati, e inoltre il venir meno dell'oggetto della norma.
Considerando in particolare l'abrogazione, essa consiste in una dichiarazione di volontà dello stesso legislatore, emessa in base al principio "eius est abrogare legem, cuius est condere": una legge non può essere abrogata che da una legge successiva (disp. prel., art. 5). Ciò ha per conseguenza che l'abrogazione di una legge non può verificarsi per il formarsi di una consuetudine contraria (punto questo molto controverso); e che non può essere prodotta da un atto del potere esecutivo, salvo i casi in cui questo è investito di funzione legislativa in senso stretto. Questo, che si dice per l'abrogazione, vale anche per qualunque modificazione, deroga, dispensa o temporanea sospensione della legge (stat., art. 6).
Riguardo alla forma, l'abrogazione può essere espressa o tacita. La prima è una dichiarazione di volontà del legislatore, che stabilisce la cessazione di una parte di una legge o di un'intera legge o di un gruppo di leggi; la seconda si verifica con l'emanazione o di una legge che contenga disposizioni incompatibili con quelle della legge vigente o di una legge che regoli l'intera materia già regolata da questa solo parzialmente.
La legge non più in vigore continua a dispiegare i suoi effetti per i rapporti costituiti sotto il suo impero e fino alla loro naturale estinzione, secondo i principî e con le restrizioni già dette (v. sopra, n. 9).
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Si aggiungano per gli argomenti particolari: A. Affolter, Naturgesetze und Rechtsgesetze, Monaco 1904; J. Binder, Rechtsnormen und Rechtspflicht, Lipsia 1912; G. Battaglini, Sul valore imperativo delle norme giuridiche, Perugia 1911; G. Brunetti, Norme e regole finali nel diritto, Torino 1913; J. Kohler, Recht und Gesetz, in Arch. für Rechtswiss. und Philosophie, II, 1917-18; M. Wenzel, Juristische Grundprobleme: Begriff des Gesetzes, Berlino 1920; A. Pekelis, Il diritto come volontà costante, Padova 1931; E. Seligmann, Der Begriff des Gesetzes im materiellen und formellen, Berlino 1886; L. A. Pernice, Formelle Gesetze im römischen Rechte, Berlino 1888; G. Jellinek, Gesetz und Verordnung, Friburgo in B. 1888; P. Zorn, Gesetz, Verordnung, Budget, Staatsvertrag, 1889; F. Cammeo, Delle manifestazioni della volontà dello stato: legge e ordinanza, in V. E. Orlando, Trattato di dir. amm., III, Milano 1907; G. Codacci-Pisanelli, Legge e regolamento, in Studi di dir. pubblico, Città di Castello 1900; D. Donati, I caratteri della legge in senso materiale, in Riv di dir. pubbl., II, 1910; P. Schoen, Die Formellen Gesetze, in Handbuch der Politik, I, Berlino-Lipsia 1920; R. Carré de Malberg, La distinction des lois materielles et formelles et le concept de loi dans la Constitution de Weimar, in Bulletin mensuel de la Société de législ. comparée, 1928-29; J. Goyac, De la distinction des lois constitutionnelles et des lois ordinaires, Bordeaux 1904; J. Dodd, The function of a state constitution, in Political science quarterly, XXX, 1915; H. Kelsen, La garantie jurisdictionnelle de la constitution, in Revue de droit public, 1928; O. Ranelli, Il Gran Consiglio del fascismo e la forma di governo dello stato italiano, in Riv. di dir. pubbl., XX, 1929; B. Liuzzi, Sulle leggi costituzionali di cui all'art. 12 della legge sul Gran Consiglio, in Annali dell'università di Camerino, III, 1929; A. Ferracciù, Le leggi di carattere costituzionale, in Riv. di dir. pubbl., XXI, 1930; S. Romano, Saggio di una teoria sulle leggi di approvazione, in Filangieri, 1898; D. Donati, Le leggi di autorizzazione e di approvazione, Modena 1908; Coppa-Zuccari, Diritto singolare e diritto territoriale, Modena 1916; E. Tosato, Le leggi di delegazione, Padova 1931; E. Liebenow, Die Promulgation, Berlino 1901; J. Lukas, Über die Gesetzes-Publikation, Graz 1903; T. Marchi, Sul concetto di legislazione formale, sanzione regia e rapporti fra il capo dello stato e le camere, Milano 1911; G. Zanobini, La pubblicazione delle leggi nel dir. italiano, Torino 1917; F. Rovelli, Sulla promulgazione e pubblicazione delle leggi e decreti, in Riv. di dir. privato, II, 1932. - F. Lassalle, Das System der erworbenen Rechte, 2ª ed., Lipsia 1880; C. F. Gabba, Teoria della retroattività delle leggi, 3ª ed., Torino 1881-89; Vareilles-Sommières, Une théorie nouvelle pour la rétroactivité des lois, in Revue critique de législation, 1893; L. Duguit, La non-rétroactivité des lois, in Revue de dr. public, 1910; D. Donati, Il contenuto del principio della irretroattività della legge, in Riv. ital. per le scienze giur., 1915; V. Scialoia, Sulla teoria della interpretazione delle leggi, in Scritti in onore di F. Schupfer, III; F. Cammeo, L'interpretazione autentica, in Giur. ital., L, 1907; L. Brüt, Die Kunst der Rechtsanwendung, Berlino 1907; F. Degni, L'interpretazione delle leggi, 2ª ed., Napoli 1909; E. Beal, Cardinal rules of legal interpretation, 3ª ed., Londra 1924; M. Ascoli, L'interpretazione delle leggi, Roma 1928; E. Ehrlich, Freie Rechtsfindung und freie Rechtswissenschaft, Lipsia 1903; H. Kantorowicz, Der Kampf um die Rechtswissenschaft, Heidelberg 1906 (trad. it., Palermo 1908); H. Kelsen, Grenzen zwischen juristische und sociologische Methode, Tubinga 1911; F. Geny, Méthode d'interprétation et sources en droit privé positif, 2ª ed., Parigi 1919; V. Miceli, La scuola del libero diritto, in Annali della Bibl. Fil., II, 1913; E. Zitelmann, Lücken im Rechte, Lipsia 1903; D. Donati, Il problema delle lacune nell'ordinamento giuridico, Milano 1910; H. Elze, Lücken im Gesetz, Monaco 1916.